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Autore: Tenar80    05/01/2021    2 recensioni
Ardal è nato con piume nere a ricoprigli la schiena. Questo fa di lui un impuro, né angelo né uomo, condannato a una vita da schiavo. Ma Ardal è riuscito a fuggire al suo destino. Con una nuova identità ora è un giornalista che sogna di cambiare il mondo. Fino a che non viene riaperto il caso della morte del suo vecchio proprietario e proprio a lui viene chiesto di indagare sull'omicidio che ha commesso.
Questa fic è indipendente, ma fa parte della serie steampunk "L'assedio degli angeli – Preludi"
Genere: Noir | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'assedio degli angeli – preludi'
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Benvenuti o bentornati nella nell'universo steampunk de "L'assedio degli angeli".

Avete letto gli altri racconti della serie?

No? Correte a farlo qui. In realtà i quattro racconti di cui la serie si compone sono indipendenti, ciascuno incentrato su un diverso personaggio, ma nella mia testa letti tutti e quattro dovrebbero dare un quadro più completo della situazione. In ogni caso siamo in un mondo vittoriano Steampunk oggetto di attacchi da parte di angeli provenienti da un'altra dimensione. A difendere l'umanità c'è solo un piccolo gruppo di soldati, le Ali Nere, in grado di raggiungere la dimensione degli angeli grazie a una tuta creata con parti dei corpi dei nemici abbattuti. Ogni tanto nascono bambini con tratti angelici o demoniaci (piume, piuttosto che corna o zoccoli), costoro sono definiti Impuri e condannati a un destino di schiavitù. Ardal, il protagonista di questa storia, è uno di loro.

Sì? Allora bentornati! Per questo ultimo preludio ci allontaniamo per un poco dalle Ali Nere (ma Ardal sta cercando di intervistare un certo Soilbeir, quindi prima o poi i destini dovranno ben incrociarsi) per scoprire la realtà degli Impuri e qualcosa di più della società dell'Impero.

Buona lettura a tutti. E un grazie di cuore a chi vorrà dedicare un minuto del proprio tempo per una recensione.




Racconto di Brumaio

 

    Non ci si poteva liberare della nebbia di Brumaio. Diventava tutt’uno con i tessuti, la si portava addosso fino a che non penetrava dentro i corpi, insinuandosi attraverso i pori della pelle.

     Ardal si era tolto il cappotto appena arrivato alla redazione de Il Flusso, uno stanzone ricavano in una vecchia fabbrica fallita, si era avvicinato il più possibile all’unica stufa e poi era tornato sconsolato alla propria scrivania accanto alla finestra. I suoi abiti rimanevano umidicci, impregnati degli odori della città, con quel retrogusto acre dei fumi industriali e della cenere che ultimamente cadeva con la pioggia. Fuori il mondo era tutta una distesa di contorni persi nel grigio. Era il giorno del suo compleanno. Forse era perché era figlio di quel tempo di nebbie informi che anche in lui qualcosa era andato storto.

     Si riscosse quando il direttore entrò nella stanza. Come tutti chinò la testa verso i propri appunti e la macchina scrivere, fingendosi assorto nel lavoro. Benché il vecchio Donny abbaiasse più di quanto mordesse era pur sempre il capo. L’uomo puntò deciso alla scrivania di Ardal, che ne accettò il fatto con un mezzo sorriso storto. Se a qualcuno toccava correre fuori con quel tempo, magari per scrivere uno di quei trucidi articoli che tanto aiutavano le tirature, era sicuramente il prescelto.

    – Ho un pezzo per te – esordì Donny, passandosi una mano sui baffi ingrigiti.

    Appunto.

    – Cadavere fresco? – provò a indovinare.

    Odiava essere lì quando una qualche poveraccia veniva tirata su da un canale, già intento a cercare le parole migliori per esporla alla curiosità morbosa dei lettori.

    – Vecchio, a dire il vero. Ma scommetto che ti interessa.

