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Autore: Moonfire2394    14/01/2021    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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Lux Omnia Vincit parte III

Fabiano

«Sara».
Il fratello pronunciò quel nome con il gracidio di uno che aveva appena deglutito un rovo di spine ma allo stesso tempo fu come se stesse recitando una poesia solenne. Ricacciò indietro le lacrime, gustandosi la sensazione della ferita che si andava rimarginando nel suo petto, ogni  volta che riscopriva uno scorcio del suo viso equivaleva a un punto di sutura. Era esattamente come la ricordava l’ultima volta che lo aveva baciato sulla testa e l’aveva accompagnata con lo sguardo fino a che non si era richiusa la porta alle spalle per non riaprirla mai più. Allora era troppo piccolo, non poteva aver colto le righe salate e appiccicose che le correvano lungo le guance, né il sapore del suo addio. Averla lì di fronte a lui a un passo dal poterla sfiorare…si dovette conficcare le unghie nel palmo della mano per accertarsi che non fosse un sogno. O un incubo, dipende dai punti di vista. Adesso lei si rigirava il nastro, il suo nastro, fra le dita maneggiandolo come se fosse un ordigno esplosivo. Intravide il conflitto nel cielo limpido intrappolato nei suoi occhi e questo bastò a nutrirlo di false speranze.
«Bene, adesso l’allegra famigliola è al completo. Che faccio? Corro a prendere il cestino da picnic?» interruppe i loro dolorosi silenzi il ragazzo accanto a lui. Fabiano fece segno di tacere a suo fratello e Ethan si sigillò le labbra senza mollare l’impugnatura sull’elsa bronzea della sua spada. Se si fosse arrivati a uno scontro, non avrebbe potuto impedirgli di difendersi. Anche se lo voleva disperatamente, nemmeno lui si fidava completamente della ragazza che assomigliava così tanto a sua sorella Sara.
«Sara» ripeté lui più dolcemente. I suoi occhi guizzarono su di lui vigili come quelli di una gatta selvatica. «Sono io, Fabiano» deglutì, avanzando lentamente verso di lei e aggiunse «tuo fratello». Lei inclinò la testa verso il suono della sua voce, increspando le sopracciglia come se si stesse sforzando di ricordare quel qualcosa sepolto nelle profondità della sua mente plagiata. Fabiano, fiducioso, allungò un passo di troppo e ottenne come risultato l’irrigidirsi dell’abominio. Scattò all’indietro e mostrandogli i denti, ringhiò. Ethan aveva già sollevato l’arma quando Fabiano gli acciuffò la manica della giubba per placarlo. Il suo sguardo la diceva lunga su quello che pensasse di lui. Probabilmente aveva ragione, era un povero idiota, ma in fondo Ethan non poteva capire cosa significasse per lui quel momento. Si schiarì la voce, ormai rauca per l’emozione, e non demorse «Non voglio farti del male, come potrei? Sei al sicuro con me. So che hai sofferto, e detesto anche solo il pensiero di ciò che ti hanno fatto. Ma ti prego, ti prego, noi siamo la tua famiglia, vogliamo aiutarti». Il trio rimase in allerta, incerto sul da farsi mentre le crudeltà della guerra continuava a turbinare attorno a loro. I muscoli facciali della ragazza sembrarono rilassarsi a quelle parole e tornò ad esaminare il nastro che stringeva nel pugno.
«Te lo ricordi? Mi dicesti che lo rubasti dalle decorazioni della mia culla perché credevi che stesse molto meglio fra i tuoi capelli. Mamma ti rincorse per tutto il campo, ma tu eri veloce, e alla fine si arrese. Da allora lo portasti sempre con te, era il tuo portafortuna, pensavi che ti rendesse invincibile e che nessuno ti avrebbe sconfitto se non te ne fossi separata…». E faceva bene a crederlo. Fabiano ricordava ancora quel giorno, come aveva corso affannosamente dietro di lei, inciampando da per tutto, anche dopo che se n’era andata, per restituirle il portafortuna che aveva dimenticato. A quel punto gli bruciavano così forte gli occhi che dovette strofinarseli nella giubba per cancellare via le lacrime. Il ragazzo credette per un secondo che avesse abbassato la guardia, che gli prestasse ascolto, così decise di continuare su quella strada.
«E ricordi quando mi sono infiltrato di nascosto nel tuo laboratorio? Non avevi chiuso bene la porta e… Dio, combinai un casino con quelle provette, ti scarabocchiai tutte le formule dalla lavagnetta con i miei disegni e tu andasti su tutte le furie. Ma quando capisti che avevo ingerito uno dei tuoi veleni, mi prendesti in braccio e percorresti più di cento chilometri a piedi per portarmi dal guaritore più vicino. Nonostante alla fine mi avessi salvato la vita, mamma e papà furono molto severi con te. Papà ti…» picchiò avrebbe voluto dire ma per qualche ragione preferì mentirle «t’impedì di uscire di casa e di vedere i tuoi amici per un intero mese, non ti permise nemmeno di partecipare alla lezioni. Da allora mi dedicasti interi pomeriggi per spiegarmi quale fosse la differenza tra l’aconito e l’arsenico, m’insegnasti a distinguerli per l’odore, il colore…Io credo di non avertelo mai confessato ma in fondo, ne fui felice della tua punizione perché così avrei potuto trascorrere molto più tempo con te». Si fermò un attimo per sorridere a quel ricordo «Lo so, lo so è stato tremendamente egoista da parte mia, ero solo un bambino che vedeva in sua sorella l’eroina dei racconti leggendari. Tu…ti sei sempre presa cura di me ed io non ho mai potuto fare nulla per ricambiare il tuo affetto…perciò» si protese verso la sorella col palmo all’insù «per favore, lascia che sia io a salvarti per una volta, è tutto ciò che desidero». Dapprima l’abominio parve vestirsi di una maschera impassibile immune alle emozioni, sebbene le ciglia le sfarfallassero veloci, mostrando confusione. Poi agitando le dita  sulle cosce, si morse il labbro come a voler trattenere un timido sorriso sulle labbra, forse perché non era più abituata a farlo, finché non sbocciò completamente come i petali di un fiore scaldati al sole. Così quando intuì che la sorella voleva annullare la distanza che c’era fra loro tanto quanto lui, Fabiano si dimenticò della prudenza e le venne incontro, ricambiando il sorriso.
«F-Fabiano» tentennò lei sopprimendo un singhiozzo.
Tesero le braccia l’uno verso l’altra fino a sfiorarsi la punta dei polpastrelli, poi il ragazzo non ne poté più di quella freddezza fra loro e le si gettò fra le braccia. Fu tremendamente strano. I suoi capelli odoravano ancora di siero velenoso, le sue braccia attorno a lui, anche se un po’ più rigide, gli ricordarono la sofficità dell’infanzia, i suoi respiri erano leggeri e regolari e gli scompigliavano i capelli già di per sé in disordine, il cuore, non più suo, le batteva ad una velocità impossibile. La gioia di poterla riavere con lui fu a dir poco sconvolgente, ma non riusciva a levarsi dalla testa che mancava qualcosa, qualcosa di fondamentale che attendeva di rincontrare più di ogni altra. La sicurezza che, dentro il suo abbraccio, nulla avrebbe potuto fargli del male. Il corpo di lei contro il suo emanava un piacevole calore umano, perciò Fabiano non capì perché ebbe l’impressione di essere sprofondato nelle gelide acque di un laghetto ghiacciato. Ignorò quella sensazione, non avrebbe permesso a niente e nessuno di rovinargli quel momento.
