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Autore: Alexa_02    18/01/2021    1 recensioni
Julianne ha tutto ciò che potrebbe mai desiderare, quando guarda la sua vita non c’è una virgola che cambierebbe. È così sicura che ogni cosa andrà nel giusto ordine ed esattamente come se lo aspetta, che quando si sveglia e trova la lettera di addio di sua madre non riesce a capacitarsene.
Qualcosa tra i suoi genitori si è incrinato irrimediabilmente e April ha deciso di scompare dalla vita dei figli e del marito senza lasciare traccia o la benché minima spiegazione.
Abbandonata, sola e ferita Julianne si rifugia in sé stessa, perdendosi. Una spirale scura e pericolosa la inghiotte e niente è più lo stesso. Julianne non è più la stessa.
Quando sua madre si rifà viva, è per stravolgere di nuovo la sua vita e trascinare lei e suo fratello nell'Utah, ad Orem, dalla sua nuova famiglia.Abbandonata la sua casa, suo padre e la sua migliore amica, Julianne è costretta a condividere il tetto con cinque estranei, tra cui l'irriverente e affascinante Aaron. Tra i due, da subito, detona qualcosa di intenso e di forte, che non gli da scampo.
Può l’amore soverchiare ogni cosa?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Julianne
 
Stringo il bordo del blocco di carta mentre rifinisco i contorni del logo. La penna a sfera gratta rudemente contro la pagina, lasciando segni marcati su quella sottostante. Vorrei poter affermare che dopo tre giorni la rabbia è finalmente sciamata, ma mentirei. Non ho mai odiato così intensamente la mia totale e completa incapacità di chiudere la bocca.
“Julianne”. La dottoressa Dawson picchietta sul suo quaderno con le unghie color ametista. “Posso sapere perché sei così particolarmente silenziosa oggi?”.
Ripasso un’ultima volta i contorni del logo che sto progettando e poi lo studio con aria critica. Le due H nere si sfiorano fino quasi a toccarsi e sono piegate verso destra, per formare insieme una saetta. Tutto ciò è incastonato in una nuvola bianca e lanosa. L’idea di base mi piace, ma non sono ancora sicura dei colori. Pensavo a qualcosa di scuro ma con tocco di colore, qualcosa che possa diventare un marchio distintivo.
“Julianne?”.
Alzo lo sguardo dal mio lavoro e incrocio gli occhi castani e preoccupati della dottoressa. “Che c’è?”.
Arriccia un angolo della bocca. “Ammiro molto la tua capacità di concentrazione in un progetto, però, non so se te ne sei accorta, ma questa dovrebbe essere l’ora che dedichi a parlare con me”.
Picchietto la penna contro le labbra. “Qualcuno si sente trascurato?”.
Sorride in modo felino. “Ad essere sincera sì, ma sono più preoccupata che altro”.
Aggrotto la fronte. “Preoccupata?”.
Annuisce lentamente. “Di solito, quando ti chiudi così in te stessa vuol dire che c’è qualcosa che ti angoscia. Solitamente è un pensiero in particolare che ti riempie la testa e che ti estranea dalla realtà” asserisce “Sbaglio?”.
Sospiro irritata. “No”.
Scribacchia sul suo quadernetto. “Ti va di parlarne con me?”.
Le faccio il resoconto del week-end, evitando ovviamente tutto ciò che riguarda Aaron. A mio parere sono le parti migliori, non credo però che lei sarebbe della stessa idea.
“Che cosa ti fa stare male di questa faccenda?” chiede.
“Ho deluso Aaron” mormoro “Lui ha detto che non è colpa mia, ma so che è così. Se mi fossi limitata a maledire Jim nella mente, ora loro potrebbero lo stesso partecipare al concorso”.
“E perché hai sentito il bisogno di ribattere?”.
Sbuffo. “Perché ho la meravigliosa capacità di rovinare tutto quello che mi gravita intorno”.
Scuote la testa. “È un pensiero molto tossico, Julianne”.
“È vero” ribatto “Ho mandato al diavolo il loro duro lavoro nel giro di un secondo”.
Mi lancia uno dei suoi sguardi incoraggianti. “Rimedia”.
“Come?” chiedo “Jim è irremovibile e sono piuttosto sicura che mi odi”.
“Non penso che ti odi, Julianne. Credo invece che sia molto preoccupato per te”.
A momenti mi strozzo. “Come prego?”.
Lei incrocia le braccia al petto. “Cosa avrebbe fatto tuo padre se avesse scoperto che avevi dato un festa di nascosto?”.
Ridacchio. “Non glielo avrei mai nascosto, lui era l’anima della festa. Mi avrebbe aiutato ad organizzarla”.
Alza le sopracciglia. “Ti avrebbe aiutato a dare una festa con alcolici?”.
A disagio, giocherello con la penna. “Già”.
“Mhmm” mugugna e scribacchia velocemente sul quaderno “E tua madre?”.
“Avevo quindici anni quando ha fatto Houdini, non ero ancora una festaiola allora”.
Accavalla le gambe. “Cosa ha detto quando ha scoperto di questa festa?”.
Mi gratto la nuca. “Non era furiosa come Jim. Le ho spiegato la storia e stranamente si è schierata dalla mia parte. Non che sia servito a molto”.
“Stranamente?” chiede.
Scrollo le spalle. “Sa cosa intendo. Qualche settimana fa le sarebbe esplosa la testa a sentir parlare di alcolici e party, ma ora è diverso. Ha promesso che si sarebbe fidata di me e così sta facendo”.
“Evidentemente sta notando anche lei i tuoi cambiamenti” afferma.
“Quali cambiamenti?”.
