Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: RunOnGasoline    12/01/2021    0 recensioni
"L'arte è una menzogna che ci permette di conoscere la verità", diceva Picasso.
Eren ha ventun anni, e sul suo corpo i màndala tatuati nel corso degli anni nascondono le cicatrici del suo animo, pura espressione dei demoni che non intendono lasciarlo andare, continuando imperterriti a trascinarlo a fondo.
Un imprevisto, però, potrebbe divenire motivo di rinascita.
EreRi/RiRen
TW: il colore del tag è dovuto a tematiche di violenza fisica.
"Tolsi la pellicola per far respirare la pelle e rimossi la garza. Lavai il tatuaggio con una spugnetta, e ammirai il risultato allo specchio.
La cicatrice era parte integrante del tatuaggio, valorizzata dalle curve di quelle linee decise. Ali, libertà. Ali che nascono dalle mie cicatrici."
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Ali della libertà

 

Quando avevo sedici anni, decisi di farmi un tatuaggio. Un semplice disegno con incise al suo interno le iniziali delle persone che amavo di più, a cui dovevo di più.

Il mio amico Reiner mi aveva consigliato un locale in centro, dicendomi di cercare un certo Jean. Chiesi al mio tutore di accompagnarmi, quindi un giovedì di maggio ci recammo lì.

 

Era uno dei posti migliori per un tatuaggio, aveva detto Reiner. Il problema coi migliori tatuatori è che hanno una lista d'attesa lunghissima. Non meravigliarti del prezzo: ne vale la pena, aveva aggiunto. Non contrattare, sono artisti anche loro. L'arte non ha prezzo.

 

Non mettevo mai in dubbio le parole di Reiner, ed ero sicuro avesse ragione. Dopotutto, mi erano sempre piaciuti i tatuaggi. Diventare la tela di un artista non era però il motivo per cui ne volevo uno. Lo ringraziai ugualmente per le dritte, non volevo essere scortese.

 

Quel giovedì di maggio, comunque, io e Hannes ci dirigemmo al "Titan Ink". 

Mi aveva sorpreso il modo in cui Hannes aveva immediatamente acconsentito all'idea. Litigavamo spesso anche su cose di poco conto: lui era molto severo, mentre io odiavo dover sottostare a rigide regole (nessuno, pensavo, mi avrebbe più potuto chiudere in una gabbia). Non mi aspettavo che me lo avrebbe lasciato fare tranquillamente, ma a quanto pare mi sbagliavo.

 

Eravamo seduti su un divanetto verde. Mi stavo torturando le dita delle mani, lanciando ogni tanto occhiate fugaci all'orologio appeso alla parete. Hannes stava per prendere parola, quando un ragazzo sulla ventina si sedette di fronte a noi. 

— Buongiorno, io sono Jean! Tu devi essere Eren, molto piacere. Reiner mi ha detto che sei un suo amico. Sei fortunato, non avrei accettato un sedicenne così su due piedi. — Sorridente, gioviale. Dei tatuaggi gli ricoprivano le braccia. Disegni realistici, di persone o animali, linee perfette e morbide. I colori erano ancora molto accesi, per nulla sbavati. 

— Come mai?

— Penso che a questa età non convenga farsi tatuaggi. Sono segni permanenti incisi sulla propria pelle, bisogna che siano dettati da una scelta pienamente consapevole. E a questa età si è ancora troppo giovani per fare scelte simili. I ragazzini che vengono qui pensano che i tatuaggi li renderanno più fighi agli occhi dei loro amici. — Mi guardò attentamente, poi riprese. — Ma questo non è il tuo caso, vero?

— Questo è uno schizzo di quello che vorrei. 

 

Tirai fuori il mio album dallo zaino, e gli mostrai quello che avevo disegnato. Una fenice, avvolta dalle proprie ali infuocate, sulle quali erano incise le lettere "C", "M" e "A", le iniziali delle persone per me più importanti. 

 

— Niente male, ragazzino. Dove lo vorresti?

— Sulla parte sinistra del petto.

— Lo ricopio con qualche piccola modifica, allora. Sei bravo a disegnare, per la tua età; devo solo migliorare qualcosina. — Riportò lo sguardo su di me, dunque aggiunse ridendo: — Magari potrei prenderti come assistente, che ne dici? Così puoi dire ai tuoi che ti guadagni già il pane da solo.

— È in bianco e nero perché i colori non prendono bene sulla mia pelle olivastra. Una volta a una festa me ne hanno fatto uno piccolo e rosso sul polso. Un tentativo fallito.

— Va bene… Capisco.  

 

A distanza di tempo, devo dire che mi dispiace quasi per quella faccia di cavallo. Cercava di mettermi a mio agio, in fondo.

 

Il mio primo tatuaggio venne molto bene. Dopo meno di due settimane la mia pelle era perfettamente guarita, e si era rigenerata portando via poco colore.

