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Autore: Dira_    09/01/2021    3 recensioni
[Seguito de "Nella Selva Oscura"]
Castiglioscuro non è più un problema per le Silvani. Lo è il bosco, e ciò che contiene.
Un mostro si è risvegliato tra gli alberi e una barista di paese si è resa conto che non più essere soltanto quello.
Rosi deve tornare nell'Altrove, un mondo popolato da spettri, criptidi e mostri; deve trovare il coraggio di affrontarli e forse affrontare sé stessa.
Nell'Altrove è facile smarrirsi: puoi dimenticare di essere un mostro per scoprire il primo amore, puoi cominciare a dubitare che obbedire agli ordini sia sempre giusto. Puoi scoprire che no, non lo è.
Perché nell'Altrove vi è una sola certezza: una volta che lasci il sentiero, è allora che la storia comincia davvero.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3.
 
 
Camminare nel bosco aveva sempre rilassato Bice.
Era riempirsi di una quieta energia che profumava d’erba e terra. Era ascoltare rumori, voci e suoni in una lingua che comprendeva. Era tornare a casa.
In quei giorni però, il bosco non era per lei motivo di gaiezza, semmai di angoscia. Era infatti con quel sentimento che si era diretta all’appuntamento con Fortunato sotto la grande quercia. La quercia era, come lasciava intuire il nome, la più imponente del bosco. Era nata ben prima degli uomini poiché svettava oltre le chiome degli altri alberi, un gigante che la salutava ogni volta con bassa voce profonda di anziano. Bice ne aveva toccato il tronco rugoso, appoggiandovi la fronte, traendone calma. Sua madre quando era bambina le aveva raccontato di come la prima Silvani fosse nata dal cavo di una quercia e avesse vagato nel bosco finché non si era imbattuta in un uomo, innamorandosene e decidendo di seguirlo nel Clarus. Da bambina l’aveva ritenuta una scelta piuttosto stupida, ma non la pensava più così. Specialmente da quando poteva udire la voce di Fortunato chiamarla.
Il senese, scostando le grandi felci del sottobosco, le si era avvicinato, tendendo le mani per attirarla a sé. Bice aveva lasciato l’albero per farsi avvolgere dalle braccia dell’uomo, ispirando il suo odore, percependo la sua stretta come miele profumato in una fredda giornata d’inverno.
Forse la sua antenata non era stata così stupida. I figli del Clarus avevano dei pregi. “Bice,” l’aveva apostrofata con dolcezza, “mi dispiace per il ritardo, ma ho trovato qualcosa che volevo mostrarvi.” L’aveva sciolta dall’abbraccio, frugando nella scarsella che portava attaccata al cinturone, dall’altro lato rispetto al fodero della spada. Ne aveva tratto un panno ripiegato con cura più volte, che aveva dispiegato, mostrandole, tra le mani, quello che era …
“È la pelle di un serpente,” aveva detto Bice prendendola con la punta dell’indice e del pollice. Era uno scheletro fragilissimo, una porzione di pelle di rettile, ma grande quanto il palmo della sua mano. 
“Di queste dimensioni?” aveva domandato stupefatto. “Lo pensavo anch’io, ma…”
“Fortunato,” l’aveva interrotto, “abbiamo appena trovato il mostro.”
 
***
 
Se uscissero dalla caverna e vedessero le cose alla luce del sole
si renderebbero conto di aver vissuto in un mondo di apparenze.
(Platone, Il mito della caverna)
 
 
“E quindi dobbiamo entrare lì dentro…”
I due toscani stavano aspettando Ettore accanto allo squarcio tra le rocce che segnalava uno degli ingressi delle Porte per l’Inferno. Il buon carabiniere rimpianse di non aver portato con sé neppure uno dello sterminato esercito di santini che sua nonna gli infilava nelle tasche ad ogni festa comandata. Magari non sarebbero comunque serviti a nulla, ma almeno non si sarebbe sentito disarmato di fronte ad un buco nero da cui spirava aria gelida e che odorava di cose morte. “Non ci dovremo entrare attrezzati?”
Tobia si strinse nelle spalle. “Il percorso è accidentato, ma non più del sentiero che ci ha portato qui.”
Ettore accese la torcia – fiera dotazione dell’Arma – e inspirò. “Vabbuò. Fatemi andare per primo. Se esce qualcosa, son l’unico armato.”
“Il serpe regolo non caccia di giorno,” ribatté Rosi lasciandolo però passare. “Ieri qualcosa deve averlo disturbato. Secondo i bestiari di giorno non corriamo rischi. Quindi cerchiamo di trovare tracce e capire dov’è la tana, scattiamo delle foto e portiamole ai Sorveglianti,” snocciolò quell’affastellarsi di eventi con tono spiccio, quasi volesse farli avverare solo pronunciandoli.
 
La grotta li inglobò in un enorme abbraccio scuro, che spense la luminosità di quella giornata di mezzo Agosto. Anche la temperatura calò ed Ettore si trovò le mani gelate in pochi attimi. L’aria era stantia, umida, e l’odore di uova marce era così forte da nausearlo. “… ma ‘sto odore?” domandò.
“L’ho sentito anche al ponte della manolonga,” osservò Tobia, che chiudeva la fila e teneva la propria torcia abbastanza in alto per illuminare le pareti irregolari della grotta. L’acqua le impregnava, disegnando lunghe gocce che finivano a terra, rendendo il pavimento denso di fango scivoloso. 
Rosi si arrestò. “Non ho trovato nulla riguardo all’odore che dovrebbe emanare un serpe regolo … ma potrebbe essere lui.”
“Odore di zolfo, l’odore del Diavolo,” mormorò Tobia e Ettore avrebbe voluto tirargli un pugno perché non era il momento di sussurrare robe lugubri … o forse sì ed era proprio quello il problema. “Ti ricordi la leggenda Roísín?”
L’interpellata sospirò. “La leggenda delle Sette Porte per l’Inferno … Ce l’avranno raccontata mille volte,” e poi, a suo evidente beneficio, cominciò: “Il Diavolo uscì dall’Inferno e trovandosi solo, scavò sette porte nella Montagnola, per poter portare i diavoli sulla terra. Seminò panico e terrore finché un prete virtuoso riuscì a ricacciarlo da dove era venuto. Fine,” fece una smorfia che riassumeva cosa ne pensasse di quel racconto, “classica storiella medievale per terrorizzare il popolino.”  
“Nel Medioevo si pensava che le Creature dell’Altrove fossero demoni … la leggenda potrebbe essere frutto di qualche avvistamento,” disse Tobia. Poi parve colpito da un’idea improvvisa: “E se il Diavolo fosse in realtà la Creatura che fu uccisa da Bice? Le due storie dovrebbero essere coeve … Forse è per questo che la ricerca della tua prozia non è stata mai inserita in un Bestiario,” continuò, “avrebbe invalidato la leggenda delle Sette Porte.”
“Ti stupisce che quei baciapile di Siena abbiamo preferito un prete come eroe ad una strega?” commentò ironica l’altra. “Comunque, non importa. Quello che ci deve interessare adesso è il presente.” 
 
