Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Relie Diadamat    05/01/2021    4 recensioni
[Johnlock | S3 | No Mary]
John scopre tutte le cicatrici che Sherlock si è procurato nei due anni di lontananza da Baker Street.
L’indice di John scorre in basso, ridisegnando l’intero squarcio. Interrompe quella strana carezza quando il polpastrello incontra una seconda striscia indelebile, poi una terza, una quarta e una settima.
Vorrebbe ammazzarli ad uno ad uno. Non sa chi siano, non conosce i loro volti, ma John immagina di pestare a sangue chiunque gli abbia fatto del male, fino ad ucciderli.

[Storia scritta per l'H/C Advent Calendar 2020 indetto dal gruppo fb Hurt/Comfort Italia]
Genere: Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il Maglione Preferito
 
Dietro la maschera di ghiaccio che usano gli uomini
C’è un cuore di fuoco.
Paulo Coelho
 
 
 
 
 





 
Si sente strano.
Mentre il legno viene divorato dalle fiamme aranciate del camino e quel calore gli scalda la pelle nuda – Sherlock si sente strano.
Non è una novità. Si è sentito fuori posto per tutta la vita; l’unica differenza è che adesso deve impedirsi di tremare dinanzi agli occhi carichi di rimprovero di John.
Sulla pelle sono trascritti tutti gli errori commessi, tutte le scelte prese nel corso degli anni. Sulla schiena le cicatrici raccontano i mesi spesi senza John, i giorni lontano da Londra nella più totale solitudine.
Il blu delle iridi dell’ex medico militare sembra colorarsi del nero della collera.
Sherlock non ha ancora capito se quello sguardo sia gelido o bruci di rabbia.
 




Narici dilatate.
Labbra serrate.
Una leggera ruga increspa la fronte.




 
John ce l’ha con lui.

Ce l’ha con lui perché non lo ha coinvolto nell’ultimo caso. Perché è arrivato in ritardo; perché nel frattempo “Il Divoratore di Sangue” – lo psicopatico di turno a cui avrebbero dovuto dare la caccia insieme – gli aveva ferito il braccio con un coltello, dipingendo di rosso la camicia viola nascosta dal lungo cappotto.
 
 



Dovrebbero trovarsi in ospedale. La ferita è stata suturata da un paramedico, sul retro di un’ambulanza. Per capriccio di Sherlock. “È un taglio superficiale. Potrei ricucirlo da solo, mentre analizzo una tazza di tè.”
John aveva sospirato, alzando gli occhi, sotto lo sguardo attonito del povero malcapitato in divisa. “Fa’ come vuoi.”
 



Ma John non lo lascia mai perdere sul serio. E adesso è lì, a studiare nella luce calda del salotto i punti di sutura sul braccio di Sherlock. «Sai, pensavo avessimo superato questa fase».
Sherlock finge di essere irremovibile.
Il teschio sulla mensola del camino pare osservarli in silenzio, ghignando compiaciuto del fallimento totale che Holmes rappresenta.
«Cosa intendi?»
«La tua stupidità», caccia fuori John, aspro. «Si seguono sempre e solo le tue regole. Pensavo fosse cambiato qualcosa dopo…»
Il dottore si ferma, manda giù il resto del discorso, tacendolo a denti stretti.
«Dopo cosa?»
Sherlock pone la sua domanda, con una naturalezza e una faccia che John prenderebbe volentieri a schiaffi. Glielo chiede ugualmente, anche se è cosciente dell’allusione. Ne porta i segni sul corpo e sul cuore.
«Sei Il Grande Sherlock Holmes», pronuncia Watson in un ringhio di sarcasmo, propinandogli l’appellativo che La Donna aveva utilizzato anni addietro con lui e qualcosa, dentro Sherlock, s’incrina. «Deducilo da solo».
 



La Caduta.
Il salto dal tetto del Barts.
John si riferisce a quello.
 



Hai finto di essere morto per due anni.
Hai giocato a nascondino, senza dirmelo.
Mi hai lasciato.
Mi hai abbandonato a me stesso. 
Una sola parola, Sherlock. Sarebbe bastata una sola parola. 
 



Leggere quelle frasi, nella piega austera delle sopracciglia di John, fa male.
 




Non avrei mai voluto lasciarti, John.
Stare senza di te è stata una tortura, ma lo rifarei altre mille volte se servisse per salvarti.
 