Molto bella, mi disse Hannes osservando la fenice. Poi mi diede una pacca sulla spalla, e uscì dalla mia stanza. Io rimasi lì, davanti allo specchio. Sfiorai con le dita la "C" di Carla, mia madre. Le premetti forte sullo stesso punto.

Si sentiva il mio battito.

 

-

 

Col passare del tempo, mi feci molti altri tatuaggi, fidandomi ciecamente delle abili mani di Jean. Adoravo specialmente i mandala. Sono tatuaggi tipici della cultura induista e buddhista. Figure geometriche, diagrammi o disegni circolari che rappresentano un microcosmo dell'universo, in cui ognuno di noi può ritrovare la calma, la tranquillità e la pace.

La scelta deve essere dettata dal subconscio, mi disse Jean. Guardi le figure e noti delle affinità con esse.

E io le guardavo, ed erano come una droga. Quelle forme labirintiche mi ipnotizzavano, portavano via il mio stress, la mia ansia, e mi liberavano l'anima. Il dolore degli aghi che entravano nella mia pelle era il più grande dei piaceri.

 

Jean non mi chiese mai il significato dietro tutte quelle linee che volevo solcassero  eterne il mio corpo. A ogni nuovo cliente, dopo una lezione sulle possibili reazioni allergiche, sui punti critici e dei consigli sulla cura del tatuaggio, poneva sempre la stessa domanda: "perché ti tatui?". Da me non aveva mai esatto una risposta, nonostante la pretendesse dai suoi altri clienti. 

Non che gli avrei risposto in tal caso, ovviamente. 

Forse aveva capito da solo che non ero uno di molte parole. Forse aveva parlato con Hannes.

 

Un giorno, avevo ventun anni, andai al "Titan Ink" per un tatuaggio. Salutai Petra e le chiesi di Jean. Mi disse che era malato. 

Malato, e non mi aveva avvisato? Le chiesi del mio appuntamento, e mi rispose che Jean aveva indicato un sostituto, a cui aveva già parlato di me.

 

No, io non volevo un altro tatuatore. Jean mi conosceva, e io non volevo nessun altro. Era una cosa troppo intima per me, qualcosa di profondo e importante. Specialmente quella volta. Nell'anniversario di quel giorno. 

 

Ma allo stesso tempo non potevo rimandare, non sarebbe stata la stessa cosa. Non dopo ciò che mi stava succedendo, non potevo aspettare oltre. Magari avrei potuto parlare con quel tatuatore, e decidere di conseguenza? Sì, forse era la scelta migliore.

 

Petra andò sul retro, a chiamare qualcuno, e poi la vidi tornare con un ragazzo dell'età di Jean, più o meno.

Aveva molti tatuaggi colorati, sparsi per tutto il corpo. Erano dei dotwork che rasentavano la perfezione. Forme geometriche in stile puntato, di colore grigio e nero, qualcuno rosso.  Mi stava squadrando, pensieroso. Aveva uno sguardo tagliente, occhi cerulei e profondi.

 

— Tu sei Jaeger?

Eren. Sì, sono io. Tu chi sei?

— Mi chiamo Levi, Jean si è assentato all'improvviso e mi ha chiesto di tatuarti. Seguimi. — Ci spostammo nel suo studio. Si sedette di fronte a me, sbuffando. — Non sono tenuto a sostituire quel cretino costipato. I professionisti decidono chi e cosa tatuare.

— Lo so. È anche vero che mi era stato fissato un appuntamento e mi sono organizzato di conseguenza con i miei impegni, perché Jean mi aveva garantito la sua disponibilità. Dunque il tatuaggio mi spetta.

 

Levi restò in silenzio per qualche secondo, con un guizzo di interesse negli occhi. Quindi riprese: — Ti piacciono molto i mandala, vedo. Impermanenza del mondo materiale. Peculiare. C'è un motivo particolare o si tratta di pura estetica?

— Ho portato con me un album col disegno del tatuaggio che vorrei. Te lo mostro.

— Moccioso, detesto quando mi ignorano.

Sulle scapole. — Sbattei l'album sul tavolo posto tra di noi, sostenendo la sua occhiata minacciosa. Per un attimo l'aria si caricò di tensione. Ma non distolsi lo sguardo. Non l'ho mai fatto in vita mia, e non lo farò mai. 

Alla fine schioccò la lingua sul palato, infastidito, prendendo l'album di malavoglia e portandoselo sul grembo, con le gambe a sorreggerlo mentre ne sfogliava  le pagine. Si soffermò sull'ultima.

Due grandi ali, una bianca e una nera, l'una con schizzi neri al suo interno, simili a gocce, l'altra con schizzi bianchi. 

— Togliti la maglia e muoviamoci a fare queste ali insanguinate: dopo stacco e devo prendere il treno. Se mi fai tardare, a sanguinare non saranno solo loro. 

 

I piccoli aghi si conficcavano ripetutamente sotto la mia pelle, ogni tanto Levi ci passava sopra un un panno per pulirla. A un certo punto lo sentii indugiare col pollice sulla cicatrice che porto sulla spalla.

