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Autore: SkyDream    06/01/2021    6 recensioni
[SakuAtsu][E di come Sakusa divenne un misofobo.]
Vi è un momento in cui Kiyoomi Sakusa è costretto a ripercorrere alcune delle tappe più importanti della sua vita con sua madre, con Motoya, ma soprattutto con Atsumu.
E' proprio lui infatti, con il suo fastidiosissimo ciuffo biondo, che è riuscito a trovare un nuovo modo per dimostrargli il suo amore.
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Dal testo: «Hai appena elencato almeno tre o quattro situazioni su Atsumu Miya che non riguardano minimamente la pallavolo. Come lo chiamiamo?!».
E Toya aveva ragione, aveva elencato diversi punti che, nelle ultime settimane, lo avevano più volte sconcertato.[...]«Atsumu Miya non si prende cura di me.» dichiarò mettendo fine all’implicita discussione che stavano portando avanti ormai da ore.
«Ma ti rispetta come nessun altro ha mai fatto, almeno questo devi concederglielo».
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«Questa la so! – sorrise lievemente – Lo faccio perché quando ti senti al sicuro ti rilassi e mi diverte chiacchierare con te!».
«Mi prendi in giro?!».
«Può darsi, chi lo sa? – Atsumu fece spallucce e sorrise sornione mentre riapriva la porta della loro camera – Comunque quella puoi tenerla se vuoi. Evita di ammalarti».
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~ Another way to love you ~
[SakuAtsu]

 
 
«A che cosa stai pensando?»
 
«Omi, Omi vieni qui dai! E’ pronta la merenda!» Una donna dai folti capelli scuri si avvicinò ad un bambino in riva alla spiaggia, se ne stava tranquillamente seduto ad impilare piccoli sassi colorati come se, nella sua mente, potesse creare una fortezza invalicabile.
«Guardati, Omi, hai ancora tutti i capelli bagnati!» La donna rise, una risata simile ad uno scampanellio capace di scaldare il cuore di chiunque la sentisse. Passò le lunghe dita candide tra i capelli ricci e scuri del bambino, smuovendoli perché si asciugassero in fretta.
Kiyoomi si girò verso di lei indicandole la sua meravigliosa creazione, la donna abbassò gli occhi e sorrise prima di scoccargli un tenero bacio sulla fronte.
Colmo d’amore, d’affetto.
Il bambino pensò che non avrebbe mai e poi mai smesso di stare accanto a sua madre, che avrebbe trascorso volentieri tutta la vita su quella casa in riva al mare mentre lei gli asciugava i capelli cantando e riempiendolo di baci.
Suo fratello maggiore invece preferiva stare con suo padre, adoravano scappare tra i monti di Tottori per qualche giorno, alla ricerca di quel refrigerio che le spiagge in piena estate non possono regalare.
Sua sorella, piuttosto, era attratta dal suo gruppo di amiche e da quelle gite estive che la tenevano lontana anche intere settimane.
Per cui, per forza di cose, Kiyoomi aveva legato maggiormente con sua madre, che non mancava mai di dimostragli il suo affetto giocando con lui e portandolo a fare lunghe passeggiate.
E si rincorrevano, con le mani colme di conchiglie colorate, con i piedi scalzi in mezzo alle onde che si infrangevano sulla battigia e quei capelli scuri che ricadevano ad entrambi davanti gli occhi.
A volte, quando i suoi zii venivano a trovarli, suo cugino Motoya portava un pallone per giocare e insisteva, come un matto, affinchè Kiyomi imparasse a schiacciare come una vera stella della pallavolo. E quanto si divertivano!
Rimanevano sulla spiaggia fino a sera, quando - stremati da intere ore passate a giocare - si buttavano sulla sabbia a fissare il cielo illuminato solo dalla luna e dalle piccole lucerne che le loro madri appendevano ai pilastri della casa.
«Omi! Ti va un giorno di giocare nella mia squadra?» Toya sollevò i gomiti fino a fissare il cugino negli occhi, scoprendoli appena socchiusi per la stanchezza.
«Vuoi fare il capitano?».
«Sarebbe bellissimo! Avrei la fila di persone che vogliono un autografo e poi diventerei super famoso!» Toya, quando si metteva, era davvero l’entusiasmo fatto a persona.
«Io non lo farei il capitano, sembra noioso. Vorrei solo essere il migliore di tutti! Così quando mi guarderanno giocare tutti faranno “Wow!”».
Toya rise, immaginandosi suo cugino come stella indiscussa del campo. Non ce lo vedeva proprio ad avere la fila per gli autografi.
«Vedremo tra qualche anno, Omi-chan!».
 
«Ehi, Omi, tutto bene?».
 
«Omi! Sei stato bravissimo, piccolo mio!».
La signora Sakusa accolse il figlio tra le braccia, stringendolo al petto con tutta la forza e l’amore che aveva in corpo.
«Hai visto come ho fatto punto?» chiese genuinamente il bambino mentre sorrideva e si scostava i ricciolini sudati dalla fronte.
«Appena ti ho visto schiacciare ho detto “Wow!”».
 
«Posso fare qualcosa?».
 
Kiyoomi ricordava la sensazione che aveva provato quando i muri si erano accartocciati su sé stessi e il soffitto era crollato sulla sua testa, i mostri lo stavano tirando dai piedi e qualcosa tentava di soffocarlo con un cuscino.
E lui urlava e piangeva, senza capire cosa stesse succedendo.
Sapeva solo che la sua pelle scottava così tanto da non sentire più le mani si sua madre stringerlo al petto.
Omi non sapeva che le sue lacrime si stavano mescolando con altre, lacrime di dolore e di disperazione.
Ricordava a stento che qualcosa - o qualcuno - aveva poi cominciato a pungergli un braccio e piano piano i mostri avevano cominciato ad andare via, i muri erano tornati al loro posto e sua madre, che mai lo avrebbe lasciato solo, dormiva su una sedia al suo fianco. Con una mascherina che le copriva il volto.
Perché?
Omi aveva provato a mettersi seduto, ma la testa continuava a girargli e scottava. Aveva la febbre alta, eppure cominciava a sentirsi meglio.
Quello fu l’ultimo giorno in cui sua madre lo abbracciò.
 