Se solo il suo sollievo non fosse stato così sproporzionato da renderlo cieco come un topolino alla nascita.  Se solo avesse notato lo scatto delle sue mani che si agganciavano alla cintura, se solo si fosse accorto di cosa nascondesse dietro la schiena. Be’ allora non avrebbe commesso di nuovo lo stesso errore, e un altro dei suoi fratelli non sarebbe stato costretto a salvargli la vita.
Ricordò solo il sibilo della lama e il silenzio terrificante racchiuso nelle labbra di Ethan, macchiate di un viscido colore vinoso. Poi, lui che si piegava sopra Ethan in cerca del suo polso mentre con una mano gli tamponava la ferita sul costato. Non gli aveva inferto un colpo mortale e il battito, anche se debole, era perfettamente percepibile attraverso la sua pelle ormai cinerea. Sarebbe contato ben poco però se non avesse fermato l’emorragia. Si girò poco prima che Sara lo colpisse alla schiena. Costretto ad abbandonare suo fratello moribondo e annegato nel suo stesso sangue, sfoderò la sua spada e duellò con lei limitandosi a difendersi dai suoi fendenti, dubitava che avrebbe mai avuto il coraggio di infliggerle qualche danno volontariamente. Le loro spade cozzarono e stridettero l’una sull’altra senza sosta. L’abilità di sua sorella era devastante e si muoveva con una grazia di cui solo una danzatrice esperta era capace, specialmente adesso che non era più umana, e lui disconosceva i passi di quella coreografia. Allora sentì il fuoco crescergli dentro, il simbolo sulla fronte scottargli la pelle. Azzardò una finta, piroettò su se stesso e la allontanò interponendo fra loro una cortina di fuoco. Lei ringhiò e fece un passo indietro con gli stivali che le sciabordavano nella neve sciolta. Fabiano ne approfittò per lanciare un’occhiata e controllare le condizioni del fratello e in cambio ricevette un pugno nello stomaco.
Annaspò, incredulo.
L’impronta del suo corpo, la traccia di sangue era ancora lì impressa nella neve ma… Dove diamine era finito? Avrebbe voluto pedinare le orme che si addentravano nel bosco ma non ne ebbe la possibilità. Le fiamme erano soffocate e Sara preparava un nuovo affondo mentre le sue urla sovrastavano quelle della battaglia. Qualcuno parò il colpo, senza che Fabiano si spostasse di un solo centimetro.
«Padre!» esclamò mal celando lo stupore.
«Scappa!» gli disse con urgenza nella foga del combattimento «per tuo fratello non c’è più nulla da fare, un vampiro l’ha trascinato nel bosco. Ma tu devi vivere. Dovete fuggire tutti!».
La testa gli correva a mille, non era in grado di assorbire tutte quelle informazioni in una volta, non se ognuna di esse rappresentava una lama dritta nel cuore. L’unico balbettio che riuscì ad alitare inconsapevolmente dalla sua bocca fu «Perché?». Credeva che il padre non l’avesse sentito, ma poi lui si voltò e Fabiano scorse le terribili ustioni e le vesciche ribollenti di pus che chiazzavano metà del suo viso nascosto dentro al cappuccio bruciacchiato e logoro. Nausea e compassione che si agitavano nel suo petto.
Quando gli confidò sottovoce «Lui sta arrivando» con lo stesso tono utilizzato da chi narra storie dell’orrore, Fabiano si convinse della gravità della situazione e fuggì, obbediente ancora una volta alle parole del padre.
**********

Gabriel

Le kopis di Leona scintillavano in un vortice di argento trapassando i nemici come se avessero un’anima propria. Le sfiorava soltanto col pensiero e loro seguivano il suo volere: cani fedeli che vogliono compiacere il proprio padrone. Si muoveva veloce, impietosa come raffiche di vento che si accaniscono sui tetti delle case, e proprio come loro scardinava via con sé nel suo vortice tutto quello che riusciva a inglobare.
Venne sommersa da una marea di corpi lustri di sudore e sangue e Gabriel la sentì imprecare così forte che per un attimo temette di non riuscire a pareggiare i conti. Se messi a paragone, le contumelie lanciate da un vecchio pescatore amareggiato dal fatto che al suo amo non abbocca nient’altro che ciarpame sprovvisto di pinne e branchie, sarebbero risuonate più simili agli endecasillabi sciolti del Manzoni. Il suo serbatoio della pazienza si era prosciugato e la cosa non lo sorprendeva più di tanto. Era stato fin troppo distratto per notare il cambiamento, eppure era lì proprio sotto i suoi occhi. Si era caricata sulle spalle un macigno di cui non conosceva il peso, consegnato da un popolo che non ricambiava il suo amore. Non aveva nemmeno compiuto quattordici anni ed era riuscita a trascinare con lei in quel piano folle un’intera banda di inaffidabili adolescenti riuscendo lì dove anche i più audaci avevano fallito. E appeso al suo collo, oscillava convulsamente tutto ciò in cui Gab aveva sempre sperato. Una falce di luna blu in grado di esaudire i suoi desideri. La sua lampada di Aladino. Doveva arrendersi. La sua dolce e pacata sorella stava maturando in un modo tutto suo, lo aveva seminato da tempo e lui non faceva altro che mangiarsi la sua polvere. Per un lungo secondo straziante, non riuscì più ad adocchiarla in mezzo alla calca e l’ansia gli ghermì le interiora.
«Riesci a vederla?» domandò a Morgana oltrepassando un’orda di vampiri.
Morgana aveva racimolato frecce a sufficienza per poter continuare la sua infallibile carriera di arciera. I suoi dardi saettavano ovunque. «Gab, io…».
«Non è il momento dei rimorsi!». L’urlo sovrastò il canto della spada «Adesso o mai più. Vai ti copro io» le giurò mentre il piatto della lama recideva il collo di un mezzo licantropo. Morgana schivò il calcio di un vampiro e sgusciò nel vivo della lotta con una capriola. Gabriel la seguì a ruota senza mollare il suo fianco. Si spostavano all’unisono in quella gabbia di mostri, come due pappagalli Inseparabili. La trovarono accanto a un Ascanio non del tutto cosciente e privo di pupille proprio mentre dieci fiammiferi le ardevano sulla punta delle dita. Le ombre sotto il protettore si estendevano come una macchia d’inchiostro colato da un calamaio e sembravano pietrificarlo lì sul posto, incapace di reagire. Gabriel si guardò attorno in cerca del pericolo. E fu quando il fuoco di Leona venne scagliato verso l’alto che vide la sidhe volteggiare sopra di loro.
«Oh Dio, no!» urlò Morgana.