    Il flusso si faceva un vanto di raccontare la capitale dal basso. Questo voleva dire rimestare nel torbido della peggior cronaca nera, invece che perdersi dietro i presunti scandali delle principesse imperiali, ma anche dare voce alle proteste degli operai e degli impuri. Era l’unico giornale con una parvenza di serietà a parlare apertamente a favore degli impuri. Era quello il motivo che aveva spinto Ardal a fare l’impossibile per entrarci ed era la leva che Donny sapeva di poter usare per appioppargli i  lavori peggiori.

    – Cinque anni fa… Mamma mia, eri un ragazzino – Donovan si permise un sospiro a commento dei freschi vent’anni del suo cronista. – Archibald Griwald muore in un incendio nella propria villa, vicino alla sua miniera di carbone, nel nord-est. L’incendio è partito dal suo studio, dove la servitù giura fosse solo. Aveva la sua età, quindi tutti pensano che abbia avuto un malore e rovesciato la lampada, incidente chiuso. Il vecchiaccio era piuttosto noto, magari ne hai sentito parlare mentre giocavi a pallone con gli amichetti.

    – Ne ho sentito parlare – rispose Adral.

    Quando voleva, la sua faccia poteva rimanere del tutto impassibile. Del resto non si diceva che quelli come lui avessero la menzogna nel sangue?

    – Adesso salta fuori un cavillo nell’eredità, vai a sapere, un nipote fa causa, accusa l’altro di non essersi preoccupato di spingere per un’indagine accurata – Donny estrasse un sigaro dal taschino, solo per il gusto di poterlo sventolare mentre gesticolava. – Morale della favola, riesumano il cadavere che, ops, aveva il cranio sfondato. Tra poco interrogano la cameriera impura, che pare l’ultima ad averlo visto vivo. All’epoca aveva tredici o quattordici anni e vox populi dice che da villa Griwald le schiavette entrassero giovani e piacenti e uscissero entro i sedici anni gonfie di botte o proprio morte. Quindi mettiamo il caso che accusino la ragazza, che magari si è difesa durante una violenza. Se non fosse un’impura sarebbe lei la vittima, invece così rischia la pelle. Lo mettiamo in prima pagina e ne facciamo un caso di coscienza.

    Adral era rimasto immobile, nonostante il sigaro di Donovan gli fosse passato a pochi millimetri prima dal naso e poi dall’occhio, del tutto pietrificato.

    – Non posso occuparmene io – esalò, alla fine. – È un articolo da prima pagina, serve più esperienza, magari qualcuno che appaia rassicurante alla cameriera e si faccia raccontare tutto.

    – Adesso mi fai il modesto? Sto parlando con lo stesso che ha iniziato da strillone e mi infilava ogni sera un articolo nella busta dei soldi con in calce scritto che era meglio di quelli di Tizio o Caio della redazione? E poi la ragazza impura è stata abusata da un vecchiaccio. Meglio un giovane piacente che si presenta come il cavaliere che può salvarla dalla forca.

    Adral si osservò le mani, ancora accanto alla macchina da scrivere. Non tremavano.

    – Eravamo d’accordo che sarei stato dietro a Soilber, per l’intervista – provò con l’ultima carta.

    – Certo, neppure sai dove viva, quello. Qui invece abbiamo una ragazza convocata per un interrogatorio questa mattina all’alba. Vai subito fuori dalla centrale di polizia e la bracchi quando esce, le offri il pranzo e ti fai raccontare tutto. E iniziamo a vedere cosa ne esce.

    Il giovane si concesse uno sguardo alla finestra. Non pioveva, ancora, solo quella nebbia sporca e persistente che si appiccicava addosso. Non c’era alcuna scusa ragionevole che potesse accampare.

    – Vado – disse, iniziando a raccogliere in modo meccanico il necessario dalla scrivania.

    – Ehi, pivello, dovresti baciarmi in fronte per l’opportunità che ti sto dando – sbottò Donovan.

