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Autore: BabaYagaIsBack    17/01/2021    0 recensioni
Re Salomone: colto, magnanimo, bello, curioso, umano.
Alchimista.
In una fredda notte, in quella che ora chiameremmo Gerusalemme, stringe tra le braccia il corpo di Levi, come se fosse il tesoro più grande che potesse mai avere. Lo stringe e giura che non lascerà alla morte, il privilegio di portarsi via l'unico e vero amico che ha. Chiama a raccolta il coraggio e tutto ciò che ha imparato sulle leggi che governano quel mondo sporcato dal sangue ed una sorta di magia e, per la prima volta, riporta in vita un uomo. Il primo di sette. Il primo tra le chimere.
Muovendosi lungo la linea del tempo, Salomone diventa padrone di quell'arte, abbandona un corpo per infilarsi in un altro e restare vivo, in eterno. E continuare a proteggere le sue fedeli creature; finchè un giorno, una delle sue morti, sembra essere l'ultima. Le chimere restano sole in un mondo di ombre che dà loro la caccia e tutto quello che possono fare, è fingersi umani, ancora. Ma se Salomone non fosse realmente morto?
Genere: Avventura, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Capitolo Diciassettesimo
§ Non avere paura dei Mostri §
parte seconda

 

"When this began
I had nothing to say
And I get lost in the nothingness inside of me

(I was confused)

And I let it all out to find
That I'm not the only person with these things in mind"

- Somewhere I belong, Linkin Park

 

Mentre il profumo della torta si faceva sempre più prepotente all'interno dell'appartamento, Levi si concesse il lusso di osservare Noah. A ridosso della parete, con un libro qualsiasi aperto sotto al naso, quasi a depistare il suo interesse per ciò che stava accadendo, se ne stava silenzioso a studiare la scena di fronte ai suoi occhi - o meglio, a studiare lui, l'Hagufah. Con le mani giunte tra le ginocchia e il torso proteso in avanti, il giovane si era finalmente messo a sedere, abbassando le difese; e Zenas, senza troppi complimenti, si era assunto la responsabilità di affrontare qualsiasi domanda lui gli avrebbe posto, da quelle più recenti sino al loro primo incontro - ma non quello avvenuto nell'auditorium lì a Vienna, bensì a Praga, quando mesi addietro le due anime più antiche del mondo avevano attraversato Ponte Carlo e si erano riconosciute, chiamate. Era stato quello l'inizio di tutto, la svolta, la scarica di adrenalina che improvvisamente lo aveva fatto nuovamente sentire vivo - e nonostante i suoi fratelli quel giorno non fossero presenti, Nakhaš sapeva che Akràv sarebbe stato più bravo di lui a gestire le emozioni e dire a Noah qualsiasi cosa volesse sapere; in fin dei conti, tra tutte le Chimere, era il più paziente e amorevole, l'unico a essere mai stato padre e aver compreso l'importanza della calma, del raccontare con minuzia soppesando anche il più piccolo dei quesiti.

Lui non ce l'avrebbe mai fatta. Si conosceva abbastanza da sapere che la foga avrebbe avuto la meglio sul buonsenso, che la smania di ritrovare Salomone lo avrebbe spinto a diventare quasi... molesto, sì, esattamente come qualche giorno prima - si era dovuto sforzare per fermarsi, per non spaventarlo.

Passandosi la lingua sul labbro, Levi d'improvviso scostò lo sguardo, portandolo su Alexandria. Dal punto in cui si trovava la vedeva appena, eppure non poté che sentirsi rincuorato nel trovarla appollaiata sul pianale della cucina, le gambe accavallate, le braccia tese lungo i fianchi, gli occhi socchiusi e le orecchie tese, insieme al capo, in direzione del divano. 
Stava ascoltando anche lei - e, nel constatarlo, sorrise.

