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Autore: Imperfectworld01    13/01/2021    1 recensioni
Corre l'anno 1983 quando la quindicenne Nina Colombo ritorna nella sua città natale, Milano, dopo aver vissuto per otto anni a Torino.
Sebbene non abbia avuto una infanzia che tutti considererebbero felice, ciò non le ha impedito di essere una ragazza solare, ricca di passioni, sogni e aspettative.
Nonostante la giovane età, sembra sapere molte cose ed essere un passo avanti alle sue coetanee, ma c'è qualcosa che non ha ancora avuto modo di conoscere: l'amore.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico, Storico
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Due.


«Allora? Hai intenzione di raccontarmi qualcosa oppure no?»

Roteai gli occhi e poi sbadigliai.
Erano le undici meno tre quarti del mattino, quella notte ero tornata a casa alle due ma mi ero addormentata come minimo per le quattro, motivo per cui ero ancora stanca morta; Vittorio, che tra l'altro si era svegliato più presto di me, a differenza mia era invece pimpante e pieno di energie. E aveva in serbo anche un sacco di domande da fare.

«Qualcosa tipo?» domandai, prima di allungare il braccio per prendere una fetta biscottata dal piatto appoggiato al centro del tavolo e iniziando a riempirla di marmellata.

«Dai, con Filippo. Non mi aspetto che tu mi ringrazi, però non puoi negare che sia stato merito mio se l'hai conosciuto» disse con fierezza. «Che vi siete detti quando siete usciti a parlare in balcone? Ti ha chiesto di uscire, non è vero?»

Annuii. «Sì, e io gli ho detto di no» aggiunsi, prima di fare un morso alla mia fetta biscottata.

Vittorio sgranò gli occhi e sbatté le palpebre un paio di volte: «E perché? Io vi vedevo alla grande insieme, secondo me sareste stati un po' come Sophie Marceau e Pierre Cosso ne Il tempo delle mele 2» disse, il che mi portò a chiedermi se conoscesse ogni singolo film a  memoria.

«Ah, sì? Per quale motivo, perché lui è biondo con gli occhi azzurri e perché io ho i capelli corti e castani?» domandai fissandolo accigliata. «Comunque non mi sembra una grande perdita, specie perché subito dopo che gli ho detto di no è corso da Monica a farle la stessa domanda» aggiunsi scrollando le spalle, mentre Vittorio per poco non si strozzò con la fetta biscottata che aveva appena iniziato a masticare. «Davvero?» domandò sorpreso.

Un po' troppo sorpreso.

Emisi allora un ghigno compiaciuto: «Ah, lo sapevo! Sei cotto di Monica!» esclamai, mentre il viso di Vittorio assunse pian piano una tonalità sempre più accesa. Aprì la bocca per ribattere, ma non gliene diedi l'occasione perché mi alzai subito in piedi e, dopo aver sparecchiato le mie cose, uscii dalla cucina. Indietreggiai di qualche passo per potermi affacciare dalla porta e aggiungere: «Ho visto il modo in cui la guardavi ieri», prima di avviarmi verso la mia camera.

Be', era più o meno il modo in cui la guardavano tutti, e non li biasimavo affatto.

Nel momento in cui aprii la porta della mia stanza, sentii un tonfo tremendo. «Ma dico, sei scema?!» urlò mia sorella, spuntando da dietro la porta e massaggiandosi la testa.

«Io? Chi è che si appoggia alla porta e si chiude senza avvertire?» ribattei, ma lei non mi rispose neanche e mi sbatté la porta in faccia.

«No, amore, non parlo con te. Mia sorella è una seccatura, non capisce mai quando è il caso di lasciarmi i miei spazi e la mia riservatezza» la sentii dire, e così realizzai che si era chiusa in camera per parlare ancora al telefono con Maurizio, cosa che faceva ininterrottamente già da tutta la mattina e che era ciò che mi aveva svegliata.

Non lo sopportavo proprio, il fatto che le persone diventassero così da innamorate: costantemente con la testa sulle nuvole, assolutamente noiose, completamente dipendenti dall'altra persona, senza alcun riguardo per se stessi e incapaci di prendere decisioni sensate.