    Aveva ragione, per quel che ne sapeva. 

    Adral abbozzò un sorriso.

    – Considerati baciato – disse, mentre già si dirigeva verso il proprio cappotto.

 

    Quanto si cambia in cinque anni? Tantissimo se si passa dai non ancora quindici ai freschissimi venti. Ancora di più se si presta una cura particolare nel cercare di lasciarsi alle spalle l’adolescenza come un bozzolo ormai rotto e disseccato. Cinque anni prima Adral era un ragazzino magro e impettito, più basso di due spanne, che portava capelli lunghi legati alla nuca da un nastro rosso. Il rosso, del resto, era ricorrente negli abiti che gli facevano indossare. Ora non lo si poteva definire alto, ma era un giovane agile e muscoloso, con i capelli corvini cortissimi e gli abiti rigorosamente neri o grigio fumo. Se non avesse avuto quei tratti così distintivi, la carnagione scura, gli occhi allungati, tanto da far sospettare almeno un nonno jiquinita, sarebbe stato a posto. Così come stavano le cose, però, non essere riconosciuto era fuori discussione. Aveva valutato un travestimento, una finta cicatrice, ma l’idea di mentire anche a Fiammetta, dopo cinque anni di menzogne, gli era parsa insopportabile. Mandare qualcun altro a cui dovesse un favore altrettanto impraticabile. Alla fine le alternative erano soltanto due. Fuggire subito, rinunciando a tutto ciò per cui aveva lottato, o rischiare, sperando di poter magari fuggire più tardi.

    Sospirò. Che almeno si facesse in fretta. Erano tre ore che aspettava nella piazza deserta davanti alla Centrale di Polizia. Con quel tempo, nessun locale aveva messo i tavolini fuori e entrare a scaldarsi avrebbe voluto dire rischiare di perdersi l’uscita di Fiammetta. Adral si era quindi rassegnato a rimanere appoggiato a una delle colonne del porticato laterale, mentre l’umidità pian piano diventava una sola cosa con lui.

    Finalmente, una porticina laterale del grande palazzone grigio si aprì e non ne uscì un agente, ma una ragazza. Era nascosta, più che coperta, da un vecchio cappotto cammello di almeno tre taglie troppo grande e ancora una sciarpa le copriva il volto. Spuntavano però i capelli, rossi e vaporosi come Adral li ricordava, con le piccole corna appuntite che si notavano appena. Nessuno la stava aspettando, e la ragazza si incamminò da sola, cercando di non scivolare sul selciato umido. In un attimo, Adral le fu accanto.

    – Sei di fretta o posso offrirti un pranzo tardivo? – le chiese.

    Le sobbalzò, perdendo l’equilibrio, e il giovane dovette sostenerla.

    Per chi, come Fiammetta, aveva zoccoli al posto dei piedi, la pietra bagnata era un incubo.

    – Non è possibile! Scriba!

    Ci aveva messo tre respiri a riconoscerlo.

    – Shhh. Mi chiamo Adral. Allora, un pranzo?

    – Non ho detto niente – sussurrò lei.

    Al giovane venne in mente, che, date le circostanze, forse la mano con cui l’aveva cinta per sorreggerla aveva un che di minaccioso. La tolse, allontanandosi di un passo.

    – Non ho dubbi – disse. – Un pranzo?

    Lei lanciò uno sguardo all’orologio, su una delle facciate dei palazzi.

    – Tra tre ore devo essere di ritorno – capitolò.

 

    Non erano molti in quella zona i locali dove cittadini e impuri potessero mangiare allo stesso tavolo. Alla fine trovarono una bettola che aveva una sala in cui ammetteva anche i patentati. Adral allungò una banconota e nessuno chiese i documenti alla ragazza. Era quasi metà pomeriggio e nella sala c’erano solo loro. 

    Entrambi attesero che fosse servito il piatto della casa, una brodaglia che era un insulto chiamare zuppa, prima di riprendere la conversazione.

