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Autore: wolfymozart    12/01/2021    0 recensioni
La rivoluzione incombe su Parigi, restituendo dignità agli oppressi e presentando un conto amaro agli oppressori. Ma nei suoi giudizi perentori e tranchant, di condanna e assoluzione, non tiene conto delle sfumature, mai nette, tra innocenti e colpevoli, non tiene conto di sentimenti, paure, speranze di quanti, pur nella schiera degli oppressori, sono stati anch'essi vittime del sistema.
Un rivoluzionario integerrimo ma tormentato, una nobildonna infelice ma determinata, un amore impossibile, una condanna eterna.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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La scalinata maestosa che gli apparve davanti agli occhi fugò ogni improbabile dubbio circa il rango della famiglia da cui era stato mandato a chiamare in modo così rocambolesco. La domestica lo pregò di attendere nell’atrio ai piedi della scalinata finché non avesse avvisato del suo arrivo la padrona. Clermont si guardò attorno incuriosito: l’atrio dal lucido pavimento a scacchi bianchi e neri era inondato dalla luce del mattino grazie ad ampie vetrate che si aprivano sul giardino interno del palazzo, un giardino di straordinaria bellezza e compostezza, opere certo di un sapiente giardiniere. I fiori colorati ondeggiavano nella brezza primaverile, mentre il sole baciava con grazia l’erba novella e l’acqua zampillava allegra nella grande fontana centrale. Il medico restò incantato alla vista di un simile spettacolo della natura e della perizia umana. Erano anni che non metteva piede in un palazzo nobiliare, la sua vita era trascorsa tra quartieri popolari e abitazioni borghesi, dignitose, anche abbienti, ma che non potevano competere con il lusso e lo sfarzo di certe residenze di duchi e marchesi. La sua attenzione venne richiamata dalla domestica che con fare cerimonioso gli annunciava che la contessa lo attendeva nei suoi appartamenti e la pregava di accompagnarlo al più presto al suo cospetto: la figlia sembrava essersi aggravata.
Senza farselo ripetere, Clermont improntò con passo deciso la scalinata di marmo bianco che immetteva al piano superiore, costringendo la poco agile domestica ad affrettarsi trafelata. Arrivati al piano nobile, un domestico in livrea, con un’espressione alquanto stupita dipinta in viso, si premurò di aprire loro i battenti della porta che immetteva nella grande stanza dove i conti erano soliti ricevere gli ospiti. Enormi ritratti alle pareti, alcune imponenti poltrone, una consolle, un cembalo e altri preziosi arredi sfilarono davanti alla vista di Clermont mentre seguiva la concitata domestica attraverso la stanza.

-Ecco l’appartamento della contessa. – esclamò quasi senza fiato per la corsa alla fine di un lungo e luminoso corridoio che dalla sala dei ricevimenti immetteva agli appartamenti privati dei conti.
La domestica si arrestò per bussare con garbo alla porta afferrando la pesante maniglia dorata. Un’altra domestica, giovane e dall’aria spaurita, accorse ad aprire.
-Oh, Louise, quanto tempo ci hai messo! La contessa è molto in ansia per la contessina Juditte, presto, non perdiamo altro tempo. – li sollecitò la giovane, permettendo loro di entrare.
Dopo aver indicato al medico con gesti concitati la collocazione della stanza della contessina, le domestiche si fecero da parte in attesa di altri ordini da parte della padrona. Clermont si avviò verso la porta da loro indicata e bussò con garbo.
-Louise, vi stiamo aspettando, entrate. – esclamò una voce cortese, appena incrinata da nota d’angoscia che tuttavia non offuscava il garbo con toni imperativi.
- Sono il dottor Clermont. – rispose lui, non osando aprire la porta per discrezione. – Posso entrare, contessa?- domandò educatamente, dissimulando il più possibile l’avversione naturale che provava nei confronti degli aristocratici.