 
«Forse hai un po’ strafatto con gli allenamenti, non credi?».

Sua madre gli aveva sempre insegnato ad amare il mare, a baciare sulla guancia e a ridere quando lo tratteneva a lungo in un abbraccio. Lo aveva sempre preso per mano e portato al mercato, gli aveva insegnato a capire quando la frutta era matura solo toccandola.
Lo aveva anche portato alla metropolitana di Tokyo, alla Red Tower e una volta anche in aereo.
Questo prima di quell’infezione che lo avesse portato sul filo del rasoio.
Nessuno aveva mai compreso dove potesse essersi contagiato, ma Kiyoomi non ci mise molto a capire che gli effetti devastanti di quella situazione non erano rimasti solo sulle sue spalle.
Ma anche su quelle di sua madre.
Da allora lei aveva preso ad igienizzare, in maniera ossessiva, ogni cosa che fosse toccato da estranei. Al supermercato infilava i guanti, aveva perfino comprato un’auto per evitare i mezzi pubblici e, piano piano, aveva troncato ogni rapporto sociale.
Sua madre non lo toccava più. Nessun bacio sulla guancia, nessun abbraccio contro il suo petto.
 
Kiyoomi aveva visto sua madre diventare un’altra persona, poi l’aveva vista piegarsi su sé stessa ed infine lo aveva lasciato solo.
In punto di morte gli aveva afferrato un polso - nell’unico contatto ravvicinato degli ultimi anni - e gli aveva sussurrato di non piangere per lei, ma di avere cura di sé stesso.
Perché era vivo per miracolo, e la vita è talmente flebile che basterebbe un colpo di vento per portarla via.
Ma Omi aveva pianto, invece, non potendo fare nulla per tenerla stretta a sé. Perché quella, per quanto si fosse trasformata, era pur sempre la madre che gli aveva insegnato ad amare.
E aveva capito, anche se non subito, che quei litri di igienizzante e quella mascherina che lo costringeva a portare fuori erano il suo modo per tenerlo al sicuro e per dimostrargli il suo amore.
Forse eccessivo, ma pur sempre amore.
Una volta glielo aveva detto.
«Omi, non conosco più nessun altro modo per dirti quanto tengo a te».
 
«Te lo avevo detto che senza di me, in quella squadra, siete davvero persi!».
 
Kiyoomi aveva passato gli ultimi anni delle elementari, le medie e il liceo accanto suo cugino Motoya. Era l’unico con cui potesse togliere la mascherina senza che il pensiero di morire gli si infilasse nel cervello.
Motoya non era mai stato cattivo con lui, sapeva da dove derivasse la sua misofobia e cercava di non alimentarla mantenendo un comportamento normale, senza nulla di eccessivo. Stava attento a non interrompere i suoi rituali di pulizia, non lo costringeva a frequentare luoghi particolarmente affollati e continuava a giocare al suo fianco quando poteva.
Era stato uno shock, per entrambi, ritrovarsi in due squadre diverse dopo il diploma.
Motoya aveva un sacco di amici, ma il pensiero di lasciare solo Kiyoomi gli metteva i brividi. Non era mai stato bravo a socializzare, per ovvi motivi, né ci teneva in particolar modo. Quel suo carattere, però, a lungo andare, lo avrebbe deteriorato fino a far scomparire quel briciolo di umanità che aveva ancora dentro di sé e che usciva fuori solamente quando aveva Toya al suo fianco.
Kiyoomi aveva il vizio di studiare le persone, di catalogarle ed etichettarle per pregi e difetti, per punti deboli e di forza. Non sarebbe stato semplice averlo in squadra e, ciò che temeva ancora di più suo cugino, Omi avrebbe potuto sentirsi non solo a disagio, ma sfruttato unicamente per la sua abilità in campo.
Non che la situazione potesse in qualche modo farlo soffrire, ma quella consapevolezza non lo avrebbe di certo aiutato nei suoi rapporti sociali.
Quello che Toya, però, non aveva preso in considerazione, era che spesso la pallavolo ha il potere di unire e di legare le persone. Il campo diventa il posto dove difendere i propri compagni e portare la squadra alla vittoria.
Ma non solo.
 
«Ma non c’è mica bisogno di tenere su quel muso lungo, dai!»
 