Sorride. “Sei più allegra, più felice, ti stai impegnando nello studio, hai trovato un lavoro e ti sei addirittura candidata per la presidenza studentesca. Sono tutti ottimi passi in avanti”.
Sospiro. “A me sembra ancora di brancolare nel buio”.
Si piega in avanti. “Tutti barcollano nell’oscurità, Julianne, ma c’è chi smette di lottare e si siede e c’è chi, come te, che lotta con le unghie e con i denti per cercare la propria luce. Vuoi rimediare con il signor Anderson?”. Annuisco con decisione. “Mostragli che sei disposta a tutto per aiutare chi ami”.
 
 
Digito velocemente sullo schermo, mentre attraverso il corridoio.
Dove sei?
La risposta di Aaron non tarda ad arrivare.
Il coach ci fa fare degli allenamenti aggiuntivi oggi. Non posso accompagnarti al lavoro, scusa. :(
Merda. Henry è già andato via, così come Peyton e Dorothea. Mi toccherà camminare fino a casa. Non preoccuparti. Buon allenamento. :)
Mi appresto al mio armadietto e recupero il libro di algebra. Il compito di venerdì ucciderà la mia media, sono sicura. Dottie ha cercato di aiutarmi, ma a quanto pare il mio cervello non è abbastanza sviluppato per concepire la matematica. Non che mi dispiaccia poi così tanto, una laurea in aritmetica non è nei miei piani.
Ti passo a prendere quando hai finito il turno. Mi manchi.
Fisso il messaggio di Aaron con quella che un tempo avrei definito come faccia da fessa. Non avrei mai pensato di ritrovarmi in questa posizione, ma cavolo se non mi dispiace.
“Tutto okay?”.
Sobbalzo e il cellulare mi scappa di mano, finendo rovinosamente a terra. Tobias si appresta a raccoglierlo, prima che possa farlo io. “Cavolo, mi dispiace”. Quando me lo porge, non mi sfugge l’occhiata curiosa che lancia alla chat. Glielo sfilo di mano prima che possa ficcanasare oltre. “Grazie” borbotto.
“Non volevo spaventarti” sospira.
Chiudo l’anta dell’armadietto e mi metto lo zaino sulla spalla. “Tranquillo, ero solo sovrappensiero”.
“Cosa fai ancora qui?” domanda gentilmente.
“Potrei farti la stessa domanda” esalo. Perché sono così sulla difensiva?
Ci avviamo verso l’uscita. “Avevo un incontro con il mio consulente scolastico. Sto cercando di ottenere la borsa di studio per l’hockey della Northwestern”.
“Chicago?” chiedo “È lì che vuoi andare dopo il liceo?”.
Annuisce. “Sarebbe il mio sogno, sì. La Northwestern e poi ala destra dei Chicago Blackhawks”.
Mi piace chi sogna in grande. “Ti ci vedo con la divisa rossa”.
Ridacchia. “Ovviamente prima devo riuscire a diplomarmi”.
Apre la porta a doppio battente e mi lascia passare per prima. “Il che non è poco” mormoro.
“Già” esala “Tu cosa ci fai ancora qui?”.
Mi stringo nella sciarpa. L’inverno si sta avvicinando sempre di più e il mio corpo non è abituato a queste temperature polari. “Strizzacervelli”.
Si infila le mani nelle tasche della giacca della squadra. “La dottoressa Dawson è il massimo”.
Per qualche ragione, mi sento confortata dall’idea che ci sia qualcun altro la mondo che ha bisogno di aiuto. “Già”. Una strana idea mi solletica l’anticamera del cervello. “Sbaglio o alla festa hai detto di essere un genio della grafica?”.
Inclina la testa in un modo davvero carino. “Non penso di aver usato la parola genio, ma sì me la cavo”.
“Se ti dessi l’idea sapresti creare un logo?” domando speranzosa.
I suoi occhioni castani mi scandagliano il viso. “Sì, penso di sì. Dipende sempre da quanto è complicato” esala.
Sfilo il quaderno dallo zaino e glielo porgo. “Il mio progetto è questo”.
Lo studia per qualche secondo e poi annuisce. “Sì, posso fartelo anche subito”.
“Davvero? Sarebbe fantastico” mormoro sorridendo “Posso pagarti…”.
Scuote la mano. “Ma va, figurati. Lo faccio volentieri” tocca la borsa “Ho il pc qui con me, se vuoi possiamo tornare in biblioteca e possiamo abbozzarlo lì”.
“Devo andare al lavoro tra quarantacinque minuti e oggi sono sprovvista di un mezzo di trasporto, quindi sarebbe un po’ scomodo” mormoro.
“Dove lavori?”.
Paradise City” esalo in una nuvola di vapore.
Tobias ci pensa su un secondo e poi dice. “Conosco un bar con il wi-fi gratis che è lì vicino, possiamo prende un caffè e nel mentre ti aiuto con il logo”. Tentenno. Suona molto come un appuntamento e, per quanto sia carino, io non voglio uscire con lui. Tobias sembra leggermi nel pensiero. “Non ti sto chiedendo di uscire, se lo stessi facendo te ne accorgeresti” alza le enormi spalle “Lavoro meglio con un buona dose di caffeine nelle vene e così puoi arrivare al lavoro in tempo”.
Il suo ragionamento non fa una grinza perciò annuisco. “Va bene”.
Sorride in modo affascinante. “Ottimo” mi fa cenno di seguirlo “Vieni, ho parcheggiato da questa parte”. Camminiamo verso una bella Ford blu elettrico e io già pregusto il meraviglioso tepore delle bocchette del riscaldamento centralizzato. Purtroppo per me, Tobias vira di colpo e si accosta ad una motocicletta nera. Tira fuori le chiavi dalla tasca dei jeans e toglie il bloccasterzo.
