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Autore: Nicola Novaglia    15/01/2021    2 recensioni
Christine si stese sul letto, era stata una giornata lunga e faticosa, non meno delle scorse settimane, degli scorsi mesi,
degli scorsi anni, ma quella sera si sentiva davvero esausta. Il vorticare dei pensieri nella sua mente e il letto morbido e caldo la stavano già guidando verso un riposo senza sogni quando un rumore secco la riportò alla veglia.
TAC.
Il rumore sembrava venire dal bagno in fondo al corridoio, più vicino alla sala che alla camera da letto.
Sono un grande hater degli spoileroni, però una cosa devo dirvela: date un’occhiata sotto il letto stanotte prima di dormire. Tanto per essere sicuri.
Genere: Horror, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Skin against skin, blood and bone
You're all by yourself but you're not alone
(Drowning Pool – “Bodies”)
 
Christine si stese sul letto e sospirò nel sentire le natiche sprofondare nel materasso in memory, chiuse gli occhi per prolungare quel sollievo e lasciare che la circolazione nelle gambe riprendesse.
Era stata una giornata lunga e faticosa, non meno delle scorse settimane, degli scorsi mesi, degli scorsi anni, ma quella sera si sentiva davvero esausta.
“A saperlo, non mi sarei mai iscritta”, pensò. Il primo allenamento in palestra era stato devastante, decisamente la cosa peggiore della giornata, più della sfuriata del suo capo, più della cotoletta semi cruda che aveva ingurgitato per pranzo, più della pioggia che le aveva infradiciato le converse e le calze. Quel pensiero le fece riaprire gli occhi:
“Merda.”.
Aveva ancora le scarpe ai piedi. Avrebbe voluto allungarsi e toglierle, ma il solo pensiero le faceva male in quattro o cinque punti del corpo. Pensò che aveva la forma fisica di una settantenne. 
Christine Collins, in realtà di anni ne aveva trentaquattro e li aveva trascorsi tutti quanti a Judas, nello Stato di Washington. Quella piccola cittadina abbracciata dal fiume Juda l’aveva vista crescere, le aveva dato scuole dell’obbligo e, quando si era dimostrata troppo pigra per il College, le aveva anche trovato lavoro nell’unico Dunkin’ Donuts della contea di Yakima.
L’unica cosa che non era riuscita a trovarle era stato un fidanzato o, se si limitava agli ultimi cinque anni, un uomo con il quale uscire.
“Mi accontenterei anche di qualcuno con cui stare in casa, a letto, magari.”
Quel pensiero la raggiungeva ogni volta in cui realizzava la sua completa solitudine e negli ultimi tempi la sua mente non le aveva dato tregua, le sembrava di avere zia Odetta in testa, che ogni volta che ne aveva l’occasione, le chiedeva se e quando si sarebbe trovata un uomo. 
Christine si era iscritta in palestra per provare a scacciare la voce della vecchia zia e riuscire a realizzare gli unici due sogni che aveva coltivato fin da quando era uscita dalla scuola primaria: dimagrire e trovarsi un ragazzo.
Per qualche tempo, durante il secondo anno di liceo, era quasi riuscita ad avere entrambi: era dimagrita abbastanza per farsi accompagnare al ballo di fine anno e aveva anche trovato un cavaliere che l’accompagnasse. Tom Martin l’aveva anche baciata a fine serata e nonostante l’alito che sapeva di aglio e sigarette alla menta, Christine la ricordava ancora come una delle serate più belle della sua vita. Durante l’estate, però, aveva perderso
completamente le sue tracce durante l’estate. Aveva poi scoperto che Tom era andato in una specie di campeggio per amanti della scienza nel Montana e al suo ritorno, lui era dieci centimetri più alto e lei dieci chili più grassa. Non si era nemmeno degnato di salutarla il primo giorno di scuola.