“Non riesco a capire da dove sia uscito il mostro.”
Rosi lo disse mentre la stretta galleria che stavano percorrendo sfociava in uno spazio circolare: era una caverna, di quelle che si poteva ammirare a volte nei documentari, traboccante di pinnacoli di roccia che si alzavano da terra o scendevano dal soffitto. Era una foresta di pietra sommersa, e le torce riflettevano colori caldi, quasi dorati. Sarebbe stato uno spettacolo affascinante, se non fosse stato per il motivo per cui erano lì. “L’Altrove della Montagnola si sta depauperando … il serpe regolo, inoltre, ovunque leggo risulta come estinto,” continuò Rosi, la cui voce echeggiava rimbalzando tra parete e parete. Forse la teneva bassa per quel motivo. “Quindi da dove viene?”
“Magari da una di queste porte.” 
Ettore aveva buttato sul tavolo quella supposizione senza pensarci troppo, ma il silenzio che ne conseguì fu piuttosto pesante. “Agg’e detto ‘na strunzata?” si informò perplesso.
“No…” disse Tobia. “… ma in teoria le Porte per l’Inferno non sono davvero porte per l’Inferno. Sono state scavate dall’uomo, sono accessi alle miniere. L’unica vera porta, se così si può chiamare …”
“Quella è chiusa,” lo interruppe Rosi bruscamente, “non la può aprire nessuno.”
Ettore si trovò per l’ennesima volta nella scomoda posizione di non capirci niente. “Uagliù se vi mettete pure a parlare per non-detti io qua non ci capisco cchiù nulla. Di che porta state parlando? Ce ne sta n’ottava?”
Tobia aspettò che fosse Rosi a rispondergli, ma quando fu evidente ad entrambi che la ragazza si era chiusa in uno dei suoi mutismi, parlò: “Ti ho raccontato che dove ci troviamo, l’Altrove, è una terra di confine…”
“Me lo ricordo,” confermò. “Siamo in una terra di mezzo tra il Chiaro e il mondo da cui provengono tutte le Creature, o almeno, i loro antenati,” recitò, “un altro mondo … ho detto bene?”
“Il Mondo Altro,” lo corresse Rosi con un sospiro, “ma ripeto, la porta per l’altra parte è invalicabile e sopra c’è un castello.”
“Abbiamo una porta che dà su un mondo dove quel serpentone è l’amichevole biscia di quartiere e vi chiedete ancora da dove sia uscito?!” la voce gli salì di un’ottava e se di norma la cosa gli avrebbe provocato imbarazzo e conseguente schiarirsi di gola, stavolta se ne fregò. “Perché non me l’avete detto prima?”
I due per tutta risposta si scambiarono un’occhiata incerta ed Ettore provò l’impulso di sbattergli la testa l’uno contro l’altra. L’aria stagnante di quel posto gli aveva fatto perder neuroni?
Rosi serrò le labbra: “Perché non è possibile. Se si fosse aperta sarebbe una cosa gravissima.”
Comm ave’ nu’ serpènt gigànt cu’ a’ faccia d’omm in giro ppe o' bosco?!”
“Se fosse aperta non sarebbe passato soltanto quello!” esclamò con l’aria di chi stava per tirargli qualcosa addosso. “Sarebbe … un incubo,” e si fermò, passandosi una mano sulle labbra, quasi volesse strofinarsi via le parole di bocca.
“Non esistono molti ingressi al Mondo Altro, e ormai sono quasi tutti chiusi,” spiegò Tobia, una roccia di calma surreale considerate le contingenze. “Quando erano aperti però hanno creato l’Altrove, e tutto quello che c’è di strano nel mondo. È per questo che il Sindaco vuole demolire Castiglioscuro. Anche se la porta della Montagnola è chiusa da tempi immemori lui non si fida che resterà per sempre così. Sono anni che sostiene che le vecchie protezioni non siano più sufficienti e che siano da adeguare...”
“Sì, adeguare, come quella bella pensata della pista ciclabile,” sputò Rosi sarcastica. “Ha succhiato migliaia di euro dalle casse del Comune e non serve a niente, manco al Chiaro.”
Ettore aggrottò le sopracciglia. Si era sempre chiesto qual’era l’idea dietro quella pista, larga e spaziosa e che girava attorno alle mura ma non era collegata a nient’altro, neppure all’interno del paese. Ogni tanto qualche paesano ci portava a spasso il cane o uno sparuto ragazzino ci andava in bici, ma era pressoché inutilizzata, seppur mantenuta alla perfezione. Aveva pensato fosse la classica opera civile dettata da giochi politici, più che dalla funzionalità, ma a quanto pareva, era ad uso e consumo dell’Altrove.
Come tutto, qui, pare …
Malacena non era inquietante, non aveva le atmosfere da telefilm horror; ma se andavi a scavare oltre la patina da solare paesino toscano, vi scoprivi una fitta rete di stratagemmi per mantenere quell’esatta idea di innocuità.
Tobia si strinse nelle spalle. “Un pentagono perimetrale in più per evitare che il bosco entri in casa non fa danno. Almeno non ha buttato giù niente …”
“Peccato che per il castello abbia deciso per un approccio più radicale,” osservò Rosi con rabbia e Tobia, che le era vicino, le strinse una spalla. Ettore si sarebbe aspettato uno scatto da parte dell’altra, ma non accadde. Rosi si limitò a serrare le labbra ed inspirare. “Quell’idiota ragiona come se fosse la porta fosse qualcosa di tangibile, che può essere distrutta e sostituita con mezzi mondani …  ma non lo è.”
Nella grotta calò il silenzio, interrotto solo dal gocciolare di acqua, lontano e ininterrotto. Non avendo più nulla da dirsi, cominciarono a cercare.
 
