Ci
sono cose.
Cose
che si fanno da soli e cose che si fanno in tanti.
Di
tutte queste cose, comunque, sono molto più bravo nelle
prime.
E
poi ce ne sono altre, di cose.
Cose
che non si possono fare da soli, cose in cui bisogna
essere almeno in due, cose in cui più si è e
meglio è.
In
qualche modo, di tutte queste cose, anche se non mi fanno
impazzire, ne riconosco l’utilità.
Ma
fra tutte le distinzioni più o meno condivise sulle cose
che si possono fare o non fare da soli, mi sono sempre chiesto
perché non si
parlasse mai di quelle altre cose.
Di
quelle senza senso, tipo.
Eh
sì, cose senza senso.
Come
quelle cose che non dovrebbero accadere da sole ma che
purtroppo accadono.
Innamorarsi,
per esempio.
Perché
mica è giusto che uno s’innamora e soffre e
l’altro
non lo sa e vive?
Doveva
esserci una sorta di obbligo di simultaneità in
quelle cose e invece no.
Possibile
che una se ne stava così, sulla terra, tranquilla
e beata, ignorando totalmente di essere la causa principale della
sofferenza di
un altro individuo, colpevole solo di aver avvertito per lei dei
sentimenti non
corrisposti e che quindi, alla fine, poteva solo restarsene
amareggiato,
incazzato, solo e infelice per una cosa che lo aveva sorpreso
così, di punto in
bianco, mentre neanche se la stava cercando?
Come
diavolo funzionava?
C’era
dell’ingiustizia in quella cosa senza senso chiamata
innamoramento.
Io
l’avevo sempre pensato.
Lo
avevo pensato anche quando mi hai lasciato.
E
poi lo avevo pensato anche quel giorno, quando mi avevi
dato appuntamento in quel caffè.
Ti
avevo visto ancor prima di entrare, da fuori, dai vetri
un po’ appannati del locale.
Te
ne stavi lì seduta davanti a un caffè pieno di
cose che
non avrebbero voluto stare lì insieme, quello sì,
lo avevo pensato subito.
Ma
tu eri distratta, mica te ne accorgevi?
Avevi
semplicemente deciso che dovevano essere lì tutte insieme
quelle cose, amalgamate e ammassate proprio a quel modo, solo per
soddisfare un
tuo capriccio.
Mica
lo sapevi che tutte quelle cose mescolate così insieme
non ci volevano stare?
O
forse sì, lo sapevi ma te ne fregavi, non ci badavi.
Perché
sì, forse eri solo egoista, si.
Eccome
se lo eri.
E
poi c’erano dei dolci, tre, tutti diversi, tutti assaggiati
e abbandonati.
Perché
tu eri anche curiosa, volubile, incostante.
Dovevi
capire, scegliere, cambiare.
Unire
le cose per poi disfarle.
Disfare.
Ecco,
quello era il tuo verbo.
Ma
anche confondere, non so.
O
forse innamorare, anche se, davvero avevi innamorato solo
me?
Ma
comunque il tuo verbo certo non era pensare.
«Che
diavolo fai?»
Io
te lo avevo chiesto lì in piedi, a un passo da te.
Te
che non sentivi, te che te ne stavi lì seduta scomposta con
le auricolari alle orecchie, la testa china su un copione colorato e le
matite
sparse e i pennarelli fluorescenti, stappati e disparsi senza cura.
“Sei
un tale casino, Kurata.”
Mi
ricordo che, frustrato, avevo pensato proprio quello
prima di avvicinare le dita al tuo orecchio e toglierti via
l’auricolare.
«Hayama!
Mi hai spaventato!» Lo avevi urlato sorpresa, come
se fossi io, quella cosa che non t’aspettavi.
In
realtà quello sorpreso dovevo essere io, perché
eri tu, decisamente
tu, quella cosa che non mi aspettavo.
La
sorpresa poi… Anche quella doveva essere mia, ma anche
quella ti eri presa.
Voglio
dire, in fondo eri tu quella che mi aveva invitato.
«Tu
mangi, tu bevi, tu giochi con dei colori, tu leggi, tu ascolti
musica… Ne fai sul serio almeno una di tutte queste cose,
Kurata?»
Mi
ero lasciato andare sulla sedia, difronte a te che
sorridendo ti eri già cambiata quella espressione sulla
faccia.
«Lo
sai come si dice, no? Se si usano insieme tutti e cinque
i segni diventa tutto più facile!»
«Immagino
tu stia parlando dei sensi…»
«Sì…
Esatto! I sensi!»
«E
funziona?»
«Ancora
non lo so…»
Di
sicuro avresti voluto aggiungere altro, ma poi una
cameriera ci si era avvicinata e aveva sciorinato al volo tante cose
che neanche
avevo ascoltato.