Aveva avuto qualche altro amante occasionale, ma niente di più serio di una scopata rimediata al pub del centro, dove andava quando non riusciva più a contenere la sua solitudine. Quelle sere si sedeva al bancone e aspettava che qualcuno fosse così ubriaco da trovare sexy il suo culone taglia cinquantasei. Si sedeva e aspettava, guardando le stories di modelle e attrici nel loro perfetto mondo di paillettes e abiti di marca. Non beveva nemmeno, Christine era astemia, ma d’altronde, non doveva essere lei quella ubriaca.
A volte capitava che qualcuno le si avvicinasse e le rivolgesse la parola o le sfiorasse la spalla con le dita umide di birra e in quei casi sapeva già che di lì a pochi minuti si sarebbe ritrovata nel cesso del bagno, con la faccia scacciata contro le mattonelle luride oppure dentro una vecchia Chevrolet scassata a mettere a dura a prova gli ammortizzatori.
Quelle erano le volte in cui le andava bene, ma erano molte di più le serate in cui si ritrovava a tornarsene a casa sconsolata, piena di vergogna e senza che nessuno l’avesse nemmeno notata.
Quella mattina si era svegliata con una mezza idea di scendere in centro per vedere se le prime due ore di palestra avessero ottenuto qualche risultato, ma la stanchezza l’aveva condotta direttamente a casa, senza alcuna voglia di mangiare, figurarsi fare “il verme dell’esca”, come si definiva quando programmava le sue serate al bar.
Il vorticare dei pensieri nella sua mente e il letto morbido e caldo la stavano già guidando verso un riposo senza sogni quando un rumore secco la riportò alla veglia.
TAC.
Il rumore sembrava venire dal bagno in fondo al corridoio, più vicino alla sala che alla camera da letto. Se la sua casa avesse avuto le travi a vista o il parquet, avrebbe pensato ad un normale assestamento del legno, ma viveva al terzo piano di un condominio fatto di mattoni, ferro e calcestruzzo e l’unico legno che aveva in casa era quello del tavolo da pranzo, ereditato da suo nonno.
Christine rimase in ascolto, aspettando che il rumore si facesse risentire.
Trascorse in attesa abbastanza tempo da rendersi conto che stava trattenendo il fiato e visto che il silenzio regnava, decise che poteva riprendere a respirare.
“Niente. Me lo sono immaginato.” pensò “Sono solo stanca, è ora di prepararsi per andare a letto.”. Con uno sbuffo si rimise in piedi, togliendosi la maglietta dalle pieghe della pancia.
“Ancora qualche mese e sarete solo un ricordo, giuro”. Parlò a voce alta, strizzandosi i rotoli di grasso all’altezza dell’ombelico, come volesse strapparseli via.
Era uscita di casa a ventidue anni e quasi subito aveva iniziato a sentirsi sola. Per tenersi compagnia aveva iniziato a parlare tra sè, ad ascoltare le conversazioni dei vicini, ma quella era la prima volta che le capitava di agitarsi per un rumore in casa.
Christine si diresse verso il bagno, se avesse potuto evitarlo lo avrebbe fatto, ma sua madre le aveva insegnato che non si doveva MAI andare a letto senza essersi lavati i denti. Prima di entrare accese sia la luce del corridoio sia quella della sala, per quanto si sentisse sciocca, l’illuminazione le dava conforto. In bagno non vide nulla di strano, la tenda della doccia, che al cinema sembrava la copertura perfetta per i serial killer, era aperta, anche la finestra era chiusa, il gancio assicurato al davanzale.
“Sono davvero molto stanca.”, si disse, di nuovo.
Mentre si trovava seduta sul water, con lo spazzolino in bocca si slacciò le scarpe e si tolse i jeans umidi dai piedi, Christine Collins era sempre stata una donna multitasking, suo padre lo diceva sempre.
Lo sciacquone dell’acqua aveva appena smesso di gorgogliare quando lo sentì di nuovo.