“Vai in moto d’inverno?” guaisco.
“Tecnicamente è ancora autunno” mi porge un casco scuro “La uso finché non arriva la neve o finché le strade non ghiacciano, poi mi tocca prendere lo scuolabus”. Mi rigiro il casco tra le mani. Tutto questo ha un non so che di déjà-vu. “Se è un problema possiamo prendere il pullman”.
La vernice color notte e gli inserti gialli mi trascinano in vecchi ricordi opachi. Una strana sensazione mi vibra nel petto. “No, no va bene. Il mio ex aveva una moto molto simile alla tua, tutto qui”.
“Ha decisamente buon gusto allora” asserisce. No, non direi. “Non lo ha se ti ha spezzato il cuore, però”.
Sorrido per evitare di dover rispondere. Mi infilo in casto in testa, lo allaccio e poi con la delicatezza di un t-rex mi siedo dietro di lui. Ovviamente non c’è neanche l’ombra di una maniglia, così mi tocca stringergli le braccia intorno al busto. Non che sia poi così una tragedia, il ragazzo ha un torace niente male, ma non è il petto che vorrei esplorare in questo momento.
 
Prima che me ne renda contro, Tobias parcheggia abilmente davanti ad un coffee shop e mi fa scendere dal suo destriero.
“No, mai più” borbotto battendo i denti “La prossima volta piuttosto il pullman puzzolente”.
Si toglie il casco con un movimento fluido. “Guido così male?”.
“Non sei tu” esalo avviandomi vero l’ingresso “È questo freddo polare”.
Ridacchia aprendomi la porta. “Questo non è nulla, vedrai tra qualche settimana”. Mugolo di disappunto. “Vuoi qualcosa di caldo?”.
“Una damigiana di caffè, per favore”.
Si avvicina al bancone di legno. “Cerca un tavolino, io ordino”.
Il bar in cui mi ha portato ha l’aria un po’ rustica ma è molto accogliente. È fatto quasi tutto di legno e piastrelle bianche, ci sono tavolini sparsi ovunque e lavagne piene di specialità appese ad ogni parete. Ci sono diversi clienti, tra i quali alcuni nostri compagni di scuola. Scelgo un tavolino non troppo appartato e mi ci siedo. Mi sfilo la giacca, i guanti e la sciarpa.
Una tazza enorme di caffè mi viene posata davanti e Tobias si siede accanto a me.
“Grazie” sospiro, stringendo la ceramica calda.
Tobias tira fuori il portatile e lo accende, sorseggiando il suo latte. “Posso chiederti per cos’è il logo?”.
Bevo un po’ di caffè. “Per gli Hazy Heavy, la band di Aaron”.
“Okay”. Apre il programma. “Posso rivedere il tuo progetto?”.
Estraggo dallo zaino il blocco e glielo porgo. Lui lo studia per qualche secondo e poi si mette al lavoro.
Passiamo i primi venti minuti in silenzio, io lo osservo lavorare e lui muove con maestria il mouse lungo lo schermo. Non mi fa domande personali e non prova a fare conversazione. Mi chiede direttive e pareri, e non potrei esserne più felice. Alla fine, il logo viene esattamente come me lo avevo visualizzato nella testa. “È perfetto”.
Tobias arrossisce. “Stavi pensando a qualche colore in particolare?”.
“Di sicuro nero e bianco, ma sono indecisa se metterci il rosso o il blu” asserisco.
Apre la tavolozza dei colori. “Che ne dici di un compromesso?”. Tobias butta una secchiata di viola dietro il logo, facendo emerge le lettere e la forma della saetta.
“Stupendo” sospiro “Grazie”.
“Figurati” ridacchia “Te lo mando per email”.
“Ottimo”. L’occhio mi cade sull’orologio appeso alla parete. “Cavoli, devo andare o faccio tardi”. Mi alzo e infilo il cappotto e la sciarpa. Tobias mi lancia un’occhiata nervosa. “Posso chiederti una cosa?”.
Raccolgo lo zaino. “Certo”.
“Ti andrebbe di uscire con me una di queste sere?” domanda speranzoso.
Oh. Cavoli e ora come gli dico di no con gentilezza? Scusa, ma sono già impegnata. E se mi chiede con chi? La verità sarebbe l’opzione migliore. No, Tobias, non possiamo uscire insieme perché sono innamorata dal figlio del compagno di mia madre. Aspetta. Cosa ho appena detto?
“Non volevo metterti a disagio” esala dolcemente.
“Non sono a disagio”. Bugiarda. “La verità è che sono appena uscita da una storia complicata e non mi va ancora di uscire con qualcuno”. Non è una frottola, la storia con Jared è stata molto più che contorta. Diciamo che è una mezza verità.
“Capisco”. Non c’è alcun segno di rabbia o fastidio nella voce, solo tanta comprensione. Perché non poteva piacermi un ragazzo così? Perché doveva essere per forza così complicato? “Possiamo uscire come amici?”.
“Assolutamente” assicuro “Ora devo andare, però. Grazie ancora dell’aiuto”.
“Ci vediamo in giro, Julianne”.


 
 
Il giorno dopo mi ritrovo attaccata da entrambi i lati. Dorothea e mio fratello mi blaterano all’orecchio nozioni e formule matematiche a profusione. Fisso il foglio che mi hanno messo davanti e nel mentre giocherello con il mio pranzo.
“In questo caso specifico ci vuole un formula diversa” espira Dottie.
Henry annuisce. “Sì, si tratta di un’eccezione abbastanza peculiare”.
“E io come faccio a saperlo?” borbotto. Il fastidioso vociare della mensa non aiuta il mio cervellino a concentrarsi.