    – Non ho detto niente di te – ribadì la ragazza. – Ma questo era solo un interrogatorio preliminare. Lo sanno che sei sparito, non dovresti bazzicarmi intorno proprio adesso.

    Una volta uscita dal cappotto non aveva un brutto aspetto, anche se indossava un abito dimesso e non c’era neppure un’ombra di trucco, come se cercasse di apparire più brutta e ordinaria di quanto in realtà fosse.

    – Lo so – rispose Adral, bevendo un sorso di birra. – Sono un giornalista adesso. Lavoro per Il flusso, il capo vuole coprire il caso. Sono stato mandato per caso a parlarti.

    Si concesse una mezza risata finta, di cui di vero c’era solo l’amarezza.

    – Come hai fatto? – sussurrò Fiammetta, piano.

    Il giovane si strinse nelle spalle.

    – Tengo le spalle coperte. E so scrivere bene. Era per quello che il vecchio mi aveva preso, no?

    Quasi sette anni prima Achibald Griwald aveva speso una cifra non indifferente per un giovane impuro primario dalle spalle coperte di piume nere, istruito per fungere da segretario. E forse sarebbe rimasto quello per tutta la vita, uno schiavo istruito, beneficiario di una vita molto migliore rispetto a quella di quasi tutti i suoi simili, se una sera non fosse entrato per caso nello studio alla ricerca di documenti da copiare per l’indomani. E se Griwald non avesse avuto come fermacarte un pezzo di roccia aurifera, brillante d’oro, forse non avrebbe potuto far nulla, se non rimanere a vedere il vecchio che imbavagliava Fiammetta per evitare che urlasse mentre lui ne traeva piacere…

    – Che ne è stato di te? – chiese, con dolcezza.

    Quella notte non avevano avuto molto tempo per parlare, una volta dato fuoco allo studio. Fiammetta non aveva neppure pensato a fuggire. Con gli zoccoli e le corna non poteva certo rifarsi una vita.

    – Sono stata fortunata – rispose la ragazza, mescolando la zuppa. – Gli eredi mi hanno venduto subito, ovviamente. La padrona ora è una signora anziana che inizia a faticare a camminare da sola. Non ci sono davvero problemi, a parte l’ascoltare sempre le stesse chiacchiere. Dice che prima di andarsene mi pagherà la Patente di Via e non vedo perché non dovrebbe, è sicuramente più affezionata a me che ai nipoti che si fanno vivi due volte l’anno.

    Adral annuì. Gli impuri, che fossero figli di impuri o primari, potevano essere solo schiavi. Al massimo, potevano acquisire una Patente di Via con cui rimanevano a servizio dello stato, ma potevano prendere in affitto immobili, persino attività commerciali, ma non possederle, e avere una vita quasi normale. Quasi, perché i figli dei patentati erano schiavi dello stato, anche se spesso i genitori erano in grado di comprare anche per loro una patente. In ogni caso, non una vita per Adral. Si chiese quanti ce ne fossero come lui, che vivevano vite clandestine.

    – Che cosa ti hanno chiesto? – domandò, tornando al presente.

    Fiammetta si perse un attimo a guardare la zuppa.

    – Sono stati gentili, sai? Il tipo che indaga, il detective, avrà un quattro o cinque anni più di noi. Mi ha trattato… Come se fossi una persona.

    Adral scosse il capo, senza dire niente. Avrebbe dovuto essere scontato, invece era fonte di stupore.

    – Mi ha detto subito che il vecchio è stato ucciso, di dire tutto quello che ricordavo – continuò lei. – E io mi sono attenuta alla nostra versione. Avevo già finito le mie mansioni, ero nella mia stanza, ho sentito rumori dallo studio. Sono corsa, ho cercato di aprire la porta, ma mi sono ustionata la mano con la maniglia ardente.