TAC 
Questa volta si voltò di scatto, la schiuma del dentifricio che le colava da un lato delle labbra sul doppio mento, gli occhi spalancati, come un gatto sorpreso ad attraversare la strada in piena notte.
Il rumore era arrivato dalla cucina e l’aveva sentito forte e chiaro.
“Chi c’è?”. Erano parole inutili, ne era consapevole, se davvero ci fosse stato qualcuno in casa sua, non si sarebbe certo presentato gentilmente, un ladro (o uno stupratore) sarebbe rimasto nascosto nell’ombra, al buio.
Per quanto la sua mole lo permettesse, Christine fu veloce: allungò la mano oltre lo stipite della porta del bagno e accese la luce in cucina.
Si fece forza e sporse la testa, poi tutto il corpo verso la stanza che si apriva alla sua destra.
Niente.
Silenzio.
Il suo sguardo vagò per la stanza: prima verso la porta d’ingresso, poi sotto il tavolo, quindi verso lo sgabuzzino dove teneva le giacche e qualche cianfrusaglia per il fai-da-te.
Non vide nessuno, non c’erano stupratori acquattatati dietro le tende, né ladri pronti ad aprirle un nuovo orifizio sopra gli occhi.
Nonostante quello che vedeva (o non vedeva), il suo cuore non accennava a smettere di battere all’impazzata, lo sentiva pulsare nella gola e nelle tempie.
“C’è qualcuno?”. La voce era strozzata e Christine sentiva la lingua così secca che ebbe paura le si potesse sbriciolare in gola.
Mosse un passo incerto in cucina, senza che i suoi occhi potessero trovare pace. Osservò ogni soprammobile, ogni ombra che la luce artificiale della lampadina a led proiettava sul muro.
“Nessuno. Solo, fammi controllare lo sgabuzzino”.
Ogni passo sembrava tranquillizzarla, il rumore dei suoi piedi sul pavimento era un’ottima alternativa al silenzio che sembrava farsi sempre più pesante, come acquistasse un proprio peso specifico attorno e sopra di lei.
Aprì la porta dello sgabuzzino e un sorriso le illuminò il volto.
La giacca di jeans che aveva indossato per ripararsi dalla pioggia era caduta dalla gruccia, forse scivolata per il peso o forse lei l’aveva infilata senza fare attenzione, tanto era stanca.
“Sei proprio scema, Cris.”.
Sollevata, aprì il frigo per prendere una bottiglia d’acqua.
Il suo sguardo fu attirato da una fetta di pizza avanzata dalla sera prima.
“Non dovrei, pensò. Mi sono appena lavata i denti ed ho fatto quasi trenta minuti di tapisroulant. La macchina diceva 125 calorie consumate. Una fetta di pizza ai quattro formaggi ne ha 300.”
Chiuse il frigo e bevve dal collo della bottiglia, mentre la riponeva nello scompartimento delle bibite, pensò che in fondo quella fetta se l’era meritata, che non poteva andare a letto completamente senza cena e che domani avrebbe dovuto gettarla. Un peccato.
Quattro bocconi e trecento calorie dopo, Christine non riusciva più a tenere gli occhi aperti e si diresse verse la camera.
Pensò di lasciare la luce accesa in cucina, ma sarebbe stato uno spreco.
“È stata la giacca. Solo la giacca.”
Tornò in corridoio, guardando un’ultima volta dietro di sé.
La sensazione che provò nel gettarsi sotto le lenzuola non fu appagante come pochi minuti prima, ma fu comunque un toccasana per i suoi polpacci.
Quando ebbe finito di ringraziare Dio per averle donato una casa, un lavoro e la salute dei suoi cari (anche di quell’idiota di mio fratello, proteggilo dalle ricadute con l’alcool), si passò le mani sulla pancia. Lo faceva quasi tutte le sere, come a controllare di non essere ingrassata: scendeva dalla bocca dello stomaco fino all’inguine e misurava in un modo tutto suo, il rigonfiamento del ventre. Forse era solo suggestione, ma quella sera di settembre, a Christine sembrò che le si fosse un po’ sgonfiato.
