SHOYO, LA
TARTARUGA
DI MARE MAGICA
Aone odiava la Meriwether. La
Meriwether era una scuola
progressista, o che si mascherava come tale, situata al centro di
Manhattan. Le
sue caratteristiche principali erano la retta esageratamente esosa che
veniva
chiesta ai genitori degli studenti iscritti (ma che loro erano disposti
a
pagare pur di togliersi di torno i loro figli), assolutamente non
proporzionale
a ciò che a quei ragazzini veniva insegnato, visto che Aone
si sentiva più
ignorante di quando in quella scuola ci era arrivato, e il fatto che a
quanto
pareva accogliesse solo ragazzini e ragazzine … speciali.
Lui rientrava benissimo in quella
categoria. Chiunque ad una
prima occhiata avrebbe potuto presumere che Aone fosse
“problematico” o
violento – non poteva farci nulla, era quella
l’impressione che dava essendo
enorme, gigante, a soli dodici anni. E sorrideva anche raramente,
quindi non
sembrava propriamente affabile. Anche i suoi coetanei tendevano a
stargli alla
larga visto che erano spaventati, e sebbene talvolta odiasse
quell’isolamento
da quando era arrivato in quella scuola cominciava ad apprezzarlo,
visto che
tutti i suoi coetanei erano veramente degli idioti. Non avrebbe mai
fatto male
a nessuno, ma se sembrare minaccioso gli avrebbe dato il vantaggio di
essere
escluso dai circoletti di quei ragazzetti viziati a cui tutto era
perdonato
perché erano ricchi e “speciali” allora
che sembrasse anche King Kong ai loro
occhi.
Aone non era
“speciale” perché era violento o
problematico:
aveva semplicemente dei problemi di attenzione ed era dislessico, il
ché lo
rendeva inadatto a qualsiasi altra scuola, visto che, a quanto pareva,
nella
progettazione didattica non si teneva MAI conto di esigenze diverse da
quelle
delle “persone normali”.
Oh, e alcuni animali gli parlavano,
poteva sentire le loro
voci nella sua testa, cosa che a soli cinque anni gli aveva fatto
guadagnare la
sua prima seduta dallo psicologo, la prima di una lunga serie alla fine
della
quale aveva capito che era meglio mentire e dire che lo aveva fatto per
ottenere l’attenzione di sua madre pur di non continuare con
quella tortura.
Quel periodo aveva ovviamente avuto
un’influenza sulla sua
vita. Non solo in merito al rapporto con sua madre, ma aveva avuto
anche per
conseguenza il fatto che per anni aveva immotivatamente odiato tutti
gli
animali – odiava che lo rendessero diverso dagli altri,
più che gli animali in
sé per sé. Ora invece erano la sua cosa preferita
al mondo. Potevano passare
giorni senza che parlasse con una persona, ma non uno nel quale non
facesse una
lunga chiacchierata con la sua tartaruga di mare magica. Non aveva
inventato
lui quella specie! Era lui che si era presentato così la
prima volta che si
erano conosciuti.
La tartaruga di mare magica si
chiamava Shoyo. Aveva un nome
particolare, ma Aone non aveva molta fantasia, quindi aveva deciso di
dargli
quello del bambino che gliel’aveva regalata l’anno
precedente, prima che
cambiasse scuola. La tartaruga non aveva opposto obiezioni: di certo in
un
qualche modo doveva essere chiamato se dovevano convivere.
Fu tenendo Shoyo in mano che Aone si
allontanò dalla sua
classe. L’insegnante di scienze non gli avrebbe detto nulla,
un po’ perché nei
metodi educativi (fallimentari) della scuola rientrava il fatto di non
impedire
ai ragazzi di fare qualsiasi cosa volessero fare, anche durante le
lezioni, un
po’ perché quel giorno c’erano gli esami
finali di ogni materia e lui lo aveva
già superato. La donna infatti aveva detto loro che per
superare il suo esame
sarebbe bastato tenere in vita un animaletto a loro scelta, e quindi
lui aveva
portato da casa Shoyo.
Ora che aveva passato
l’esame voleva stare fuori nel grande
cortile pieno di alberi – l’unica cosa buona di
quel posto – a godersi il sole
in una delle rare giornate in cui non era coperto dai nuvoloni.
Ehi, tienimi
all’ombra,
gli disse Shoyo con la sua voce squillante in testa, sarò
pure una tartaruga di mare magica ma non voglio seccarmi al sole!
“Va bene” gli
rispose lui ad alta voce, attirando
l’attenzione di due ragazze davanti a lui, che lo guardarono
come fosse matto,
visto che aveva parlato da solo.