Il silenzio restò sospeso per qualche istante. Clermont, impaziente, stava per abbassare la maniglia quando sentì una nuova domanda a lui diretta.
-Come avete detto che vi chiamate, dottore? – domandò la voce, ora più incerta, quasi rotta.
- Clermont, Jacques Clermont. Ora permettetemi di entrare, contessa. – rispose con una certa impazienza.
Ancora silenzio per lunghi istanti. – Entrate. – si sentì infine rispondere.
Il medico non se lo fece ripetere una seconda volta. La stanza era semibuia, le tende erano tirate per non disturbare il riposo della bambina, accanto al cui letto stava seduta sua madre, la contessa Roqueville de Beaufort. Stava con il capo chino sulla figlia e dunque Clermont ne poté scorgere soltanto i boccoli biondi che le ricadevano sulle spalle.
-Quali sintomi presenta sua figlia? – domandò accostandosi alla piccola che dormiva un sonno convulso.
La contessa non rispose, restò per qualche istante china e silenziosa a contemplare la bambina, poi improvvisamente alzò la testa, con un gesto che parve quasi inconsulto, come se non riuscisse a dominarsi.
Clermont si arrestò, deglutì, trattenne con una presa nervosa il manico della borsa e, come impietrito, si ritrovò a fissare i suoi occhi in quelli azzurri, lucidi di lacrime, di lei. Il respiro gli si arrestò in gola. Quello sguardo muto gli parve avesse in sé un che di sfrontato e di colpevole insieme, un qualcosa che lo obbligasse a fermare i suoi occhi nei suoi per concederle un riconoscimento o un’assoluzione. Lei restò muta, quasi immobile, si limitava a fissarlo, accarezzando con gesto ripetitivo i biondi capelli della figlia. Fu il medico a porre fine al precario equilibrio di quella situazione sospesa.
-Permettetemi di visitarla. – le disse chiedendole con un gesto di scostarsi e fagli posto accanto alla bambina. Abbassando lo sguardo, colta da un’improvvisa vergogna, sgusciò di lato, evitando anche solo di sfiorarlo con le pieghe dell’ampia veste e si addossò alla parete, da cui seguì senza far motto le operazioni di lui.
- Ebbene, piccola, vi devo svegliare.- sussurrò con dolcezza all’orecchio della bambina, scrollandole contemporaneamente una spalla.
La bambina aprì gli occhi, azzurri, identici a quelli della madre. Clermont si fermò per un attimo, serrando i denti e deglutendo la saliva che gli chiudeva la gola.
-Buongiorno, signore. – le disse lei, con voce flebile.
-Buongiorno. Come vi chiamate? – domandò sorridendo per infonderle serenità.
- Juditte. Juditte Charlotte Roqueville de Beaufort, signore. Il mio signor padre ci tiene. –
- Tiene a cosa?- domandò incuriosito il medico mentre l’aiutava a mettersi seduta e le scostava la veste per auscultarla.
- Al nome completo. L’ho imparato a memoria, ma io preferisco essere chiamata solo Juditte. – spiegò.
- Oh sì, Juditte è un nome molto grazioso. – le sorrise lui, abbassandole la veste sulla schiena.
- L’ha scelto mia madre. Lei mi chiama solo Juditte. – precisò
- E, mia piccola Juditte, che cosa vi sentite? – domandò.
- Ho male alla testa, mi sento molto stanca, non ho voglia di mangiare quello che mi porta Louise. Le ci resta male, ma io non riesco proprio, mi viene da vomitare. –
- Nient’altro? –
- Nient’altro. – confermò, mentre le palpebre le si chiudevano dalla stanchezza.
- Va bene, ci credo. Ora vi preparerò alcune medicine che dovrete prendere però, mia cara, senza storie. – le disse, rimboccandole le coperte. Juditte annuì obbediente, mentre seguiva con lo sguardo stanco il medico che si avvicinava a sua madre.
