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Autore: Shadow writer    16/01/2021    4 recensioni
Nate è un ventiquattrenne disilluso e pessimista. Ha un lavoro che odia, vive in una città che non sente sua ed è rimasto intrappolato in un passato che non riesce ad accettare.
Per aiutare un amico, partecipa a una corsa automobilistica, ma questo lo porterà a invischiarsi in qualcosa di più grande di lui.
"«Si dice che tu ti stia facendo un nome in città» commentò Alison, appoggiandosi al bancone di fronte a lui.
Il ragazzo alzò gli occhi dalla bistecca e incrociò quelli civettuoli di lei.
«È stata la mia prima e ultima gara» ribadì, «l'ho già detto a Richie.»
Lei fece schioccare la lingua contro il palato in segno di disappunto.
«Mi hanno riferito che ci sai fare con le auto.»
Nate rise e si sporse verso la ragazza.
«Me la cavo bene con molte cose, Alison» quando pronunciò il suo nome, le appoggiò le dita sotto il mento, costringendola a guardarlo negli occhi, «ma ciò non significa che io sia interessato a tutte queste.»"
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Aspettavo te
 

 

Chiunque avesse progettato la struttura della fabbrica, non era di certo un ingegnere competente. Le pareti erano così sottili che dal controllo qualità si riusciva a sentire il rumore assordante delle presse che lavoravano nella sala principale. 

Nate sentiva il tavolo vibrare sotto di lui e spesso gli era capito di controllare i prodotti più volte perché non riusciva mai ad essere preciso. 

Anche se non avrebbe scambiato la sua mansione con uno degli operai alle presse, odiava lavorare al controllo qualità, dove l'unica soddisfazione era trovare qualcosa di sbagliato.

«Tutto bene?»

Nate alzò gli occhi dalla lente e incontrò lo sguardo appannato dagli occhiali di Rugero.

Il collega lo stava scrutando dall'altra parte del tavolo.

«Sì» rispose, «perché?»

«Hai scartato due pezzi buoni» gli disse, posando i due pezzi sul tavolo.

Nate scrollò le spalle: «Mi sono sbagliato.»

Rugero sollevò le sopracciglia e gli puntò il dito contro: «Tu non sbagli mai.»

Il ragazzo sospirò e si accasciò sulla sedia alle sue spalle.

«Probabilmente ho solo bisogno di un caffè. Non ho chiuso occhio ieri notte.»

«Perché?»

Rugero era stato uno dei primi ad accogliere Nate all'interno della fabbrica. Aveva trattato il ragazzo con affabilità fin dall'inizio, soprattutto quando si era accorto che Nate era rimasto incastrato in un incarico ben al di sotto delle sue abilità.

Il ragazzo scrollò le spalle e appoggiò le mani sul tavolo davanti a lui.

«Le solite cose» rispose, guardando il collega. «I soldi sono pochi, il lavoro è uno schifo – senza offesa.»

Rugero fece un gesto per indicare che non se l’era presa e Nate continuò: «E la cosa mi andrebbe bene, se riguardasse solo me. Ma i miei amici si sono trasferiti con me e sono stato io a dar loro la speranza di una vita migliore qui.»

«Non essere così duro con te stesso» replicò l’altro, «alla fine volevi solo il loro bene.»

Nate fece un vago cenno di assenso e tornò al lavoro.

 

 

Finito il suo turno, Nate si diresse verso gli spogliatoi, ma fu bloccato dal responsabile della produzione, un uomo alto e ben impiantato, con i capelli a spazzola e un pizzetto grigio.

«Winchester» lo apostrofò, «ti vogliono sabato mattina come aiuto magazziniere.»

Nate si grattò la testa: «Questo sabato non posso, io…»

«Mi sembrava avessi chiesto di fare gli straordinari settimana scorsa» lo interruppe bruscamente l’uomo.

«Sì, ma sabato ho un impegno» si impuntò Nate. Mike aveva organizzato un weekend fuori città per il compleanno di Jay. Doveva essere una sorpresa, ma il festeggiato aveva scoperto tutto con una settimana d'anticipo e, anche se insisteva che non avrebbero dovuto, Nate sapeva quanto ci tenesse.