«Bokkun, Hinata, smettetela subito di fare caciara e vedete di filare a farvi la doccia!» Atsumu si chiese se, da lì a qualche mese, avrebbe finito col diventare pelato per lo stress. Nessun pallavolista sarebbe diventato famoso con una bella testa pelata e delle profonde rughe per lo stress.
Suo fratello Osamu lo avrebbe preso in giro, forse – vedendolo disoccupato - lo avrebbe perfino costretto a travestirsi da onigiri al tonno per fare del volantinaggio di fronte la sua bancarella di polpette di riso.
Non solo, sarebbe stato l’unico dei gemelli Miya a sfoggiare quel meraviglioso e morbidissimo ciuffo che tutti gli avevano sempre invidiato.
Atsumu era intento a disperarsi e crogiolarsi nella nefasta visione del suo futuro, quando alzando gli occhi si accorse di ciò che stava per accadere.
D’altronde, c’era da dirlo, lui conosceva Kiyoomi già da tempo e lo aveva in squadra con lui ormai da un anno.
«Hinata! Fermo!» Atsumu riuscì a scivolare in tempo sul campo e a placcare lo schiacciatore più piccolo poco prima che saltasse addosso al suo amico.
«Dai, Tsum-Tsum! Volevo fargli uno scherzo!» si lamentò l’altro mettendo su un adorabile broncio. Gli mancava non poter saltare più sulla schiena di Kageyama, doveva trovare qualcun altro da torturare.
«Vai a dare il tormento a Bokkun, di sicuro non si sentirà solo e Akaashi ne sarà felicissimo, ma non toccare Omi!».
Hinata sospirò arrendevole e si risollevò in piedi dando una rapida occhiata prima ad Atsumu – ancora steso sul pavimento del campo – e poi a Kiyoomi, intento a fissarlo con sguardo sorpreso.
Inarcò un sopracciglio con aria confusa, non per quello strano quadretto, quanto per il fatto che quei due a stento si parlavano.
«Vado a fare la doccia!» annunciò poi recuperando il suo borsone e correndo verso Bokuto, già di fronte lo spogliatoio e con il telefono tra le mani. Sorrideva malizioso di fronte chissà quale messaggio.
Tanto bastò per far dimenticare ad Hinata quello che era appena successo, subito si interessò al suo amico e cominciò a tempestarlo di domande.
Intanto Atsumu si era rialzato e si era voltato verso Kiyoomi che era già uscito dalle docce e si stava preparando per tornarsene a casa. Quando spostò lo sguardo lo trovò che lo fissava come fosse un folle.
«Tutto bene, Omi-Omi?» chiese inclinando il capo e facendo oscillare il suo famoso ciuffo biondo.
L’altro non rispose neppure, troppo intento a scrutarlo come se potesse leggerlo.
«Perché lo hai fatto?» domandò invece, inchiodandolo lì sul parquet della palestra.
Atsumu incespicò un paio di volte sulle sue stesse parole, Omi giurò perfino di averlo visto arrossire.
«So che ti dà fastidio quando ti toccano, quindi l’ho evitato.» spiegò come se fosse ovvio. Omi non aveva però smesso di osservarlo con quello sguardo vispo così differente dal suo.
Passò forse un minuto intero prima che lo schiacciatore decidesse di girare i tacchi e andarsene, senza fare altre domande a riguardo.
In verità, dovette ammettere a sé stesso, cominciava a mancargli l’aria, ma non aveva alcuna intenzione di staccarsi la mascherina dal volto. L’avrebbe tolta solamente a casa, al sicuro tra le sue mura bianche e disinfettate.
 
Omi girò la chiave due volte e lasciò lì all’ingresso le scarpe, indossando le ciabatte e dirigendosi verso il bagno per lavarsi accuratamente le mani.
Abbondò con il sapone e cominciò a strofinare le dita tra loro con particolare cura, dedicò la giusta dose d’attenzione anche agli spazzi subungueali, sfregando energicamente sotto il getto d’acqua calda.
“Atsumu Miya mi ha protetto da quell’Hinata volante!” pensò spostando lo sguardo verso lo specchio e osservando le pieghe appena stese della mascherina che ancora aveva sul volto.
“Nessuno lo aveva mai fatto prima, a parte Toya.” No, decisamente nessuno si era mai preso la briga di assecondare la sua fobia. Di solito lasciavano che se la cavasse da solo.
“Ma lui si è davvero fiondato, permettendomi di non essere toccato. Solo per non infastidirmi?”.
 
«Aspetta, ma stai piangendo?».
 
«Non è da te essere attratto da qualcuno per un aspetto differente dalle sue prestazioni sul campo da gioco. Sono così fiero di te, Omi!» Toya fece finta di asciugarsi una lacrima mentre suo cugino gli rifilava un’occhiataccia e aggiungeva un abbondante cucchiaio di zucchero a quella cioccolata troppo amara.
«Non sono attratto proprio da nessuno, Toya, dacci un taglio!» specificò sedendosi per bene sul suo lato del letto e guardando suo cugino che sfoggiava degli elegantissimi baffi di cioccolata.
«Hai appena elencato almeno tre o quattro situazioni su Atsumu Miya che non riguardano minimamente la pallavolo. Come lo chiamiamo?!».
E Toya aveva ragione, aveva elencato diversi punti che, nelle ultime settimane, lo avevano più volte sconcertato.
  1. Atsumu Miya gli aveva preso una bottiglia d’acqua dal distributore e gliel’aveva portata senza toccarla con le mani, ma solo con la stoffa pulita della sua felpa. Inoltre, era stato così discreto che nessuno se n’era accorto.
  2. Atsumu Miya gli aveva lasciato in mano, di nascosto, le chiavi dello spogliatoio, in modo da essere il primo a poter fare la doccia senza che questa potesse essere contaminata.
  3. Sempre quel testone di Atsumu Miya era riuscito a convincerlo ad uscire insieme al resto della squadra per andare a mangiare il ramen nel nuovo ristorante a fianco la palestra. In suddetto evento, gli aveva riservato il posto accanto la finestra, tenendolo lontano dall’andirivieni del corridoio.
  4. Non ultimo in ordine di importanza, Atsumu era tornato a casa con i capelli bagnati perché gli aveva prestato il suo asciugamano ancora intatto, dopo aver visto quello di Omi volare a terra – sempre a causa di Hinata e Bokuto che giocavano nello spogliatoio neanche fossero due bambini dell’asilo.
 