Ettore non ci mise molto ad individuare delle tracce, ma erano umane: nel fango sotto di loro c’erano impronte di scarpe. “C’è stato qualcuno qui di recente,” richiamò la loro attenzione.
“Michele e Stefano …” annuì Rosi, “ce li avrà portati Gianni. È una fortuna che non si siano imbattuti nel mostro.” 
Seguirono le orme fino ad una rientranza franata della grotta. Apparentemente non aveva sfogo ma, avvicinandosi, c’era una spaccatura da cui si poteva passare: dava su un corridoio che continuava nel buio impenetrabile. “Qui si continua. Che facciamo?”
“Andiamo avanti.”
Dall’altra parte l’odore di zolfo era ancora più soffocante, tanto che Ettore diede un paio di vigorosi colpi di tosse. Puntò la torcia in basso e notò con stupore che le scarpe si erano ricoperte di un sottile strato bianco, che a contatto con l’umidità era diventato una densa pasta bianca e appiccicosa. “Che roba è?”
Rosi serrò le labbra e non c’erano dubbi, per lei voleva dire qualcosa, perché si chinò e cominciò ad esaminare a terra. Ettore la imitò: le impronte dei ragazzi si fermavano all’imbocco del nuovo tunnel. “Non hanno continuato, meno male,” disse Rosi. In un angolo, più asciutto degli altri, scorsero delle croste aride che spuntavano dal terreno come improbabili denti aguzzi. Rosi ne raccolse una tra le dita, “fatemi luce,” comandò. Era un pezzo grande come il palmo di una mano, composto da tante scaglie che brillavano argentate alla luce delle torce.
“Sono i resti della muta del regolo,” disse Tobia, “sta crescendo.”
“Come sta crescendo?!” domandò atterrito. 
Rosi alzò lo sguardo su di loro, con un’espressione che Ettore non riuscì a collocare: era angosciata, ma vi era anche una scintilla di qualcosa di duro, e trionfante, “e allora dobbiamo sbrigarci a trovarlo.”
 
***
 
Per la prima volta in vita sua Caterina era contenta di essere stata lasciata a badare al Bar. Poteva infatti sfoggiare le sue doti da padrona della baracca di fronte a Maddalena. La quale certo, era seduta ad uno dei tavoli fuori con Michele e Stefano, ma lanciava continue occhiate dentro. E le sorrideva.
Cate fluttuava ad un metro dal cielo; Maddalena era la sua ragazza ed era una sensazione così esilarante che se non fosse stata per l’odore di caffè, il chiacchiericcio dei vecchi e il caldo colloso del pomeriggio, avrebbe davvero pensato di star sognando. Però di solito nei suoi sogni appariva un mucchio di roba assurda, come gatti che parlavano e quella volta che aveva sognato che la Montagnola era cava e dentro ci viveva una colonia di Demogorgoni.
Troppo rewatch di Stranger Things …
Rispose all’ennesimo sorriso di Maddalena chiedendosi se potesse mollare tutto a Tea per imboscarsi nel retro con l’altra.
“Cate, quanto hai detto che viene il caffè freddo?”
… o forse no. Rosi non aveva tutti i torti quando sosteneva che, in mano a Tea, il Bar sarebbe andato a fuoco. Sbagliava alla grande quando pensava che sarebbe accaduto lo stesso con lei. “Due euro e cinquanta, se ci vogliono la panna è un altro euro in più, e se ti chiedono perché, digli che la facciamo noi. È artigianale,” scandì rivolta alla faccia vacua dell’altra. 
La sua voglia di imboscarsi non avrebbe dunque avuto sfogo. Maddalena, d’altro canto, era stata requisita da Michele, che quel giorno le aveva chiesto a gran voce di disegnare una “mappa con licenza artistica e mie personali direttive” della Montagnola. Potevano solo scambiarsi sorrisi e anche se non era granché, era abbastanza per farle trovare nuovo senso alle canzoni che passavano nella sua playlist di Spotify, oculatamente sparata dalle casse del Bar.
Gestisco io? Musica mia!
Un senso tutto nuovo, perché era innamorata e, per la prima volta in vita sua, era pure ricambiata.
 