«Ci hai chiesto chi siamo, giusto? Bene, allora partiamo dal principio e permettimi di introdurci così, ragazzo: noi tre siamo nati in epoche lontane, in epoche che le persone forse non ricordano bene, ma di cui parlano ancora, alle volte con estrema ammirazione, affascinati da ciò che ha definito il mondo, alle volte con riluttanza e timore. Il problema, però, è che ci siamo anche morti in quelle epoche, ma non del tutto, non veramente. So che suona strano, eppure vedi... c'è stato un uomo, tantissimi anni fa, un Re che ha saputo unire scienza e magia meglio di qualsiasi altro. Questa persona si è votata alla conoscenza, al coraggio e nel farlo ha compiuto l'impossibile, sfidando tutti gli Dei conosciuti e le leggi del cielo e della terra. Lui, Noah, ha piegato l'alchimia al suo volere, riportando in vita sette corpi morti, anime che a suo dire non potevano andar perdute così presto perché diverse, speciali» lo sguardo di Zenas cadde su Levi, su colui per cui tutto ciò era accaduto, la ragione che aveva spinto Salomone a oltrepassare qualsiasi limite. Il Generale sentì il peso di quegli occhi posarsi sulle spalle, ne fu in parte schiacciato, ma resistette - persino dopo tanti anni, in Akràv, era ancora possibile scorgere della risentimento, seppur tenue. 
«Ebbene, quella è stata la nostra fine e il nostro inizio. Sembra la trama di un pessimo romanzo fantasy, non trovi? Io l'ho pensato così tante volte... peccato non ci sia mai stato nulla di finto in ciò che abbiamo visto, fatto, vissuto. Senza comprendere come tutto ciò fosse possibile ci siamo ritrovati nuovamente su questa terra, ma non come prima. Eravamo gli stessi, in qualche modo, ma anche terribilmente diversi e... beh, a causa di questa diversità abbiamo finito con il camminare in lungo e in largo per il pianeta, a solcare mari, oceani, scalare montagne, affrontare guerre dalla parte dei conquistatori ma anche dei conquistati. Ci siamo ritrovati negli agli anni ruggenti di ogni periodo storico e anche in mezzo a terribili carestie senza invecchiare di un singolo giorno. Abbiamo perso ricordi, averi, amicizie, ma mai la speranza, l'amore, il sorriso o quella sorta di famiglia che ci eravamo costruiti... o quantomeno è stato così fino a ventisei anni fa.» 
Involontariamente Nakhaš fece correre la propria attenzione dalle pagine del libro al fratello e, subito dopo, su Alexandria. Era certo che Zenas l'avrebbe guardata, che avrebbe cercato sul suo viso la smorfia di impronunciabile dolore che le si formava ogni volta che si parlava di quel giorno, dello scontro con il Cultus, dell'annegamento del Re - eppure non lo fece. A differenza sua Akràv rimase fisso su Noah, quasi si stesse aspettando dal ragazzo una qualsiasi reazione, proprio come lui stava facendo con Z'év: peccato che nessuno dei due, a quelle parole, batté ciglio. 
Con le palpebre chiuse, la Contessa sembrava essere diventata parte del mobilio. Era immobile, tanto che a malapena si poteva notare il movimento del suo petto quando inspirava o espirava l'aria e, a quella vista, Levi si sentì stringere lo stomaco. Uno scatto d'ira o un pianto isterico sarebbero stati molto più confortanti di quell'apatia, della sua totale indifferenza alla questione perché, in qualche modo, l'avrebbe capita, avrebbe potuto immaginare i suoi pensieri, le emozioni che le si agitavano dentro; invece, di fronte a quell'inerzia, si sentì perso e la cosa non gli piacque affatto - ma d'improvviso, a costringerlo a distogliere lo sguardo da Alexandria, arrivò la risata roca di Noah.