«Anziché stare lì ad analizzare ogni singolo respiro di quel povero setter, perché non vai da lui e gli chiedi come mai si prende così tanta cura di te?».
«Prendersi cura di me?! Scherzi, Toya? Io non ho bisogno di qualcuno che si prenda cura di me, sono abbastanza grande da cavarmela da solo!».
«Come quella volta in cui ti rifugiasti sul retro di un parcheggio perché un gruppo di giornalisti ti aveva assaltato per farti delle domande?».
Kiyoomi si appuntò mentalmente di trovare un modo per eliminare la memoria a suo cugino.
«Avrei voluto vedere te al mio posto, con tutti quei microfoni colmi di saliva e quelle mani sudicie che si spintonavano. Bleah!» commentò rabbrividendo al solo ricordo.
«Io ne avrei approfittato per farmi fare qualche bella foto e finire su tutti i giornali, Omi, ma tu sei fuggito e ci ho messo un’ora abbondante per trovarti prima che cominciasse la partita!».
Kiyoomi gli rifilò l’ennesima occhiataccia che l’altro ragazzo non classificò come intimidatoria, ma più come “E’ successo una volta sola, non rigirare il coltello nella piaga”.
«Atsumu Miya non si prende cura di me.» dichiarò mettendo fine all’implicita discussione che stavano portando avanti ormai da ore.
«Ma ti rispetta come nessun altro ha mai fatto, almeno questo devi concederglielo».
 
E quella frase gli era rimasta impressa per tutto il tempo del viaggio sul bus da Tokyo fino ad Osaka. Atsumu dormiva in una posizione poco elegante, con la bocca aperta e la testa poggiata al finestrino.
Omi non si chiese nemmeno da dove Hinata avesse tirato fuori un barattolo di marmellata alle fragole con cui aveva preso a spalmargli il viso, mentre Bokuto faceva il palo e lo nascondeva agli occhi del coach.
Ventidue e ventiquattro anni. Da qualche parte all’anagrafe, dicevano.
Kiyoomi non si dava pace, non capiva perché per quel ragazzo fosse ormai naturale coordinarsi con i suoi rituali di pulizia, quante volte era perfino rimasto vicino il lavandino a chiacchierare, mentre lui si ripuliva le mani dopo una partita o un allenamento. Nel suo lavaggio accurato di ben cinque minuti.
Ci doveva essere un motivo. Sicuramente stava studiando i suoi punti deboli per poterli sfruttare in campo.
“Omi, giocate nella stessa squadra!” avrebbe urlato Toya fingendo di sbattere la testa contro il muro.
E se quella non era la motivazione, allora l’altra poteva essere solo …
Non studia i suoi punti deboli per poterli sfruttare, ma per poterlo –
 
«Kiyoomi, rispondimi!».
 
«Ehi, Omi Omi, prenderai freddo se rimarrai ancora qui fuori. Vuoi la mia sciarpa?» Atsumu lo aveva raggiunto sul piccolo balcone della loro camera in comune per il periodo della trasferta. Kiyoomi era quasi poggiato al muro esterno e se ne stava fermo a guardare le stelle e a riflettere su chissà quale problema.
Al setter era venuto istintivo togliersi la sciarpa e porgergliela, si era sinceramente preoccupato per la sua salute e mai e poi mai avrebbe voluto conoscere un Omi raffreddato. Doveva essere terrificante avere a che fare con un germofobo mentre espelle germi solamente respirando.
«La tua sciarpa?» chiese di rimando Kiyoomi, inarcando un sopracciglio confuso. Senza mascherina – pensò Atsumu – era persino carino quando piegava le labbra in qualcosa di vagamente simile ad un sorriso.
Poi capì: la sua sciarpa era veicolo di infezione, senz’altro.
«H-hai ragione, scusami!» sospirò portando una mano alla testa e tornando indietro, le guance rosse per la vergogna. Lui che ci stava sempre così attento, ecco che cadeva inciampando sui suoi stessi piedi.
Poi accadde qualcosa di inaspettato e Atsumu sentì delle mani – fredde – sfiorare le sue dita e tirare via – delicatamente – la stoffa.
Omi la studiò, come se in quella sciarpa ocra potesse nascondersi la risposta a chissà quale quesito universale. Poi la poggiò al collo e la fece girare intorno ad esso, avvolgendosi e sentendo – per la prima volta dopo tantissimi anni – il profumo di qualcosa che non fosse il detersivo o il disinfettante.
Era caldo e dolce, un profumo che sapeva di giorni felici. Quello, si disse, doveva senz’altro essere l’odore di Atsumu. Si chiese se anche le sue magliette profumassero di buono, e si chiese se qualcosa di così bello potesse davvero nascondere della roba sudicia come germi e batteri.
Kiyoomi si voltò e notò la faccia sconvolta di Atsumu, se non si fosse sbrigato a richiudere la bocca, l’avrebbe sicuramente trovata piena di mosche.
«A che gioco stai giocando, Miya?» gli chiese candidamente mentre lo vedeva riacquistare colore.
«Co-cosa?!» rispose poi quello, non appena i neuroni tornarono a collegarsi.
«Perché ti interessa se prendo freddo?» disse ancora, inchiodandolo con lo sguardo.
Atsumu era rimasto lì, impalato e rosso come un pomodoro. Si sentiva un adolescente alla prima cotta.
«Lo faccio perché non voglio che tu stia male.» rispose poi, sperando di aver scelto le parole giuste. Vide i ricci scuri dell’altro ciondolare un po’, segno che la testa era stata appena inclinata.
«E le altre volte, Miya? Perché stai sempre così attento a ciò che mi succede intorno?».
Atsumu parve sorpreso, le guance tornarono candide e riuscì perfino ad alzare gli occhi.
«Questa la so! – sorrise lievemente – Lo faccio perché quando ti senti al sicuro ti rilassi e mi diverte chiacchierare con te!».
Stavolta fu Kiyoomi ad arrossire. Con quale faccia veniva a dirgli una cosa simile?!
Divertirsi a parlare con lui?! Era un misofobo fissato con la pallavolo che non faceva altro – da anni – se non studiare gli avversari oltre la rete e quelli sul suo stesso campo.
Come poteva trovare piacevole fare conversazione?!
«Mi prendi in giro?!».
«Può darsi, chi lo sa? – Atsumu fece spallucce e sorrise sornione mentre riapriva la porta della loro camera – Comunque quella puoi tenerla se vuoi. Evita di ammalarti».
 