Vorrebbe cacciare fuori tutto quello che sente, invece si rifugia nel suo mutismo. Seduto a torso nudo sul tavolo dove Mrs Hudson lascia loro la colazione, e il suo blogger si siede per smanettare col laptop.
Le dita calde di John sono sulla sua pelle, sulla ferita che l'ex medico militare ha ispezionato attento - giusto per fargli la ramanzina. 
La camicia resta abbandonata accanto a Sherlock, che inizia sentire freddo. È esposto a John più di quanto non lo sia mai stato e continua a sentirsi in terribile difetto. 
«Eri occupato. » Si giustifica il consulente investigativo. 
«Non è mai stato un problema, per te. Prima.» John rimarca volontariamente l'ultima parola. Non è un'antifona che Sherlock deve cogliere, è solo risentimento. 
«Ti ho mandato un messaggio». 
«Certo. All'ultimo minuto». 
«Non capisco quale sia il problema.»
Sherlock ostenta un'indifferenza che non possiede - mai, non la possiede mai quando si tratta dell'uomo che gli è di fronte, che gli lecca e gli scortica le ferite. 
Non vuole che la sua voce suoni incerta. 
John sta per esplodere e - per un attimo - crede che stia per assestargli un pugno in pieno volto. La cosa peggiore, è che Sherlock glielo lascerebbe fare. Accetterebbe il suo veleno. Pensa di meritarlo. 
Ma John Watson non fa altro che alzare i toni. «Il mio problema sei tu, Sherlock. Tu e i tuoi modi di fare, dannazione! » Allunga il piede in uno scatto d'ira, ma il calcio muore prima di nascere e non colpisce i piedi della sedia. Stringe la mascella e l'inverno s'impossessa del suo sguardo. «Ci pensi mai alle altre persone? Pensi mai a quanto riesci a farle sentire inutili?»
 




La gola diviene arida. 
Il volto diafano di Sherlock impallidisce quanto quello di Henry Knight alla visione infernale del Mastino. 
John non lo nota - o forse decide di ignorare quel particolare. 
Sembra un cane cattivo, John Watson, stanco di essere bastonato in continuazione. 
«Non funziona così, Sherlock. Non puoi fare sempre a modo tuo e pretendere che agli altri stia bene. Non puoi lavarti le mani chiedendo semplicemente scusa.» Scuote il capo, rassegnato, e un brivido glaciale attraversa la spina dorsale di Sherlock. «Sono stanco». 
John molla la presa e s'incammina verso la soglia che divide il salotto dall'uscita e dai gradini che portano alla sua camera. 
La ferita di Sherlock rimane esposta - senza bendatura - e il consulente investigativo riesce solo a pensare a quanto sia freddo, adesso, il punto in cui ha avvertito il tocco di John. 
È convinto che rimarrà solo, ma i passi del dottore si fermano. 
Regna il silenzio per una manciata di secondi che durano secoli.
Sherlock non ha bisogno di scoccare un'occhiata allo specchio sul camino per capire che John lo sta osservando. 
«Contempli in quale punto accoltellarmi?»
«Sta' zitto». 
Falcate rapide e decise riempiono la quiete della stanza - il passo del soldato - mentre fuori Londra è pigra e sonnolenta. Sherlock sta per aprire di nuovo la bocca - perché lui è Mister Ultima Parola e camperà più a lungo di Dio, pur d'infrangere un ordine ricevuto -, ma la lingua si blocca nel palato quando la mano ruvida di John si posa sulla spalla sinistra. 
Sussulta appena, Sherlock, contro la propria volontà. Non si era mai mostrato così tanto a qualcuno; non aveva mai permesso ad anima viva di avvicinarsi in quel modo alla parte più intima, scura e debole di se stesso.
John è impietrito e il suo fiato scivola sulla spina dorsale del detective. Le sue dita si muovono titubanti, tese come corde di un violino, sulla lunga cicatrice.
 



«Serbia».


L’indice di John scorre in basso, ridisegnando l’intero squarcio. Interrompe quella strana carezza quando il polpastrello incontra una seconda striscia indelebile, poi una terza, una quarta e una settima.
 
Tra le costole.
 
«Belgio».
 
Sullo sterno.
 
«Amsterdam».
 
Tra i fianchi.
 
«Russia».


Sherlock soffia uno Stato, una città per ogni cicatrice. E John si rivede seduto sul divano a cui dà le spalle, a scolarsi una birra - deluso e affranto per la sua perdita - mentre dall’altra parte del mondo Sherlock pativa torture inimmaginabili e ingoiava i lamenti.
 