Dorothea si arrotola con un ricciolo biondo intorno al dito. “Ci puoi arrivare usando le formule che sai e facendo un ragionamento basilare”.
“Basilare per me o basilare per voi?”. Loro si scambiano uno sguardo che trasuda pietà. “Lasciamo perdere, tanto so già che il massimo a cui posso aspirare è una D”.
Peyton sghignazza dietro al suo libro, dall’altro lato del tavolo. “Come ti capisco, sorella”.
Henry mi accarezza la spalla. “Ci puoi riuscire, Jules, devi solo sforzarti un pochino”.
Allontano il foglio e raccolgo una forchettata di pasta. “Mi sforzo già per un sacco di altre cose, per la matematica mi accontento del minimo”. Il dispiacere gli adorna il viso. “Grazie di averci provato, lo apprezzo molto”.
Henry abbozza un sorrisino. “Va bene, sorellina. Oh!” esclama, illuminandosi di colpo “Dottie devo assolutamente farti vedere questo libro che ho scovato il biblioteca”. Si alza e mi spinge di lato senza tante cerimonie. Non mi lamento però, questo suo scatta da lamantino allupato mi spinge praticamente sopra Aaron. Lui mi stringe il fianco per impedirmi di finirgli del tutto addosso e mi regala un sorriso da capogiro. È così bello poterlo sfiorare liberamente, che quando mi tocca tornare nel mio spazio personale, per poco non mi scappa un lamento. Lui mi fa l’occhiolino e mima con la bocca la parola dopo. Oh, puoi giurarci, tesoro.
Lip allunga silenziosamente la mano verso il vassoio di Peyton, intento a fregarle il budino mentre ha il naso affondato in un volume enorme. Sfiora l’involucro di plastica con la punta delle dita e la mano di Pey scatta come un cobra, afferrandogli il polso. “Non ci pensare nemmeno”.
Lip spalanca gli occhi. “Come hai fatto…?”.
Lei abbassa il volume e gli lancia un’occhiataccia. “Ho sette fratelli più piccoli, carino, ormai ho sviluppato i supersensi per certe cose. Molla il budino o di addio alla mano”.
Lui molla il dolcetto sbuffando stizzito. “Ti sei presa l’ultimo al pistacchio e non lo stai nemmeno toccando”.
Peyton alza le spalle. “Chi prima arriva, meglio alloggia. È il succo della vita” prende il barattolino di plastica “Quello al pistacchio oltretutto è il mio preferito, quindi me lo gusto quando decido io”.
Lip le lancia una strana occhiata. “È anche il mio preferito”.
Lei in tutta risposta affonda il cucchiaino nella crema verde e si porta alla bocca una generosa spatolata. Trangugia con gusto, emettendo mugolii di piacere e irritando Lip all’ennesima potenza. Lui si gira verso Aaron e me. “Perché dobbiamo sederci con lei? Mi bullizza di continuo”.
Soffoco una risatina. “Fai il bravo” sospira Aaron allungando il braccio sul mio schienale “Puoi avere il mio di budino”.
Lip osserva schifato il barattolino. “Ma il tuo è al caramello. Mi fa schifo il caramello”. Nonostante la sua presa di posizione nei confronti del caramello, lo scarta e comincia a trangugiarlo.
Aaron scuote la testa ridacchiando e giocherellando con le punte dei miei capelli. La sua mano mi sfiora di tanto il braccio, procurandomi una serie di brividi meravigliosi. Alzo lo sguardo verso di lui e i suoi bellissimi occhi verdi mi osservando con calore. Mi ispeziona il viso e si sofferma sulle labbra. Le osserva come se stesse progettando di passarci il resto della vita. Vorrei afferrargli il bavero della felpa e mettere in opera i suoi piani, ma purtroppo siamo ancora in questa stupida scuola. Quando finisce questa giornata?
“Julianne?”.
Mi giro cercando di non far trasparire il fastidio. “Sì?”.
Tobias mi lancia un sorrisino timido. “Ciao”.
“Ciao” esalo.
Tutti quelli seduti al tavolo si girano verso di lui, facendolo arrossire come un idrante. “Volevo ridarti questi” mi porge i miei guanti color petrolio “Ieri li hai dimentica sul tavolino del bar”.
Non devo girarmi per sapere che ho tutti gli occhi puntati addosso. Soprattutto quelli di Aaron. “Grazie” bofonchio afferrandoli.
Si accarezza la nuca. “Spero di essere stato di aiuto”.
Il braccio di Aaron scivola via dallo schienale della mia sedia, lasciandomi di colpo infreddolita. Stringo i guanti per evitare di stringere il collo di Tobias. “Sì, grazie”. So che sta solo cercando di essere gentile, ma non sa i danni che sta combinando. Spero solo che Aaron non tiri le conclusioni sbagliate.
“Ci si vede in giro” esala per poi allontanarsi.
Mi volto verso il tavolo giocherellando con la stoffa. Come sospettavo, mi stanno guardando tutti. “Cosa c’è?”.
A parte Dorothea, qui sanno tutti di me e Aaron quindi so perché mi guardano così e, proprio per colpa sua, non posso spiegare bene il malinteso.
Peyton si sporge in avanti. “Come mai Guerrero aveva i tuoi guanti?”.
“Ieri mi ha aiutata con un progetto” esalo ringraziandola con lo sguardo “Abbiamo bevuto un caffè e mi ha dato un mano con una cosa”.
“Con cosa?” domanda Lip.
“Solo…una cosa…” mugugno. Non voglio dirglielo ora, rovinerei la sorpresa. Ho diverse idee riguardo il logo e voglio metterle in atto prima di farglielo vedere.