Le braci luminose di sua sorella avevano scacciato le tenebre su cui Ascanio era inginocchiato, ma credere che respingere la fata lo avrebbe salvato fu il suo più grande errore. Aveva sottovalutato l’ascia che il ragazzo brandiva verso di sé. I muscoli delle braccia di Ascanio guizzarono sotto la sua pelle quando caricò.      
Zac!
 Le schegge di legno si sparsero attorno a loro e la scure chiazzata di sangue ricadde pesantemente sul selciato innevato, recisa dal fusto. La scimitarra di Marlena le sfuggì dall’impugnatura e si gettò sul corpo irrigidito di Ascanio con un urlo. Scosso dai suoi singhiozzi, Ascanio riaprì gli occhi cisposi, impastati di sonno, e l’accolse nelle sue possenti braccia sfiorandole i capelli con cautela, come ad assicurarsi che non fosse un miraggio.
Poi la bionda gli mollò un ceffone così forte che lo spedì fra le stelle «Che cosa credevi di fare?» sbraitò con le lacrime che pungevano agli angoli dei suoi occhi arrossati.
Quando fece ritorno sul pianeta terra, bisbigliò senza smettere di toccarsi la guancia infuocata dal tocco non troppo gentile della protettrice «Sei viva…».
«Certo che sono ancora viva, idiota!».
«Eri vittima di un incubo» gli spiegò Leona «Se posso darti un suggerimento, tieniti lontano dalle ombre la prossima volta». Il ragazzo annuì osservando, avvilito, ciò che era rimasto della sua arma. Sua sorella sembrò perforarlo con i suoi occhi blu attraverso il cranio e a quel punto si chiese se non avesse intuito le loro intenzioni. In realtà si era solo scambiata un cenno con l’alchimista che faceva ruotare per aria i suoi criptici cerchi alchemici composti da successioni incomprensibili di glifi. Non aveva tempo per i loro sotterfugi, anche se i protettori di Andromeda si erano uniti a loro, l’insolita l’alleanza tra Frieda e i vampiri di Ellak era la combinazione perfetta che avrebbe potuto scrivere la parola fine sul campo Betelgeuse. Che interessi comuni avrebbero potuto condividere dal momento che entrambi ne avrebbero rivendicato il possesso? Una volta fatti fuori i protettori avrebbero rotto la tregua e si sarebbero dichiarati guerra fra loro? Che vantaggi ne avrebbero tratto?  Almeno che…
Gli mancavano troppi pezzi del puzzle per avere un quadro completo della situazione e se non avesse fatto nulla per cambiare le cose, non avrebbe vissuto tanto a lungo per scoprire la verità. E lui era abbastanza forte da accettare le conseguenze. Lei avrebbe capito…
«Morgana» le disse. Era il momento perfetto, impegnata in quella lotta sanguinaria avrebbe soltanto apprezzato il sostegno della sua migliore amica. Ma le mani di Morgana stavano tremando e lo spettro della confusione infuriava nei suoi occhi. «Che cosa stai aspettando?» le bisbigliò all’orecchio. Come se le avesse alitato aria gelida sul collo, lei rabbrividì e fece un passo indietro. «Non posso…» disse con la sua flebile vocina.
«Mi prendi per il culo?»
«Ho detto che non posso e non lo farò! Preferisco morire piuttosto che deluderla ancora!» ribadì con più decisione e gli afferrò il polso con una forza di cui non la faceva capace «e nemmeno tu dovresti…».
Si divincolò in fretta cercando di cancellare il suo volto ferito dalla mente «Dannazione…». Decise di tentare il tutto e per tutto e corse verso sua sorella con la spada sguainata. Lui sapeva che Leona lo aveva visto arrivare con la coda dell’occhio ma non lo fermò. Adesso gli dava volutamente le spalle ed era chiaro il suo messaggio: “Proteggimi, fratellino”.
Quella sua resa lo intenerì e lo fece vacillare per un attimo, il rimorso che lo divorava dall’interno. Ma il suo desiderio di vendetta era più potente di qualsiasi altra cosa lui avesse mai provato. Così scivolò al suo fianco fingendo di parare l’artigliata di un licantropo. I suoi capelli neri erano gettati confusamente tutti da un lato e le lasciavano metà del collo scoperta, la carotide pulsava in bella vista alla mercé dei vampiri. La collana era lì come se lo stesse supplicando di essere prelevata dalla sua proprietaria, come se lei volesse che le togliesse quel fardello. Quel pensiero lo rinvigorì. Lei stava dalla sua parte. Per cui fu quasi spontaneo allungarsi verso di lei, farle sgusciare la lama fra la nuca e la catena e rompere il gancio. Gabriel l’afferrò prima che si perdesse nella neve e tenne saldo il ciondolo nella sua presa. Sollevò gli occhi giusto il tempo di notare l’atterrimento di Leona, le sue dita che indugiavano sulla clavicola per poi arpionarsi il collo come a voler nascondere la nudità della sua pelle. Gabriel semplicemente non era pronto a fronteggiare quel dolore, guardare sua sorella, la fiducia che s’infrangeva nei suoi occhi…un ferro incandescente a confronto gli avrebbe appena fatto il solletico. 
Le disse soltanto «Lo faccio per noi» come se potesse giustificare ciò che le aveva fatto.
«Restituiscilo, Gabriel» lo raggiunse la durezza della voce di Morgana. Inalò un respirò, rilassando i muscoli delle spalle «Tu non capisci…».
«No, sei tu a non aver capito. Tutto ha un prezzo Gabriel, e non ho intenzione di stare a guardare come il tuo odio ti strappi l’anima a brandelli. Ho detto: restituiscilo» e la punta della freccia gli sfiorò il naso. Gabriel non riusciva a credere che Morgana, la sua Morgana, lo stesse minacciando col suo arco. Se solo suo padre l’avesse potuta vedere…comunque non sarebbe stato fiero di lei nemmeno la metà di quello che era lui in quel momento. L’amò così tanto che rimase senza fiato.
Lui non la meritava. Era troppo codardo per ammettere che le avesse affidato quel compito ingrato perché non voleva essere l’unico a ferire sua sorella. Era un bene che si fosse opposta. Non avrebbe sopportato il senso di colpa di averla trascinata con lui, in quel disgustoso tradimento, anche se necessario.
«Siete già così stanchi l’uno dell’altra da dover aggiungere un pizzico di pepe al vostro rapporto?» disse qualcuno con una risata squillante. A Gabriel gli si accapponò la pelle.
«Frieda…» stridette Leona serrando le labbra fino a farle sbiancare. La vista del ragazzo biondo cenere intrisi di sangue abbandonato fra le braccia della fata, ammutolì i tre protettori. Norman non sembrava del tutto cosciente, le ginocchia s’incrociavano fra loro e le braccia penzolavano morte dalla presa di Frieda che lo tratteneva in vita.
«Ti prego, lascialo andare…» la supplicò Fabrizio, strisciando a fatica nella neve.
Ellak gli piantò un calcio nello stomaco che lo fece rotolare su se stesso. «Sta zitto!» gli urlò. Fabrizio boccheggiò in cerca di aria ma riuscì solo a sputare un rantolo di sangue scuro.