«Perché non vuoi parlarmi?»
 
Kiyoomi Sakusa odiava Atsumu Miya. Questo era accertato.
Lo odiava quasi al pari di germi e batteri perché, ovunque si girasse, era sempre lì! Sempre in mezzo ai piedi con quei capelli orribili e il ciuffo altrettanto brutto.
Almeno, per i germi, poteva utilizzare i disinfettanti. Con lui?
Sul serio non esisteva un repellente per gli Atsumu Miya?!
 
Kiyoomi non fece neanche finta di sorprendersi e – se avesse potuto – avrebbe sospirato. Quell’idiota del suo setter era appena capitombolato sulla sabbia a causa di un masso troppo grosso e ora, completamente impanato e inumidito, se ne stava a faccia in giù a qualche metro da lui.
«Omi-» esclamò cominciando a sputacchiare sabbia mentre tentava di ripulirsi gli occhi, aveva a tracolla il suo borsone degli allenamenti e sembrava trascinarlo con molta cura mentre gli si avvicinava.
«Sei qui, Omi, menomale! Ti ho cercato dappertutto, ho anche chiamato Motoya, non sapevo cosa fare, dimmi tu cosa fare!».
Kiyoomi rimase a fissarlo, avrebbe voluto abbassare un sopracciglio e chiedergli se fosse scemo a farsi venire un attacco di panico davanti un germofobo che stava avendo un attacco di panico ma, per sua fortuna, non ci riuscì.
Così rimase immobile, lì su quel quadretto che si era ritagliato appoggiando la sua giacca sulla sabbia e sedendosi di sopra.
«Ehi, è stata colpa di quei giornalisti, vero? Sono stati davvero troppo invadenti anche per i miei gusti. E tu sai quanto mi piaccia stare al centro dell’attenzione ma, insomma, i primi piani così vicini fatti dal basso mi fanno sembrare un ciccione col doppio mento, dovrebbero saperlo!» Atsumu si accigliò, risentito per quell’invasione e quelle interviste poco discrete, ma durò solo un secondo perché le labbra di Omi si stesero in un tiepido sorriso divertito.
«E’ vero.» riuscì a rispondere, a bassa voce.
Atsumu tornò serio e incrociò il suo sguardo scoprendo gli occhi lucidi e arrossati dell’altro. Omi non si mosse, ma prese un respiro per continuare a parlare.
«Ho visto un’orda di gente fiondarsi addosso a noi, con quei microfoni sputacchiati e le telecamere, allora ho guardato nel corridoio ma vedevo solo germi. Avevo pensato allo spogliatoio, ma anche lì vedevo solo germi, e il campo, la saletta privata, vedevo solo germi ovunque e sono -» Omi cercò di riprendere fiato.
Era andato nel panico eppure, forse Atsumu nemmeno se n’era accorto, aveva notato come l’altro avesse aperto un braccio verso di lui spingendolo un po’ dietro di sé, quasi volesse proteggerlo.
«Va tutto bene, Bokkun si è beccato tutti i riflettori e ha tenuto occupati i giornalisti, ora se ne sono andati. Non c’è più nessuno a parte noi e il campo. Comunque ti ho portato questi, ho pensato che forse ti avrebbero fatto stare meglio.» Atsumu scrollò la sabbia dal borsone e lo aprì scoprendo guanti e disinfettanti per mani e superfici.
Prese un fazzoletto di carta e afferrò una bottiglietta porgendola ad Omi, che intanto era tornato a perdersi tra i suoi pensieri.
Atsumu non l’aveva protetto dai giornalisti solo per poter “fare conversazione” con lui serenamente, né per lo stesso motivo era andato a cercarlo portando con sé il suo kit di sopravvivenza.
Questa volta non lo stava nemmeno proteggendo da un raffreddore, allora –
«Perché?» chiese ancora, inchiodandolo per la seconda volta ancora con il disinfettante a mezz’aria.
Atsumu parve capire subito la domanda, non era tanto lontana da quella che gli aveva fatto solo due sere prima. Sentì la gola asciugarsi, ma poi decise di essere quanto più sincero e schietto possibile.
Glielo aveva insegnato Hinata, e quella testolina rossa sapeva bene come approcciarsi alla gente. Tranne ad Omi, ovviamente.
Ma, se avesse evitato di saltargli addosso, forse avrebbe funzionato.
«Perché non conosco nessun altro modo per dimostrare quanto tengo a te».
 
«Omi, non piangere! Ti prego rispondimi perché io non posso toccarti ora».
 
