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Autore: Laisa_War    05/01/2021    2 recensioni
Questa storia nasce da una fantasia che accomuna, credo, ogni fan di Vikings (di cui faccio fieramente parte): esser trasportati nel mondo dei figli di Ragnar, per poter interagire con loro e combattere al loro fianco.
Hylde, una normalissima ragazza del 2020, viene spedita nella Kattegat dell'800 d.C. per volere di Odino in persona. Il motivo, per ora, è per lei un vero mistero.
Incontrerà i fratelli Lothbrok, intenti ad organizzare una grande spedizione punitiva ai danni di re Aelle e re Ecbert, colpevoli di aver contribuito alla morte del più grande re vichingo della storia: Ragnar Lothbrok.
Diventerà, col tempo, parte integrante della società vichinga, imparandone gli usi e i costumi. Quella diventerà casa sua, molto più di quanto lo fosse il mondo moderno.
Con questo racconto, i cui capitoli usciranno settimanalmente, spero di potervi trasportare con me in quella fantastica epoca, trasmettendovi le sensazioni che avevo io, durante la scrittura.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ivar, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Il funerale era stato solo l’apice di un periodo oscuro durato anni. Fu così avvilente vedere come le persone amate in vita da sua madre l’avessero abbandonata e dimenticata, dopo che le fu diagnosticata la malattia. Convivere con una persona affetta da schizofrenia non era facile, Hylde ne era perfettamente consapevole dall’adolescenza, ma lavarsene del tutto le mani, come fece suo padre, era per lei un gesto inconcepibile. All’età di sedici anni, lo vide decidere di affidare la madre alle cure di un istituto e iniziare ufficialmente una relazione con la donna con cui aveva iniziato a frequentarsi.

Per Hylde, questo significò farsi carico da sola del peggioramento della malattia di sua mamma: quella che prima era una donna fiera, legatissima alle tradizioni della propria terra d’origine, la Norvegia, la donna che le raccontava la mitologia norrena come favola della buonanotte, era diventata il fantasma di se stessa, una povera anima convinta di sentire la voce di Thor, o Freyja. Ovviamente la tradizione norrena è distribuita per gran parte dell’Europa Settentrionale, i vichinghi provenivano anche dalla Danimarca (dove Hylde era nata e cresciuta), ma sua madre conservò un attaccamento speciale alla sua patria, in particolare con Kattegat, la sua città natale.

Tutto questo fino a quando si spense, in totale solitudine, nella piccola stanza riservatale dall’istituto. Hylde ne fu distrutta talmente tanto da chiudersi in se stessa, senza sentire più nulla, senza riuscire a respirare, l’unica cosa su cui si concentrava erano lavoro e studio. Poi, di punto in bianco, evitando di avvisare qualcuno, decise di prendersi una pausa dal mondo: congelò l’appena iniziata carriera universitaria in infermieristica, si licenziò dal suo lavoro part-time e prelevò una piccola somma di denaro lasciatole in eredità dalla madre. Partì per la Norvegia pochi mesi dopo il funerale, in un viaggio commemorativo totalmente dedicato alla sua mamma.

L’aria frizzante di inizio inverno risvegliò Hylde dal fiume di ricordi in cui stava annegando. Alzò lo sguardo verso la primissima tappa del suo percorso: la baia di Kattegat, che si rivelò essere una piccola, ma popolosa città nascosta tra i fiordi norvegesi. Ogni volta che la nominava nei suoi racconti, sua madre si riempiva d’orgoglio e la sua faccia si faceva sognante e cristallina: diceva che, in antichità, vi fossero vissuti il mitico Ragnar Lothbrok coi suoi numerosi figli, altrettanto famosi, e la grande guerriera Lagertha. Peccato che ogni prova della loro esistenza era andata perduta con l’avanzare dei secoli, di loro erano rimaste solo antiche leggende.