«Già, non vi sembra che ci sia troppo brusio?» si domandò Frieda picchiettandosi l’unghia laccata di nero sul mento. Poi schioccò le dita e il cielo si oscurò lentamente. Non capirono subito cosa stava accadendo. Non avevano mai visto nulla del genere. Tranne uno.
«Siamo fottuti» rantolò ansando Fabrizio.
Le ombre si avvolsero tutte attorno alla vallata fino a raggiungerne i confini del campo di battaglia. Non assomigliavano per nulla a nuvole foriere di tempesta, no, magari si fosse trattato di una innocua pioggerellina. Gabriel fissò il cielo impiastricciato di un melmoso color petrolio e trattenne un gemito di sorpresa. Le sidhe avevano interrotto le loro maledizioni per riunirsi compatte come uno sciame ronzante di calabroni. Tenendosi tutte per mano, avevano dato vita a una vera e propria catena fatata portatrice di oscurità. Per un attimo si udì soltanto il battito delle loro ali e le cantilene melodiose che uscivano dalle loro bocche. Le ombre si espansero e guadagnarono sempre più terreno fino a che tutti i guerrieri non intinsero i piedi in quella pozza di tenebre. Poi seguì un fragoroso clangore scrosciate di lame. E fu la resa generale. Ogni protettore, dal più piccolo al più grande, gettò l’arma a terra senza emettere un solo lamento. Li avevano trasformati in monumenti di guerra, congelati in caratteristiche pose di attacco e difesa. Quando l’assembramento di sidhe s’infittì a tal punto da diventare  nient’altro che macchie scure indistinte l’una dall’altra, scese un gelido silenzio su di loro che li fece rabbrividire. 
«Così va molto meglio, non credete?» se ne compiacque Frieda. La fata gettò un’occhiataccia sprezzante al ragazzo che teneva stretto al petto come un burattino «Questo tienilo tu e per favore cerca di non prosciugarlo subito va bene?» disse al vampiro con una smorfia di disgusto. Norman era troppo debole per protestare o reagire. Ellak non parve gradire i toni bruschi della fata, ma andò a recuperare ugualmente il corpo del protettore che stava per sprofondare nella neve. Si tenne in caldo le sfuriate per il dopo. Sì, decisamente quei due sarebbero finiti col farsi a pezzi a vicenda.
«Allora» esordì Frieda trascinando l’orlo del vestito inzaccherato di fango «Tutto ciò è stato davvero divertente, ma adesso ne ho abbastanza. A dire la verità sono delusa, credevo che la mia dolce sorella avrebbe partecipato alla trattativa. Evidentemente aveva ben altro di più interessante di cui occuparsi. Accipicchia, è stato più facile di quello che mi aspettavo. Se avessi saputo che aveva intenzione di abdicare, mi sarei risparmiata tanto disturbo…».
«Oh per la miseria, fata» brontolò Ellak «attieniti al piano e fa in fretta. Il sangue del moccioso è fin troppo appetitoso…». Frieda s’infilò due dita nelle orecchie «Non amo che mi si interrompa, barbaro, fa parlare me». Lui le rispose con un ringhio profondo con il veleno che colava copioso dagli angoli della bocca. Gli occhi, due pozze di sangue vivo intrisi di ribollente rabbia.
«Se volete discutere con calma, non c’è problema. Magari passiamo dopo…» li interruppe Gabriel.
«Non così in fretta, medjai. Hai qualcosa che mi appartiene».
«Non direi, lo abbiamo trovato noi per primi…».
«Trovato?» rimarcò Leona inarcando un sopracciglio, sempre più sconvolta.
«Ok, tecnicamente…».
«So quello che vuoi medjai» disse Frieda «E io posso concedertelo in totale sicurezza. Quello che hai fra le mani è un oggetto potente, senza dubbio, ma se non sai come usarlo potresti farti male. Potrebbero esserci delle conseguenze disastrose e, contrariamente a quello che si pensa, non è nel mio interesse. Non ve l’ha detto il vecchio? Per ogni desiderio espresso, il ciondolo chiede un tributo in cambio. È questo il fondamento della magia, e il qui presente Candle potrà confermarvelo».
Candle s’impietrì sentendosi tirato in ballo e rigirandosi nervosamente il berretto fra le mani confermò «Farai bene a prestare ascolto ragazzo…». Frieda proruppe in una risata cristallina «Vedete, non sto mentendo, imparo dai miei errori. Guardami negli occhi medjai. Vuoi salvare i tuoi amici no? Certo che sì, non pensi anche tu che ci siamo lasciati troppi cadaveri alle spalle? A cosa sono servite tutte quelle morti…guardate in faccia la realtà, non potete affrontarci, ma ovviamente la scelta sta a voi»
«Quale scelta?» sputò sua sorella incollerita «ci uccidereste in ogni caso!».
«Come si vede che non mi conosci. Vi faccio una promessa, se accetterete a nessun altro protettore verrà fatto del male, compreso il vostro delizioso amichetto biondo» disse ammiccando verso il ragazzo stretto fra le braccia del vampiro «Sarà il mio primo atto misericordioso da retta sovrana qual sono. Acconsentirò a lasciarvi andare alle mie condizioni. Per prima cosa, dovrete abbandonare il campo. Ormai non c’è nulla che vi trattiene qui, non avete più alcuna protezione e non vedo perché sacrificare centinaia di vite inutilmente, soltanto per un capriccio».
«Secondo» s’intrufolò nella discussione Ellak, ghignando «dovrete giurare di smettere di darci la caccia dopo che i miei si saranno insediati qui. Vi spoglierete delle vostre armi, delle vostre corazze e tradizioni e vi mescolerete fra la gente comune, dimenticando ciò che siete stati». Frieda sospirò soffocando l’irritazione suscitatole dall’interruzione del nuovo capo della setta dei sanguinari.
«Terzo» continuò scoccandogli un’occhiataccia. La fata prese a frugare nervosamente fra le pieghe delle sue vesti e ne tirò fuori un contenitore di vetro. Dopo esserselo rigirato fra le dita, lo lanciò a Leona.
«Vuoi che mia sorella ci pisci dentro?» le domandò Gab.
Frieda scosse la testa, divertita dalla domanda. Leona invece rimase mortalmente seria. La spiò con sospetto tra le folte ciglia nere «Vuoi il mio sangue, non è così?».
«Perché il suo e non il mio, cos’ha lei di così speciale che io non ho?» chiese Gabriel tentando invano di nascondere l’infantilità nella sua voce.
«In realtà non è lei quella speciale, mio caro Gabriel. E se ti unirai a me, ti spiegherò ogni cosa. Ti dirò come usare correttamente il ciondolo, avrai ciò che hai sempre voluto, e non solo ti sarà concesso di vivere ma ti sarà riservato un posto speciale fra la più potente razza elitaria mai esistita, per ordine di sua Signoria in persona. Ti unirai alla guardia dei Cavalieri della Mezzanotte. Tutto quello che dovrai fare è consegnare in custodia il ciondolo a me e…».
«Non ha alcun senso» ribatté Gabriel «solo Dio sa quanti di quelli come noi non hanno avuto un futuro a causa loro…perché dovrei entrare volontariamente nella tana del lupo e lasciare che mi sbranino».