Gil, del reparto saldatura, gli aveva detto che i responsabili avevano cominciato a distribuire straordinari a chi ne aveva bisogno, ma che non sarebbero stati pagati il dovuto. Anche se erano solo chiacchiere, Nate aveva lavorato in quel luogo abbastanza a lungo per sapere che la diceria aveva un fondamento. 

«Non avrai un’altra possibilità, Winchester.»

L’uomo gli rivolse uno sguardo pietrificante.

Nate strinse i denti: «Sono disponibile in qualsiasi altro momento, solo non questo sabato.»

Il responsabile lo superò senza troppe cerimonie: «Troppo tardi.»

Il ragazzo serrò la mascella e si trascinò fino agli spogliatoi, dove poté liberarsi della sua divisa sudicia.

Avrebbe solo voluto scomparire.

Prima di entrare in doccia, controllò il cellulare e trovò sette chiamate perse tra Jay e Mike. 

Richiamò il primo.

«Sarò a casa tra mezz’ora, qualsiasi cosa sia, sono certo che può aspettare» esordì non appena l’altro rispose.

A rispondergli fu Mike, tutto d’un fiato: «Cihannoderubati.»

 

 

 

«Figli di puttana» ringhiò Nate quando vide le condizioni dell'appartamento. Il divano sottosopra, la televisione scomparsa, i cassetti della cucina aperti, le sedie ribaltate. Ogni oggetto portava il segno delle mani che lo avevano scosso e frugato, alla ricerca della sua parte più preziosa.

Nate si sarebbe definito una persona generalmente calma, che preferiva trovare soluzioni attraverso la sua mente pratica piuttosto che lasciarsi travolgere dalle emozioni. In quel momento, la sua mente nulla poteva contro la vertigine che l'aveva colta. Un improvviso senso di nausea gli attanagliò lo stomaco.

«E Mila?» domandò, percorrendo le stanze con lo sguardo.

Jay sbuffò: «La tua gatta sta bene, si era nascosta sotto al divano.»

Nate tirò un mentale sospiro di sollievo, poi si diresse verso camera sua. Il materasso era stato spostato dal telaio e abbandonato sul pavimento, l'armadio era spalancato e il suo contenuto si trovava sparso per la stanza.

Cominciò ad imprecare ad alta voce quando vide il cassetto della scrivania in cui teneva i suoi risparmi ribaltato a terra. Aveva sempre saputo che non si trattava di un nascondiglio intelligente, ma credeva che la serratura che lo chiudeva avrebbe scoraggiato chiunque a provare ad aprirlo.

«Cazzo» imprecò, facendosi spazio tra il caos in cui era ridotta la sua stanza. 

«Ti avevo detto di depositarli in banca» gli disse Jay, comparendo insieme a Mike sulla soglia.

«Vaffanculo Jay, okay?» lo fulminò. La situazione era già una merda, senza che lo facessero sentire un idiota. «Lo sai che non mi fido delle banche.»

Jay alzò gli occhi al cielo, ma ritenne più saggio tenere la bocca chiusa.

Mike fece un passo avanti, con lo sguardo basso sulle mani che torturavano l'orlo della sua maglia.

«Hanno preso la mia erba» confidò, come se la cosa potesse essere di una qualche consolazione.

Nate gli scoccò uno sguardo seccato: «Be', mi dispiace davvero per la tua erba» non tentò neanche di velare il suo sarcasmo, «ma quella puoi sempre ricomprarla. Fammi sapere quando potrai ricomprare tremilacinquecento dollari.»

«Ci tenevi tutti quei soldi?» si lasciò sfuggire Jay, con gli occhi sgranati.

Nate lo incenerì con lo sguardo e l'altro si sistemò gli occhiali sul naso e tossicchiò.

«Hanno preso anche il mio computer, la tv e la PlayStation. Per fortuna abbiamo delle posate così scadenti che ce le hanno lasciate» tentò di sdrammatizzare.

Nate lanciò uno sguardo intorno a sé, nel disordine della stanza, poi si accovacciò a terra, vicino al materasso.

«Perché cazzo uno dovrebbe fare una cosa del genere?» mormorò tra sé e sé.

Mike si accovacciò al suo fianco, solidale, ma non disse nulla.