«Dannazione...» soffiò: «La sicurezza del manicomio da cui siete scappati deve fare schifo, e anche parecchio.» I muscoli delle braccia gli si tesero, tradendolo. Si stava sforzando di restare calmo, eppure era evidente che non vedesse l'ora di tirare un pugno dritto sul grugno di Zenas, immolatosi per la loro causa, anfitrione delle Chimere - così, svelto, Levi chiuse il libro e si rimise in piedi per scongiurare il peggio; peccato che non si potesse propriamente dire pronto per una simile evenienza. Non si era mai trovato in una situazione del genere, men che meno avrebbe pensato un giorno potesse succedergli: non era preparato ad affrontare una sfida di quel tipo e Salomone avrebbe dovuto saperlo. Cosa diavolo gli era saltato in testa? Non era forse stato lui a dirgli che in alchimia ogni trasmutazione aveva un prezzo e che se mal pagato poteva portare a gravi conseguenze? E per quel che Nakhaš aveva potuto capire, Noah doveva proprio essere il risultato di un ẖázar finito male.

Frugando nella tasca posteriore dei jeans il Generale estrasse il pacchetto di sigarette, portandosene una vicino alla bocca: «Non c'è bisogno che tu ci faccia notare quanto tutto questo sembri ridicolo, sai? Ci siamo già passati, Noah, eppure come puoi vedere sia Alexandria sia Zenas sono qui. Non pensi che forse un fondo di verità ci sia, quindi?» La infilò tra le labbra e subito dopo averla accesa l'estrasse un'altra volta - non si aspettava alcuna risposta da lui, perciò non gli diede il tempo per formularne una: «Non ho fretta. Nessuno di noi tre ce l'ha, per cui, anche se non ci credi, noi non ci arrenderemo e useremo ogni cosa in nostro potere per dimostrarti che non stiamo dicendo cazzate» e non mentiva, affatto. Per Salomone, per riavere il suo unico e vero akh, avrebbe fatto qualsiasi cosa, anche sprecare i suoi ultimi anni a cercare un modo per far riemergere nella memoria di quel ragazzo tutti i ricordi persi.

«Bishevilekhe ani amutt akherott meah pe'amim, hamelekhe sheli.» La voce di Alexandria arrivò a Levi con la stessa forza di uno schiaffo, lo fece vacillare appena, obbligandolo a interrompere il proprio discorso: «Per te io morirei altre cento volte, mio Re» aggiunse dopo qualche istante con la medesima fermezza che aveva usato la prima volta che aveva recitato quel giuramento. «Ti dice niente, moccioso?» E stavolta anche il padrone di casa sembrò riscuotersi. Tutta la rabbia che gli aveva contratto i muscoli si dissolse, ammutolendolo, eppure sul suo viso un'espressione profondamente sorpresa alimentò la speranza che avesse compreso il significato di quelle parole.

Con una sola frase, la più ovvia e al contempo la meno facile da pronunciare, Z'èv aveva preso in mano la situazione, catturando Noah nel modo in cui avrebbe voluto fare lui - e involontariamente rivide davanti a sé le spalle del suo Sovrano, quell'enorme schiena che gli aveva impedito di osservare la scena. Con il capo chino per poter guardare dritta negli occhi la sua sesta Chimera, Salomone le doveva aver sorriso e, in risposta, la Contessa Vàradi aveva concluso il suo giuramento: "Qualsiasi cosa tu mi chiederai, qualsiasi sacrificio la tua lingua mi dirà di compiere, io ubbidirò. Sarò spada implacabile e scudo impenetrabile per il tuo regno, perché per te morire altre cento volte, mio Re."

E così, come tutti i suoi fratelli, anche lei ogni volta che il pericolo sembrava puntare alla sua giugulare, si affidava alle cure del loro Signore, oppure lo assisteva durante un ẖázar, Alexandria ripeteva quelle parole. Era prova della fiducia che aveva in lui, della riconoscenza che provava nei suoi confronti, ma in quel momento, in quel salotto così estraneo, divenne testimonianza dell'affetto e della speranza che fastidiosamente nutriva ancora nei suoi confronti - e seppur nolente, Levi non poté evitarsi di sentire in bocca un inspiegabile sapore amaro nell'osservarli.