Aaron sospira e si alza. Raccoglie lo zaino e il vassoio e si avvia verso l’uscita. Prendo anche io la mia roba. “Ci vediamo a tennis, Dottie”. Scappo fuori prima che possa rispondermi e inseguo Aaron lungo il corridoio. Cammina a passo deciso e con le spalle curve.
“Aaron” strepito. Lui continua imperterrito. “Aaron, per favore”.
Si ferma di botto e per poco non gli vado addosso. “Cosa penseresti se fossi al mio posto?”.
“Come?” sospiro.
“Cosa penseresti se una ragazza, che chiaramente vuole infilarsi nei miei pantaloni, si presentasse con in mano le miei mutande?” chiede seccato.
“Penserei che vuole morire giovane” ribatto “Ma erano guanti, non un paio di slip”.
“C’è differenza?”.
“Abissale” brontolo “Ti prego, non è come pensi”.
Si infila le mani in tasca. “Allora com’è?”.
“Mi ha aiutata con una cosa a cui sto lavorando e mi ha offerto un caffè” esalo “Tutto qui”.
Aggrotta la fronte. “E a cosa stai lavorando?”.
“È una sorpresa” mormoro cercando di sfoggiare la mia migliore espressione adorabile.
“Non mi piacciono le sorprese” borbotta.
“A tutti piacciono le sorprese” gli afferro il viso accarezzandogli le guance ispide “Ti fidi di me?”.
Non esita neanche per un secondo. “Con tutto me stesso” sospira “Ma non mi fido di lui”.
 
L’Ink Lab, il negozio di magliette personalizzate, dista solo qualche kilometro da Provo, la città vicina. A quanto pare, la vecchia e cara Orem ne è sprovvista. Non è di certo un problema. Non mi dispiace affatto allontanarmi dalla minuscola bollicina in cui vivo e vedere un po’ cosa c’è intorno. Ovvio, se non fosse per Peyton. Gentilmente si è offerta di accompagnarmi e, essendo sprovvista di quattro ruote motrici, ho accettato di buon grado. Ogni volta che scendo dalla sua macchina, non so perché, ma il mio cervello dimentica quanto guida male. Credo sia tutto merito dell’istinto di autoconservazione, che elimina le esperienze traumatiche e mi spinge di nuovo nelle braccia del pericolo.
In ogni caso, mi ritrovo a stritolare la cintura seduta accanto alla mia amica e a pregare tutte le divinità del mondo di riuscire ad arrivare a destinazione senza investire niente. Di nuovo.
Finalmente parcheggia davanti al negozio e io posso ritirare le unghie dalla cintura di sicurezza. Ho paura di averle lasciato dei segni.
“Arrivate” canticchia. Grazie a Dio. Rotolo fuori dalla macchina e prendo una generosa boccata d’aria. Lei si rigira le chiavi tra le dita. “Tutto okay? Sei verde”.
Annuisco lentamente. “Sì, andiamo”.
Apriamo la porticina di vetro, facendo ondeggiare una campanella sopra le nostre teste. Il negozio è angusto, stracolmo di magliette e odora leggermente di prodotti chimici. Il signore alla cassa abbozza un sorriso. “Posso aiutarvi?”.
Mi avvicino al bancone di plastica. “Si, dovrei stampare il logo che è dentro questa chiavetta”.
“Che tipo di maglia desideri?”.
Gli porgo la chiavetta. “Per iniziare me ne servono cinque. Una M e quattro XL”. Forse per Lip serve una taglia in più. “No, ripensandoci è meglio una M, tre XL e una XXL. Peyton ne vuoi una?”.
La sento spostare le grucce appese alle pareti. “Certo che sì”,
“Allora faccia due M” esalo “Poi c’è Dorothea, Chas, mio fratello, Cole, Andrew, Liv…”.
Il commesso ridacchia. “Posso farti una sconto se superi le quindici magliette”.
“Per ora riesce a fare le sei che le ho detto?” domando.
“Certo” mi porge un blocco e una penna “Scrivimi tutte quelle di cui hai bisogno e le relative taglie. Che colore vuoi la base?”.
“Nera” rispondo scribacchiando.
Il commesso si mette all’opera e io riempio il foglio con tutte le persone a cui potrebbe interessare la maglietta. Verrà a costare più del previsto.
Peyton si appoggia al bancone. “Anderson ti tiene ancora il muso?”.
Mollo il blocco e lo porgo al commesso. “Come un bimbo che fa i capricci, ma ho intenzione di rimediare”.
Si infila un paio di pacchianissimi occhiali da sole, che sono abbandonati su uno stand. “Gli darai il suo giocattolino preferito?”.
“Cioè?”.
Si fa scorrere gli occhiali da sole sul naso e fa ondeggiare le sopracciglia. “Il tuo corpo”.
Ridacchio. “No. Cioè, sì. Non solo”.
“Gli passerà” assicura “Devi ammettere però che la scena era alquanto equivocabile”.
“Ti ho già spiegato com’è andata” sospiro.
Ci mettiamo a curiosare tra le magliette appese alle pareti. “Lo so, però devi anche ammettere che Tobias è un gran bel pezzo di manzo”.
Manzo?” squittisco “Inizi a parlare con Chastity ora?”.
 Fa una strana smorfia. “Sto passando troppo tempo con quell’ebete bionda”.
“Peyton” la ammonisco.
“Cosa?”. Sorride con aria innocente. “Sto migliorando, qualche settimana fa l’avrei definita una stronza senza cervello bionda. Sono progressi”.
Scuoto la testa. “Comunque, a proposito di manzi, come va con il professor Ellingford?”.