Colpi secchi sulla porta d'ingresso.

«Avranno dimenticato qualcosa?» domandò Nate ironico, raddrizzandosi.

Mentre gli altri due decidevano se era troppo presto per ridere della battuta, il ragazzo si diresse verso il salotto, per infamare chiunque volesse dargli altre grane in quella giornata di merda.

Fece scattare la serratura e tirò bruscamente la porta verso di sé.

Davanti a lui stavano due poliziotti.

 

 

«Che cazzo, Jay.»

Bisbigliavano nel salotto, mentre i due poliziotti girovagavano per il resto della casa e facevano i loro controlli. 

Jay si sistemò nervosamente gli occhiali.

«Sì, li ho chiamati io. Perché era la cosa giusta da fare. Perché io non ho paura della polizia» ribadì, lanciando sguardo di rimprovero ad entrambi i coinquilini.

«Non farmi la ramanzina» replicò Nate, «io ho un lavoro onesto. E anche Mike.»

«Oh, Mike, quello che aveva abbastanza erba nella sua stanza per provvedere a tutto il condominio» ribatté l'altro come se Nate non avesse fatto altro che provare il suo punto.

«Questo non significa che non sia una brava persona. Tutti lo siamo. Paghiamo le tasse e facciamo la raccolta differenziata.»

«Allora non capisco perché dovreste aver paura della polizia.»

«Io sto con Nate» si inserì Mike. Era rimasto per tutto il tempo in disparte, con la testa a ciondoloni come un cagnolino abbandonato.

«Cazzo, è ovvio che tu stia con lui» lo aggredì Jay, «tutti amano Nathaniel Winchester. Lui è il più figo perché sa sempre cosa dire e cosa fare. Poco importa se alla fine mette nei casini tutti» esclamò Jay, a voce così alta che uno dei due poliziotti si girò verso di loro, interrompendo la sua ricerca.

Nate s'irrigidì e l'amico si rese immediatamente conto di ciò che aveva provocato, perché sul suo volto si dipinse un'espressione dispiaciuta.

«Scusa, io non volevo...»

«Va bene, va bene» Nate prese un respiro profondo. «Sai che ti dico? Vaffanculo Jay. Tu hai chiamato i poliziotti, tu li gestisci. Ci vediamo quando è finito tutto.»

Senza ascoltare le scuse con cui Jay cercava di frenarlo, Nate si lanciò fuori dall'appartamento e poi giù dalle scale.

Il furto aveva scosso tutti. Sapeva che Jay non intendeva davvero quelle parole e che alla fine voleva solo il meglio per tutti. Era questo il problema. Nate aveva creduto di poterli aiutare, tutti loro. Aveva pensato che sarebbe stato diverso, che loro sarebbero stati diversi. 

Quando scese in strada, si rese conto di quanto tardi effettivamente fosse solo per il buio e il silenzio. Le strade deserte facevano pensare a notte inoltrata, anche se mancava ancora più di un'ora a mezzanotte.

Il ragazzo ficcò le mani nelle tasche della felpa. Soltanto la sera prima, quelle tasche avevano contenuto un bel gruzzolo di soldi, la vincita della gara. Jay era stato contrario fin da quando gliene aveva parlato.

«È pericoloso e illegale» aveva detto.

«A te non va giù che sia illegale» era stata la replica di Nate, e aveva ottenuto un'occhiataccia dall'amico. 

Senza rendersene conto, aveva già percorso quasi un miglio dall'appartamento. L'aria della notte gli rinfrescava la mente e ossigenava il suo corpo.

Notò dall'altro lato della strada un distributore di sigarette e immediatamente provò una forte attrazione. La luce al neon appesa sopra lo chiamava come una calamita.

Attraversò la strada, inserì le banconote — le poche che aveva nel portafoglio — e digitò il numero.

La macchinetta vibrò e lasciò cadere il suo pacchetto. Nate si piegò per raccoglierlo e aveva già estratto la prima sigaretta prima di realizzare di non avere un accendino con sé. Era stata una delle tattiche per smettere e, insieme a tutte le altre, aveva funzionato. Ma in quel momento, mandò a ‘fanculo tutta la buona volontà che lo aveva sostenuto in quei mesi e desiderò solo di avere con sé un accendino.