Non mi fece domande, di nuovo.

 

Dopo aver confrontato il disegno con le mie spalle, mi aveva infatti chiesto se coprirla o meno, visto che ciò che avevo messo su carta non la comprendeva. Non è molto grande, e non credo si irriterà o si inspessirà, è abbastanza vecchia. Ho coperto spesso cicatrici molto più grandi.

No, non volevo coprirla. Non me ne chiese il motivo, e gliene fui grato.

 

La pausa durò, ad ogni modo, pochi attimi, poi riprese a tatuare. Nessuno dei due aveva spiccicato parola. Lui troppo concentrato sul suo lavoro, io nel tentare di pensare a qualsiasi cosa pur di distrarmi da ciò che stava avvenendo. Dal perché stava avvenendo.

 

— Quanti anni hai? — Patetico primo approccio, mi dissi. Ma sempre meglio di niente.

— Ventotto. E lavoro meglio in silenzio.

— Ci passiamo sette anni, allora.

— Emozionante. — Ancora, nessun suono. E troppi pensieri.

— Sei molto amico di Jean? — Riprovai.  Mi serve qualcosa. Qualsiasi cosa.

— Cos'è questa fissazione con quel biondo ossigenato? Vi fate la permanente insieme il sabato mattina?

— No, io preferisco dipingermi le unghie. — Ero sicuro si fosse fermato per trattenere una risata.

— Carino. E i disegnini sulle unghie li fai da solo, immagino.

— Ah, quella è la parte migliore.

— Sei molto bravo. I tuoi disegni sono davvero molto belli. Trasmettono molte emozioni. — Quel complimento improvviso mi spiazzò per un attimo. Non sapevo neanche come si rispondesse a un complimento così sincero.

— Grazie… — Mi schiarii la voce. — Grazie. Quelli appesi al muro sono alcuni tuoi lavori? Sono bellissimi.

— Grazie, moccioso. 

— Lo stile è simile a quello dei tatuaggi di Jean. Glieli hai fatti tu?

— Esatto. E anche lui non stava mai zitto ed era una seccatura proprio come te.

— Almeno non è noioso come te.

— Ci tieni tanto a pagare il doppio, eh Eren? — Risi.

— Come hai iniziato a tatuare? Perché lavori qui?

— Non hai proprio intenzione di tacere, vero?

— Già.

— Non lo so. Adoro disegnare, i tatuaggi, e abito in questo quartiere. Ho iniziato parecchio tempo fa. Mi piace e basta. — Mi piace e basta. Da quanto tempo non facevo qualcosa che mi piaceva e basta?

— E tu, moccioso? Perché disegni? — Ci pensai un po' su.

L'arte è una menzogna che ci permette di conoscere la verità.

— Picasso. Sei una persona curiosa, devo dire. — Ripose la macchinetta. — Finito.

 

Levi stava dietro di me con uno specchio abbastanza grosso per farmi vedere il risultato, mentre io guardavo nel grande specchio posto dinanzi a me. Era venuto proprio come lo immaginavo. Lo ringraziai, mi lasciai aiutare a mettere la garza, e dopo essermi rimesso la maglia e averlo salutato feci per uscire.

 

— La prossima volta chiederai di me o di Jean? — Mi girai e lo vidi  appoggiato al lettino a braccia conserte. 

— Come mai ti interessa? Non ero solo una seccatura?

— È raro che qualcuno attiri così la mia attenzione. — Gli sorrisi, lui ricambiò.

— Può darsi.

 

-

 

— Eren, tutto bene?

— Sì, Mikasa. Sono in macchina, sto tornando.

— Com'è venuto il tatuaggio? — Sospirai.

— Bene. Molto bene. Com'è andato l'esame, hai saputo i risultati?

— Sì, poco fa. Io ho preso 29 e Sasha 27!

— Siete andate benissimo.

— Sasha è completamente impazzita dalla felicità! E pensa che ieri le era venuta una crisi di pianto isterica pensando alla prova.

— Sono felice per voi.

— Stasera usciamo e vi offriamo qualcosa per festeggiare.

— Per me va bene. Sono sempre d'accordo quando si tratta di cibo gratis.

— Come mai sei così accondiscendente?

— Non posso voler uscire per una volta?

— Mi nascondi qualcosa?

— Certo che no.

Eren… — No, quel tono non mi piace per niente, pensai. Lo conosco.

— Stai bene?

 

Lo conosco. Conosco troppo bene l'inflessione che assume la sua voce, la tristezza e la consapevolezza che ne sono intrisi. L'ho sentito tante, troppe volte, nel corso della mia vita. E pensai che non volevo più sentire quell'intonazione, quella insolita e spietata cadenza con cui pronunciava il mio nome, come se sapesse perfettamente che io no, non stavo affatto bene.