Era ciò che mi spaventava di più in assoluto: innamorarmi, e diventare la copia di Benedetta e tante altre che, proprio come lei, dopo aver trovato l'amore, avevano totalmente perso la ragione.

Era un dato di fatto, ne ero certa, accadeva a tutti almeno una volta nella vita. Iniziava dolcemente, così da mascherare la sua vera essenza, e poi culminava nella distruzione vera e propria, a volte non solo metaforica.

Elena e Paride, Paolo e Francesca, Calisto e Melibea, Anna Bolena e le altre mogli di Enrico VIII (se non altro sua figlia Elisabetta aveva fatto la scelta più giusta, non sposandosi mai, e infatti era stata la prima donna a regnare in Inghilterra, e anche per tanto tempo), Marco Antonio e Cleopatra, Romeo e Giulietta, Anna Karenina e il conte Vronsky, il Grande Gatsby e Daisy Buchanan, e tanti altri.

Sia la storia che la letteratura, fin da sempre, mi avevano insegnato che l'amore non portava altro che dolore. Io stessa l'avevo sperimentato, sebbene non direttamente, con la fine del matrimonio dei miei genitori. Amore, si erano promessi amore eterno, ma alla fine avevano infranto entrambi quel giuramento e in cambio avevano ottenuto solo un cuore spezzato e una famiglia divisa a metà.

Ecco cosa faceva l'amore. Perciò, finché potevo privarmene ed evitare così di soffrire, l'avrei fatto volentieri. Certo, mi sarebbe piaciuto avere una mia famiglia un giorno, dei figli, ma mi sarebbe piaciuto ancora di più continuare a mantenere la mia libertà e la mia indipendenza il più a lungo possibile.

A differenza del giorno precedente, quella era una giornata tutt'altro che arieggiata. C'era un caldo insostenibile e, nonostante ogni finestra fosse spalancata, l'aria circolava a fatica.

Indossavo solamente una maglia a maniche corte rosa e dei pantaloncini corti del medesimo colore con cui avevo dormito. Normalmente sarei rimasta in canottiera intima e mutande, ma essendo costretta a condividere la casa anche con Claudio e suo figlio, non mi era più possibile fare quello che volevo e comportarmi come se fossi stata a casa mia, anche se di fatto lo ero.

Se non altro, tutta la situazione era meno assurda e imbarazzante del giorno precedente, dal momento che sia Claudio sia mia madre erano andati a lavoro e quindi non eravamo costretti in casa tutti e cinque insieme.

Solo che, se il giorno prima era passato piuttosto velocemente, poiché ero stata occupata tutto il tempo a svuotare gli scatoloni e a sistemare le mie cose nella nuova casa, ecco che adesso mi ritrovavo senza un reale passatempo. Stare attaccata alla televisione non mi aveva mai entusiasmata molto, tutti i libri che avevo li avevo già letti, inoltre di uscire non se ne parlava proprio perché faceva troppo caldo e, soprattutto, perché non conoscevo ancora nessuno a sufficienza e non volevo necessariamente accollarmi ancora una volta a Vittorio - lui aveva già la sua vita, io dovevo riprendere in mano la mia e non dovevo farlo per forza inserendomi con prepotenza nella sua.

Così l'unica cosa sensata che trovai da fare fu una veloce, fresca e rigenerante doccia. La prima della giornata. Ne seguì un'altra due ore dopo, prima di pranzo, e una terza poco dopo.

Quell'ultima volta lavai anche i capelli, infatti ci impiegai più tempo. Una volta uscita dalla doccia presi per la terza volta in quella giornata il telo e me lo avvolsi attorno al corpo, lo stesso feci con un asciugamano che fissai sui capelli a mo di turbante per togliere l'umidità, non che ce ne fosse così tanto bisogno, in realtà.

Era un'abitudine che mi era rimasta ma che in realtà non era più necessaria, dal momento che avevo i capelli corti e ci mettevano pochissimo ad asciugarsi. Era stato un taglio netto: a mia nonna era venuto quasi un colpo quando aveva aperto la porta del bagno un giorno e aveva visto i miei capelli lunghissimi sul lavandino e me, con una faccia colpevole, con una forbice in mano. La verità era che non volevo farli così corti, solo che più che andavo avanti a sforbiciare, più mi accorgevo di quanto li stessi tagliando storti, così avevo continuato ad accorciarli finché non mi parvero perfetti.