Atsumu cominciò a imprecare ad alta voce. Maledì suo fratello, i suoi onigiri e il sakè che si sposava benissimo ai suddetti onigiri del suddetto fratello.
Osamu se n’era andato quella mattina, per nulla toccato dalla sbronza madornale che la sera precedente si erano presi. Non solo, gli aveva scattato delle foto e l’aveva preso in giro sul gruppo dell’ex Inarizaki scrivendo “Mio fratello è diventato ancora più pappamolle!” e aggiungendo meravigliose gif di pupazzetti che vomitavano l’anima, ottima rappresentazione di come si era consumata quella notte.
Atsumu, ricordando quel messaggio, si appuntò mentalmente di dare fuoco alla bancarella di polpette di riso di Osamu. Ma non in quel momento, qualcuno aveva preso a citofonare insistentemente alla porta e doveva assolutamente rispondere.
Non riusciva a parlare, non senza sentire ancora quel saporaccio in bocca, così si limitò ad aprire e a guardare, ancora tra l’assonnato e il confuso, lo sguardo preoccupato di Kiyoomi, in piedi sul pianerottolo in piena tenuta anti-contagio.
Atsumu non collegò nemmeno perché fosse lì, gli fece cenno di aspettare un solo secondo e richiuse la porta.
Kiyoomi Sakusa lo aveva raggiunto fino a casa per un motivo a lui oscuro ed era dietro la porta.
Atsumu filò in bagno a lavarsi i denti e a darsi una sciacquata veloce, diede un’occhiata alla cucina – unico luogo rimasto pulito grazie a suo fratello e alla sua abitudine di tirare a lucido appena finiva di cucinare – e decise che sì, poteva fare accomodare Kiyoomi senza che questi tentasse di suicidarsi dal secondo piano.
Riaprì la porta, l’altro non si era mosso di un passo e stringeva ancora tra le mani una busta di plastica piena di roba.
«Entra pure, la cucina l’ha pulita ‘Samu, non dovrebbero esserci problemi!» lo tranquillizzò sconfezionando un paio di ciabatte da offrirgli.
Chissà come mai qualche mese prima ne aveva prese un paio nuove di zecca…
«’Samu? Tuo fratello è qui a Tokyo?» chiese l’altro abbassando un sopracciglio e accettando di buon grado le pantofole che gli aveva messo a terra.
«E’ tornato ad Osaka stamattina, ieri mi ha voluto fare una sorpresa per comunicarmi una certa notizia.» ripensò agli occhi innamorati di suo fratello che gli confessava di essersi innamorato, ma questo non frenava le sue voglie piromani nei confronti della povera bancarella di onigiri.
Kiyoomi assottigliò le palpebre, con sguardo di chi riesce finalmente a risolvere un rebus e comincia a spiegarsi tante cose.
«Quindi non hai l’influenza?» chiese ad Atsumu, intento a farsi un caffè per riprendersi dai postumi. Aveva perfino poggiato la testa al frigorifero nella speranza che smettesse di girargli.
«Ah? No, ieri ‘Samu mi ha fatto alzare un po’ il gomito e stamattina mi sentivo davvero uno straccio, ma non potevo di certo dirlo a Barnes. Piuttosto, tu che ci fai qui?».
Non si udì alcuna risposta. Spostò gli occhi sulla sedia su cui Omi si era accomodato, scoprendola vuota.
«Ma che cavolo?!» Atsumu si fiondò nel corridoio dove l’altro era intento a pulire le scarpe prima di rimetterle ai piedi.
«Dove stai andando, Kiyoomi?! Sei appena arrivato!» gli fece notare senza capire nulla di quello che stava succedendo.
Poi notò la busta di plastica che il suo amico aveva tenuto in mano fino a quel momento e, preso da una strana curiosità, la aprì.
Paracetamolo a compresse.
Cortisone spray nasale.
Sciroppo al miele per la gola.
Una bottiglia di disinfettante e - Atsumu pensò che avrebbe potuto mettersi a piangere – vi era una confezione di cioccolatini a forma di pillole, le “Chocoprofene”.
«Tu, avevi portato queste cose per me?» chiese con un filo di voce, ormai commosso.
Omi era rimasto seduto sullo scalino all’ingresso con il suo disinfettante a mano, senza sapere se tenere le ciabatte ai piedi o tenere la sua dignità e scapparsene strappandogli la busta di mano e negando per sempre quello che aveva appena scoperto.
«Il coach stamattina ha detto che stavi male e non saresti venuto, ieri ha fatto parecchio freddo e ho pensato all’influenza stagionale o ad un raffreddore. Poi non rispondevi ai messaggi, ho pensato che sarebbe stato carino farti una sorpresa».
Atsumu aveva definitivamente perso l’uso della parola e aveva rischiato un infarto.
Kiyoomi Sakusa aveva appena detto la parola carino arricciando le labbra in un broncio così tenero che avrebbe steso chiunque.
Stava per ribattere qualcosa su quanto quel gesto lo avesse colpito quando, con lo stesso rumore di una bomba che esplode, la caffettiera ancora sul fuoco non saltò in aria.
 
Omi non infilò le scarpe solo perché Atsumu, urlando, gli aveva chiesto di insegnarli a smacchiare le mattonelle.
Ed evitare di dare fuoco alla cucina.
 
«Cos’è che ti spaventa?»
 
Sakusa guardò la donna dritto in faccia, con sguardo deciso.
«Io non credo di essere malato, ma ho bisogno del suo aiuto per riuscire a fare una certa cosa».
«Esattamente cosa lo ha spinto a cercarmi allora, se non è la voglia di guarire?».
«Ho un desiderio che i germi mi impediscono di avverare».
«E quale sarebbe?».
«Voglio baciare una persona».
 