Non volevo farla preoccupare inutilmente per me, non avrebbe avuto senso passarle il mio dolore come se fosse un brutto virus, di quelli che ti costringono a letto per giorni. Non avrebbe potuto fare nient'altro che condividere il dolore con me, perché, e lo sapeva anche lei, io non ne sarei mai guarito. Sarei sempre rimasto a letto costretto dalla malattia, non volevo stesse male anche lei per causa mia. Ma ciononostante, fin da quando ero piccolo continuava a mettermi pezze bagnate sulla fronte e ad assistermi al capezzale. 

 

— Mikasa, aspetta un attimo, sto per entrare in galleria. — Schiacciai sull'icona col microfono per mettere il "muto", quindi mi asciugai una lacrima traditrice con la manica prima che arrivasse a solcarmi la guancia e tirai un lungo respiro.

— Eccomi.

— Il telefono lo tieni attaccato a quel cosino per mantenerlo, sì?

— Sì, Mika. È proprio attaccato al cosino per mantenerlo. Tranquilla.

— Non prendermi in giro!

— Ma come hai fatto a prendere 29?!

— E dài! — Rise, e io con lei. Ora sentivo i nervi più distesi.

— Io ed Armin ti veniamo a prendere alle otto. Non fare tardi!

 

Tolsi la pellicola per far respirare la pelle e rimossi la garza. Lavai il tatuaggio con una spugnetta, e ammirai il risultato allo specchio.

La cicatrice era parte integrante del tatuaggio, valorizzata dalle curve di quelle linee decise. Ali, libertà. Ali che nascono dalle mie cicatrici.

 

-

 

— Ti sei spaventato prima?

—  Un po'...

— Piccolo, vieni qua. — Mi avvicino e lui mi abbraccia e mi accarezza i capelli.

— Non devi avere paura, sei un ometto. I bambini piccoli piangono, tu sei grande.

— Ma quel mostro mi fa paura…

— È solo un film, Eren. Queste cose non esistono nella realtà. Non ci sono i mostri nel buio. — Mi stringo a lui più forte, voglio sentire il suo abbraccio. Mi ricorda quello della mamma.

 

Non ci sono i mostri nel buio. Eppure io a volte ne incontro uno. Allora scappo veloce, non voglio sentire le sue urla, non voglio che mi prenda. È un mostro, forse è l'uomo nero? Quello di cui parlano i miei amici. 

 

Solo che loro non l'hanno mai visto, io invece sì.

 

E quando lo vedo, corro in camera mia, e mi chiudo a chiave. Corro veloce, così da sfuggirgli. Però ho ancora paura, e tremo. Allora mi chiudo nel mio armadio. Mamma mi diceva sempre di non farlo, perché temeva potessi restarci chiuso dentro e finire l'aria. Temeva tante cose quando parlava con me, come quel gigante, ma non aveva paura dei mostri. Per fortuna lei non ne aveva mai incontrato uno.

 

Rimango chiuso lì, perché l'aria mi manca se sto fuori, non se sto là dentro. Là mi sento al riparo, è il mio posto sicuro. Sento battere forte alla porta, è il mostro che mi grida: "Apri, apri!". Ma io non apro.

 

Non devi avere paura, sei un ometto. I bambini piccoli piangono. Ma io non riesco a trattenere le lacrime, anche se mi sforzo. Non so come si fa, non so come fanno i grandi a non piangere mai. Non so come fanno i miei amici ad essere sempre felici ed a voler sempre giocare, anche quando a me non va.

 

Anche la mamma era sempre felice, e anch'io lo ero quando lei c'era ancora, prima che andasse su nel cielo. Lei mi asciugava sempre le lacrime quando piangevo. Invece papà non vuole che pianga, se mi lamento gli fa male la testa. 

Voglio stare ancora con la mamma, solo un altro giorno. Solo uno.

 

Aspetto fin quando non mi sento più calmo, poi apro l'anta. Esco piano e origlio vicino la porta. Non sento niente, il mostro è andato via.

Vado in soggiorno e vedo papà addormentato sul divano. Il mostro è andato via, ora c'è di nuovo il mio papà.

 

Ti sei spaventato prima?, chiede di nuovo quando si sveglia. E io di nuovo rispondo che un po' paura l'avevo, perché i mostri mi spaventano. E quando papà diventa un mostro io ho tanta paura. 

Allora papà mi abbraccia e mi chiede scusa. "Mi dispiace, mi dispiace", sussurra al mio orecchio. Ricambio l'abbraccio, e penso a quanti me ne dava quando ancora c'era la mamma.

 

Il giorno dopo devo andare a scuola, e per non far vedere il livido sul braccio ai miei amici del cuore metto una maglia a maniche lunghe, anche se volevo mettere la maglietta che mi aveva regalato Mikasa. Sopra c'è Paperino, mi piace tanto. Ma se la maestra vede il livido, papà si arrabbia, e io devo ubbidire per non essere punito. I genitori si rispettano. Per fortuna il rossore sulla faccia non c'è più.