Candy, she's sweet like candy in my veins
Baby, I'm dying for another taste

 
Per questo non si accorse subito che Pietro era entrato nel Bar, ciondolante e imbuzzito come suo solito. “O’bischera,” la apostrofò dando una manata sul bancone per attirare la sua attenzione, “dammi una birretta.” Notando la sua espressione perplessa, aggiunse di malavoglia: “Gnamo, che unn’è giornata.”
“Che è successo?”
“Ho litigato col mi’ babbo. Quando gli ho detto che s’era andati a ripiglià le tende s’è incazzato. Poi ha scoperto che siamo entrati nel castello e ciao…”
“Che palle,” rispose partecipe aprendogli una birra e porgendogliela. Pietro l’afferrò scolandone lunghi sorsi con l’aria di un assetato nel deserto e Cate ricordò che il motorino non l’aveva ancora riottenuto. Probabile dunque se la fosse fatta a piedi dal podere fino al paese; questo almeno spiegava l’esacerbato cattivo umore. “Chi gliel’ha detto?”
“Viviamo in un paesino di merda, Silva. Lo sapranno pure le pietre ormai.” Si appoggiò coi gomiti al bancone e lasciò andare un lungo sospiro. “Però non ha tutti i torti … scorsa settimana è salito al castello per capire come cominciare a lavorare ed è messo … male,” concluse con una piccola smorfia di scuse.
Cate percepì la familiare stretta al cuore a pensare alle sorti di Castiglioscuro, ma la sciacquò via con un sorriso. Stavano tutti facendo il possibile: continuare ad arrovellarsi le avrebbe solo peggiorato l’umore, e quella era troppo una bella giornata perché succedesse.
Passarono qualche minuto in silenzio, lei a preparare ciotole su ciotole di aperitivi e l’altro a scorrere il telefono con colpi annoiati delle dita. Moriva dalla voglia di aggiornarlo sugli ultimi sviluppi con Maddalena ma non poteva; l’aveva promesso. Rimasero in quella stasi a lungo, con Spotify che snocciolava canzoni d’amore, con Malù che cercava il suo sguardo oltre la vetrina e lei che si mordeva le mani.
“Lin?” domandò Pietro, del tutto ignaro del suo conflitto interiore. “È mica passata?”
Scosse la testa. “Non la vedo da giorni,” e si sentiva un po’ in colpa. C’erano periodi in cui la loro amica si assentava per badare a Marian, quindi supponeva fosse quello il motivo per cui era sparita, tuttavia era consapevole di non averla cercata attivamente come faceva di solito.
“Manco io,” disse Pietro esitante, “da quando s’è fatta male è fuori fase. Non risponde più ai messaggi sul gruppo … e ier sera doveva venire da me ma m’ha dato buca.”
Anche lei aveva notato un’insolita rigidità nell’amica ma l’aveva attribuita alla poca simpatia che nutriva per i siciliani. In particolare, verso Maddalena. Era chiaro non le piacesse, ma non riusciva a capire se si trattasse di semplice invidia tra donne o qualcos’altro. Nel dubbio, preferiva evitare di sollevare l’argomento.
Tanto tra poco torneremo noi tre.
Ignorò anche quel pensiero. Si rifiutava di farsi mandare di traverso la giornata. “La sento stasera,” promise. “Te invece che fai oggi?”
“Un tubo, come al solito. Sentirò che fanno i siciliani.”
Cate sogghignò: “Ti piacciono eh?”
Pietro arrossì imbarazzato. “Un’pensà cose da lesbica! A quella maniera garbano a te,” e indicò con un cenno della testa Maddalena.
Cate si morse le labbra ricordando per l’ennesima volta, e con immenso dolore, la promessa. “Sì, beh, certo… quindi?” balbettò.
Pietro, che fingeva soltanto di avere l’empatia di un comodino, affilò lo sguardo. “È successo qualcosa?” la stanò subito.
“No-o…” deglutì voltandosi verso la macchina del caffè per pulirla da macchie inesistenti. “Che voi che sia successo?”
“Boh, Michele m’ha detto che Maddalena non parte più.”
“Bene, no?”
“Te la sei falcata?”
“No!” sbottò e per la foga di mentire sbatté la mano contro uno dei filtri della macchina, che si sganciò e seminò caffè esausto ovunque. Imprecò.
“Te la sei falcata,” stabilì Pietro gongolante. “Ebbrava Silva, sei diventata una bimba grande!”
Cate, una volta assicuratasi di non essersi rotta una mano, continuò a pulire la macchina dal caffè che si era sparso ovunque, anche in mezzo alle guarnizioni; aveva promesso di star zitta, certo, ma ormai la frittata era fatta … “Va bene, sì, ci siamo baciate ... e stiamo insieme,” sussurrò mentre un sorriso premeva per uscire, “ma un’dirlo a nessuno. Maddalena un’vole, non è dichiarata.”
Pietro rimase in silenzio, tanto che fu costretta a voltarsi per capire se era ancora lì. C’era, e aveva riacquistato l’aria arrabbiata di prima. “Cioè, ti tiene nello sgabuzzino?”
“Nell’armadio, ma comunque no! È una sua scelta dire che le piacciono anche le ragazze, mica posso obbligarla.”
“Sì però è te che nasconde.”
Gnamo,” sbuffò con la bruttissima sensazione di aver torto, “non potresti essere semplicemente contento per me?!” il tono le uscì più aspro di quanto avrebbe voluto. “Se sei contenta te.”
“Lo sono!”
“Bene,” Pietro sancì la conclusione del discorso lanciandole il tappo di metallo della bottiglia in testa. Cate lo districò tra i capelli, guardandolo male e rimediandosi un sorrisetto storto che non poté fare a meno di ricambiare. “Vo dai siciliani, magari han voglia di far qualcosa.” Pietro le rivolse un cenno di saluto e si portò via la birra più un sacchetto di patatine che era piuttosto sicura non avrebbe pagato. Cate sospirò e lanciò un’occhiata a Maddalena. Stavolta l’altra non ricambiò.
 
***
 
Avevano fatto delle foto alla scaglia di pelle, che poi Rosi aveva ripiegato in un fazzoletto e si era infilata in tasca. “Non basta,” aveva detto, “dobbiamo trovare la tana, quella è la prova definitiva.”
Tobia era d’accordo con lei, ma raccogliere le prove per portarle ai Sorveglianti e poi lavarsene le mani non gli piaceva: avevano già insabbiato il lupomanaio, perché con il serpe regolo avrebbe dovuto essere diverso?
Quella domanda inespressa aleggiava tra di loro come il disgustoso odore di zolfo nel  tortuoso cunicolo che stavano percorrendo. Ettore rimaneva in testa, ma i passi erano sempre più lenti e incerti. “Uagliù, qua ci perdiamo, mi manca pure l’aria” disse. Preoccupazione legittima. Lui stesso conosceva poco quelle grotte e Rosi si orientava nel bosco, ma quello bosco non era. Era sottosuolo, e aveva leggi tutte sue. “Sto segnando il percorso,” lo rassicurò mostrandogli il gesso che si era portato da casa, uno dei vecchi lasciti della nonna, maestra elementare, “comunque è meglio non andare avanti per molto, potrebbero esserci stati dei crolli dall’ultima volta che ci siamo stati.”
“Lo so,” rispose Rosi contrariata, “ma siamo vicini al castello.”
“Vuoi uscire da là?” era sorpreso; aveva suggerito di recarcisi poco prima, ma non si era aspettato che l’altra volesse arrivarci da sotto.
“L’uscita dovrebbe essere nelle cantine. E il serpe è chiaramente passato da qui… forse ha fatto la tana lì sotto.” 
“Fatemi capire, gli stiamo andando in bocca?” Ettore si piantò in mezzo al cunicolo, voltandosi incredulo verso di loro. 
“Dobbiamo portare delle prove ai Sorveglianti,” ripeté Rosi, “Se lo troviamo, sarà addormentato. Basterà fare una foto e…”
Tu sì pazza!” Tobia non poteva dargli tutti i torti: nel giro di ventiquattro ore Roísín da scettica si era tramutata in una persona capace di buttarsi in bocca all’Altrove – letteralmente. C’era da immaginarselo però: l’amica era sempre stata animata da una sorta di corrente nervosa che la portava a volere tutto e subito, in modo da non doverci pensare più. “
È proprio per esser creduti da loro che dobbiamo farlo.”
“Quindi davvero credi che i Sorveglianti se ne occuperanno?” le domandò.
“Ancora con ‘sta storia dell’insabbiamento del lupomanaio?” lo apostrofò esasperata. “Non hai prove che siano loro a nasconderlo!”
“Quindi pensi che abbia mentito.”
“No, io…” lo guardò con aperta rabbia. “Non sto dicendo questo! Ma se posso dare il beneficio del dubbio a te, devo darlo anche a loro!”
Rosi ormai stava urlando e lui teneva la voce bassa unicamente perché non era bravo ad alzarla, neppure quando aveva voglia di tirare un pugno a qualcosa. Ne aveva tirati parecchi, cinque anni prima: non erano serviti a molto, se non a scrostare l’intonaco di camera sua e farlo sentire ancora più solo e abbandonato di prima.
Roísín era tornata, ma non aspettava altro che di andarsene; tornare al suo bar, alla sua grigia vita nel Chiaro. E, probabilmente, a non rivolgergli più la parola.
“C’è stato un avvistamento recente,” ribatté.
“Già, il vostro informatore misterioso!” lo derise, facendo un paio di passi fino ad essergli a pochi centimetri dalla faccia. “Chi è? Un mostriciattolo della foresta?”
Rosi non era mai stata intimidita dalla sua stazza. Neanche quella sciagurata notte, quando per poco non si era beccata anche lei un pugno nel tentativo di fermarlo. Era stata Marina a trattenerla e ad evitare che le facesse male. Male, che poi le aveva fatto comunque. “Cambia qualcosa per te saperlo?”
“Certo! Come faccio a fidarmi di voi se mi nascondete le cose?!”
Ja, la finite di urlare?!” sbottò Ettore esasperato. “È Maddalena, la siciliana!”
 