«Ai gemelli non servirà nulla il tuo cadavere. Loro ti vogliono al loro fianco».
Gabriel sbiancò all’istante «I…i gemelli? Ma cosa stai blaterando, fata?».
«Non hai ancora capito? Loro sono come te». All’improvviso fu come se gli fosse esplosa una bomba nel cervello. Ce n’erano altri come loro? Anche sua sorella pareva sconvolta da quella rivelazione e non la biasimava. Per anni li avevano messi in guardia, instillando in loro la paura anche solo d’incrociare la loro strada per sbaglio, e adesso volevano stringere un’alleanza con loro? Con lui, si corresse. Non aveva menzionato sua sorella, sangue a parte.
«E che ne sarà di lei? Dovrebbero sapere che noi le cose le facciamo insieme. O prendono tutto il pacchetto o si possono infilare la loro proposta su per il…».
«No!» urlò sua sorella a gran voce. Le schegge del contenitore si erano sbriciolate fra le sue mani «Questo sangue» disse stringendo il vetro con più forza «non sarà mai tuo».
Frieda roteò gli occhi al cielo e si pizzicò il setto nasale con l’indice e il pollice «Immaginavo che lo avresti detto…». Sua sorella urlò ancora. Questa volta, però, per la staffilata di dolore che la sfera oscura di una sidhe le aveva procurato andandosi a piazzare fra le sue scapole. Cadde in avanti con la faccia riversa nel nevischio e non si mosse più. Due vampire saettarono ai margini del suo campo visivo come ombre sfocate e la presero per le braccia. La scaraventarono con violenza ai piedi della fata e si fecero da parte. «Non toccatela!» gli intimò rabbioso col panico che gli serrava la gola. Sua sorella grugnì in preda alle atroci sofferenze ma raccolse le forze necessarie per levare lo sguardo su di lei. Frieda rise a denti stretti e sollevandosi l’orlo sudicio del vestito, gli sferrò un calcio in pieno viso. Gabriel sentì il rumore del setto nasale che si spappolava anche da lì. L’ira prese le sembianze degli artigli dell’arpia che si erano appena uncinati sul suo addome. Il petto di Gabriel avvampò di una rabbia così intensa e cruda da liquefare le viscere. Quando Frieda la fece rialzare da terra acciuffandola per i capelli, contemplò l’idea di un omicidio di massa per spegnere le fiamme che ardevano dall’interno.
«È un vero peccato rovinare un così bel faccino».
«Stronza» sibilò sua sorella soffocando nel suo stesso sangue. Frieda le afferrò una ciocca e la strattonò verso il basso con violenza. I capelli di Leona le rimasero in mano. Le grida di dolore gli perforarono i timpani.
«Ora ho la tua attenzione, giovane medjai? La generosità dei Cavalieri non si estende anche alla tua vivace sorella…».
«Dimentichi però chi ha il coltello dalla parte del manico…» disse Gab mostrandole l’oggetto della loro contesa «Cosa ti dice che io tema le conseguenze? Cosa ti da la sicurezza che io non farei qualsiasi cosa pur di ottenere ciò che voglio?».
«Oh, sono sicura della tua caparbietà, ma conosco il tuo punto debole». Qualcosa luccicò fuori dalla manica dell’abito, qualcosa di molto affilato che in quel momento baciò la gola di sua sorella. Il gelo della lama la fece tremare e chiuse gli occhi inumiditi dalle lacrime. 
Il ragazzo si morse il labbro inferiore inconsapevolmente e cercò di non fare troppo caso a come la terra sotto di lui stesse ondeggiando «Non la ucciderai, sai benissimo come funziona. Se mi volete vivo…».
«Dammi il ciondolo, ragazzo! Non ti darò un’altra possibilità, a quel punto ordinerò ai miei di sterminarvi dal primo all’ultimo» disse affondando lievemente la punta del pugnale nella pelle di Leona. Un rivoletto di sangue si raccolse nell’incavo del collo.
«Ti prego…» lo supplicò Leona «Non farlo».
Come poteva chiedergli una cosa del genere? Dopo tutto quello che avevano passato e l’odio che avevano condiviso? Avrebbe voluto guardarla negli occhi e scavare dentro di lei, ma erano chiusi, come se volesse tenere fuori tutti quegli orrori che la circondavano, come se si rifiutasse di accettare la minaccia che la pungeva crudelmente la carne. E lo aveva lasciato solo. Solo con quella terribile decisione. Gabriel si fece catturare dai bagliori blu del ciondolo, ipnotizzato dal suo dondolio. Gli bastavano solo quattro parole, le stesse che gli pulsavano nella testa da quando i suoi genitori erano stati uccisi. Li voglio tutti morti. Solo un istante e tutto sarebbe finito. Era sempre stato così, l’odio per i vampiri non si era mai affievolito, anzi lo aveva coltivato con cura fino a che non era stato in grado di desiderare nient’altro. Si addentò la lingua pur di non pregare il ciondolo di esaudirlo all’istante, per dissetarlo, appagare e narcotizzare il dolore sordo che lo tormentava. Quel semplice gioiello poteva donargli il mondo che lui aveva sempre sognato, ma che senso avrebbe avuto se non poteva condividerlo con lei? Come avrebbe potuto sorridere di nuovo se lei non ne avesse fatto parte? No, non poteva farlo. Non voleva quel mondo se Leona non lo avesse abitato. E c’era di più. Nella improbabile ipotesi che entrambi sarebbero sopravvissuti, sapeva perfettamente che, adesso con molta più chiarezza, Leona lo avrebbe odiato per tutta la vita. Gli faceva male anche solo pensarlo ma non voleva più la stessa cosa. Lei lo avrebbe disprezzato quel mondo, non avrebbe voluto averci a che fare. Lui non la capiva, forse non lo avrebbe mai fatto. Non per questo soffocò il seme del dubbio sul nascere. L’idea che un vampiro potesse essere di più di un freddo assassino dall’anima dannata, era semplicemente ridicola, impossibile da accettare. Lei, però, aveva affrontato l’intero consiglio per quei viscidi, non si era piegata di fronte alle loro ingiuste accuse. Leona era tutto fuorché pazza e se lei ci credeva, allora una parte di lui, quella che avrebbe preferito morire piuttosto che farla soffrire, le avrebbe concesso la possibilità di dimostrargli come quella follia potesse essere reale.  
Ma come poteva anche solo pensare di arrendersi e consegnare l’amuleto? Cosa gli garantiva che Frieda mantenesse la parola data? Assolutamente nulla.
L’idea gli balenò all’improvviso fulminando il caos dei suoi pensieri tempestosi.
«Prendi il suo sangue finché puoi» gli disse infine.
«Gabriel che cosa stai facendo?» sbottò Morgana con gli occhi luccicanti di rabbia.
La fata gli sorrise «Hai scelto bene, medjia» disse allentando la presa su una Leona che si reggeva in piedi per miracolo. Lui non era affatto d’accordo, ma si limitò a deglutire mentre la osservava avvicinare la fiala alla ferita di sua sorella. Il taglio non era profondo, ma stillava ugualmente flussi abbondanti di quel liquido denso e carminio che adesso traboccava dalla fiala colandole giù  dalle dita. Lo sigillò frettolosamente con un tappo e se lo intascò.    