 

Quando dopo scuola papà mi viene a prendere, mi lascia a casa e poi va via di nuovo. Ne approfitto e vado a casa del mio migliore amico Armin, che è anche il mio vicino. Gioco con lui nel giardino per qualche ora, poi torno a casa, perché se papà non mi trova poi si preoccupa, e non voglio che mi sgridi. Prima che me ne vada, la signora Arlert mi chiama e mi chiede se va tutto bene. Io le dico di sì: oggi a scuola mi sono divertito. Abbiamo studiato le frazioni. Lei mi sorride, e il suo sorriso mi ricorda quello della mia mamma. Poi mi dice che posso andare a trovarli quando voglio, anche di notte, tanto lei ha il sonno leggero. Io non capisco bene perché dovrei andare da loro di notte, ma la ringrazio.

 

Non riesco a smettere di piangere, anche se ci sto provando. Perché non volevo essere una delusione per papà. Io ci provo ad essere un bravo figlio, solo che non ci riesco. I capelli mi fanno ancora male dove me li ha tirati, quando mi ha fatto cadere per terra. Non sento più niente, quindi torno di là. Papà dorme sul divano. Dorme sempre dopo aver finito di bere le bottiglie di birra che prende dal frigorifero. Esco e vado a casa di Armin. Mi apre la signora Arlert. 

 

— Signora mamma di Armin, posso dormire qui stasera? Ho fame. — Mi abbraccia, e penso che questo abbraccio è più simile a quello di mia madre, rispetto a quello di papà. Quello di papà non ha lo stesso calore che aveva quello di mamma. Quello della signora Arlert invece gli si avvicina di più.

La mamma di Armin aggiunge un'altra sedia a tavola, mentre Armin mi viene incontro. Poi va a parlare con suo marito. Non so cosa si dicano, perché io sto giocando a nascondino con Armin. 

 

Mangio la pasta al sugo, la carne, le verdure e poi una fetta di torta. Era da tanto che non mangiavo così: papà cucina poco. Mi lavo i denti e poi la signora Arlert mi porta un pigiamino. Le dico solo "grazie" perché non ricordo come si chiami, e mi vergogno di chiederglielo. Domani devo domandarlo ad Armin.

Mi prende la mano e mi porta nella cameretta del mio amico, e vedo che suo papà sta sistemando le lenzuola di un letto che ha tirato fuori da un cassettone sotto quello di Armin. Il papà di Armin ci legge una favola, e dopo lui e la mamma ci rimboccano le coperte e ci danno la buonanotte.

 

Quando ero più piccolo anche il mio papà mi leggeva delle storie. Mi rimboccava le coperte e restava con me fin quando non mi addormentavo. Gli chiedevo sempre di leggermi quella di Jack e il fagiolo magico, perché era la mia preferita. E lui lo faceva, perché prima faceva sempre tante cose per me. Poi la mamma è morta, e papà mi ha detto che era stato il gigante di Jack a portarla via, perché era il suo nuovo tesoro. E dopo che la mamma è stata portata via, è comparso il mostro.

 

La mamma di Armin mi abbraccia più forte quando capisce che sto piangendo. Ho imparato a piangere in silenzio.

 

Il giorno dopo è il 27 ottobre.

La signora Arlert porta Armin a scuola, mentre il signor Arlert resta a casa con me. Quando scendo le scale lo trovo in cucina a preparare la colazione. Non ti abbiamo voluto svegliare, dice. Mi siedo e mangio in silenzio, perché il mio papà mi dice sempre che non devo disturbare le persone con le mie chiacchiere stupide.

— Eren, dopo andiamo insieme da un signore che ti farà delle domande su papà, va bene?

— Non mi va di parlare di papà, però…

— Non puoi fare un piccolo sforzo?

— Che tipo di domande sono?

— È per vedere se il tuo è un bravo papà.

— Lo è. — Continuo a mangiare i biscotti immergendoli nel latte. Il signor Arlert è pensieroso. Non so perché vuole che risponda a quelle domande, ma a mio papà non piace che si parli dei fatti di casa.

— Eren, dimmi una cosa.

— Va bene.

— Come ti sei rotto il braccio?

— Sono caduto in salotto mentre correvo e ho sbattuto contro un mobile.

— È perché correvi?

— Per scappare dal mostro. — Il papà di Armin resta in silenzio e qualcosa nei suoi occhi cambia. Mi guarda in modo diverso. Mi guarda come mi guarderanno Armin e Mikasa. Come mi guarderanno lo zio Hannes e Jean. Come mi guarderà la dottoressa Zöe. Non voglio che la gente mi guardi così, ma ogni volta che mi sono ritrovato a parlare del mostro è successo questo. Qualcosa cambia nelle persone. Cambia quando lascio intravedere la parte più buia di me.

 

Qualche tempo dopo bussano alla porta, e riconosco la voce di papà. Il signor Arlert mi dice di andare in camera e non scendere per nessun motivo, ma quando sento delle urla torno giù. Vedo il mostro, mentre sbraita contro il signor Arlert. E strilla, strilla forte, e io mi tappo le orecchie per non sentire più.