- Ebbene, dottore? – domandò ansiosa, fissandolo con quegli occhi di un blu intenso in attesa spasmodica di una risposta. Clermont non sostenne lo sguardo, voltò il capo e disse:
- Lasciamola riposare ora. Ve ne parlerò fuori. –


La contessa de Beaufort non fece obiezioni, e si avviò alla porta, mentre il medico le lasciava il passo.
-Ditemi tutto ciò che devo sapere, senza nascondere nulla. – gli intimò una volta richiusi i battenti alle sue spalle. Si appoggiò con la schiena alla porta quasi le mancassero le forze, in attesa.
- Non c’è nulla di cui dobbiate preoccuparvi. Un’indisposizione di stomaco, una semplice indigestione. Vostra figlia deve aver mangiato qualcosa che le ha fatto male. – spiegò con calma, ostinandosi a evitare lo sguardo della sua interlocutrice.
- Non è possibile. Il nostro cuoco è sempre così attento…- ribatté incredula.
- Non sempre avere un cuoco è la soluzione ad ogni ordine di problemi. – obiettò il medico con una punta di sarcasmo che non passò inosservata. – E nemmeno un esercito di servi. – aggiunse accompagnando queste ultime parole ad uno sguardo gelido.
- E ora che si può fare per lei? – cambiò discorso la madre, riportando l’attenzione all’unica cosa che in quel momento le stava a cuore, la salute di sua figlia.
- Ora vi lascerò un rimedio, badate che le venga somministrato sempre agli stessi orari per alcuni giorni. -rispose estraendo dalla borsa una boccetta e porgendogliela. – Occupatevene voi. Non delegate anche questo ai vostri servi. – le raccomandò, a mo’ di rimprovero.
- Non vi è alcun bisogno di specificarlo. – rispose la contessa, con una punta di amarezza e di offesa nella voce, mentre abbassava lo sguardo.
- Perdonate, non volevo essere indiscreto o insinuare dubbi sul vostro senso materno, volevo soltanto dirvi che potete benissimo occuparvi da sola di vostra figlia, senza necessità di uno stuolo di domestici. – ribadì nuovamente con un sorriso obliquo, amaro. Lei non controbatté nulla, si limitò ad annuire con un cenno del capo appena percettibile, i begli occhi blu fissi sui rombi lucidi del pavimento.
- Se lo riterrete, tornerò fra una settimana per visitarla di nuovo. I vostri domestici sanno dove trovarmi.  I miei omaggi, contessa.- si congedò con un inchino che gli riuscì più goffo di quanto avrebbe voluto e ripercorse in senso contrario il corridoio da cui era venuto.
Nel salone dei ricevimenti, le domestiche lo stavano attendendo e al suo ingresso si alzarono in piedi.
-Allora, dottore?- chiesero all’unisono. Il domestico in livrea che stava in piedi ritto di fianco alla porta squadrò con aria di disapprovazione il quadretto che gli si parava davanti agli occhi.
- Nulla di grave, proprio niente di cui preoccuparsi. La contessina Juditte ha soltanto bisogno di alcuni giorni per rimettersi. – rispose con un sorriso franco e cordiale.
- Oh sia lodato il Signore! – esclamò Louise, eseguendo un rapido segno di croce.
- Ma, mi raccomando, tenete sotto controllo il cuoco. – precisò il dottore con un filo d’ironia.
- Non capisco, il nostro cuoco è uno dei migliori di Francia! Il signor conte l’ha assunto lui stesso dopo un viaggio nel Ponthieu!- replicò quasi indignata la cameriera.
Al sentire nominare quel luogo, Clermont trasalì; ma seppe dominarsi, trasse un respiro e fece per accomiatarsi. Louise si offerse subito di fargli strada e lo scortò fino ai piedi della scalinata. Dopo aver preso congedo dalla domestica, il medico sparì dietro al portone, come avesse fretta di andarsene. L’aria di quel palazzo gli era divenuta infine irrespirabile, la maniglia del portone sembrava quasi che scottasse. Non appena fuori, si concesse il lusso di qualche respiro profondo e lasciò vagare lo sguardo al cielo limpido di primavera, come se potesse fornirgli un gradito sollievo.