Ci erano voluti circa quattro mesi di terapia per riuscire nel suo intento.
Omi aveva continuato a frequentare Atsumu e ad invadergli casa ogni qualvolta ne sentisse l’esigenza o ne avesse voglia.
Atsumu sembrava entusiasta di questa abitudine, gli aveva perfino preparato il letto che solitamente utilizzava suo fratello – momentaneamente relegato ad Osaka – quando aveva la felice idea di andarlo a trovare.
Sperava di compiere un passo in più, un giorno o l’altro, ma al momento gli andava bene così.
Kiyoomi era strano ormai da qualche mese: toglieva la mascherina prima di entrare a casa sua e mai dopo, quando si fermava a dormire gli lasciava lavare il proprio pigiama nella sua lavatrice così lo trovava già pulito la volta successiva, non disinfettava più le posate che gli porgeva e – potè constatare con una punta di gioia – a casa sua sembrava rilassato come lo era nella propria.
Più in generale, Kiyoomi sembrava fidarsi di Atsumu e delle sue abitudini fino a voler abbassare la guardia.
Il culmine dello stupore, però, arrivò una notte.
Atsumu, nel proprio letto, dormiva già da un paio di ore. Aveva la testa affondata nel cuscino così morbido da farlo affossare e farlo sembrare, da lontano, un cespuglio di capelli dorati. Non russava – per fortuna – ma respirava così profondamente che era possibile vedere le coperte muoversi su e giù in modo scandito.
Kiyoomi non riusciva invece a prendere sonno, non sopportava nemmeno le lenzuola sul proprio corpo, motivo per cui finì per mettersi seduto e cercare di fare quello che la dottoressa gli aveva consigliato.
“Quando senti che sta salendo l’ansia, fermati e cerca di capire cosa la scatena”.
Kiyoomi prese un respiro profondo e non gli ci volle molto a capire cosa stesse mandando in fumo il suo cervello: era il profumo di Atsumu.
Si era abituato a quell’odore dolciastro dato dal mix del deodorante, del dentifricio e del detersivo all’argan. Ma, doveva essere onesto con sè stesso, era anche il profumo della sua pelle e lo aveva scoperto la prima volta quando si era avvicinato al suo collo – spontaneamente – mentre Atsumu era intento a tagliuzzare delle verdure.
E quel profumo dolciastro gli stava mandando in pappa i neuroni e stava attivando, in modo assai maligno, tutti gli ormoni che per anni erano stati rintontiti dall’odore dei disinfettanti.
Omi voleva baciare Atsumu e lo voleva fare esattamente in quel momento.
E non voleva pensare agli ottantamila batteri che si sarebbero scambiati in circa dieci secondi di bacio. Non sapeva nemmeno se sarebbe durato un’eternità come dieci secondi senza svenire.
Ma Omi, quando voleva qualcosa, lottava finchè non la otteneva. Anche se questo avesse significato dare delle stilettate alla sua ossessione per i germi.
Si alzò dal letto e infilò le ciabatte senza curarsi di indossare i calzini (stilettata numero uno), si avvicinò ad Atsumu e cominciò a scuotere il suo piumino (stilettata numero due) finchè non lo vide riprendere coscienza.
«’Tsumu, potresti venire con me un momento?» chiese con sospetta gentilezza mentre l’altro gli afferrava un polso e cominciava ad alzarsi.
«Stai bene, Omi? E’ un attacco di panico? Cosa-» Atsumu non ebbe il tempo di collegare i pochi neuroni rimasti vigili che si ritrovò trascinato dentro il bagno e poi dentro la doccia. Con tutto il pigiama e solo con la luce sopra il lavandino ad illuminare, in penombra, il volto deciso dell’altro ragazzo.
«Omi, cosa stai facendo?» chiese, ora decisamente più sveglio, mentre si ritrovava con le spalle contro le mattonelle fredde.
«Ci ho pensato a lungo e questa mi sembra l’unica soluzione per porre fine a questa tortura!» spiegò piccato e quasi arrabbiato con sé stesso mentre sentiva i polmoni chiedere ossigeno.
Lo stava facendo davvero. Kiyoomi Sakusa lo stava facendo davvero.
Aprì il getto d’acqua calda – che inizialmente arrivò congelata sulla testa di Atsumu che non riuscì a trattenere un gemito – ed ebbe l’accortezza di togliere le pantofole prima di chiudersi nella doccia con lui. L’acqua, ora calda, li aveva ormai inzuppati entrambi – e lavati - e Omi potè finalmente sorridere e afferrare il volto del suo setter senza che l’ansia gli mordesse il petto.
Atsumu non capì esattamente come andarono le cose, sapeva soltanto che le labbra di Kiyoomi erano decisamente morbide quanto inesperte e ben lontane dalla volontà di schiudersi per permettere alla sua lingua di saggiare quel territorio inviolato.
Con l’irrisoria stoffa leggera del pigiama – zuppa e ben adesa ai loro corpi – Omi poteva sentire perfettamente il petto del ragazzo contro il suo e poteva contare le sue vertebre sotto le dita.
Al decimo secondo, Kiyoomi pose fine al bacio sorridendo al sé stesso che pochi minuti prima avrebbe giurato di svenire (stilettata numero tre).
Atsumu aprì gli occhi, stravolto da quella novità, e gli sfiorò il volto accaldato con le dita, sentendo finalmente di poterlo toccare senza essere rifiutato. Quanto erano belli quei piccoli ricci scuri che scendevano sulla sua fronte!
«Se vorrai farmi fare una doccia tutte le notti per tutta la notte, sappi che per me va bene!» ci tenne a precisare mentre sentiva anche i suoi ormoni partire per un viaggio senza ritorno.
«Lo spero per te, perché non credo accadrà raramente.» sussurrò l’altro tornando a baciarlo. E con che tono lo aveva detto, Atsumu lo avrebbe definito quasi sensuale e non ci aveva messo troppo ad aggrapparsi alla sua maglietta per non cadere in ginocchio.
Quel ragazzo sarebbe stata la sua meravigliosa rovina.
Omi invece sentiva il profumo di Atsumu avvolgerlo – finalmente – e mescolarsi con i loro sospiri. Avrebbe potuto diventarne dipendente, lo strinse ancora senza paura mentre l’acqua cominciava a scottare.
«Credo di amarti, Omi.» sussurrò Atsumu prima di incollare nuovamente le proprie labbra su quelle dell’altro.
“Lo credo anche io”.
 
 
«Allora?».
 «Ho paura, Atsumu».