 

Noah avvertì il sangue defluirgli dal viso, quasi si fosse alzato in piedi troppo velocemente.

Le parole di lei gli si scagliarono addosso come una pugnalata, violente. Le sentì arrivare dritte in mezzo al petto e minacciarlo al pari di una lama - peccato che non sapesse dirsi cosa lo colpì maggiormente, se quella frase, la sua voce o lo sguardo con cui gli si era rivolta, ma qualsiasi cosa fosse, era certo averla già sperimentata prima. Ma perché?

D'improvviso si sentì come se avesse la risposta a tutto ciò che gli stava capitando, era lì, proprio sulla punta della sua lingua, ma non riusciva né a pronunciarla né a definirla - e più si sforzava, più le tempie sembravano fargli male, gonfiarsi per la pressione incontrollata dei pensieri. Dovette mordersi il labbro per distrarsi da quel dolore e, nel socchiudere gli occhi, inaspettatamente, un'immagine gli si palesò davanti. Fu un flash, ma bastò a farlo nuovamente sussultare. 
Forse... forse quello che Z'év gli aveva appena detto aveva qualcosa a che fare con i suoi vecchi diari, forse loro potevano spiegargli l'origine di quel simbolo, dei suoi deliri infantili! Così, senza pensarci, Noah si gettò verso l'appendiabiti seguito dagli sguardi confusi degli ospiti e, frugando ossessivamente tra le cose appese, si mise alla ricerca del proprio zaino - perché doveva essere lì, doveva assolutamente trovarlo.

Con il battito a mille e le mani tremanti fece cadere ogni giacca, sciarpa o felpa a terra e, una volta trovato l'oggetto del proprio desiderio, vi infilò dentro le dita con sempre più foga. Spostò cose di cui non si domandò l'utilità, tirò fuori libri che lanciò senza cura ai propri piedi e imprecò più volte a bassa voce finché, d'improvviso, sfiorò un mucchio di fogli arrotolati malamente - e un fremito, una sorta di spasmo, lo scosse fin alla punta dei piedi.
Eccole, si disse estraendo le pagine che aveva strappato dai diari riesumati qualche giorno prima. Se le era portate appresso per poterle consultare con calma tra gli scaffali della biblioteca universitaria, certo di poter trovare qualche informazione in più, ma forse, tutto ciò che gli serviva, erano proprio quei tre stramboidi.
Frettolosamente prese un foglio dal mucchio e, appena ne vide sopra il disegno, si rivolse ai tre: «Cosa è? Voi lo sapete, giusto? Perché quella frase, quella che lei... quella che ha detto ora, è collegata a questo simbolo, vero?»

D'un tratto si accorse d'avere il fiato corto, come se avesse corso per ore. Era così smanioso di trovare un senso a ciò che aveva letto che, senza accorgersene, aveva finito con l'agitarsi più del dovuto - e chissà se anche loro, guardandolo, non si fossero ritrovati a pensare di essere al cospetto di un folle.

Mordendosi il labbro tese il braccio verso gli ospiti e, nel farlo, scorse sui loro visi un moto di sorpresa; ma se per Zenas e Z'év lo stupore fu assoluto e sconvolgente, per Levi fu solo questione di pochi istanti. Fin troppo facilmente sul suo viso andò a disegnarsi un sorriso malizioso, una sorta di confortante compiacimento.
Lui sapeva. O meglio, tutti loro sapevano, ma più dei fratelli quel tizio sembrava felicitarsi di ciò che lui gli stava mostrando.