Ettore era stufo. Erano immersi in un posto da incubo e con un serpentone che poteva svegliarsi e decidere di far merenda con loro. Non aveva voglia di rimanere impalato ad aspettare che il serpentone li trovasse, due imbecilli con palesissime tensioni sessuali e lui come terzo incomodo. “È stata Maddalena a dircelo,” continuò, “ha annusato la presenza del mannaro, no Tobì?” domandò conferma all’altro che nonostante l’aria contrariata annuì.
“Come annusare?” 
“Eh, sì, è una Creatura dell’Altrove pure lei. Una succuba, no?”
Gli occhi di Rosi si sgranarono in pieno, puro, chiarissimo orrore.
Ah, non gliel’aveva detto nessuno?
“Mi sto tenendo in casa una succuba?” 
Vabbuò, siete tutte ragazze…”
“Mia sorella è lesbica, Ettore.” Il sussurro che ne conseguì era la palese anticamera di un attacco di panico. “A mia sorella piacciono le ragazze e dorme sotto lo stesso tetto di un demone della lussuria. Perché non me lo avete detto subito?!”
“Io … beh, pensavo che lo sapessi,” balbettò. “Che te l’avesse detto tua madre …” 
“Mia madre lo sa?” Pareva stare per scoppiarle una vena, avere un infarto o forse entrambi. Ettore, avendo già fatto danno, decise di rimanere in saggio silenzio.
“Sì, ma non dev’essere poi così pericolosa se Marina ha acconsentito ad averla in casa. O mi sbaglio?” intervenne Tobia con chiari aneliti suicidi. Non gli era bastato rischiare una testata sul setto nasale poco prima? 
Rosi si passò una mano sul viso, e la lasciò lì per qualche attimo, espirando ed inspirando lentamente. “Una cosa per volta,” disse piano, quasi rivolta a sé stessa. “Cerchiamo la tana. Troviamola. Chiudiamo questa storia,” enumerò come un automa, “poi mi occuperò anche di questo.”
“Saresti stata un’ottima sorvegliante.”
Tobia voleva davvero morire, da come Rosi serrò le dita sulla torcia come se fosse una mazza pronta da sferrare. “E tu una grandissima rottura di palle,” fu l’irosa risposta, fortunatamente priva di successivo lancio di oggetti contundenti. Rosi li piantò lì senza aggiungere altro, sparendo nel buio.
Tobia fece spallucce. “Pensavo già di esserlo.”
Ettore sospirò: gli mancavano davvero tanto i Quartieri.
 
***
 
Quando Caterina le aveva chiesto di darle una mano in magazzino Maddalena aveva pensato fosse la scusa più scema di sempre e che non ci sarebbe cascato nessuno.
… a meno di non chiamarsi Michele Russo e Stefano Greco. I due erano talmente assorbiti dalla mappa che le avevano chiesto, confrontandola con i loro appunti e le indicazioni date da Gianni, che a malapena avevano registrato il suo alzarsi. E di certo non si sarebbero accorti che mancava da ormai dieci minuti, di cui nove e mezzo passati a baciarsi con Cate dietro i frigo del magazzino.
Sarebbero dovute tornare, Stefano avrebbe potuto accorgersi di qualcosa, ma non voleva rinunciare al modo tenero e dolce con cui Caterina la stava toccando. Anche se era un esercizio di controllo incredibile non far scivolare le labbra lungo il collo profumato dell’altra, succhiarlo fino a farla gemere e…
Si staccò inspirando e udì Cate ridacchiare. “Ti faccio mancare il fiato?”
Babba…”  brontolò, e ormai era consuetudine apostrofarla così. “Non hai un bar di cui occuparti?”
“Finché non ci sono esplosioni o odore di fumo Tea se la sta cavando alla grande.” Le passò una mano lungo le braccia, posandole poi sulle sue spalle. Fece il broncio. “Non vuoi restare qui co’ me?”
“Voglio, ma…” esitò, perché era ormai era ovvio che delle due fosse lei a fare la parte della cattiva. O mantenere una parvenza di controllo, che era un po’ la stessa cosa.
“Se tua sorella arriva e non ti trova dietro al bancone?”
Cate alzò gli occhi al cielo, ma lasciò la presa, appoggiandosi sconfitta al muro. “Chissà dove se n’è andata poi … pare ci sia incatenata a ‘sto posto ed è da ieri che è in giro. Con l’Intruso e Bia, tra l’altro. Va’ a capì che le passa pe’l capo…” concluse, incamminandosi vinta verso le scalette che portavano al retro del bancone.
Maddalena, di colpo, non ebbe più tanta voglia di fare il poliziotto cattivo. “Hai ragione, non sta esplodendo niente, rimaniamo,” ribatté prima di tirarla contro di sé e catturare di nuovo le labbra con le sue. Era tutto così strano: durante la caccia il bacio era la parte meno importante, ma con Cate era diverso. Era rimanere sull’orlo del precipizio, guardare giù e accontentarsi di quell’ebrezza, senza desiderare cadere.
Aveva pensato ad averla tra le braccia a quel modo tutto il giorno, così tanto che le era parso di diventar scema dalla frustrazione quando Michele l’aveva obbligata a disegnare per ore
Cate si staccò, con un sorrisetto sognante. “Se pigliasse fuoco tutto ora come ora non lo noterei. Te?”
“Direi di sì, e mi toccherebbe pure salvarti quindi.”
“Ah, che cavaliera dall’armatura lucente…” si portò una mano alla fronte, cedendo tra le sue braccia con piglio teatrale e facendola ridere.
“Si dice cavaliere, non c’è il femminile.”
“Madonna, che secchia che se-…” le tappò la bocca con un altro bacio, sentendo una piccola risata esploderle contro le labbra. Era così semplice, così pulito, così …
 
“Oh, piantatela di flanellà che Tea ha di nuovo bloccato la macchina del caffè!”
 