Io
più che altro pensavo. Ma di certo non a tutte quelle
cose.
Ad
esempio al fatto che quella tipa fosse carina. Aveva un
caschetto castano, degli occhietti neri vispi ed esuberanti e tutto il
resto
delle cose al posto giusto.
Sì,
mi piaceva.
Eppure
non mi piaceva, o forse non ci riusciva.
E
allora mi ero chiesto perché.
Perché
non poteva essere una come lei?
Perché
invece doveva essere una come te?
Che
stupido che ero, che stupida che eri.
Alla
fine avevo ordinato una birra chiara alla spina e tu
avevi cominciato a mettere ordine fra le tue cianfrusaglie.
«Un
altro lavoro, Kurata?» Te lo avevo chiesto mentre
guardavo le tue dita riorganizzare lente le pagine sparse di quel
copione.
«Già…
Un'altra commedia…»
«Bella?»
«Beh…
Bello è il fatto che almeno questa è un commedia
che
non si trascinerà dietro una tragedia.»
Così mi avevi detto, ma non mi avevi
guardato.
Alludevi.
Lo sapevo a cosa ma certo non avevo voluto raccogliere.
Raccogliere
cosa, poi?
Che
senso avrebbe avuto?
Eri
tu quella che due anni prima mi aveva lasciato.
E
poi quante volte ne avevamo parlato di quella vecchia
storia? Ci eravamo detti è tutto passato, è tutto
archiviato, ma tu, in verità,
non appena potevi me lo ricordavi.
Sadica,
Kurata.
O
forse eri solo stronza.
Perché
era vero, tu eri brava, davvero molto brava a
raccontarti le stronzate, meno brava a darmele a bere.
«Ieri
sera hai bevuto molto…» Poi così mi
avevi detto, mentre
con lo sguardo avevi studiato attenta ogni mio movimento.
«Era
il senso del gioco, Kurata.»
«No…
Mica era quello?» E a quella domanda avevi arricciato
le labbra.
Era
così che facevi quando qualcosa ti deludeva, lo avevo
scoperto in quel periodo che mi avevi detto stiamo insieme.
Anche
se, in realtà, non avevo scoperto solo quello.
«No?»
«No!
Gomi ha detto che dovevamo bere solo per ogni risposta
affermativa!»
«Oh…»
Dissi e avevo scrollato le spalle.
«Ecco!
E’ così che fai. Prima fai danni e poi scrolli le
spalle!»
«Nessun
danno, Kurata, è che mi piacciono i giochi alcolici
di Gomi.»
«Dunque?»
«Chissà…
Forse volevo solo bere, o forse no… Forse tu eri
bugiarda e ho pensato di dover bere per te.»
Poi
caschetto castano era tornata, mi aveva sorriso
lasciandomi la birra sotto al naso, tu l’avevi guardata un
po’ di traverso, almeno
così mi era sembrato o forse così avevo sperato.
«Io
sarei bugiarda?»
«Beh…
Hai bevuto una sola volta.»
«E
qual era la domanda?»
«E
lo chiedi a me? Sei tu che hai bevuto, mica io?»
«Mi
ascoltavi o non mi ascoltavi?»
«Ti
guardavo.»
Così
avevi abbassato lo sguardo e c’era stata un’altra
cosa
che mi ero ricordato.
«Dio!
Da quando t’imbarazza sapere che ti guardo, Kurata?»
«Non
sono imbarazzata…»
«Ah
no?»
«No!»
Che
bugiarda che eri, Kurata.
«Vabbè…
Quindi anche sta volta devi partire?»
«No…
Giriamo qui… A Tokyo.»
«Menomale…
Almeno lui non lo devi lasciare.»
«Non
so cosa tu stia tentando d’insinuare… Ma certo,
quella volta non avrei voluto
lasciare te… Se è per questo.»
«Ma
l’hai fatto.»
Poi,
a quel punto, mi avevi tirato via la birra dalla mano.
«Giochiamo.»
Così mi avevi detto e finalmente mi avevi guardato.
«È
per questo che mi hai invitato qui, Kurata? Per giocare di
nuovo a quello stupido gioco?»
«Forse.»
«Bene…
Allora io me ne vado.»
Ero
stanco di lasciarti giocare con me, soprattutto di capirne il
perchè, così mi ero
alzato e sì, l’avevo fatto, me n’ero
andato.
Ma
tu, no. Non l’avevi accettato.
E
mi avevi rincorso.
Così,
alla rinfusa, come i fogli che sbucavano dal tuo
zaino, come i capelli che ti volavano ai lati della faccia e i pensieri
sparsi
che ti si agitavano nella testa.
«Che
vuoi, Kurata?»
«Capire…»
«Sei
in ritardo per quello.»