Vide un piccolo stormo di gabbiani sorvolare pigro la costa, quasi come a godersi le ultime ore di luce prima del crepuscolo. Controllò l’ora sul cellulare e si decise ad abbandonare la panchina sulla quale aveva passato delle ore intere quel pomeriggio, anche perché il lungo cappotto di pelle sintetica che indossava iniziava a diventare superfluo contro il calo della temperatura, malgrado la leggera imbottitura felpata. Il cielo preannunciava neve.

Era un bel posto, quello: una panchina in legno piazzata su un suggestivo promontorio, in modo tale che chiunque potesse godere del panorama in tutta tranquillità.

Per tornare in città, Hylde avrebbe dovuto seguire un sentiero di terra battuta attraverso i boschi che circondavano il centro abitato. Ormai la strada era deserta, iniziava a far freddo sul serio ed i cittadini avevano già fatto ritorno presso la propria casa.
Arrivò al bivio che aveva incontrato all’andata: la strada a destra presentava una ripida discesa che portava direttamente a Kattegat, che iniziava a riempirsi della luce all’interno delle abitazioni, mentre la strada di sinistra continuava in salita ancora per qualche metro per poi appianarsi presso una piazzola dominata da una grossa statua in bronzo.

Hylde si grattò la punta del naso dopo essersi sistemata dietro l’orecchio una ciocca ribelle color rosso vivo, aveva le mani congelate, ma pensò di avere del tempo per dare un’occhiata a quella curiosa scultura. Prese la via di sinistra senza aspettare oltre, in pochi minuti arrivò alla piccola piazza deserta ed osservò quella che era sicuramente una statua celebrativa raffigurante il dio Odino, intuibile dal suo occhio bendato. Si dice l’avesse sacrificato presso il mitologico pozzo di Mimir per raggiungere la sua celebre saggezza.

«Forse è stupido...», disse fra sé e sé, «Ma a lei avrebbe fatto piacere.». Si concentrò, giunse le mani sul proprio petto e, mai avrebbe pensato di farlo in tutta la sua vita, essendo atea da sempre, pregò Odino di prendersi cura di sua mamma, di accoglierla presso il Valhalla, come lei avrebbe voluto.

Rimase sospesa in quel limbo di eternità, mantenendo le mani giunte. Poté dire di capire sua madre come mai in vita sua, come nessuno, in realtà... Era come se sentisse, provasse su di sé la potenza della natura. Sarebbe stato riduttivo dire: “Sentivo la natura parlarmi.”, ma senza dubbio sarebbe stato il modo più immediato per descrivere quella sensazione.

Mantenne gli occhi serrati, temeva che se ne avesse aperto anche solo uno spiraglio, la voce della natura sarebbe scomparsa. In lontananza, il suono di antichi tamburi.

Il verso di un corvo che volava sopra di lei, il vento farsi spazio tra i fitti aghi dei pini sempreverdi, la luce del giorno, percepita attraverso le palpebre chiuse, che si sostituiva all’oscurità, come se i giorni passassero velocemente, uno dietro l’altro, rincorrendosi, mentre lei serrava gli occhi e i tamburi suonavano.

L’acqua dei torrenti scorreva inesorabile ed incurante, il suono degli animali abitatori della foresta così pacifico, il corvo che le si avvicinava ed il fuoco. Il fuoco divoratore attorno a lei abbracciava tutto, ma il corvo era un’unica entità con esso, senza esser bruciato.
Lei serrava gli occhi, i giorni passavano e i tamburi continuavano a suonare. Il rumore della foresta si acuiva, era viva e comunicava, il fuoco bruciava senza distruggere. Un serpente silenzioso strisciava tra gli arbusti e raggiungeva il corvo, avvolgendolo, senza curarsi del suo disperato affanno, alla ricerca di ossigeno.

Gli occhi serrati, i giorni passavano, il fuoco era solo una scintilla. I tamburi non suonavano più, il corvo era scomparso. Il serpente si girava verso di lei che serrava gli occhi, la minacciava con sibili sinistri. Era vicino, spalancava le fauci sulla sua faccia.