Non aveva fatto che qualche passo lungo la via, quando si sentì chiamare:
-Dottore, dottore! Fermatevi, di grazia. –
Clermont riconobbe la voce che lo chiamava. Restò per un attimo dubbioso sul da farsi: la tentazione di proseguire per la sua strada senza prestare ascolto a quella richiesta era grande. Tuttavia arrestò il passo e si voltò, con l’espressione corrucciata di chi viene distolto dal proprio cammino. In attesa di ascoltare quanto aveva da dirgli, rimase con le braccia lungo i fianchi e lo sguardo serio a fissare la contessa.
Anche lei si fermò a qualche passo di distanza, come se non osasse avvicinarsi oltre; i capelli biondi, leggermente scomposti, le ricadevano sulla fronte: pareva essere reduce da una corsa quasi disperata. Ci mise qualche istante prima di riprendere fiato e rivolgergli la parola.
-Perdonate, dottore, me ne stavo per dimenticare. Il vostro compenso. – gli disse tendendogli un sacchetto di monete tintinnanti, accompagnando a quel gesto uno sguardo timido, contrito.
Non poteva giocargli un tiro peggiore, una peggiore umiliazione. Clermont aveva volutamente trascurato di richiedere un compenso e aveva fatto in modo di andarsene il prima possibile da quel palazzo perché non glielo venisse menzionato. Non ne aveva bisogno, non voleva soldi. Non da lei. Aveva sempre pensato che il suo mestiere, la sua conoscenza, la sua perizia non fossero in vendita; per vivere aveva dovuto certo scendere a compromessi, farsi pagare, richiedere giusta retribuzione per il servizio che forniva, ma aveva sempre avuto l’orrore del denaro e soprattutto l’orrore di sentirsi messo in vendita. La sua dignità, il suo onore non avevano prezzo. Così, sdegnosamente, rifiutò deciso.
-Non ce n’è bisogno, contessa. – la congedò lapidario, scuotendo energicamente il capo.
- Insisto, dottore. Avete lavorato, è giusto ricompensarvi. – insistette lei, avvicinandosi con discrezione, con passo quasi incerto, ma ben decisa a non lasciarlo andare via in quel modo. Si scostò una ciocca di capelli dalla fronte con un gesto che costrinse Clermont  prima a volgere altrove lo sguardo e poi a serrare la mascella in un’onda di improvviso sdegno. Quegli intesi occhi azzurri, però, non volevano smettere di fissarlo.
-Per favore, signora. Vi ho già spiegato che non c’è bisogno. Non tutto si può compare. – sentenziò infine, da moralista quale non era mai realmente stato. Continuava a tenere gli occhi bassi, non sopportando il peso di quella conversazione.
 -E sia. Non voglio irritarvi.- concesse infine la contessa, abbassando anche lei gli occhi a celare una punta di delusione: evidentemente aveva sperato in un esito migliore di quel colloquio.
- Se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi. – tagliò corto il medico e fece per voltarle le spalle, ma lei fu più svelta e gli afferrò un braccio.
- Vi prego, ascoltatemi un attimo soltanto. Ci sarebbero tante cose da spiegare…- iniziò con rammarico, gli occhi a terra, il capo chino.
- Non c’è nulla da spiegare, mademoiselle Marianne de Blanchard, è tutto sufficientemente chiaro. – la fermò lui, appoggiando con decisione la mano su quella di lei perché gli liberasse il braccio. Non ebbe però l’ardire di fissare per più di un attimo quegli occhi che lo supplicavano. Sentendosi chiamare con il suo nome da ragazza, Marianne trasalì, e allo stesso modo fece al contatto con la mano di lui. Sciolse la presa e si limitò a seguirlo con lo sguardo mentre si faceva largo tra i passanti che affollavano la strada in quella luminosa mattinata parigina.
   
 
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