 «Adesso restituiscimi mia sorella ed io… ti consegnerò il ciondolo della Luna» sussurrò come se della cartavetrata stesse sfregando contro le sue corde vocali. Non credeva che sarebbe stato così difficile pronunciare quelle parole. Eppure…lottò con quella parte di lui che continuava ad urlagli che stava commettendo l’errore più grosso della sua vita e gli mise un bavaglio attorno alla bocca.
«Ma prima» aggiunse «lascia che faccia un’ultima cosa». Se avesse anche solo minimamente immaginato quanto quel silenzio avesse potuto squarciarlo così nel profondo, Gab ci avrebbe pensato più di una volta ad avanzare quell’assurda richiesta al ciondolo. Finché però sarebbe rimasto legato a lei, non avrebbe potuto attuare il suo piano senza coinvolgere sua sorella. E così andò alla ricerca di quel legame dentro di sé. Non fu difficile trovarlo, sentirlo a fior di pelle. Tutto il suo essere era permeato da quell’unione, le loro anime erano davvero fatte della stessa cosa. Ascoltò il canto del cuore di sua sorella imprimendosi il pentagramma di quella melodia nella sua memoria, prima di sussurrarle: «Scusami». Quello però che uscì dalla sua bocca furono ben altre parole e non erano rivolte alla sua Leona.
«Distruggilo» disse «Spezza il nostro legame».
Gabriel ripensò al dolore inferto da una spada, a quello causato da una pallottola conficcata nella carne, sprofondata nei polmoni, al suono di ossa che si spezzano in seguito a una caduta. Non era nulla di tutto questo, non si trattava di un dolore fisico…Non riusciva a sentire più nulla.
«Che cosa hai fatto?» disse lei, grato che almeno la sua voce gli suonasse ancora così familiare. Non aveva mai avuto tanta paura in vita sua come in quel momento. Guardò la luna blu impressa nel palmo della sua mano. Quel silenzio, quella solitudine…gli strapparono l’aria dai polmoni. L’ossigeno, comunque, di lì a poco non gli sarebbe più servito. Adesso che la vita di Leona non era più legata alla sua, con un unico sconsiderato colpo di spada avrebbe ucciso la più spietata regina che avesse mai solcato il pianeta Terra, liberato il suo popolo dalla morsa maledetta delle sidhe, e sottratto al nemico il pedone sacrificale più importante della loro scacchiera: se stesso. Affilò Symphony preparandola alla sua ultima canzone e scattò verso Frieda e la sorella, imitando la velocità di un vampiro. Leona riaprì gli occhi un secondo prima di capire quale diavoleria avesse in mente suo fratello, ma ebbe l’accortezza di farsi da parte catapultandosi in mezzo alla neve. Gab, allora, brandì la spada impugnando l’elsa con entrambe le mani, l’eco del metallo riverberava nella valle silenziosa come se stesse trattenendo il fiato. Credendo che stesse vibrando Symphony verso la sua testa, Frieda si accovacciò verso il basso convinta di averla fatta franca, ma non era la sua decapitazione ciò a cui il medjai puntava. Bloccando la finta a metà arcata, Gab piroettò elegantemente assecondando lo slancio della spada e si spinse con la schiena contro il petto della fata dai capelli blu. Caddero l’uno sopra l’altra spruzzando neve in ogni dove, i loro corpi combaciavano a tal punto che il ragazzo riuscì a tracciare nella sua mente una mappatura di tutte le ossa spigolose che pungolavano sulla sua schiena. Tralasciando i versi soffocati di Frieda che tentava di levarselo di dosso, il protettore ingoiò il suo ultimo lungo respiro, la gabbia toracica che si espandeva ingorda dell’aria fresca che era penetrata nei suoi polmoni, e fece ruotare la spada a doppio filo di suo padre fino a che la lama non fu collocata poco sopra lo sterno, perpendicolare alla metà rimanente del suo cuore. Prima di chiuderli definitivamente, avrebbe voluto godere della vista del cielo ancora un’ultima volta, ma la consapevolezza che dopo la sua morte il sole sarebbe tornato a baciare la pelle delle persone che amava lo rinfrancò in egual modo.
Senza ulteriori indugi o rimpianti, Gab tese le braccia verso l’alto raccogliendo tutti i residui di mana che vagavano solitari nel suo sangue e spinse l’arma verso di lui con una forza tale che se solo fosse riuscito nel suo intento avrebbe certamente trapassato il suo cuore e quello della donna che giaceva sotto di lui. Quando i pugni vuoti cozzarono contro il suo petto, il ragazzo ricacciò fuori tutta l’aria che aveva precedentemente inspirato con un dolore acuto che si irradiava fra le costole.
Symphony era svanita nel nulla e aveva soltanto lasciato al suo passaggio lievi escoriazioni sanguinanti fra le sue mani. Non fu quello a sconvolgerlo di più, ma il tuono pulsante che riecheggiò insieme ai battiti del suo cuore.
Sei un idiota Gabriel Massimiliano Braveheart, urlò una voce carica di rabbia che poté udire soltanto lui nella sua testa. La gioia infusa dalle vibrazioni accelerate del cuore di sua sorella lo lasciò paralizzato dalla testa fino all’estremità dell’alluce. Gab fece sprofondare le mani nella gelida massa ghiacciata che lo circondava per ritrovare la lucidità e si tirò lentamente su. Quando fece rimbalzare lo sguardo da una Leona all’altra, Gab considerò seriamente la possibilità che avesse sbattuto la testa da qualche parte. La prima era la stessa Leona con il naso imbrattato di sangue che conosceva, quella talmente indebolita che a malapena ricordava come mettere un piede avanti all’altro. La serica pelle di alabastro della seconda Leona invece, emersa da quella confusa folla di corpi impietriti dal sortilegio, risplendeva di luce propria fra le tenebrose ciocche corvine che si agitavano in balia dei venti attorno al suo viso adirato. Nella mano destra c’era Symphony. Le sue dita pallide ghermivano l’elsa come se volessero fondere il metallo in cui era stata forgiata. Le labbra barricavano fra i denti l’imprecazione che cercava disperatamente di evadere dalla sua bocca. Be’, aveva davvero pochi dubbi su chi fra le due fosse l’impostore.         
Quella distrazione gli impedì di notare la mano che era sgusciata da sotto la sua ascella intrufolandosi di soppiatto dentro la tasca della sua giubba.
«Finalmente! Dopo decenni di separazione sei di nuovo mio» stava sussurrando dolcemente Frieda alla collana che stringeva gelosamente in grembo come un neonato. A Gab mancò il terreno sotto i piedi. Frieda prese delicatamente il ciondolo lunare fra le dita e lo innalzò al cielo affinché tutti potessero vederlo. I suoi occhi viola bruciarono di pura follia.
«Adesso» disse a voce sempre più alta «inchinatevi a me». Il silenzio amplificò l’eco di quel comando dispotico senza produrre alcun effetto. Frieda cominciò a guardarsi attorno con l’aria di una che aveva smarrito la bussola e riprovò «inchinatevi ho detto!». Il volume si era innalzato ancora di qualche tonalità ma nessun ginocchio accennò a flettersi.