Hylde urlò forte, aprendo di scatto gli occhi. Era sdraiata sul freddo suolo della foresta, riusciva a vedere uno sprazzo di cielo ingrigito far capolino tra le punte dei pini, i quali sembravano molto più numerosi di quelli che ricordava.
Si toccò la testa dolorante, doveva averla battuta cadendo. Cercò di mettersi a sedere con calma, per non farsi venire un capogiro, le faceva male tutto. Si scrollò dai vestiti un misto di terriccio e foglie secche, scorse sul terreno delle tracce di neve mista a ghiaccio, come se la fredda luce del sole non avesse ancora avuto la forza di scioglierla, e in quel momento realizzò una cosa, nonostante la confusione: la piazzola era sparita, come anche la statua, al loro posto solo abeti e alberi spogli.

Si alzò piano, chiedendosi cosa stesse succedendo e dove fosse finita, estrasse il telefono per capire in che area del bosco si trovasse grazie al navigatore, ma non c’era campo. Prima di farsi prendere dal panico, provò a guardarsi intorno, alla ricerca di qualcuno a cui chiedere informazioni o del sentiero percorso poco prima. Entrambe le cose avrebbero richiesto un certo sforzo, poiché il giorno stava facendo spazio al crepuscolo e la visibilità si riduceva sempre di più.

Hylde s’incamminò, sfregandosi le mani l’una contro l’altra per generare un po’ di calore, il freddo si era fatto pungente e lei si sentiva congelare fin dentro le viscere. Non molto tempo dopo, individuò la fiamma di quella che doveva essere una torcia antica, il tipico bastone con un’estremità impregnata di materiale infiammabile che veniva usato in passato come fonte di luce. Sentì le voci cristalline di un paio di donne, quindi cercò di attirare la loro attenzione in un norvegese un po’ incerto, non poté far di meglio, non essendo quella la sua prima lingua.

Era stata talmente invasa dalla felicità per aver trovato qualcuno che solo dopo alcuni secondi si rese conto dell’abbigliamento bizzarro delle due donne: vestivano proprio come delle guerriere vichinghe nella loro epoca d’oro, con abiti in pelle che sembravano pesanti e molto caldi, un’armatura in tessuto resistente a proteggere spalle e busto. I dettagli che però attirarono maggiormente l’attenzione di Hylde furono l’arco, le frecce e le spade affilate. Non era tranquilla.

Dovevano esser confuse quanto lei, l’abbigliamento pareva anche per loro un elemento destabilizzante, perché si scambiarono una fugace occhiata interrogativa, squadrandola dalla testa ai piedi e avvicinando la mano dominante all’elsa delle rispettive spade, portate all’altezza della vita.

A Hylde venne in mente la domanda più idiota che potesse fare: «Scusatemi, ho per caso interrotto una rievocazione? Mi sono persa, devo tornare a Kattegat...», ma si bloccò, vedendo le due donne in difficoltà nel cogliere alcune sue parole. Probabilmente avevano capito il significato principale della frase, perché fecero dei cenni d’assenso quando sentirono il nome della città, però Hylde ripeté la frase in inglese, convinta che le avrebbe facilitate nel comprenderla molto più del suo norvegese, studiato di fretta nei mesi prima della partenza.

«Oh, cazzo!» esclamò Hylde, indietreggiando con le mani alzate, mentre le due guerriere cambiavano del tutto il loro atteggiamento e si facevano minacciose. La più alta delle due, che portava una lunga treccia bionda, urlò all’altra qualcosa come: «Parla come i Sassoni, prendiamola!», mentre cercava un posto dove appoggiare la torcia. Hylde ebbe solo pochissimi secondi per notare che le due parlavano uno strano misto di danese e norvegese dall’aria antica, purtroppo non comprese tutto alla perfezione.

Provò a dileguarsi, ma l’altra donna, quella che portava i capelli scuri in una lunga treccia legata dietro la nuca e che aveva il collo pieno di tatuaggi, le fu subito addosso, per fortuna senza spada. In quel momento, Hylde decise di provare se le lezioni di Krav Maga prese qualche tempo prima fossero servite a qualcosa. Spoiler: non proprio. Nel XXI secolo nessuno ti prepara ad affrontare i guerrieri vichinghi, o i pazzi convinti di esserlo, e lei aveva dovuto abbandonare il corso quando iniziò a studiare in università e a lavorare in quel centro commerciale. Era decisamente fuori forma, non al meglio della sua preparazione atletica.