 
E di cosa? E’ da quando mi sono svegliato che te ne stai lì, seduto per terra in un angolo senza dirmi nulla!» Il tono di Atsumu era colmo di apprensione, detestava vedere Omi in quello stato.
Soprattutto dopo averlo visto sorridere così tanto negli ultimi sei mesi. Sei mesi da quei baci – rigorosamente a stampo! – dati in piena notte sotto la doccia.
«Ho paura del fatto che tu possa morire.» confessò l’altro senza smuoversi e mantenendo la voce atona.
«Morire?! Omi, sei impazzito, perché dovrei morire?!» Atsumu scese dal letto – formato dall’unione di quelli che una volta erano due lettini – e si avvicinò cauto.
Non poteva toccarlo durante un attacco di panico, lo sapeva bene, e soprattutto non poteva toccarlo visto che quella mattina si era svegliato con una linea di febbre.
«Ti sei ammalato, io non sono stato abbastanza attento negli ultimi mesi e tu ti sei ammalato e morirai» la voce di Omi era così atona e monocorde da far paura.
«Kiyoomi, cosa stai dicendo?» il tono di Atsumu era dolce quanto preoccupato, era lui quello che probabilmente la sera prima aveva preso un colpo d’aria (Dato che continuava a prestare la sciarpa ad Omi visto che era l’unico suo indumento che accettava) e quello preoccupato della morte era il suo ragazzo?
«E’ successo quando ero piccolo. Mi è salita la febbre poco a poco e sono finito all’ospedale con un’infezione e mia madre mi ha detto che la colpa era sua. Non era stata abbastanza attenta e per quello mi avrebbe perso» Non aveva nemmeno scollato gli occhi dal muro di fronte, a stento batteva le ciglia.
Kiyoomi Sakusa stava annegando in un attacco di panico.
«Omi, ma tu sei qui. Sei qui, stai parlando con me, mi vedi?».
«Io sono qui, è vero. Ma lei no».
Atsumu sentì il sangue gelarsi nelle vene. Scivolò per terra, poggiando la schiena contro il letto, a quasi un metro da Kiyoomi.
Non gli aveva mai parlato granchè della sua vera famiglia. Per lui la concezione di “famiglia” si fermava a Motoya, suo cugino.
Una volta gli aveva confidato che quella parola, per lui, aveva lo stesso sapore che aveva il disinfettante.
«Omi, amore …».
«Mia madre è morta, non so nemmeno il reale motivo, ma aveva la febbre. Ed è morta.» Omi aveva cominciato ad iperventilare, sentiva il petto andare su e giù senza controllo e non era nemmeno certo che fosse normale vedere le pareti accasciarsi.
Di nuovo.
Come vent’anni prima, si stava ripetendo tutto.
Le pareti, l’aria che bruciava nei polmoni.
«Omi, Omi devi starmi a sentire!».
La voce di Atsumu non era lontana come quella di sua madre. Era decisa ed era esattamente di fronte a lui, poteva vederlo, con gli occhi spalancati lo fissava come se non avesse alcuna intenzione di lasciarlo andare.
«Ti prometto che non morirò, non morirò mai finchè tu avrai bisogno di me e starò tutta la vita al tuo fianco se vorrai. Ti amo, Kiyoomi, e se oggi posso baciarti e la sera facciamo l’amore è solo perché insieme possiamo sconfiggere qualunque paura, e questa non fa eccezione».
Il petto cominciò a bruciare meno. I polmoni sentirono l’aria entrare ed espanderli.
«Prometti che non morirai?».
«Prometto che non morirò».
Omi fece una cosa che non avrebbe mai creduto di fare durante un attacco di panico: aprì le braccia.
Atsumu non se lo fece ripetere due volte e accolse l’invito gettandosi contro di lui e stringendoselo contro il petto. Omi poteva sentire la pelle scottante dell’altro, il suo respiro appena affannato e quelle braccia possenti che lo tenevano stretto.
E le pareti tornarono al loro posto.
Atsumu era lì con lui, non se ne sarebbe andato.
E lo stava stringendo.
«Mi piace.» confidò Omi, con un filo di voce, mentre si accoccolava nell’incavo del suo collo.
«Questo tuo modo di dimostrare che mi ami».
 
 
 
 
 
«Omi, posso curarmi con le Chocoprofene, vero?».
«Non so di che parli».
«Ehi! La mia scatola di Chocoprofene è scomparsa! L’avevo messa qui!».
«Non sai che il cioccolato, posto in luoghi non refrigerati, va a male?».
«E dove lo hai messo?».

«...».
«Omi! Sei davvero incredibile!».
 
 


Angolo autrice: Incredibile, mi sono divertita scrivendo di Atsumu Miya!
E’ proprio vero che non bisogna mai dire mai, soprattutto in questo fandom, noto.
Sono sorpresa tanto quanto lo saranno le persone che mi conoscono e sanno quanto Atsumu mi sia intollerabile ma, devo dire, ho fatto questa magica scoperta della SakuAtsu e Sakusa – che da subito mi ha incuriosito, ma non avevo mai approfondito – me l’ha fatto quasi tollerare.
La verità è che questi due sono tremendamente carini assieme e mi si riempie il cuore a pensare che Sakusa possa decidere di uscire – seppur parzialmente – dalla sua misofobia proprio grazie alla voglia di passare la sua vita accanto Atsumu. E sulle sue labbra, per la precisione.
Ringrazio LorasWeasley e muffin12, è solo grazie a loro se ho scoperto questa ship!
E ringrazio la mia meravigliosa psico-coinquilina, Eri-cchan! E’ stata lei a dirmi che Sakusa avrebbe baciato Atsumu solamente quando sarebbe stato pronto ad ignorare gli ottantamila batteri che mediamente ci scambiamo con un bacio da dieci secondi (l’ho letto da qualche parte online!) e da qui è nata la scena della doccia. Sakusa, pur di mettere a tacere il suo lato germofobico, mette in atto delle strategie per domare l’ansia.
Atsumu non mi pare dispiaciuto, in tutto ciò.
Smetto di delirare e torno al mio posto! Ci rivediamo presto, forse con una KageHina ancora in fase di revisione.
Grazie a tutti voi!
-SkyDream

P.S. ho avuto problemi con l'HTML, spero non siano scomparse delle battute!
   
 
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