Ma in realtà non lo erano, e il giorno dopo mia nonna mi spedì subito dal parrucchiere a farli sistemare, il che implicò ovviamente di doverli tagliare ancora più corti, fin poco sotto al mento.

Era partito tutto dal fatto che, una volta, quando ero in giro per Piazza Vittorio Veneto insieme a Benedetta, una vecchietta ci aveva fermate perché ci aveva scambiato per le sue nipoti e in seguito, dopo essersi accorta del malinteso, ci aveva fatto i complimenti dicendoci quanto fossimo carine e ci aveva chiesto se fossimo gemelle.

Ed effettivamente, a parte la differenza nel colore di occhi (maledetta, se li era beccata lei gli occhi verdi di mamma), eravamo praticamente alte uguali e avevamo entrambe i capelli castano chiaro e lunghi fino in vita. Dal momento che qualsiasi associazione a mia sorella, a mio avviso, era tutt'altro che un complimento, dopo attente meditazioni, ecco che avevo deciso di fare un cambiamento drastico per potermi distinguere da lei.

Comunque anche se erano venuti più corti di quello che avrei voluto, erano ricresciuti in fretta e infatti mi arrivavano ormai alle spalle, e non mi dispiacevano affatto: erano comodi e riuscivo a gestirli senza troppe fatiche.

Mi chiesi se fosse giunto il momento di un altro cambio radicale.

All'improvvisò si aprì la porta ed entrò Benedetta, che si diresse subito verso il gabinetto.

«Secondo te come starei con la frangia?» le chiesi, continuando a tenere lo sguardo fisso sul mio riflesso.

«Perché? Non hai mica una fronte esagerata» rispose.

«Che c'entra? Mica è obbligatorio.»

A quel punto Benedetta sbuffò e roteò gli occhi: «Allora fai quello che ti pare, non mi interessa».

«Sei sempre molto d'aiuto, Benni, meno male che ci sei tu» commentai sarcastica.

«Senti, Nina, vuoi uscire e lasciarmi in pace? Sto cercando di fare la ca...»

«Che palle che sei, non ti si può mai chiedere nulla!» esclamai interrompendola, prima di uscire dal bagno e chiudere la porta con decisione.

Era insopportabile. Non la reggevo più.

«Tutto bene? Ho sentito delle urla e...»

Gridai e feci un balzo in aria dallo spavento, prima di tirarmi istintivamente il telo su il più possibile. «Ma dico, devi sempre apparire così, di soppiatto? Non puoi fare in modo di annunciarti come le persone normali?» sbottai, prima di voltarmi in direzione di Vittorio, il quale arrossì violentemente, mentre io al contrario impallidii.

Per mia sfortuna, non era solo, bensì in compagnia.

Riconobbi due fra i ragazzi della sera precedente, di uno non mi ricordavo il nome, l'altro invece era Filippo, il quale era l'unico a non essersi coperto la vista con le mani.

«Mi dispiace, non volevo...» cominciò Vittorio mortificato almeno quanto me, ma non gli diedi il tempo di terminare la frase poiché corsi dritta in camera mia, chiudendo la porta a chiave per il tempo necessario che mi serviva a vestirmi.

Benedetta avrebbe anche potuto dirmelo che in quel frangente di tempo in cui ero andata in bagno per farmi una doccia erano arrivati degli ospiti.

Dopo aver messo dei vestiti puliti, riaprii la porta e in seguito tornai in bagno per spazzolarmi i capelli. Benedetta fortunatamente era già uscita e, a giudicare dal rumore della rotella che veniva girata freneticamente, sembrava stesse componendo un numero di telefono, sicuro quello di casa di Maurizio.

I miei dubbi vennero confermati nel momento in cui, una volta uscita dal bagno, vidi il cavo del telefono partire dal mobiletto in legno posto sul corridoio e finire in camera nostra. E ciò significava anche che mi avrebbe nuovamente impedito l'accesso alla stanza come quella mattina.

E adesso che cosa dovrei fare?, mi chiesi. Non potevo stare in camera mia, il salotto era occupato da Vittorio e i suoi amici...