Aone le ignorò e
andò fuori, scelse un posto sotto un albero
coperto dall’ombra e si sedette. Attorno non c’era
nessuno, visto che erano
tutti impegnati con gli esami, docenti e studenti. Il silenzio era
quasi
assoluto, le voci risuonavano lontane, gli unici rumori che sentiva
erano le
fronde degli alberi che si muovevano e il vento lento che le
attraversava,
facendole ondeggiare.
Tienimi
stretto,
gli disse Shoyo, si sta così bene
che
potrei addormentarmi! Non dimenticarmi in qui in caso accadesse!
“Non potrei mai”
replicò Aone accarezzandogli una delle
zampe-pinne. Erano abbastanza lunghe, quindi era sicuro che Shoyo
avesse sentito
la rassicurazione che stava cercando di trasmettergli. Come se avesse
potuto
dimenticare il suo migliore amico da qualche parte poi.
Poco più lontano da lui,
qualche minuto dopo, sedette un
ragazzo. Per quanto si sforzasse, Aone non riusciva a guardarlo in
faccia: era
come fissare il sole troppo a lungo, dopo un po’ cominciava a
sentire
un’emicrania.
Il ragazzo era enorme, proprio come
lui, ma stava piegato su
se stesso e accarezzava qualcosa che teneva in mano, piagnucolando.
Seguendo un impulso che proprio non
sapeva da dove gli
veniva, Aone gli si avvicinò. Voleva cercare di capire
perché il ragazzino
stava piangendo. Probabilmente però aveva sbagliato
approccio, perché quando
gli si avvicinò il ragazzo lo guardò intimorito e
piagnucolò qualcosa ancora
più forte, qualcosa tipo “ti prego non
prendermelo”.
“Perché
piangi” chiese Aone, ma con un tono così piatto,
privo dell’inflessione interrogativa, che la sua frase si
sarebbe potuta
prendere quasi per un’affermazione.
Il ragazzo si asciugò le
lacrime dal viso col dorso della
mano e gli mostrò quello che aveva tra le mani. Era, o
meglio era stato, la
scultura in metallo grande quanto un pugno di un cavallo.
“Me l’hanno
rotta!” spiegò, scoppiando di nuovo a piangere.
“Sono cattivi”
disse semplicemente Aone sedendoglisi
accanto.
“Sì. Gli altri
dicono sempre cose cattive a Tyson.” Rispose
lui sconsolato.
“Chi è
Tyson” chiese Aone, non prevedendo assolutamente cosa
stava per succedere.
Shoyo gli rispose Tyson
è chiaramente lui, scemo! Mentre l’altro
ragazzo balzava in piedi,
spaventato, facendo scappare gli uccellini situati sui rami
più bassi
dell’albero sotto cui si stavano riparando.
“La tua tartaruga
parla!” urlò, attirando l’attenzione di
un
gruppo di studenti che ciondolava più lontano.
Aone stava per negare, ma Shoyo lo
precedette.
Puoi
sentirmi? Che
bella notizia! Esclamò, il tono che trasudava
entusiasmo. Perdonami, il nostro amico comune
qui, Aone,
è un angelo, ma è uno di poche parole. Mica si
può conversare così! tu invece
mi sembri più loquace.
Tyson annuì, anche se
sembrava aver capito solo una parola
su dieci di ciò che gli era stato detto.
“Siediti, per favore.
Attirerai l’attenzione degli altri
ragazzi” gli chiese Aone.
Tyson annuì.
“Non voglio che gli altri mi guardino”.
Perché
hai una statua di
metallo di un cavallo? Gli chiese Shoyo.
“Ce lo ha chiesto di farlo
la professoressa, per l’esame. Ma
poi…” a quel punto si interruppe, il labbro
inferiore che gli tremava
pericolosamente.
L’hai
costruito tu?
Wow! Faresti una statuetta con le mie sembianze? Gli chiese
ancora Shoyo.
“Oh…
certo!” gli rispose Tyson sorridente.
“Però non ho
niente con me per fartela…”
“Ho molti pezzi di metallo
a casa” intervenne Aone nella
conversazione. “Puoi venire con me dopo scuola, pranziamo
insieme e poi fai la
statua a Shoyo”.
Tyson annuì.
“Però non so dov’è casa
tua…”
Ci vediamo
qui dopo la
fine della lezione e verrai con noi! Avrò una mia statua
gloriosa d’oro, ma ci
pensate! Io, Shoyo, grande re delle tartarughe magiche di mare! Ti
sarò grato
per sempre!