So che l’argomento è ancora un tasto dolente per lei, lo noto dal modo in cui si irrigidisce e dal modo in cui di colpo sembra lontana anni luce. “Gli ho detto che ho bisogno di una pausa” sospira “Voglio capire cosa voglio e soprattutto cosa è meglio per me”.
“Come l’ha presa?” chiedo.
Lei sfiora una maglia con un gatto su uno skateboard. “Meglio di quanto immaginassi”.
Non so se sia una cosa positiva o no. “E tu come l’hai presa?”.
Arrotola la punta della treccia rossa tra le dita. “Non lo so, Jay. Ogni tanto quando lo guardo mi sembra di vedere tutto il mio mondo, ma alcune volte riesco solo a scorgere tutto quello che non va. Lui progetta di restare qui e io non vedo l’ora di raccogliere tutta la mia roba e darmela a gambe. Non gli ho nemmeno detto che voglio fare domanda a Princeton”.
Aaron e io parliamo spesso del futuro e di quello che vogliamo dalla vita, non riesco ad immaginare di non riuscire a dirgli quali sono davvero i miei sogni. “Sono sicura che sarà molto felice per te e che ti sosterrà in qualunque caso”.
Sorride mestamente e lascia cadere il discorso. Gironzoliamo per il negozio finché a Peyton non si accende la lampadina. “Ah! Congratulazioni per essere ufficialmente in lizza per la carica di presidentessa del corpo studentesco. Scommetto che Giselle è andata in bordo di giuggiole”.
Ridacchio. “Chastity mi ha detto che voleva dare fuoco alla mensa. Pensa che è riuscita a candidarsi solo perché tutta la squadra delle cheerleader ha votato per lei, il resto della scuola è dalla mia parte”.
Si picchietta il mento con il dito. “Mi chiedo perché non piaccia alla gente…”.
“Chissà come mai” sospiro sarcastica.
Ride producendo uno strano suono dal naso. “Comunque, se vuoi levarti di dosso Nicole dille che sai tutta la storia di Peyton” esala “Ti lascerà in pace”.
Nell’ultima settimana, Nicole ha rispettato diligentemente la sua promessa e ha reso la mia vita scolastica il meno piacevole possibile. Mi ha infilato un pesce putrido nell’armadietto, mi ha scatto una foto di nascosto mentre sternutivo e l’ha messa ovunque, e mi ha fatto rovesciato addosso il pranzo così tante volte che ho smesso di contarle. Tutte mosse laide e patetiche, degne di una ragazzina di dieci anni ma comunque alquanto fastidiose. Vorrei solo che la smettesse di delegare sottoposti e mi affrontasse da donna, faccia a faccia.
“E cosa sarebbe la storia di Peyton?” domando cauta.
Scrolla le spalle. “Non c’è bisogno che tu la sappia, falle solo credere te l’ho detto”.
“Non sono una brava attrice” borbotto. La verità è che sono molto curiosa, sia lei che Dorothea hanno entrambe accennato alla faccenda, ma non sono mai entrate nel dettaglio. Peyton mi studia attraverso la frangetta color fuoco. “Puoi fidarti di me, lo sai” le ricordo.
“Non è un mio segreto, Jay” spiega “Se te lo dico devi promettermi che non lo dirai a nessuno”.
“Prometto” asserisco.
“Okay” prende un bel respiro “Un paio di anni fa, Nicole era la mia migliore amica. Facevamo tutto insieme e con Dottie formavamo un trio inseparabile. Alla fine del secondo anno, Dorothea è andata dai nonni a passare l’estate e Nicole e io ci siamo avvicinate. Molto”. Si tormenta il cinturino dell’orologio. “Non so esattamente quando abbiamo superato il confine tra amore e amicizia, non mi è mai importato. È stata l’estate più bella della mia vita, ma come tutte le cose belle è finita troppo velocemente. Siamo tornate a scuola e lei aveva un piano per quell’anno, voleva entrare a far parte della combriccola degli orrori. Non ero d’accordo, ma la appoggiavo lo stesso”. Fa una risata amara. “Per entrare nelle grazie di Giselle devi darle qualcosa, un po’ come un sacrificio in nome di Satana. Vuole un segreto, un’informazione oppure ti fa fare qualcosa di spregevole”.
Le prendo la mano per evitare che strappi il cinturino. “Che cosa ha dovuto fare Nicole?”.
Un velo di tristezza le opacizza lo sguardo. “Ha dato a Giselle tutte le lettere che le ho scritto, tutti i miei messaggi e le dichiarazioni d’amore. Ha fatto credere a tutti che fossi ossessionata da lei e che la nostra relazione fosse a senso unico. Mi ha strappato il cuore dal petto, ci ha messo un bel fiocco sopra e poi lo ha offerto alla regina del male come un dono. Ha avuto quello che voleva, un posto al fianco di Giselle, ma a quanto pare ha dovuto vendere l’anima”.
È l’ultima cosa che mi aspettavo di sentire. “Avevi di sicuro delle prove che stesse mentendo. Perché non hai detto nulla?” chiedo.
“Non le avrei mai fatto una cosa del genere. Questa città è un buco nero, non mi sarei mai permessa di spiattellare la sua sessualità al posto suo. Non sono come lei e mai lo sarò”.
Le stringo la mano. “Mi dispiace che ti abbia trattata così”.
Inforca un’espressione indifferente. “Tranquilla, ormai non mi importa più. Promettimi solo che non lo dirai in giro”.
“Non lo farei mai” assicuro.
 
Quando ritorno a casa, trovo Aaron seduto sul letto che fissa con poco entusiasmo il libro di storia.
“Mi tieni ancora il muso?” domando appoggiata allo stipite della porta.