 

Non lo voglio sentire più.

 

Il mostro non mi ha visto, quindi se corro veloce posso farcela. Vado in soggiorno e prendo il telefono: il numero della polizia me lo ricordo. Quando sento un rumore più forte, mi nascondo dietro la porta.

 

Aspetto.

 

Quando capisco che il mostro è papà, non piango. Ho smesso di piangere.

 

Mi svegliai all'improvviso, in preda a un attacco di panico. Non riuscivo a muovermi, avevo la nausea, tremavo. Cercai di ricordarmi quello che aveva detto la dottoressa Zöe. Inspira, espira. Inspira, espira. Senza pensare a niente, fissando un punto qualsiasi della stanza. La mia mente deve essere vuota.

Impiegai almeno mezz'ora per calmarmi, ma il senso di nausea non mi aveva abbandonato. Corsi in bagno e vomitai. Avevo fitte dappertutto.

 

I miei incubi si erano fermati quando avevo sedici anni, ma da qualche tempo avevano ripreso a palesarsi, privandomi ogni notte del sonno. Sperai di non dover tornare a prendere i sonniferi: non vedevo quelle scatoline da quando avevo quindici anni, e non avevo intenzione di confrontarmici nuovamente.

Mi accasciai accanto al water dopo aver tirato lo sciacquone, poggiando la testa sulle ginocchia. 

 

Sette anni. Avevo sette anni quando mio padre fu condannato  a nove anni di reclusione per lesione personale grave a un minore, e lo guardai dritto negli occhi quando lo portarono via. Io andai a vivere con Hannes, il mio zio materno. Mia madre era morta quando avevo quattro anni, consumata dal cancro.

Quando avevo sedici anni, mio padre uscì di galera, ma non mi cercò mai. Per tutto quel tempo avevo vissuto con l'angoscia del suo ritorno, ma con mia sopresa di lui non seppi più niente. Mi sentii rinato. Disegnai una fenice.

 

Mi alzai. Esattamente tredici giorni prima era il 27 ottobre, ed ero andato al "Titan Ink". 

Perché disegni?, mi aveva chiesto Levi. Da piccolo lo facevo sempre, solo che per un lungo periodo smisi. Ero in prima elementare. Avevo raffigurato una sagoma nera, l'uomo nero, fuori da una porta, con me dall'altro lato. La maestra aveva chiesto spiegazioni a mio padre, fermandolo dopo le lezioni. "Deve aver visto un cartone che gli ha fatto paura. Vero, Eren?".

 

Tornati a casa, buttò via tutti i miei colori e pastelli. Quando mi opposi, mi ferì con una forbice che stava sulla scrivania. Tanto non hai talento, e ci metti solo nei casini. Non hai capito che ti portano via da me se fai queste cose? Vuoi andare a vivere con degli sconosciuti?

Chiesi scusa e non mi azzardai più neanche ad abbozzare qualcosa. Mi rimase la cicatrice.

 

Ripresi intorno ai sedici anni, ma gli schizzi che feci nel lasso di tempo tra i sedici e i ventuno anni riempivano a malapena un album. Disegnavo nei momenti più bui, per sfogarmi, ritrovare la tranquillità.

 

Dopo essermi lavato la faccia ed aver tenuto i polsi sotto l'acqua fredda per riprendermi, tornai a sedermi sul letto. Presi l'album dal mio zaino abbandonato lì vicino. Due, tre linee. La mia mano si muoveva per conto suo, tracciando un percorso a me estraneo. Finito il lavoro osservai il risultato, riconoscendo un volto a me familiare.

— Strano.

 

-

 

Due giorni dopo feci ritorno al "Titan Ink" per mostrare le condizioni del tatuaggio a Levi. Lo trovai appoggiato al bancone, a parlare con Petra. Appena questa mi vide mi rivolse un radioso sorriso, salutandomi, e con mia enorme sorpresa vidi l'ombra di un sorriso anche sul volto di Levi.

— Guarda chi torna dal mondo dei morti! Il moccioso dei mandala!

Effettivamente non avevo una buona cera dopo le ultime settimane di insonnia, anche se stavo iniziando a sentirmi meglio negli ultimi due giorni.

— Dài, vieni di là e fammi vedere com'è venuta la mia ultima opera.

 

Mi tolsi la maglietta, ascoltando qualche commento di Levi sul buon lavoro svolto. Quando sfiorò la mia pelle con la punta dell'indice rabbrividii, girando la testa di lato, verso lo specchio. Notai dal riflesso che Levi aveva spostato lo sguardo sui miei addominali, servendosi anch'egli del grande specchio di fianco a noi. O forse era solo una mia impressione. Puntò poi i suoi occhi nei miei, dunque mi voltai di scatto, improvvisamente interessato al muro di fronte a me.

 

Levi stava per dirmi qualcosa, ma venne interrotto da qualcuno che aveva spalancato la porta, facendola sbattere contro il muro. 