Nonostante tutto, riuscì ad assestare qualche bel colpo, rompendo il naso della donna, che però, pur sanguinante, le piazzò un pugno allo stomaco così violento da mozzarle letteralmente il respiro. Hylde rovinò a terra sulle ginocchia, tossendo e premendosi una mano nel punto in cui le era stato tirato il colpo, poi, raggiunta anche dalla seconda guerriera, fu immobilizzata da questa, mentre l’altra le legava a forza i polsi e la strattonava per farla alzare.

Le due non ebbero comunque vita facile, Hylde si dimenò come un’ossessa per gran parte del tragitto, urlando loro ogni tipo di insulto o minaccia in tutte le lingue che conosceva. Dovettero usare ogni briciolo della loro tenacia per non farla scappare e riuscire a condurla in città.
Quando arrivarono a destinazione era già calata la notte, ora le uniche fonti di luce erano immense torce di legno e fuoco vivo disposte lungo i passaggi tra un’abitazione e l’altra. Hylde si era informata prima di partire e constatò di trovarsi chiaramente in un villaggio vichingo, le case erano esattamente come quelle illustrate nei libri di storia: scorse il legno dei telai che sorreggevano i tetti spioventi, le pareti più grosse ricoperte da intere zolle di terra. Per la strada di terra battuta c’erano galline libere e s’intravedevano i cavalli a riposo in una grossa stalla poco lontana da lì. Le poche persone che incontrarono erano degli energumeni ubriachi, i quali la squadravano con sguardi incuriositi e lascivi, soffermandosi sulla sua cascata di capelli rossi o su altre parti del corpo, cosa che le provocò un brivido di ribrezzo, ma ebbe comunque l’audacia di ricambiare con uno sguardo intimidatorio, quasi selvaggio.

Ormai Hylde non aveva più la forza di dimenarsi, era esausta, e quelle donne avevano una presa di ferro. Volle usare le ultime energie rimaste per guardarsi intorno, alla ricerca di qualche via di fuga, ma le sembrò tutto inutile.
Mentre si dirigevano verso quella che era chiaramente l’enorme longhouse della città, Hylde sentì il tipico frastuono provocato da una festa: sentì canti gutturali, persone che ballavano e saltavano divertite, tamburi a cadenzare il ritmo, un altro strumento che invece dettava la melodia. Nell’aria c’era odore di alcool e legno bruciato.

Una delle guardie poste all’ingresso della “casa lunga” si rivolse con una risata alle due: «Astrid e Torvi! Caccia grossa stasera?».
«Come sempre!» rispose quella dai capelli scuri, accennando un saluto col capo e, suggerendo all’altra di aspettare lì fuori con Hylde per impedirle di scappare, entrò. Le parve di cogliere il termine "La Straniera" e scosse il capo, pensando sarcasticamente: “Ma con che coraggio...”.

Evitò di cedere alla paura, anche se c’era la concreta possibilità di esser capitata in una comunità di pazzi, che si credevano i vichinghi del 2020. Malgrado tutto, il gelo di quella sera le fece bramare con tutta se stessa le pellicce pesanti delle guardie e di entrare in quell’edificio che emanava un calore avvolgente.

La musica e i festeggiamenti si fermarono e, poco dopo, quella che era stata chiamata Astrid tornò, facendo segno a Torvi, la donna che aveva i capelli biondi, di portar dentro Hylde, che venne leggermente spinta verso l’ingresso.



Note dell'Autrice:

Ciao a tutti!
Sono Laisa, tornata a scrivere dopo ANNI di inattività.
Spero che questa storia vi piaccia... Fatemi sapere che ne pensate, se poteste essere interessati gli ulteriori capitoli (che usciranno ogni mercoledì).

Un abbraccio sincero,
Laisa
  
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