«Qualche problema?» domandò divertita la Leona col naso spappolato. Ma…perché si era accorto soltanto in quel momento che il sangue che le imbrattava la faccia fosse maledettamente blu?
Frieda digrignò i denti e si avvicinò il ciondolo a una spanna dal viso. Poi sollevò lo sguardo confuso e furioso sull’omone che si stava letteralmente piegando in due dal forte ridere. Candle si soffiò rumorosamente il naso nel fazzoletto che aveva trafugato dal taschino del gilè «Sapevo che avevi un debole per le pietre, ma devi ammettere che ti accontenti di poco». Frieda restò in silenzio e i suoi occhi saettarono di nuovo sul…sasso liscio, bianco e discoidale che teneva sul palmo della mano. Sì, un semplice, inutile, sasso.
Quello che accadde dopo la trasmutazione del falso ciondolo della luna, Gab, in fondo, mica se lo ricordava così bene. Era sicuro di aver notato vagamente il sorriso della ladra di Symphony mentre i bagliori dei fondali marini si accedevano di un profondo blu attraverso la  sottile camicia bianca che indossava sotto la giubba, la maestosa aquila reale che precipitava come un mietitore spietato con gli artigli arricciati sulle spalle della fata dal viso sfregiato dalle sue bugie, e la malconcia caricatura di sua sorella che si slanciava verso l’alto e i capelli, dapprima nerissimi, sciogliersi in fluenti ciocche di un dolce color miele, gli ipnotici occhi blu macchiarsi di cioccolato. Poi il sole arse fra i seni della donna dalle lucenti ali dorate che aveva indossato le spoglie di Leona. La luce rossa esplose dal suo nucleo e impattò nel petto della sorella fatata a cui invece erano state strappate le ali.
Il sassolino che per lei era stato prezioso, scivolò fra le sue dita, ma il suo cuore ferito dal raggio incandescente dell’amuleto gemello non sanguinò. 
**********

Delilah

Delilah non poteva crederci. Il piano della ragazza aveva funzionato. Non contava nemmeno più gli anni che aveva trascorso a darle la caccia e finalmente c’era riuscita. Stava assaporando la vendetta sulla sua lingua ma…si accorse che non era dolce come si sarebbe aspettata, anzi era tremendamente amara, pungente e non aveva estinto la sua sete. Teneva ancora fra le braccia la sua moribonda sorella quando le sue adepte cominciarono a piovere dal cielo come corvi neri a cui erano state spezzate le ali in volo. I guerrieri ripresero a gridare e a stridere il ferro attorno al loro giaciglio funebre improvvisato.
«Sorella, tu…» gorgogliò piano Frieda aggrappandosi alla sua candida veste. Bolle di sangue nero scoppiarono sulla sua bocca contorta in una smorfia sofferente.
«Shhh…» le sibilò adagiandole la testa in grembo «Non parlare o sarà ancora più doloroso».
Perché la sua voce era così rotta e tremante? Era quello che voleva dopotutto…Eppure le sue dita continuavano involontariamente ad accarezzarle i lunghi capelli blu, quelli che adorava intrecciare e decorare di fiori quando erano soltanto delle bambine, quando nessuna delle due conosceva il subdolo significato dell’invidia o la bramosia di una corona sulla testa, quando ancora nessun uomo poteva giocare con i loro deboli cuori e metterle l’una contro l’altra.
«Hai rovinato tutto, lo sai?» cercò di dirle fra i convulsi colpi di tosse «Avresti dovuto lasciare il ciondolo a me…potevo portarlo indietro, potevo riportarlo indietro da noi…il nostro…Mordred» sospirò.
«Stai delirando sorella. Come è possibile…».
«Lui…» la interruppe sfiorandole la guancia delicatamente «il suo corpo…giace nelle lande ghiacciate, è lì che l’ho tenuto nascosto». Delilah s’interrogò su come fosse riuscita a nascondere il cadavere dell’uomo che avevano amato nelle terre di suo dominio senza che lei ne venisse a conoscenza, ma in fondo sapeva che persino in seno al suo consiglio più ristretto si celasse un covo di serpi. S’immaginò le loro lingue biforcute lappare l’aria attorno a lei infestandola con le loro velenose bugie, le stesse lingue che avevano sussurrato alle sue orecchie. In quel momento non era più rilevante. 
«Ma adesso non ha più importanza» convenne sua sorella sputandole il sangue sui vestiti «Ti prego, allegra la morte di tua sorella dissolvendo uno dei dubbi che l’hanno tenuta sveglia la notte per tutti questi secoli…quando ti sei accorta che Mordred non era il tuo legatio?».
Delilah non poté fare a meno di sorridere «A mio discolpa credevo sul serio che lui fosse il sovrano del mio cuore, colui a cui avrei ceduto incondizionatamente metà dei mie anni immortali, colui con cui avrei tirato l’ultimo sospiro allo stesso capezzale. Credevo davvero di essere innamorata, e che dopo di lui la felicità sarebbe fuggita da me come le tenebre fuggono la luce. Dall’altra parte quando una fata s’innamora è per sempre no? E forse è stato questo ad alimentare il mio odio verso di te…tu mi avevi negato la possibilità di un amore per il resto dei miei giorni, mi avevi condannata alla prigione più crudele che potessi costruire per me. Lui ti amava Frieda, ha sempre amato te e te soltanto. Era il tuo legatio, non il mio. Adesso lo so…e ti chiedo perdono per ciò che ti ho fatto…Sono stata io a plasmare ciò che sei diventata, sono stata io a distruggerci, adesso lo so».
«È successo, non è vero? Lo hai trovato alla fine…l’ho visto nei tuoi occhi. Be’, che tu sia dannata sorella, potrai attendere a lungo ma il piccolo protettore non ricambierà mai i tuoi sentimenti…sei destinata a soffrire come tu hai fatto soffrire me. E non c’è nulla che mi terrà più a caldo nell’aldilà che saperti col cuore infranto per il resto dell’eternità».
«È così crudele amare una volta e una volta soltanto e non avere la possibilità di scegliere. Immagino che me lo sia meritata dopotutto…».
«No Delilah, tutti meritano di essere amati…almeno una volta nella vita. Anche una sgualdrina come te».
«Questa è la cosa più dolce che tu mi abbia detto».
«Be’ forse hai ragione, sono i deliri di una moribonda…»
«Vai in pace, sorella» disse lei imprimendole le labbra sulla fronte tempestata di cicatrici.
«Fottiti…» mugugnò Frieda quasi sussurrando. Delilah sentì il corpo di sua sorella afflosciarsi fra le braccia. Un rigagnolo di sangue denso e scuro le colava dalla guancia ma, mentre calava le palpebre sugli occhi immortali di Frieda, seppe che in qualche modo non si erano odiate fino alla fine. Perché lei, stava sorridendo.
**********

Norman

Quando Norman riprese conoscenza si aggrappò forte alla vita, annaspando in cerca d’aria. Una spirale di dolore si attorcigliò lungo il costato e il gelo permeò le sue ossa. Tentò di mettere a fuoco ma gli sembrava impossibile oltrepassare quel nebuloso banco di nebbia affollatosi davanti ai suoi occhi. Le voci attorno a lui biascicavano trascinandosi una parola dietro l’altra con una lentezza quasi insopportabile. Soltanto una fra quelle fu in grado di scuoterlo. Di elettrizzarlo.