Avevo sete. Mi avviai rapidamente in cucina e versai dell'acqua in un bicchiere. Mi accorsi solo in quel momento che Vittorio aveva avvicinato i bicchieri al bordo della credenza, così che potessi arrivarci senza sforzi. Era stato gentile da parte sua.

Dopodiché mi sedetti e con calma bevvi dei sorsi d'acqua. A un certo punto sentii un miagolio e abbassai lo sguardo, vedendo il felino ai miei piedi. «Be', che vuoi? Non hai un Paese da liberare dagli invasori?» domandai, sentendomi subito dopo immensamente idiota. E non solo perché avevo appena parlato da sola con un gatto, ma anche perché avevo persino fatto una battuta di pessimo gusto. Non mi sorprese quindi il fatto che mi guardò con un'espressione torva.

In seguito si stiracchiò tendendo le zampe in avanti e poi si strusciò contro le mie gambe. Stupendomi di me stessa, mi chinai a terra per appoggiare una mano sul suo testone peloso e accarezzarlo. Il suo pelo era molto soffice. Sembrò gradire quel contatto, infatti aprì la bocca e iniziò a leccare il dorso della mia mano. A quel punto mi ritrassi di scatto. «Dai, che schifo!» esclamai, prima di alzarmi in piedi e aprire il rubinetto del lavello per sciacquarmi le mani. La sua lingua era ruvidissima al tatto e probabilmente impregnata dell'odore del pesce che si era mangiato per pasto.

«Nina, che fai? Dai, vieni con noi.» Mi voltai e vidi Vittorio appoggiato allo stipite della porta della cucina.

Aprii la bocca per obiettare, ma non ne ebbi il tempo poiché Vittorio era ormai entrato dentro e mi aveva afferrato per un braccio, deciso a portarmi dai suoi amici.

Erano seduti a terra, uno di fronte all'altro, e un mazzo di carte al centro. «Ci serve un quarto giocatore per briscola» spiegò Vittorio, prima di sedersi a terra in mezzo ai due amici.

Emisi un mezzo sorriso. Giocavo a carte con mio nonno da anni, ormai mi reputavo imbattibile. Avevo imparato a valutare al meglio le carte da usare a ogni mano, a tentare di memorizzare i carichi che erano già stati usati e quali rimanevano, e a creare il livello giusto di suspence prima di buttare giù una carta.

A quel punto mi sedetti anch'io a terra, cercando di ignorare lo sguardo di Filippo posato insistentemente su di me. Ma che cosa voleva?

Tentai di nascondere il fastidio e presi in mano le tre carte che Vittorio mi stava passando.

«D'accordo, possiamo cominciare» disse, una volta dopo aver finito di dare le carte a tutti e aver girato una carta dal mazzo che avrebbe rappresentato la briscola per quella partita. «Mi raccomando, non si parla al primo turno» ricordò.

Giocammo due partite e io e Vittorio le vincemmo entrambe con un gran numero di punti. Alla terza sembrava che avessimo perso, o almeno così ci sembrava finché Filippo non finì di contare: «Cinquantanove» disse sconsolato, mentre io e Vittorio ci battemmo il cinque per aver incassato un altro successo.

«Dai, è assurdo, com'è possibile che abbiate così tanto culo?» protestò Giovanni, prima di farsi passare le carte per effettuare lui stesso il conteggio dei punti.

«Non è culo, è tecnica» precisai.

«Ma va' a dà via el cu! Che tecnica e tecnica!» esclamò.

«Ah sì? Allora insegnamela» colse la palla al balzo Filippo, rivolgendomi un piccolo sorriso.

«Non è una cattiva idea» si intromise Vittorio. «Visto che Filo e Gio sono due imbranati, perché non facciamo fare una partita solo a loro due, mentre noi li aiutiamo e li consigliamo? Almeno si spera che la prossima volta sarà più divertente giocare» propose.

«Non sono brava a insegnare» risposi scrollando le spalle, ma nessuno fra i presenti si bevve quella scusa, o forse semplicemente non gli importava.

Roteai gli occhi, ma poi mi spostai al fianco del biondino. Non mi sfuggì affatto la sua espressione compiaciuta e lo sguardo complice che si scambiò con Vittorio.