    D’istinto, si guardò il palmo della mano destra, dove la cicatrice era ben visibile. Ardal non era lì mentre lei si feriva, ma avevano concordato la cosa, per rendere credibile la scena. Aspettare che il fuoco avesse invaso lo studio, dare l’allarme e tentare di aprirne la porta ustionandosi con la maniglia ormai incandescente. Quello che avrebbe fatto una schiavetta quattordicenne benintenzionata e sprovveduta.

    – Il mio grido ha richiamato la cuoca, che era ancora al lavoro nell’ala opposta della casa, ma lei non ha potuto fare altro che chiamare i lavoratori della miniera per farsi aiutare a spegnere le fiamme – andò avanti. – L’hanno già sentita, la signora Bhasa, ha confermato quello che ho detto. Però lo sanno che uno schiavo è sparito quella notte. La signora Bhasa deve aver detto che non ti ha mai sentito rientrare, non so se ti cercheranno.

    Con l’indagine di mezzo, forse. Per il valore in sé, ne dubitava fortemente. Uno schiavo istruito aveva ottime quotazioni, ma gli eredi Griwald avevano avuto abbastanza miniere da ritenerlo un ammanco trascurabile. Quella era stata una delle sue fortune. L’altra era che il vecchio, quando voleva soddisfare le sue voglie, preferiva non avere gente intorno. A norma di legge l’omicidio di un impuro era reato. Ma sugli incidenti non indagava nessuno, neppure se capitavano con una certa ricorrenza. Quindi ogni tanto tutti i servitori umani o patentati avevano la serata libera, lui veniva invitato ad andare a svagarsi con gli altri ragazzi impuri, quelli che lavoravano alla miniera, a un paio di chilometri dalla villa. Ad Ardal era bastato poco per capire cosa avvenisse in quelle serate e, anche se fingeva di non pensarci, ogni volta la rabbia per la propria impotenza cresceva un poco. Non avrebbe fatto nulla, però, neppure quella sera. Non aveva neppure quindici anni e non si sentiva un eroe. Sarebbe rimasto fino a tardi a giocare con gli altri con i dadi fatti con la mollica indurita del pane, se non si fosse ricordato che doveva ancora battere a macchina un ultimo documento. Una mancanza che l’indomani gli sarebbe costata almeno dieci frustate, perché il vecchio non era un sadico solo nell’intimità. Quindi era rientrato cercando di fare il minor rumore possibile e si era diretto verso lo studio. Chi andava a immaginare che il pervertito quella sera volesse prendere Fiammetta legata alla propria poltrona da lavoro? Si era trovato del tutto impreparato alla scena, la ragazza imbavagliata che lo implorava con lo sguardo, il vecchio di schiena con già le braghe calate e poi quella roccia tenuta come fermacarte…

    – Pensi che ti vogliano incriminare? – chiese.

    All’epoca si era dato l’alibi di aver salvato la ragazza. Ma era per la propria libertà che aveva ucciso. Adesso Fiammetta rischiava di pagarne il prezzo.

    – Non lo so… Li ho sentiti parlare… Si dimenticano sempre dell’udito di noi con le corna… Uno dei poliziotti ha detto che erano morte tre impure più o meno della mia età nei cinque anni precedenti, che potrei aver avuto le mie ragioni per odiarlo… Il detective Graham, però, ha risposto che non era sicuro che avessi la forza di spaccare la testa a qualcuno, sopratutto da ragazzina.

    Ardal annuì. 

    Bene. Almeno non era finita tra le grinfie di qualcuno che voleva il primo colpevole a tiro. Questo, però, voleva dire che potevano risalire a lui?

    – Ha voluto un elenco delle persone che erano state alla villa quel giorno. Immagino indagheranno su di loro. E su di te – concluse Fiammetta.

    Inevitabile, pensò Ardal.

    – Devo scrivere un pezzo per il mio giornale – disse, cercando di scacciare il pensiero di essere identificato con un gesto della mano. – Vorremmo mettere l’accento sui soprusi che subiscono gli impuri, te la senti ti raccontare qualcosa?