«Le…Leona» gracchiò. I denti gli vibravano in bocca senza il suo consenso. Faceva così freddo, come se stesse riposando fra le mura di una ghiacciaia. In effetti le sue supposizioni non erano poi così lontane dalla realtà. Le dita che stringevano sulla sua gola erano punture gelide sulla sua pelle arrossata. Allora ricordò e la paura si sciolse nel suo stomaco.
Debole com’era, non sarebbe comunque riuscito a fuggire da nessuna parte senza finire con la faccia a terra, eppure il vampiro serrò la presa su di lui, sordo allo scrocchio delle sue ossa che si piegavano. Era addossato contro il suo petto immobile, muto e privo di sospiri. Quella breve staffilata di dolore però rischiarò ai margini la nebbia che lo aveva accecato e colse un fulgore rosso campeggiare per aria.  Il lampo si scontrò sull’addome di Frieda. La fata rimase perfettamente immota, soltanto le sue pupille viola vagarono giù verso il foro fumante che il ciondolo del sole le aveva scavato dentro al petto.
«È una trappola!» gridò il suo rapitore, scuotendolo da capo a piedi «Quello vero lo indossa la protettrice! Prendete il ciondolo ad ogni costo!». Norman fece fatica a comprendere la sua preoccupazione ma gli fu tutto più chiaro quando Leona infilò una mano dentro la sua camicetta. Il ciondolo della luna, dello stesso colore dei suoi occhi, brillava di una luce accecante ballonzolando suoi contorni del suo viso. E vedere quel viso straordinariamente bello gli riscaldò il cuore come lo aveva sempre fatto. Poi la temperatura calò drasticamente quando vide sei figure fasciate in nero cuoio aderente gettarsi su di lei, il tempo che non accennava a rallentare. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere lì al suo fianco, circondarla fra le sue braccia e proteggerla da quello scontro impari e sleale. La ragazza, però, quella che un tempo lo aveva salvato dalle fauci di un licantropo, sorrise biecamente, come se non stesse aspettando altro.
Per anni Norman fu tormentato dalla scena che scorse davanti ai suoi occhi senza mai capire il perché di quel gesto folle e senza senso. Sensato o meno, Leona strappò la catena dalla giuntura a cui era appesa la mezza luna e la gettò alle sue spalle. Un attimo prima la falce blu luccicava fra le sue dita, quello dopo il suo bagliore venne soffocato dentro la bocca della ragazza. E con grande sorpresa di tutti lo inghiottì. I pensieri di Norman si aggrovigliarono confusamente.
Aveva davvero mangiato uno nei manufatti più potenti e pericolosi mai esisti sulla faccia del pianeta o Norman aveva sbattuto forte la testa durante una colluttazione?
Il vampiro lanciò un urlo dal profondo della sua gola, i suoi muscoli tremavano in preda alla rabbia che lo divorava. Qualcosa poi gli sfiorò la pelle e ci volle qualche secondo prima che il dolore esplodesse in tutta la sua impetuosità. Un respiro glaciale alitava sul suo collo, due pugnali scavavano dentro la sua gola. Norman restò in silenzio mentre gli veniva portato via un pezzo di sé una sorsata dopo l’altra, il sangue che abbandonava lentamente le sue vene in fiamme, i battiti del suo cuore che si facevano via via più flebili e distanti, il ronzio che gli assordava i timpani. Da un lato implorava che smettesse, dall’altro supplicava quella cosa che stava prosciugando la sua carotide pulsante di non fermarsi. Norman si aggrappò al braccio liscio e marmoreo che lo sosteneva prima che il mondo si chiazzasse di ombre e rimase in ascolto di quell’ululato straziante. Un ululato lungo, corroborante, che s’insinuò sotto pelle, fin dentro le ossa. Le ciglia sfarfallarono piano contro le guance, soltanto una sottile striscia di colore visibile fra le sue palpebre. Ma lo vide. Un enorme massa arruffata di pelo nero come la notte stava venendo per lui, stava venendo a prenderlo come accadeva nei suoi peggiori incubi. Voleva fuggire, il lupo era a un balzo da lui, ma le sue gambe non volevano saperne di dare un solo passo. E il lupo saltò, ringhiando come un demone. Non appena fu su di loro, il dolore cessò improvvisamente. Adesso giaceva prono in mezzo alla neve, ma non aveva freddo, non sentiva più niente.  Aveva sempre creduto che lo odiasse, che soltanto quando lo avesse sbranato l’ira che ardeva in quei profondi occhi scuri si sarebbe placata. Ma il lupo non era lì per lui, non era mai stato così. Se l’era presa con il mostro sbagliato. Il vampiro sibilava e vibrava pugni ponderosi, il licantropo guaiva e uggiolava, denti aguzzi che impattavano su pietra impenetrabile in cerca di una crepa. Fra ringhi e baruffe, il Freddo gli sfuggì dalle fauci e assestandogli un calcio su per le gengive del lupo sparì dalla loro vista nella foschia della nebbia. Prima di scattare all’inseguimento del fuggiasco, deglutì il suo bottino – tre dita intirizzite dalla morte ed esangui – e con la pelliccia irta sulla schiena, dedicò pochi istanti della sua attenzione al ragazzo che stava lentamente scivolando via nell’oblio. I suoi occhi luccicavano come la rugiada baciata dai primi raggi del mattino, e in mezzo all’inchiostro nero delle sue pupille, Norman intuì il perché di tutto il dolore che vi trovò dentro.
«Sai Caterina, dopo tutto…quelle orecchie pelose non ti stanno così male…» riuscì a sospirare fra un rantolo e un altro. La coda della lupa prese a sventolare frenetica mentre si accucciava su di lui leccandogli il sangue dalla faccia. Allora il ragazzo affondò le dita nel pelame caldo della sua amica e l'attirò a sé per premersi il suo tartufo contro la fronte. Si rese conto che non gli importava affatto cosa fosse, lui poteva vedere in quella creatura suddita della luna la stessa malizia giocosa, le stesse espressioni arcigne che celavano profonda dolcezza, la stessa lealtà che li aveva legati fin da quando erano bambini. Quella lupa era la stessa triste ragazzina orfana della madre che avevano accolto a casa loro quando non aveva più nessuno.  La stessa persona a cui aveva preso la mano e le aveva promesso che non sarebbe stata più sola. Non c’era nulla che potesse ferirlo di più che infrangere la promessa che le aveva fatto, ma l’oscurità lo stava reclamando, sentiva che le forze si dileguavano dal suo fragile corpo. Caterina gli spinse la testa ciondolante col muso soltanto per vederla ricadere pesantemente sul collo. Gli occhi del ragazzo non si riaprirono più. Era troppo tardi, aveva fatto ingresso nel suo inferno. Era rimasto prigioniero di una gabbia fatta di dolore e lei non poteva fare più nulla per raggiungerlo se non ululare la sua vendetta con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
   
 
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