— Eren! Adesso non mi saluti più? Solo perché ti ho dato buca dimentichi anni di amicizia? — Jean irruppe nella stanza e si avvicinò a grandi falcate a me e Levi, infastidendo quest'ultimo e buttando il mio inseparabile zaino in qualche angolo remoto della stanza. Pensai che la palese irritazione di Levi fosse una reazione normale per lui, visto come sembrava preciso e riservato e come Jean fosse solitamente irruento. Anche se lanciargli un'occhiata fulminante quando questi portò un braccio ad avvolgermi le spalle mi sembrava un po' esagerato.

 

— Come ti sei trovato col nanetto qui presente?

— Bada a come parli, faccia di cavallo.

— È di un’amabilità unica e rara, non trovi, Eren?

— Non lamentarti se troverai le ruote dell'auto forate.

— Non è per niente scorbutico, scommetto che ti sarai trovato proprio benissimo in sua compagnia.

 — A dire il vero sì, molto bene. Potrei passare a un nuovo tatuatore. Uno meno molesto. — Decisi di interrompere il loro battibecco. Jean portò teatralmente l'altra mano sul suo petto.

— Vi siete messi d'accordo contro di me? Merito davvero così tanto il vostro odio?

— Eren ha semplicemente sale in zucca. Sa riconoscere la qualità. — Pronunciate queste parole, mi dedicò un occhiolino, ed arrossii impercettibilmente.

— Non sono dello stesso avviso.

— A nessuno interessa quello che pensi tu, equino tedioso.

— Ripeto, sei davvero affabile, Levi.

— Scusate se vi disturbo, posso mettermi la maglia?

— Certo, Eren. — Rispose Jean liberandomi dalla sua morsa. — Anche se sei una gioia per gli occhi anche così. Dico bene, Levi?

— Assolutamente. — Confermò questi con un ghigno.

 

Ignorai il solito umorismo di Jean e tentai di prendere la maglietta poggiata sul ripiano, ma per sbaglio urtai  il marker elettrico, facendolo cadere per terra.

— Eren, ma quanto sei scemo! Riesci a prendere una maglia senza rompere le macchinette? — Esclamò bonariamente.

Jean. — Lo riprese subito l'altro, vedendomi a disagio.

 

Ma quanto sei scemo? Come fai a non saper nemmeno mettere a posto un piatto?! Sei inutile, vai in camera tua.

Mi mancò l'aria. 

 

— Scusate, ora devo andare. — Recuperai l'utensile mettendolo al suo posto, infilai in fretta la T-shirt slabbrata e mi fiondai sull'uscio.

— È per colpa mia? — Fece Jean.

— No, tranquillo. Ho ricordato all'improvviso di avere un impegno. Scusate per la macchinetta, nel caso fosse rotta vi ripagherò.

— Nah, è nuova, possiamo lamentarci con Amazon e dire che era già così.

— Come vuoi. Ciao, ragazzi. Ci vediamo. — Mi affrettai verso l'uscita, riconoscendo la familiare sensazione di un macigno all'altezza dello stomaco. Salutai Petra velocemente e raggiunsi l'entrata, ma un "Eren" mi bloccò. Mi voltai e vidi Levi raggiungermi.

— Va tutto bene? 

— Sì, perché?

— Non si direbbe.

— Va tutto bene. — Valutò la mia espressione, poi decise probabilmente fosse meglio lasciar stare. Non ero in vena di parlare, soprattutto del mio stato d'animo.

— Dammi il cellulare. — Per qualche strana ragione sbloccai lo schermo e glielo consegnai. Lo vidi digitare qualcosa per poi restituirmelo.

— Ti aspetto prossimamente. Puoi chiamare me direttamente per prenotare. Ci si vede, Eren. — Detto questo, tornò indietro, e dopo averlo osservato per un po', andai via anch'io.

 

Camminai a lungo per tornare a casa, per godere quanto più a lungo possibile dell'aria fresca, sperando potesse alleviare la stretta che sentivo all'altezza dello stomaco in qualche modo. Fu inutile, e mi vidi costretto, a un certo punto, ad aumentare il passo.

Una volta varcata la soglia del mio appartamento, mi sciacquai il viso, chiusi le persiane della camera da letto e mi buttai a peso morto sul materasso. Dopo aver ritrovato la pace dei sensi e speso qualche minuto a fissare il vuoto, fui colto da una epifania.

 

Ho dimenticato lo zaino.

 

Mi diedi dello stupido più volte, poi presi il cellulare. Per fortuna Levi mi aveva dato il suo numero di telefono. Avrei riconfermato di essere un idiota contattandolo per chiedergli dello zaino, ma non potevo fare altrimenti.

 

"Levi, sono Eren. Ho dimenticato lì lo zaino, posso passare a prenderlo ora o disturbo?"

 

"Sto tatuando un cliente. Te lo porto io quando ho finito, inviami il tuo indirizzo."