«E’
vero, io ho bevuto solo una volta ieri sera… Quando Gomi
ha detto “Io non ho mai avuto paura.”»
«E
di che cosa avresti avuto paura tu, Kurata? Sentiamo.»
«Di
te! Ho sempre avuto paura di te… Per questo ti ho
mollato…»
Eri
sempre la solita vigliacca, Kurata.
«No,
tu mi hai mollato perché dovevi girare un film
all’estero e volevi farti i cazzi tuoi!»
«Veramente
hai pensato una cosa del genere?»
Eri
arrabbiata, anche un po’ imbarazzata e io non ne avevo
capito neanche il perché, in fondo era quello che volevi.
E
così, mentre ti guardavo, passo dopo passo, mi avevi
spinto contro un muro.
E
io avevo pensato che in fondo era ciò che avevi sempre
fatto.
Ma
quella volta proprio no, spalle al muro non ci sarei
rimasto.
«Cos’altro
avrei dovuto pensare? Guarda che sei tu che mi
hai detto “Non me la sento di continuare Hayama, lasciamo
stare…”»
«Io…
Stavo per partire… Cosa mai potevo chiederti?»
«Non
ti leggo nella testa, Kurata, ho dovuto trarre da me le
conclusioni, come al solito...»
«Te
lo ricordi cosa volevi da me quella sera?»
«Cristo,
Kurata! Certo che me lo ricordo! Volevo te! Te, come
in tutti gli altri dannati giorni della mia vita!»
«Potevo
ancora chiederti di aspettare?»
«Beh
sarebbe stata un’idea…»
Che
stupida che eri, Kurata, tanto che stupido avevi fatto
sentire anche me.
Perché
ancora ti avevo dato tutto quel potere?
«Quindi…
Anche tu mi hai aspettato, Hayama?»
No
che non l’avevo fatto, ma quell’anche…
Quella parola mi era piaciuta proprio tanto, ma non te lo
avevo detto.
E
allora un po’ mi era venuto da ridere, perché per
quella volta,
quella posizione, a me non era sembrata affatto male.
«Tu
le hai ascoltate le mie risposte ieri sera?»
«Purtroppo…»
«Addirittura?»
«Mi
spieghi cos’hai da ridere, Hayama?»
«Niente…
Solo… Cos’hai capito, sentiamo?»
«Beh…
Che hai saltato una lezione perché eri in hangover,
che hai fatto sesso con una sconosciuta, che l’hai fatto
anche con una
matricola, che…»
Mi
eri sembrata così buffa mentre, rossa e impettita,
sciorinavi
tutte quelle cose che pensavi di aver capito, tanto che per un
po’ me ne rimasi in
silenzio a lasciarti fare.
E
tu parlavi, eccome se parlavi, tanto che neanche ti eri
accorta che a quel punto mi ero spostato, che mi ero avvicinato e che,
passo
passo, ti avevo spinto proprio su quel muro.
«Come
al solito sei tarda, Kurata.»
Allora
a quel punto mi avevi guardato, avevi stretto gli
occhi a fessura e arricciato il naso in una specie di punta.
«Ma certo… Giusto…
Ormai avrai un'altra, in fondo sei innamorato…»
«Non
ho nessun altra, Kurata.»
«Ma
allora… Mi hai aspettato?»
«Beh…
Non ho detto questo...»
«E
allora che intendi, Hayama?»
E
sì, le mani a quel punto ti si erano spostate
all’indietro
ed era stato proprio in quel momento che te n’eri accorta che
per quella volta
incastrata a quel muro ci eri finita tu.
Che
incastrata a quel muro ti ci avevo spinto io.
Ma
forse, prima delle tue mani, erano stati i tuoi occhi a
capirlo. Perché si erano mossi frenetici per bloccarsi
impauriti e al contempo
sorpresi sui miei.
E
allora, come sempre, ti avevo baciato.
Perché
quello che volevo farti capire non lo sapevo dire, ma
a mio modo, sapevo fartelo arrivare.
E
poi, perchè, in fondo, usare i sensi rendeva
tutto più facile, questo lo avevi detto tu, ma te l'avevo
insegnato io.
Lo sai, Kurata, c’erano delle cose che avevo sempre pensato
quando
ti baciavo, anzi, a dirla tutta, era sempre stata solo una la cosa a
cui
pensavo, ma ecco, quando anche tu ricambiavi, quando le tue labbra si
aprivano
sulle mie e le tua mani incerte volavano a bloccare le mie
più esperte, io
avevo sempre avvertito una cosa.
Che
c’erano certe cose che io avrei voluto fare solo con te.
E tu che eri sempre
così tarda, lo avevi mai capito?
Ciao
Ragazze!
Non so
cosa sia… Direi un calo notturno di serotonina ;)
Spero
possa piacervi!
A presto
<3
Lolimik