    Lei scosse il capo, senza trovare il coraggio di guardarlo.

    – Ti devo la vita, ma non voglio essere sbattuta in prima pagina.

    – Non è quello l’intento.

    – E quale sarebbe?

    – Cambiare le cose. Per farlo bisogna far cambiare il modo di pensare, il modo in cui vengono visti gli impuri.

    Questo strappò un sorriso a Fiammetta.

    – Ah, sei diventato un idealista. E io che ricordavo un leccaculo che faceva di tutto per compiacere il vecchio… Salvo poi ucciderlo.

    – Salvo poi ucciderlo – rimarcò lui. – Sopravvivevo. Questo non vuol dire che mi piacesse. 

    Il sorriso di Fiammetta non si spense, ma prese una nota amara.

    – Non piace a nessuno. Ma le cose vanno così, e non cambieranno.

    Ardal vide la propria mano contrarsi e stritolare un pezzo di pane scuro.

    – Non cambieranno se nessuno prova a farlo. Il fatto che gli impuri siano i primi a pensare che la cosa sia impossibile è ributtate.

    – Parli già come se gli impuri fossero una cosa diversa da te – notò Fiammetta. – Non te la prendere… Sono contenta di averti rivisto. Adesso devo andare, è già tardi e la padrona mi aspetta.

    E con questo addio intervista, pensò Ardal. Ma il caso andava comunque coperto, un magnate del carbone riesumato dopo cinque anni che si scopre non morto per sbadataggine ma per colpo in testa era comunque cosa da prima pagina. Se Fiammetta non veniva indagata, bisognava intervistare qualcun altro. La cuoca era fuori discussione, quella lo avrebbe riconosciuto e denunciato all’istante. Il detective? Valeva la pena di rischiare tanto?

    I ragionamenti del giovane furono spezzati dal suono di una sirena.

    Fiammetta, che stava già per uscire dalla sala, si voltò.

    – Un attacco angelico – gridò.

    Ardal lanciò un’occhiata intorno. Figuriamoci se una bettola come quella c’era un rifugio.

    – Dobbiamo metterci al riparo – disse.

    Un istante dopo erano in strada.

    La nebbia si era trasformata in pioggia. Intorno a loro, decine di persone stavano iniziando a sciamare, vociando. Meglio seguirli, di sicuro la gente del quartiere conosceva la strada più veloce per il rifugio pubblico più vicino.

    Vi fu un boato. Un raggio di luce accecante trapassò il cielo per andare ad abbattersi qualche casa più il là. Fiammetta si era stretta contro di lui, rabbrividendo. Un altro raggio, ancora più vicino. Tegole e mattoni caddero sulla strada, una decina di metri dietro di loro.

    Nell’ultimo periodo gli angeli attaccavano sempre più spesso la capitale. A primavera avevano fatto una strage. Tuttavia Ardal si era trovato raramente nell’epicentro di un attacco.

    Il raggio successivo colpì la strada davanti a loro. Lo spostamento d’aria tolse del tutto il fiato al giovane, mentre Fiammetta era tenuta in piedi solo dalle sue braccia. Quando Ardal riaprì gli occhi vide il cratere che si era formato a una ventina di metri da loro e due corpi a terra. Non ebbe neanche l’ombra del pensiero di andarli a soccorrere. Con il cuore che martellava e la sensazione che qualcosa, senza dubbio il panico, gli stesse stringendo la gola, cercò di capire dove fosse il maledetto rifugio. Finalmente vide, attraverso la pioggia e la polvere, Il cartello giallo che segnalava l’ingresso alla galleria sotterranea.

    – Vieni – disse a Fiammetta.

    Dovette quasi trascinarla per quegli ultimi metri.

    Mentre un altro lampo attraversava il cielo, iniziarono a correre giù per i gradini.

    Non erano ancora arrivati nel bunker vero e proprio, quando si trovarono due uomini davanti.