Vorrebbe ammazzarli ad uno ad uno. Non sa chi siano, non conosce i loro volti, ma John immagina di pestare a sangue chiunque gli abbia fatto del male, fino ad ucciderli.
 
Nella stanza c’è odore di legna bruciata. Per strada qualche auto sorpassa lo Speedy’s di corsa, spezzando la quiete surreale nel salotto.
 
John si sente sporco. Avvilito. E distrutto.
 
«Inconvenienti del mestiere», sdrammatizza Sherlock, cosciente di fallire miseramente nell’intento.
«Mycroft sapeva?» È l’unica domanda che John gli pone.
Sherlock deglutisce della saliva, incurvando le spalle. «Lui sa sempre tutto».
 
Il respiro di John è pesante, come l’ultima nota grave di un pianoforte.
Lo odia.
Odia il primogenito degli Holmes, quasi quanto odia se stesso per aver odiato Sherlock. Per essersi convinto di odiarlo. E per aver permesso a qualcun altro di ferirlo. Per non esserci stato per difenderlo.
 
Accosta la fronte su quella pelle martoriata. Il dipinto vivente di un soldato indegno.
 
Sherlock Holmes – il sociopatico iperattivo incurante dei sentimenti – ha paura di fremere, di rivelare quel lato patetico di sé a John, i cui capelli gli solleticano la cute.
Un singhiozzo mal trattenuto, mentre il corpo di Watson lotta col pianto.
Basta quello a mandare l’unico  consulente investigativo al mondo nel panico più totale. «J-John…» Balbetta, lui che non si è mai curato di trovare le parole giuste. «Mi dispiace…»
«Sta’ zitto, Sherlock, ti prego», lo implora, e le braccia si chiudono attorno al suo petto.
Il cuore di Sherlock batte troppo veloce. Rimbomba nella trachea, come un tamburo percosso ininterrottamente. Il freddo è solo un lontano ricordo, ormai.
 
Vorrebbe voltarsi e ricambiare quell’abbraccio, ma non osa muoversi.
Non si azzarda a porre fine a quel momento, in cui tutto sembra essere al proprio posto. Se potesse, Sherlock rimarrebbe tra le braccia di John per sempre.
Senza mangiare, senza dormire. Senza fare nient’altro.
Solo loro due, senza il resto del mondo.
Voltare pagina al passato, agli sbagli, al dolore.
 


«Ti presterò il mio maglione.» Quello di John è  un bisbiglio, ora che le lacrime si sono calmate.
«Il tuo maglione?»
«La tua camicia è rovinata».
È la scusante più ridicola dell’universo. Sanno entrambi che la camicia viola strappata non è l’unico indumento in possesso di Sherlock, eppure Holmes non obietta. Perché niente è paragonabile all’avere l’odore di John addosso.
«Spero per te che non ci siano renne o losanghe».
John si scioglie in un sorriso e la notte appare d’improvviso più dolce.
«Ti darò il mio preferito».
 





 
Finalmente riesco a pubblicare questa os!
John che "scopre" tutte le cicatrici di Sherlock è sempre stato uno dei miei headcanon per eccellenza. In realtà, questa storia era stata pensata per un'altra coppia, in un altro fandom. Ma Sherlock e John erano sempre, sempre lì.
Stavo ascoltando una canzone - tra l'altro conosciuta per puro caso - dove veniva nominato un maglione. All'inizio doveva esserci perfino Mary, poi ho semplicemente scelto di tagliarla fuori del tutto. 
Mi sono concentrata sulle cicatrici presenti sulla schiena (eccezione fatta per lo sterno), anche se è ovvio pensare che Sherlock ne possegga diverse anche in altri punti non analizzati. BUT, facciamo che gli occhietti collerici di John si siano focalizzati lì.
"Il Divoratore di Sangue" non so proprio da dove mi sia uscito fuori. Volevo usare qualcosa dei romanzi, ma... l'ho scritta fin troppo di getto e il tempo per consegnarla scadeva. 

La parola chiave da usare era: voltare pagina.

John doveva abbandonare la rabbia per essere stato abbandonato, Sherlock i sensi di colpa.

Anyway, spero che la storia sia stata di vostro gradimento.
Grazie a chiunque sia arrivato fin qui.
   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Relie Diadamat