Stappa l’evidenziatore giallo e mi lancia un’occhiata fugace. “Sei uscita con qualche altro hockeista? O il giovedì lo riservi per i giocatori di baseball?”.
Questa sua gelosia dovrebbe darmi fastidio, ma non riesco a non trovare adorabile quella sua espressione di finta stizza. “Oggi sono uscita con Peyton”. Entro nella sua stanza e chiudo la porta. “Vuoi vedere il mio progetto ora?”.
Alza le enormi spalle, cercando di ostentare indifferenza. “Come vuoi”.
Mi avvicino al letto e gli sfilo il tomo dalle mani. “Toglimi la felpa”.
“È questa la tua grande sorpresa? Perché sono bene cosa c’è qui sotto” borbotta con uno strano luccichio negli occhi.
Gli mollo un colpetto sul braccio. “Stai zitto e sfilamela”.
Con un sorrisino, si sporge oltre il bordo del letto e afferra la cerniera di metallo. Tira la zip e divide le due metà dell’indumento. Mi fissa l’addome con la bocca aperta e con un’espressione sorpresa che è carinissima e allo stesso tempo un po’ da fesso.
“Cosa ne pensi?” chiedo.
Le sue mani mi risalgono le braccia fino ad arrivare alle spalle. Tira il tessuto della felpa finché non mi scivola lungo le braccia e cade a terra. La maglietta degli Hazy Heavy è venuta meglio di quanto pensassi. Il logo sta a meraviglia sullo sfondo nero e il viola è stata una scelta davvero azzeccata. Quando il commesso me l’ha data per poco non lo abbracciavo. Naturalmente l’ho dovuta Jayficare un pochino, con qualche buco e un paio di spille da balia ha raggiunto un nuovo livello di perfezione.
“È la cosa più bella del mondo” esala “La persona più bella del mondo indossa la cosa più bella mondo. Credo che mi esploderà la testa”.
Ridacchio. “Ti piace quindi?”.
“Da morire” afferma accarezzando il logo in rilievo “È fantastica”.
Sfilo quella che avevo appeso alla tasca dei jeans e gliela porgo. “Questa è la tua, provala”.Aaron non se lo fa ripetere due volte e indossa subito la nuova maglietta. “Come sto?”.
“Sexy, come al solito” mormoro sfiorandogli la guancia.
Mi agguanta per i fianchi e mi trascina sul letto con lui. Affonda la mano nei miei capelli e preme le labbra contro le mie. “Grazie”.
“Di cosa?” espiro contro le sue labbra.
Mi sposta i capelli dietro l’orecchio. “Di essere te e di sopportare le mie stranezze, gelosia inclusa”.
“Tu sopporti le mie, quindi siamo pari”. Gli accarezzo il labbro inferiore con il pollice. “Sistemerò ogni cosa”.
“Jay non devi sistemare nulla”. Mi bacia la punta delle dita. “Non hai fatto niente di male”.
“Sappiamo entrambi che non è vero, ma sei carino a provare a non farmi sentire in colpa”.
“Non ti colpevolizzo per quello che è successo, lo sia vero?” chiede dolcemente.
“Dovresti”. Già, dovrebbe proprio. “Ma ho un piano, quindi si sistemerà tutto quanto”.
“Devo preoccuparmi?”.
“No”. Gli scocco un bacio e scivolo giù dalle sue ginocchia. “Piuttosto, sei pronto per il compito di storia?”.
Scuote i riccioli scuri. “Macché. Mi interroghi?”.
Gli rubo il libro e me le lo apro sulle gambe. “Certo, solo se dopo prometti di aiutarmi con matematica”.
Arriccia un angolo della bocca. “Va bene, ma non posso fare miracoli, piccola”.
Lo colpisco con la costola del tomo di storia. “Dopo questa affermazione sarò sadicamente brutale, preparati”.
“Cosa fai? Mi sculacci con un righello se sbaglio?” mormora roco.
“Ti piacerebbe…” esalo.
 “Oh, non ne hai idea” sospira.
E invece credo proprio di avercela.
“Secondo me stai facendo uno sbaglio” mi informa Chastity dal sedile del guidatore. Le sue belle manine spariscono tra la pelliccia fucsia del suo copri volante mentre svolta all’incrocio.
Mi giro a guardarla e vengo accecata dalla coroncina di vetro che pende dallo specchietto retrovisore. “Perché?”. Mi paro gli occhi con la mano. “Di che sbaglio parli?”.
Frena lentamente allo stop. “Non dovresti strisciare e chiedere scusa, non hai fatto nulla di male”.
Allontano la cintura color porcellino che mi sta segando il collo. Quest’auto è ridicola. “Non ho intenzione di strisciare, Chas. Sto andando a parlare con Jim per rimediare al disastro che la tua idea ha causato”.
Aggrotta le sopracciglia color paglia. “Non sono stata io a dire al reverendo di allentare il collarino perché non gli arriva abbastanza sangue al cervello. Quella è tutta farina del tuo sacco”.
Sbuffo. “Okay, magari quella potevo evitarmela. La festa, però, è stata una tua idea”.
Passa le dita nel pelo come se accarezzasse un furetto. “La festa ti ha permesso di entrare finalmente in competizione con Giselle e le ha fatto venire una crisi isterica che mi ha fatto sganasciare. Le è pure venuto un foruncolo sul naso così grosso, che oggi si è data malata. Sai che questo tipo di soddisfazioni non hanno prezzo”.
“Lo scotto però non lo sto pagando solo io. Aaron e la band si sono impegnati tantissimo e non ho intenzione di essere l’ostacolo che si frappone fra lui e i suoi sogni”.
Chastity mi lancia un’occhiata veloce. “Loro”.
Ops. “Sì, i loro sogni”.