Chiuse gli occhi e tese le orecchie ascoltando il rumore della pioggia che picchiettava le tegole del tetto, era una bella sensazione.
“Ce la farò”, si disse “Domani è un altro giorno e la palestra chiude alle 22.00, dovrei riuscire ad andare subito dopo il turno del pomeriggio. Anche un’ora basterà.”
Si girò per spegnere la luce, le spalle e la schiena urlarono di dolore, in attesa di rilasciare l’acido lattico che l’avrebbe paralizzata l’indomani mattina.
Christine sistemò le coperte, prese il cuscino sull’altra metà del letto e se lo appoggiò sulla pancia come faceva tutte le sere. Il calore e il peso non potevano essere come quelli di un amante, ma la facevano sentire sicura e protetta.
Qualche mese, solo qualche mese, forse un anno e si sarebbe rimessa in forma con tanto movimento e tanta verdura, questo le aveva detto il nutrizionista. Era una donna giovane e poteva ancora sperare in futuro migliore, senza le serate a farsi scopare nel parcheggio del bar, senza le nottate a fagocitare serie tv su Netflix, senza abbuffate a colazione, pranzo e cena.
“Pensare positivo, sì. Questo dice sempre la mamma. Se anche mio fratello ha trovato una donna che lo ama per quel pezzo di imbecille che è, ho speranza anch’io.”
Sarebbe stata magra, alta lo era già, magra, alta e bella. E non ci sarebbero stati più Tom Martin a dirle che era “cambiata” e che avrebbero potuto essere amici.
Non sarebbe più rimasta sola.
Senza rendersene conto, abbandonata a quei pensieri, le sue labbra si stavano distendendo in un sorriso, ma prima che potesse addormentarsi del tutto, lo sentì di nuovo.
TAC.
Questa volta molto, molto vicino.
C’era qualcuno lì con lei, ne era sicura, ne sentiva la presenza.
Spalancò gli occhi nel buio, ma li aveva tenuti chiusi troppo tempo e la luce che filtrava dalla finestra era troppo fioca, non vedeva nulla, solo il buio, enorme e spaventoso.
Il suo cuore parve perdere un battito, poi riprese nella sua folle corsa.
Non vedeva nulla, ma sentiva molto bene: il silenzio nella sua stanza da letto era talmente profondo che sembrava fischiarle nelle orecchie.
Nessuna auto all’esterno, nessuno schiamazzo in strada di qualche ragazzino ubriaco.
Attese un secondo, poi due, tre, quattro…
Nulla.
Ma lei lo aveva sentito e sembrava rimbombare nella sua testa.
(TAC)
Ascoltò più forte e sentì qualcos’altro.
Era un rumore insolito, ma il suo cervello le fornì un’immagine chiara: strisciare.
Qualcuno stava strisciando vicino a lei, adagio, come se avesse tutto il tempo del mondo.
SHHHH… TAC
SHHHH… TAC
SHHHH… TAC
Avrebbe voluto urlare, ma la gola era bloccata, come avesse un bolo che non riusciva a scendere né a salire. Le uscì un verso strozzato e stridulo.
SHHHH… TAC
La sua mano sinistra pestò contro la parete, annaspando alla ricerca dell’interruttore, mentre la destra stringeva il cuscino che era ancora sulla sua pancia.
Grattava il muro e stringeva.
SHHHH… TAC
Il pollice sfiorò la placca di metallo dell’interruttore, stava per premerlo quando si rese conto che i suoi occhi si stavano abituando all’oscurità.
Christine Collins vide con chiarezza una mano nera che emergeva da sotto il suo letto, allungandosi alla ricerca del suo piede.

 
   
 
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