 

La risposta fu quasi immediata, e il contenuto mi destabilizzò per un attimo. Sia perché voleva sapere dove abitassi sia perché quando aveva tatuato me aveva ignorato completamente il suo cellulare. E lo avevano chiamato due volte.

 

"Non vorrei disturbare ancora. Posso passare io quando hai fatto."

 

"Mandami l'indirizzo. Ora devo andare, a dopo."

 

Mi rassegnai e feci quello che mi aveva detto. Capii quanto fosse improbabile riuscire a opporsi al suo volere. Non che mi dispiacesse il fatto che dovesse venire a casa mia, mi ritrovai ad ammettere. C'era qualcosa in lui di ammaliante, per certi versi. Era insolito che permettessi a qualcuno di avvicinarmi. Oltre ad Armin e Mikasa, in effetti, e Jean, ero quasi inavvicinabile. Chiacchieravo con Reiner in facoltà, assumevo una maschera gioviale durante le uscite che organizzava Mikasa con altra gente, ma era perlopiù cameratismo di circostanza. Come mai, allora, permettevo a Levi, conosciuto da così poco, di raggiungermi a casa?

 

Forse aveva qualcosa a che fare col suo atteggiamento. Era certo un po' bisbetico di primo acchito, ma si rivelava subito essere cordiale, gentile nei modi. Non era mai stato indiscreto, aveva sempre rispettato i miei spazi, e mentre mi tatuava aveva controllato non stessi soffrendo. Fisicamente, ma anche emotivamente. 

Forse trovavo attraente il suo modo di porsi, il suo fisico atletico anche se minuto, le sue movenze, il modo in cui mi parlava e le parole che usava.

Forse era per i suoi occhi magnetici, che incatenavano il mio sguardo al suo. Ho sempre dato agli occhi particolare importanza, pensavo e penso tutt'ora di poterci leggere dentro le vere emozioni delle persone, ciò che pensano. Scrutavo spesso i suoi, per poterlo conoscere meglio.

 

Sentii suonare il citofono, esaminai i numeri sulla sveglia posta sul comodino. Erano passate tre ore, e come al solito le avevo passate a perdermi nei miei pensieri sul letto. Gli aprii il portone e scesi le scale per raggiungerlo nell'atrio. Solo che all'ultima curva mi scontrai con qualcuno che riconobbi essere Levi. A quanto pare aveva deciso di salire le scale per consegnarmi lo zaino a casa. Vidi il suo viso colorarsi di rosso per l'imbarazzo, mentre mi porgeva lo zaino. Poi riacquistò in fretta la solita compostezza.

— Mi hai scritto anche il piano, pensavo di dover salire.

— Il piano l'ho specificato per via del citofono. È ordinato in base agli appartamenti, l'avrai notato. — Lo vidi abbassare per un attimo lo sguardo, e pensai fosse per colpa mia.

— Grazie, scusami ancora per il fastidio…

— Smettila di scusarti e di fare quella faccia. Nessun problema. — Notai che le zip erano chiuse dal lato opposto a come le avevo lasciate.

— Hai sbirciato, per caso?

— Potrei averci buttato l'occhio. — Mi sorrise e io ricambiai. Ero geloso delle mie cose, ma non mi dava fastidio il pensiero che avesse ficcato il naso nel mio zaino.

— Ho sfogliato di nuovo i tuoi disegni. L'ultimo che hai fatto è particolarmente bello. 

— Merito soprattutto del soggetto. — Il mio ultimo disegno era il ritratto del volto di Levi, con particolare attenzione al taglio dei suoi occhi; alle mie parole sorrise nuovamente.

— Beh, è un po' scomodo stare qui sulle scale. Se per caso sei libero possiamo farci un giro. 

 

Non sapevo cosa rispondere. Era un invito a uscire, giusto? Non sapevo come approcciarmi. Avevo frequentato qualcuno in passato, ma per puro passatempo e per mia iniziativa. Perché una persona avrebbe dovuto ritenermi interessante? 

 

— Io… Non lo so. — Levi mi scrutò e soppesò le mie parole. 

— Forse dovresti fare semplicemente qualcosa per te stesso. Lo meriti. — Prima che potessi controbattere, aggiunse: — Allora alla prossima, Eren. — Fece un cenno con la testa come saluto e si voltò.

 

Mi piace e basta, aveva detto Levi. E io avevo pensato che era da molto che non facevo qualcosa che mi piacesse e basta. Era da tanto che non posavo la matita sulla carta ruvida per puro svago. Che non uscivo semplicemente per divertirmi, e non perché mi trascinavano con loro. Era da tanto che non provavo un'emozione vera. Sì, forse dovevo fare semplicemente qualcosa per me stesso. Mettendo da parte i miei timori.

 

— Aspetta. Ti va di prendere un caffè insieme? — Si girò e mi sorrise.

— Solo se poi andiamo al parco e posso posare per qualche altro ritratto.

— Affare fatto. — Lo raggiunsi velocemente, e mentre uscivamo unimmo le mani quasi inconsapevolmente.

 
   
 
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