Puntando l'indice verso il simbolo, l'omone aprì bocca, costringendolo a spostare lo sguardo. «Quello è...» eppure parve faticare a proseguire e, nella sua esitazione, la sorella si fece spazio.
«Dove lo hai visto?»
Che domanda era? Possibile che non riuscisse a rispondere ai suoi dubbi senza mettere in mezzo altri quesiti? 
Avrebbe voluto chiederglielo, oppure sbraitarle contro, ma piuttosto che deviare nuovamente il discorso si limitò a corrugare le sopracciglia e tirare un profondo sospiro: «Io... non lo so» ammise amaramente abbassando lo sguardo sulla cellulosa ingiallita - ed era vero. Per quanto si sforzasse non aveva memoria di quel simbolo, a malapena riusciva a ricordare il giorno in cui ne aveva tracciato linee con il pastello, eppure era collegato a loro e a qualsiasi cosa gli stesse succedendo, così aggiunse: «L'ho solo disegnato. Per anni. Su decine e decine di pagine.» Si umettò le labbra: «Ma tu ne conosci l'origine, vero?» Si volse verso Zenas, poi verso Levi: «Tutti voi, o sbaglio?» E a quella sorta di velata affermazione anche loro si osservarono, silenziosamente ammettendo la loro colpa. Così ogni fratello guardò l'altro, si studiarono quasi stessero avendo una conversazione muta. Sembrava bastargli un battito di ciglia, una piega dell'espressione, per comunicare senza che lui potesse capire il loro linguaggio segreto e, infine, a mettere un punto alle sue ansie, Z'èv scivolò giù dal mobile della cucina su cui era rimasta seduta sino a quel momento, avanzando di qualche passo.

Fissando gli occhi su di lui, quasi volendolo spingere e bloccare con le spalle al muro, si afferrò l'orlo del maglioncino. Le sue dita esitarono appena, dubbiose su quanto fosse giusto fare qualsiasi azione stesse per compiere. La vide mordersi il labbro, stringere la mano libera a pugno, ma poi, lenta, si decise ad alzare la stoffa dell'indumento fin sopra all'ombelico - e per un attimo, nel vedere quel lembo di pelle pallida, Noah sentì l'imbarazzo pizzicargli le guance, fargli torcere lo stomaco e aumentare ancor di più il battito e, seppur si trattasse di qualche centimetro di carne e quella sconosciuta non fosse la prima donna "nuda" che si ritrovava di fronte, si sentì come se stesse spiando qualcosa di proibito. C'era qualcosa di sbagliato nel guardarla, eppure, d'un tratto, un dettaglio catturò la sua attenzione, annullando ogni pensiero o senso di colpa.

Il cuore d'improvviso sembrò fermarsi e il respiro, fino a quel momento affannato, si mozzò.
Non riusciva a credere ai propri occhi.

«C-che diavolo... significa?» si sentì dire.

Nella mezza spanna di pelle che divideva l'ombelico di lei dalla bocca dello stomaco, quasi come le fosse stata incisa nella carne, una cicatrice svettava con incredibile nitidezza - ma non si trattava di quello, ciò che più di tutto lo sconvolse fu la forma dello sfregio perché, seppur meno preciso, era identico al suo disegno. Un triangolo isoscele, rovesciato, la cui punta mirava verso il basso, era sovrastato da una sorta di strano ghirigoro al cui centro si trovava un minuscolo cerchio; e non importava quanto lo guardasse o si ripetesse che fosse impossibile, era lo stesso simbolo.

Alzando gli occhi sul viso di Z'év, la scrutò in cerca di una spiegazione e, non trovandola, si volse verso Zenas - e anche lui, sollevandosi mestamente la maglia sopra la testa, rivelò l'immensa schiena su cui Noah, nuovamente, incontrò lo stesso marchio. Fu quasi scontato, girandosi in direzione di Levi, scoprire anche su di lui la medesima cicatrice; ma a differenza dei fratelli, con lui il ragazzo sapeva già in che punto del suo corpo l'avrebbe trovata, lo aveva visto in sogno.

«E' uno scherzo, vero? Voi... voi siete dei fanatici, fate parte di una setta o -» Nakhaš lo interruppe. Cautamente fece qualche passo nella sua direzione: «Ci chiamano Chimere, mifelatsott, il più delle volte.»