Giovanni mischiò le carte e poi le distribuì a se stesso e a Filippo.

Partivamo bene. Aveva l'asso di coppe, che in quel caso era la briscola; oltre a quello, aveva un sei di bastoni e un fante di spade.

Gli suggerii di partire con la carta nulla, indicando con il dito il sei di bastoni.

Giovanni fu costretto a prendere con una briscola, il che mi permise di fare un'importante deduzione. «Significa che ha due carichi» sussurrai all'orecchio di Filippo.

«Cosa?» domandò lui, girandosi e avvicinandosi vertiginosamente al mio viso. Il ghignò che emise lo tradì e capii che in realtà aveva sentito benissimo e che era solo una tattica che stava usando affinché rimanessi vicina a lui. Così mi distanziai, fissandolo con gli occhi ridotti a due fessure. «Forza, tocca a te pescare» dissi con tono duro.

Senza darsi per vinto, fece come gli dissi. «Agli ordini.»

Dopodiché seguii il mio consiglio di prendere il suo fante di denari con il cavallo del medesimo seme che aveva appena pescato.

In quel momento, sentii qualcosa sfiorarmi la schiena e mi voltai di soprassalto, solo per vedere il gatto che si stava strusciando su di me come poco prima in cucina.

Dopo avermi annusata a lungo, passò a fare la stessa cosa a Filippo, il quale ne approfittò per dargli una carezza sul dorso, prima che il gatto lo scavalcasse e decidesse di sbattersi a terra a pancia in su sopra le carte.

Vittorio sbuffò e lo prese in braccio per spostarlo: «Giuseppe, proprio ora?» chiese, e dal tono severo che usò sembrava convinto che il gatto potesse capire le sue parole. Si alzò poi in piedi e si diresse, presumibilmente, verso la sua camera, per portarci dentro il gatto.

«Dai, che palle!» esclamò Giovanni, nell'accorgersi che il gatto aveva scombinato tutte le carte. «Mi sa che non ci rimane altro che ricominciare da capo.»

«Non se ne parla» affermammo io e Filippo all'unisono, dal momento che eravamo in vantaggio e avevamo anche l'asso di briscola.

«Che succede?» domandò Vittorio, tornando a sedersi a terra insieme a noi.

«Giudica tu, quel grassone peloso ha rovinato tutto» rispose Giovanni.

«Giuseppe non è grasso, è che ha il pelo lungo» puntualizzò Vittorio.

«Ma se pesa più di mia sorella che ha tre anni!»

«Ok, chi se ne frega di quello stupido gatto, possiamo riprendere la partita?» intervenni, spazientita, senza ricevere alcuna risposta.

I due andarono avanti a battibeccare senza degnarmi. Il biondino alla mia destra sembrava si stesse godendo lo spettacolo, ma a me personalmente non erano mai andate a genio le discussioni, soprattutto quelle insensate come quella.

Roteai gli occhi al soffitto e poi mi alzai in piedi.

«Dove vai?» chiese.

«In camera mia. Ho bisogno del tuo permesso?»

Non attesi nemmeno una sua risposta, dato che era una domanda ovviamente retorica.

Mi diressi davanti alla mia stanza e abbassai la maniglia della porta nel tentativo di aprirla, ma non ci riuscii. Benedetta si era chiusa a chiave, così iniziai a battere le mani sulla porta: «Benni, apri! Devo entrare!» esclamai.

Come prevedibile, fui ignorata. Ma continuai a insistere senza darmi per vinta. «Benedetta! È anche la mia camera questa, non ti ricordi?»

«Dio, Nina, che scocciatura che sei!» urlò. C'era qualcosa di strano nella sua voce. Ponendo l'orecchio vicino alla porta, avvertii i suoi passi farsi sempre più vicini. Girò la chiave nella serratura e aprì la porta.

Schiusi le labbra stupita, nel vedere mia sorella in lacrime. Entrai dentro la stanza e chiusi la porta alle mie spalle. «Cosa è successo?» domandai preoccupata.

«Ho paura che Maurizio stia per lasciarmi» confessò, prima di lasciarsi cadere a terra con la schiena appoggiata al muro.

 

   
 
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