    – È quasi pieno – dissero, con voce ferma. – Precedenza agli umani. La ragazza non può entrare.

    – Fuori sta crollando tutto! – protestò Ardal. – Stanno combattendo proprio qui sopra.

    – Appunto. Precedenza agli umani.

    Il giovane si trattenne dall’abbatterli con un pugno. Non era colpa loro, era la legge. Da che viveva nella capitale non si era posto il problema. La maggior parte degli impuri non poteva nascondere la propria condizione, nessuno gli aveva mai chiesto un documento per entrare in un rifugio e Ardal si era dimenticato che quello era un privilegio e non un diritto.

    – Non importa, rimani – disse Fiammetta.

    Dietro di loro c’erano già altre due persone, un anziano e una donna, che fremevano per mettersi al sicuro.

    – Andiamocene – ringhiò Ardal.

    Risalirono la scala e si trovarono di nuovo investiti dalla pioggia.

    – Forse l’attacco è terminato – mormorò Fiammetta, speranzosa, guardandosi intorno.

    Quasi in risposta, un altro lampo fendette l’aria, seguito quasi subito dal rumore di un muro che crollava.

    Ardal si morse l’interno della guancia nel tentativo di capire quale fosse la scelta più sicura. Rimanere per strada? Cercare un locale che avesse un rifugio privato? Avrebbero lasciato entrare un impuro?

    Il lampo successivo non gli lasciò il tempo di terminare il ragionamento. Tutto quello che il giovane potè fare fu cingere Fiammetta alla vita e poi gettarsi a terra cercando di tenerla sotto al suo corpo, riparandone il più possibile la tesa. Un istante dopo furono investiti dalla polvere e dai frammenti di calcinacci. Qualcosa di più pensate colpì Ardal al polpaccio.

    Rimasero un poco immobili, poi Fiammetta cercò di alzare la testa e il giovane si scostò per farle spazio.

    – Stai bene? – chiese la ragazza.

    – Non lo so – rispose il giovane, guardandosi intorno.

    Un muro era crollato a pochi passi da loro. La manica destra era macchiata di grigio, dove la polvere di cemento si era mescolata alla pioggia. Mentre Fiammetta scivolava di lato e provava a mettersi in piedi, senza danni apparenti, Ardal si tastò la gamba. Lo aveva colpito un mattone, lasciandogli un ematoma largo un palmo, ma non sembrava esserci nulla di rotto.

    Le nubi sopra di loro turbinarono e Fiammetta d’istinto tornò a stringersi a lui.

    Appena al di sotto delle nuvole prese forma una sagoma scura, con ampie ali aperte. Facendosi ombra agli occhi con la mano, Adral ne distinse le braccia.

    – Sono i soldati delle Ali Nere di ritorno – sospirò. – L’attacco è finito.

    Gli tremavano le mani.

    La odiava quella paura atavica che gli incutevano gli attacchi degli angeli. Il terrore che gli procuravano quei lampi di energia causati da creature alate di una dimensione adiacente. Li odiava, gli angeli. Era colpa di quelle creature se le persone con dei tratti che li richiamavano, piume o piccole ali, erano state schiavizzate. Ma lo inquietavano anche le Ali Nere, i soldati che tramite uno strano meccanismo si impiantavano ali di angeli uccisi e andavano a combatterli nella loro dimensione.

    Scosse il capo e cercò lo sguardo di Fiammetta, per sincerarsi delle sue condizioni. Lei gli  sorrise di rimando.

    – Mi hai protetto – disse, piano.

    Ardal non rispose, limitandosi a provare la gamba ferita. Faceva male, ma lo reggeva.

    – Da ragazzina ero innamora di te – sussurrò la ragazza.

    Il giovane le sorrise, in imbarazzo.

    – Il pericolo è passato. Vai a casa, la padrona sarà in pensiero – disse.

    Aveva già tanti sensi di colpa a proposito di quella ragazza, senza dover aggiungere anche il non ricambiarla.

   
 
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