E Noah di fronte a quelle parole scosse il capo, sempre più incredulo: «Chimere? Hai almeno idea di cosa siano? Si tratta di essere ibridi, di animali diversi fusi ins-» ma d'un tratto le parole gli morirono in gola. Un lampo gli attraversò i pensieri, facendolo tentennare. In effetti in biologia si parlava di chimera quando un soggetto presentava diversi zigoti che davano origine a cellule distinte, mentre nella mitologia era una creatura con il corpo formato dall'unione di un leone, una serpe e una capra e, seppur quei tre all'apparenza sembrassero umani, si rese conto che in loro si potevano scorgere anche altre caratteristiche - inoltre, Zenas aveva parlato di alchimia.
«N-no... è... è impossibile.»
«Cosa?» Z'év si fece avanti portandosi le mani sui fianchi pronunciati. Sembrava scocciata, ma fu difficile per lui capirne la ragione. «Il fatto che il pessimo libro fantasy di cui ti parlava Akràv possa essere realtà? La tua, per giunta? Beh, non lo è. Ed ora ascoltami bene, ragazzino: noi siamo morti da umani e risorti da mostri, da abomini dell'alchimia-»
«L'alchimia non esiste! Smettetela con questa stronzata! O quantomeno non esiste nel modo in cui la state descrivendo voi!» Sbottò, zittendola. Nulla di ciò che gli stavano dicendo aveva senso. L'alchimia, per quel che ne sapeva lui, non era altro che un antico sistema filosofico esoterico la cui espressione concreta si era sviluppata attraverso varie discipline come la chimica, la fisica, l'astrologia, la metallurgia e la medicina. Non si trattava d'altro che del precursore della chimica moderna prima della nascita del metodo scientifico, non era certo magia! Persino l'alchimista più promettente non sarebbe mai stato in grado di dar vita a una vera e propria chimera o resuscitare i morti!

Levi soffocò una risata: «Davvero?» e quando Noah si volse verso di lui, pronto a ribattere, si trovò di fronte a qualcosa di ancor più inspiegabile della loro cicatrice.
Sul viso di Nakhaš, quasi come un'onda lenta, l'epidermide prese a frastagliarsi. Piccole increspature simili a squame gli ricoprirono ogni centimetro di pelle, rendendolo ben più minaccioso di quanto potesse sembrare a una prima occhiata - e a quella visione, involontariamente, il ragazzo rimase stregato.

Il serpente più bello, gli sussurrò nuovamente una vocina tra i pensieri.

Levi in quel momento poteva benissimo essere paragonato a un mostro, sì, eppure Noah non provò alcun ribrezzo o paura, solo sorpresa, meraviglia e un inspiegabile senso di sicurezza, quasi conoscesse quelle mutazioni e sapesse che non sarebbero mai state usate contro di lui, ma piuttosto per lui. Così, deglutendo, spostò lo sguardo altrove, nei pressi del divano. Con la maglia ancora stretta tra le mani, Zenas lasciò alla sua mercé la propria schiena, lì dove la colonna vertebrale parve gonfiarsi, muoversi stranamente sotto la pelle fino a squarciarla nella zona lombare, permettendo a una sorta di coda di uscire e innalzarsi fiera fin sopra la sua testa. Scuro e lucente come un'armatura, il prolungamento si andava a concludere in un artiglio intimidatorio - e persino di fronte a quella visione, ciò che sentì smuoversi dentro non ebbe nulla a che fare con il terrore, piuttosto avrebbe voluto avvicinarsi e sfiorarlo, sentirne la consistenza. 

«Ti basta?» La domanda di Z'év lo fece sussultare, costringendolo a muovere un passo all'indietro alla ricerca di un sostegno. Le gambe di Noah si fecero molli, terribilmente, succubi dell'attonimento - e forse, si disse, c'era davvero un fondo di verità in ciò che stavano cercando di dirgli.


 

ẖázar : ritorno 
mifelatsottmostri

 
   
 
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