Fu come essere investita da una doccia gelida. Maddalena si staccò da Caterina per trovarsi di fronte Pietro, appoggiato mollemente allo stipite della porta che dava sul bancone. Caterina, paonazza, schizzò indietro. “Ma i cazzi tuoi?”
“Se me li facessi tu saresti nei guai i’doppio. Moviti,” e richiuse la porta con un tonfo.
Le tremavano le gambe. Era consapevole di non potersi mettere a iperventilare come un’idiota ma erano state scoperte.
Pietro è amico della Radu. Pietro è amico della vânător. Andrà a dirglielo.
“Malù…” il tocco di Cate la riportò bruscamente coi piedi per terra. Non doveva offrire un bello spettacolo nel suo respirare da persona in apnea, ma poteva farci poco. Il peso del pericolo le sedeva come un macigno sul petto. “Non sembra ma è bravo a tenere i segreti, davvero, gliel’ho fatto promettere!”
Il sottotesto di quella frase la colpì come uno schiaffo. “Gliel’hai detto?!”
Non avrebbe dovuto urlare. Lo capì quando Cate aggrottò le sopracciglia, serrando le labbra. “È il mio migliore amico.”
“E Alina?”
Cate fece una smorfia: ovvio, naturale, era una stramaledetta logorroica, come aveva fatto a pensare che sarebbe riuscita a tenere la bocca chiusa? “No, a lei no.”
Maddalena continuò a concentrarsi sulla respirazione. Andava tutto bene; Cate l’aveva detto a Pietro ma non l’aveva ancora detto alla vânător.
 
Sta’ lontana da Caterina. Ricordati quello che succede a quelle come te.
 
Nun u devi diri a nuddu,” mormorò, “pi’ favori, Cate.”
Caterina aveva pronta una rispostaccia sulla punta della lingua, ma alla sua supplica esitò. “Ohi …” le prese le mani e Maddalena avrebbe voluto ritrarsi, scappare, sparire dalla faccia della terra, ma erano in uno stupido magazzino che puzzava di vino inacidito e polvere e a cui mancavano pure le finestre. Non poteva andare da nessuna parte e si sentiva soffocare. “Va bene, non lo dico più a nessuno,” continuò sorpresa, “non ti spaventà così, dai...”
Facile a dirsi: era come chiederle di smettere di respirare. Le strinse le mani di rimando, e probabilmente lo fece pure un po’ troppo. L’altra però non mollò la presa. Ed era un contatto, un’ancora che impediva al terrore di sommergerla come un’onda.
Dopo un tempo che le sembrò infinito, il mondo tornò a fuoco.
… e meno male che non dovevi farti venire una crisi…
M’hai scusari,” la liberò ma l’altra non se la diede a gambe come si era aspettata, ma rimase ferma, forse ad attendere qualcosa: il ritorno della solita Maddalena e non quell’essere tremebondo e patetico in cui si era trasformata?
“No, scusami tu.” Cate le scostò una ciocca di capelli sudata che si era liberata dall’acconciatura per spiaccicarsi poco cerimoniosamente sul viso. “Non avevo idea fosse così importante, m’è pigliato l’entusiasmo e…”
“Va bene,” la interruppe, “non importa, tanto Pietro ci avrebbe beccato comunque.”
“Qual è il problema? Quello vero intendo.”
A Maddalena venne da ridere ma nel tentativo le uscì una specie di gemito. “La mia famiglia,” mentì, “Loro sugnu genti all’antica. Nun vogghiu chi mi riportino a Catania, voglio restare qui. Vogghiu stari cu ttìa.” … e quella era l’unica parte vera di quel doloroso sproloquio.
Cate la abbracciò e Maddalena si abbandonò a quel contatto facendo rotolare un paio di lacrime, che per fortuna si persero sulla stoffa della maglietta dell’altra. Cate poi le prese il viso tra le mani baciandola e, con la punta delle dita, le asciugò altre maledette lacrime traditrici. “Se vuoi restiamo qui finché un’ti senti meglio. La macchina si blocca sempre, ce l’ha con Tea,” scherzò. “Ci metto niente a falla ripartì.”
Non se lo meritava. Non si meritava la comprensione e la gentilezza di Caterina eppure non riusciva a farne a meno. Non voleva farne a meno.
Questo non significava però che dovesse tenerla in un magazzino polveroso a vita. “No, usciamo … sto bene.”
Cate annuì, e ligia, le lasciò la mano quando entrarono nel Bar. Maddalena non fece in tempo a rimpiangere quel contatto che si trovò di fronte Marina. Che era dietro al bancone con l’aria più sorpresa del mondo. “Io … devo uscire,” si sentì dire come da molto lontano, mentre il cuore le tornava in gola e così il peso sul petto. Doveva recuperare lucidità o a Marina sarebbe sembrato esattamente quello che era successo: ovvero che aveva appena beccato sua figlia imboscata con una succuba.
La donna aveva in mano un piatto di salatini e un calice di spritz e forse era lì solo per mangiare qualcosa, ma non aveva importanza. Non era quello che rappresentava in quel momento, ma quello che poteva essere. “Oh … certo!” disse aprendo la porzione mobile del bancone. “Che ci facevate là dietro?”
Maddalena fu risparmiata dal terrore di dover rispondere, perché Caterina si mise praticamente in mezzo. “Mi dava una mano a spostare tutto il ciarpame dietro cui Rosi aveva nascosto l’acqua minerale,” e riuscì anche a produrre una cassa d’acqua dal nulla. L’aveva presa uscendo? “A proposito, non è ancora tornata?”
Marina si strinse nelle spalle; sembrava tranquilla e molto più concentrata su sua figlia che su di lei. “No, perché, dov’è andata?”
“Boh! Stamattina Bia e il carramba sono venuti al Bar ed è uscita con loro.”
“Con Tobia e il Brigadiere Mangiola?” l’attenzione della Sorvegliante era completamente assorbita dalla conversazione. Era il momento giusto di darsela a gambe.
“Dove vai?” … ma non per Caterina, apparentemente. Continuava a guardarla con aria preoccupata e poteva anche darle ragione, non doveva avere una bella cera.
“A farmi un giro,” rispose con tutta la tranquillità di cui era capace. “Ho bisogno di sgranchirmi le gambe, da sola,” specificò perché poteva immaginarsi l’obiezione dell’altra. “Torno per cena.”
“Ah, va bene …” Cate non era contenta, tuttavia Maddalena non poteva farci niente. Non poteva reggere un altro minuto. Salutò le due donne e raggiunse Michele e Stefano per recuperare lo zainetto.
Unni…”
“A farmi un giro!” ribadì frustrata, perché non c’era mai un momento in cui le fosse concesso di non essere tempestata di domande o, genericamente, di sospetto. Incrociò lo sguardo di Stefano ma l’altro, fortunatamente, a parte un lieve corrugarsi di sopracciglia non diede cenno di aver bisogno di spiegazioni. La lasciò andare.
Maddalena prese telefono e infilò le cuffie nelle orecchie, sparendo tra i vicoli arancioni di sole pomeridiano; non voleva però rimanere in paese, con il rischio di incrociare Elia com’era successo l’ultima volta. Prese a salire, in direzione della Chiesa, poi delle mura … e infine del bosco.
 