Lanciò uno sguardo lungo la strada e ricordò che a poca distanza da lì si trovava un ventiquattr'ore.

Con il pacchetto di sigarette nella tasca posteriore dei jeans, si incamminò.

Dato che il negozio si trovava a qualche minuto di distanza, ne approfittò per fare una chiamata.

«Pronto?» rispose la voce ringhiosa del responsabile della produzione.

«'sera, sono Winchester» si presentò. «Ci sarò, sabato mattina, per gli straordinari intendo.»

L'altro non rispose subito, come se stesse metabolizzando le informazioni più lentamente a quell'ora della notte.

«Te l'ho già detto, Winchester, troppo tardi. Ho già trovato qualcun altro per sabato. E per tutti gli altri straordinari.»

Gli mise giù senza salutare.

Nate imprecò a denti stretti e accelerò il passo verso il negozio. Il suo umore si stava scurendo come il cielo quella sera. Nessuna stella brillava sopra di lui.

Il ventiquattr'ore era un piccolo negozio illuminato da una luce azzurrina. Conteneva due scaffali disposti parallelamente rispetto alla cassa, ricolmi di ogni genere di prodotto.

Nate si avvicinò alla cassa e prese un accendino.

L'uomo indiano al di là alzò lo sguardo dal giornale che stava leggendo.

«Altro?» domandò.

Il ragazzo ci pensò un istante. «Una bottiglia di vodka.»

«La vendita degli alcolici chiude alle undici.»

Nate controllò l'ora sul cellulare.

«Ma sono le undici e un quarto!»

L'uomo indiano lo guardò con i suoi occhi piccoli e scuri.

«La vendita degli alcolici chiude alle undici» ripeté, come per spiegarsi più chiaramente.

«Per favore, ne ho bisogno.»

Il cassiere allungò la mano, in attesa dei contanti, con un volto impassibile. Grugnendo, Nate glieli porse e uscì dal negozio.

Mentre camminava, prese una sigaretta dal pacchetto e se la infilò in bocca. Il peso familiare tra le labbra lo fece subito sentire meglio. Non appena l’ebbe accesa, tirò una lunga boccata e percepì la sua gola scaldarsi.

Tutto ciò che mancava era un po’ di alcol, ma non c’era nessun locale nelle vicinanze e di sicuro non aveva denaro a sufficienza per un taxi.

Passeggiò un poco per il quartiere, fumando una sigaretta dopo l’altra. Quando si stufò di girovagare, si sedette sul bordo di un marciapiede, con le gambe allungate sulla strada deserta.

Guardava il palazzo di fronte a sé, un orribile condominio cubico con delle piccole finestrelle quadrate. Chissà chi viveva là dentro. Famiglie stipate in piccole stanze, uomini divorziati, vecchie coppie. 

Si perse così tanto nel fantasticare che non si accorse dell’automobile che aveva imboccato la strada fino a che quella di fermò davanti a lui.

Sbatté le palpebre, mettendo a fuoco il nuovo soggetto che gli impediva la visuale.

La portiera dal lato dell’autista si aprì, rivelando un paio di tacchi neri, delle gambe affusolate che salivano fino ad uno stomaco sottile e un petto prosperoso cosparso di capelli biondi. Solo quando arrivò agli occhi, Nate realizzò che si trattava di Alison. 

«Aspetti qualcuno?»

«Dove vai?» le chiese raddrizzandosi.

«Al lavoro.»

Il ragazzo spense la sigaretta sul marciapiede e la lanciò poco lontano, poi tornò a guardare Alison e le sorrise: «Aspettavo te.»

 








 








 

ANGOLO AUTRICE


Ciao!
Come forse vi siete accorti all'inizio di questo capitolo non ho inserito la cover che c'era nel primo. La mia intenzione è di inserire immagini di neon (che mi aiutano molto ad evocare il mood di questa storia) per ogni capitolo come ho fatto qui. Non sono però convinta del risultato, quindi ho bisogno di un parere: preferireste vedere sempre la cover che c'era nel capitolo precedente? Oppure vi piacciono anche queste immagini dei neon?
Grazie a chiunque sia arrivato fino a qui. Alla prossima!

M.

 

   
 
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