***
 
Stavano succedendo cose al di fuori della sua sfera di controllo.
… e questo a Marina non piaceva. Per quanto si fregiasse del titolo di “persona più rilassata del paese”, la cruda verità è che era più simile a sua figlia maggiorr di quanto non volesse. Quando non riusciva a capire qualcosa voleva dire che quella cosa poteva essere un pericolo e lei poteva non rendersene conto.
Maddalena, per esempio. Erano giorni che voleva parlarle, e continuava a rimandare perché la considerava un problema collaterale … ma era così? Avrebbe dovuto porre maggiore attenzione al fatto che trascorresse tanto tempo con sua figlia?
Forse. Perché l’espressione atterrita che le aveva rivolto, quando lei e Caterina erano uscite dal retro, poteva essere indicativa del fatto che la siciliana stava ammaliando Cate.
Però la paura poteva anche essere scatenata dall’essersi trovata di fronte una Sorvegliante che, l’ultima volta che aveva incontrato, l’aveva velatamente minacciata con l’aiuto di una vânător. Tutto poteva essere. Quindi si rivolse a Cate, l’unica persona che potesse far luce su quella faccenda. “Maddalena sta bene?” le domandò bevendo un sorso di spritz con tutta la noncuranza di cui era capace. “Non aveva una bella cera”, concluse, facendo scivolare nel tono un po’ di materna preoccupazione, che dopotutto, era famosa anche per quella.
Cate, persa in pensieri tutti suoi, continuava a preparare cocktail col pilota automatico. “Sì … credo,” ammise incerta. “Ogni tanto ha dei momenti in cui deve stare per conto suo,” fece una smorfia, “ad essere oneste ne ha parecchi … ma ogni persona c’ha le sue, no?”
“Verissimo,” convenne placida, andando dalla parte opposta del bancone e imitando così un cliente in vena di confidenze. “Mi fa piacere abbiate fatto amicizia comunque. Sembra una tipetta un po’ introversa …”
Cate roteò gli occhi al cielo. “Per eufemizzà!” fece poi un piccolo sorriso. “Se riesci andare oltre al suo mutismo, però, capisci che è in gamba.”
Non sembrava consumata dal desiderio, ossessionata. La sua cotta per Maddalena non appariva diversa dalle tante infatuazioni che l’avevano colta nel corso della sua giovane vita.
La sua bambina si innamorava facilmente; bastava un incontro e uno scambio di parole per gettarla nello stato d’animo in cui cominciava a comporre canzoni che parlavano di anime gemelle. Aveva il cuore di Dermot, incostante come una nuvola, ma fortunatamente un po’ più ancorato quando si trattava di affetti familiari. “Sembra piacerle stare in tua compagnia,” osservò leggera.
A questo l’altra arrossì. “Lo sai, fo amicizia anche coi pali della luce.”
“Che facevate nel retro bischerelle?” domandò mettendo giù le carte.
Cate rimase per un attimo bloccata nel mettere una fetta di limone in bilico su un’acqua tonica. Poi inaspettatamente ridacchiò. “Ma che, pensi che ci siamo imboscate? Mi dava una mano a piglià l’acqua, così le davo una scusa per staccare dal lavoraccio che l’hanno messa a Michi e Ste!”
Suonava genuinamente sorpresa, se non imbarazzata, all’idea che sua madre sospettasse che andava a sbaciucchiarsi con l’ospite nel retro. Cate per tante cose era la copia sputata di Dermot: aveva il suo sorriso, i suoi occhi e il suo carisma … ma fortunatamente, non la sua faccia di bronzo. Non sarebbe mai stata capace di mentirle spudoratamente a quel modo. “Scusami, se sono impicciona …” fece il gesto di scacciare l’ipotesi precedente con una mano. “Non sono fattacci miei.”
Cate si strinse nelle spalle. “Possono anche esserlo, solo che non c’è niente di cui impicciassi … a Malù non piacciono le citte. E poi che ci farei co’ na siciliana? Tra dieci giorni se ne torna a casa.”
Già, c’era anche quello; Cate aveva una vera e propria avversione ai rapporti a distanza e temeva che la loro disastrata situazione familiare fosse la causa. L’assenza perenne di suo marito dal tetto coniugale aveva delle conseguenze, tra le quali c’era l’insofferenza che sua figlia provava nel mantenere rapporti con persone lontane. 
Non voglio un padre da remoto – le aveva detto una volta, quando aveva cercato di spingerla a rispondere ai tentativi di contatto telematici dell’uomo. 
Immaginava che, a quelle condizioni, non volesse neppure una fidanzata. “Spero che continuerai a sentirti con ‘sti ragazzi però ... È nata una bella amicizia, no?”
“Sì, davvero …” Cate annuì, finendo di preparare il vassoio di aperitivi che Tea, sollecita, prelevò prima di uscire fuori, lasciandole di nuovo sole. D’estate, a parte la mattina, era difficile che qualcuno volesse consumare all’interno del locale e questo permetteva ad entrambe le sorelle di mettere la propria musica a volumi a malapena tollerabili.
In più, Cate spesso ci cantava sopra, come in quel momento: almeno era una ballata quieta e non la roba rumorosa di Rosi.
 
E la voglia di, voglia di, voglia di andarmene via da qui
Per non vederti più dentro gli occhi blu
di una sconosciuta che sta al posto tuo e che non sei tu …

 
Mentre Rosi era affezionata al rock anglofono del Nord Europa - l’unica parte delle sue radici straniere che apprezzasse - Cate amava il cantautorato italiano. Marina a volte si soffermava a pensare a quanto, anche in questo, le due sorelle fossero diverse eppure dolorosamente simili. Nutrivano infatti lo stesso amore assoluto per la musica.
E in questo, c’è Dermot.
Dermot che, come Cate, aveva una canzone sulle labbra per ogni stato d’animo ed era in grado di passare serate intere in compagnia di un unico disco come Roísín. Veder crescere le sue bambine era averlo davanti agli occhi senza poterlo toccare; era una sensazione dolce mischiata all’amaro.
“Se Rosi un’si sbriga a tornà mi tocca fa’ chiusura di cassa…” borbottò Cate distraendola dalle parole della canzone, “manco mi ricordo come si fa!”
“La faccio io,” la rassicurò. La menzione dell’altra figlia le fece venire in mente che non aveva ancora capito quella singolare faccenda che la vedeva assente dal Bar per la prima volta da anni. “Dove hai detto che è andata con Tobia ed Ettore?”
Per anni Rosi si era tenuta ben lontana dal Nero, ma aveva cambiato idea. Senza motivo apparente, peraltro, considerando che fino alla settimana prima reagiva malissimo se solo il poverino si azzardava ad entrare nel suo territorio – dicasi il Bar. Cos’era cambiato?
“Boh,” le rispose Cate, “non ha lasciato detto dove andava,” fece una pausa. “Di ‘sti tempi è un po’ strana …”
“Strana come?”
“Fa delle cose che non fa mai! Va’ nel bosco, ci tiene che io e gli altri si stia qua per cena … ce la offre pure! E poi ha fatto pace con Tobia. Per me ‘sta cosa del castello la sta tirando scema.”
Marina rifletté: che Tobia fosse riuscito a tirar dentro Rosi nei suoi complotti? Le pareva impossibile. E cosa c’entrava il Brigadiere Mangiola?
Probabilmente stava cercando collegamenti con l’Altrove quando in realtà non ce n’erano. Rosi non aveva nessun amico della sua età rimasto a Malacena; forse, per solitudine, stava cercando di ricucire i rapporti con il Nero ed Ettore poteva aver fatto da ponte. In paese era fatto noto che i due uomini fossero diventati amici.
C’era ben altro a cui doveva dare priorità di pensiero; per esempio ad Alina, che aveva subodorato di essere stata tratta in inganno. Doveva essere stata la paranoia di Marian – addizionata purtroppo ad un buon istinto - ad averle fatto cambiare idea sul suo incidente, al punto da recarsi da Carlo e interrogarlo come un criminale. Continuava a non ricordare nulla, quindi aveva lanciato poco più che accuse senza prove, ma aveva comunque lasciato la famiglia Ghini con i nervi a fior di pelle.   
Era solo questione di tempo prima che tornasse a batter chiodo anche da lei.
Tutto questo guaio perché Maddalena ha annusato l’odore di Elia …
Doveva davvero parlarci; anche per capire come convincerla di essersi sbagliata e farla ritrattare … dopotutto, i suoi sensi da succuba erano ottusi da una mancata formazione materna. Poteva giocare su quello.
Marina era stanca. Percepiva la tensione di tutta quella rete di bugie e manipolazioni avvilupparla come una coperta soffocante. Non poteva rilassarsi neppure un momento, e questo non la rendeva lucida, tanto che aveva passato un’intera nottata a chiedersi perché il giovane Greco andasse in giro a notte fonda … salvo realizzare, alle prime luci dell’alba, che doveva semplicemente essere andato a prendere un mezzo di trasporto per condurre la succuba a cacciare fuori paese.
L’arrivo dei siciliani aveva alterato gli equilibri e Marina non poteva far altro che contare i giorni alla loro partenza.
Finì il suo drink e passò il bicchiere vuoto a Cate, che lo prese con un mezzo sorriso inquisitorio. “Alla goccia mami?” la canzonò, “Te ne preparo un altro?”
Ridacchiò. “Figurati … me ne basta uno e mi gira subito il capo. No … vado un attimo a piglià fresco fuori. Qui ti servo?”
“Vai tranquilla, basto io a regge il forte!” 
 
Andò quindi a sedersi ad uno dei tavolini fuori, perdendosi nell’oziosa sorveglianza della Piazza: il capannello dei vecchietti che presidiava le Poste, i turisti seduti al Bar o intenti a far foto … i pochi negozi aperti con la merce esposta nelle vetrine stinte dagli anni e la vecchia edicola, ormai chiusa, la cui saracinesca era la porta per un’ardita partita di calcio tra bambini. Infine, il palazzo del Comune sulle cui scale i gatti erano assopiti al sole. Era per quella pace che lavorava ogni giorno.
Era stanca sì, ma non poteva tirare i remi in barca; aveva sempre pensato che essere un Sorvegliante non fosse soltanto tenere a bada le forze dell’Altrove …per lei era anche sinonimo di proteggere. Proteggere la Montagnola e il suo bosco dall’avanzata del Chiaro, proteggere Castiglioscuro e la sua porta dal desiderio di annichilirli del Sindaco … e, infine, proteggere tutte le persone che le erano state affidate, malacenesi e Creature assieme. Il suo lavoro, il suo vero lavoro era mantenere quell’equilibrio fragile. Ed era più importante di tutto quanto. Anche di sé stessa.
 
***
 
Alina sostava di fronte alle porte della Chiesa. Per lei le grandi strutture ecclesiastiche avevano sempre esercitato una funzione di conforto, di rifugio … e al tempo stesso di angoscia, per i tanti ricordi che ospitavano. Premette il campanello della canonica e da lontano udì i passi di Don Doriano avvicinarsi.
Se l’uomo fu sorpresa di vederla, non lo mostrò. Difficilmente un prete, per giunta Sorvegliante, lasciava trasparire quello che davvero pensava, almeno nei suoi ricordi.
“Alina,” la apostrofò con un sorriso da pastore di pecorelle, “che piacere! Che ti porta quassù n’cima?”
Sorrise di rimando, consapevole che da giorni quell’espressione non le saliva agli occhi. “Delle domande, padre. Ha tempo per me?”
 
***
 
 
Note:
 
questo capitolo può anche chiamarsi "Marina non capisce un cavolo, ma anche Rosi non è messa benissimo". Volevo pubblicare per la Befana, ma … real fucking life.
Comunque, ecco le canzoni del capitolo. A ‘sto giro, la playlist di Cate fa da padrona:
Electric Love, di BØRNS.
Non sei tu, di Gazzelle.
Potete trovare la playlist qui.
  
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