Chastity entra nel parcheggio della chiesa e ferma la confetto-mobile. “Va bene, ho capito. Sei sicura però che ne valga la pena? Il reverendo è un uomo di chiesa e bla bla bla, ma è anche un grandissimo testardo, non te la caverai con poco”.
Ne vale la pena per Aaron? Non credo esista qualcosa che non farei per lui. “Sono sicura. Grazie del passaggio”.
“Ti aspetto qui fuori” afferma slacciandosi la cintura “Sai nel caso la situazione degenerasse e avessi bisogno di una mano per nascondere il corpo”.
Reprimere il sorriso mi sembra impossibile. “Mi aiuteresti a occultare un cadavere?”.
“Ho una vanga nel porta bagagli”. Mi strizza l’occhio.
“È rosa anche quella?”.
“Ovvio” scrolla le spalle “E poi sono sicura che tu faresti lo stesso per me”. Non lo ammeterei così a voce alta ma ha ragione. “Mandami l’emoji della pannocchia se hai bisogno di me”.
Mi lascio la cintura e prendo un bel respiro. “Se non torno vuol dire che sono andata a fuoco e sono finita all’inferno”.
“Tienimi un posto”.
Spalanco la portiera e scendo dalla cinquecento rosa perla. Percorro il parcheggio a passo sostenuto e apro il portone di legno, prima che il mio istinto mi spinga a darmela a gambe. L’odore di incenso e le luci soffuse mi fanno irrigidire come un blocco di marmo. Abbasso la testa e attraverso la navata senza guardarmi intorno. Raggiungo la porta dell’ufficio di Jim e busso. La sua voce profonda mi invita ad entrare e così faccio. Lui è seduto ad una scrivania di legno scuro, intento a scribacchiare su un quaderno di pelle. Due poltrone marroni gli sono disposte difronte e una croce mastodontica pende dalla parete alle sue spalle.
Alza gli occhi verdi, così assurdamente familiari, su di me. La sorpresa che ci leggo dentro è alquanto palese. “Hai un momento?” sospiro.
Mi indica la poltrona con la mano. “Accomodati”. Mi siedo educatamente di fronte a lui. “Sono sorpreso di vederti qui, Julianne. Mi hai ripetuto più di una volta che non saresti mai entrata in chiesa, che avevi troppa paura di bruciare…cos’è che hai detto?”.
Sapevo che me lo avrebbe fatto notare. “Bruciare come una strega a Salem” ripeto mestamente.
Mi lancia un’occhiata sarcastica. “Eppure eccoti qui, cruda e salva”.
Alzo le spalle. “Non ho mai affermato di avere sempre ragione”.
Congiunge le mani davanti a sé. “È abbastanza evidente che non sei qui per pregare”.
“No, infatti. Volevo parlare con te”.
Spalanca gli occhi, meravigliato. “E di cosa?”.
Afferro il coraggio con entrambe le mani e ingoio tutto il mio ego. “Vorrei parlarti della festa”.
“Non ho intenzione di abolire la punizione” afferma velocemente.
“Lo so” sospiro “Volevo scusarmi del mio comportamento e della terribile mancanza di rispetto che ho dimostrato nei tuoi confronti. Sono stata maleducata e ho abusato della tua fiducia e di quella della mamma. L’idea della festa, degli alcolici e di tutto quanto è stata solo e solamente mia. Volevo sentirmi a casa e meno sola, e ho sbagliato su tutta la linea. Soprattutto mi dispiace di aver coinvolto Aaron nei miei disastri, lui non ha fatto nulla”. Ricopro gli occhi con una leggera patina umida. “Non è giusto che per colpa mia debba rinunciare ai suoi sogni, quindi sono venuta a chiederti di lasciarlo partecipare al Rock Band Contest. I miei errori non dovrebbero avere un peso su di lui e i ragazzi”.
Sono così fiera delle mie capacità interpretative, che devo trattenermi da darmi una pacca sulla spalla. Credo in quello che ho detto, non è assolutamente colpa sua, ma tutta questa tristezza e questa arrendevolezza sono una messinscena bella e buona. Oltre ad usare una siringa, Jared mi ha insegnato anche questo. Mi ha spiegato come manipolare la gente e fingere rimorso. Non è proprio un’abilità di cui vado fiera e, a dirla tutta non la uso quasi mai, ma all’occorrenza può tirarti fuori dai pasticci.
Jim inclina la testa e soppesa ogni mia parola. “È questo il problema con gli sbagli, Julianne, molto spesso i danni ricadono sulle persone che ti circondano e non su di te” mormora serio.
“Me ne sono resa conto e sono disposta a fare qualsiasi cosa per rimediare” mugolo.
Inarca un sopracciglio. “Qualsiasi cosa?”. Annuisco con un bravo soldatino. “Okay, queste sono le mie condizioni: da domenica prossima verrai in chiesa con noi ogni settimana, aggiungerai al periodo di punizione che ti manca da scontare quello di Aaron, resterai a casa mentre loro andranno al contest ed eviterai qualsiasi tipo di guaio, soprattutto quelli che riguardano alcolici e comportamenti inappropriati”. Un gelido e perfetto robot, ecco quello che vuole da me. “Accetta queste condizioni e io libererò Aaron dalla punizione”.
Sermoni, due mesi di clausura e assolutamente zero divertimento. Ne vale la pena? La me di un anno fa avrebbe fatto una grassa risata, gli avrebbe fatto il dito medio e avrebbe levato le tende alla velocità della luce. Purtroppo, o per fortuna, quella ragazza non c’è più. Al suo posto c’è quest’estranea che ha sentimenti, amore e non pensa solo a sé stessa.
“Accetto” asserisco con voce ferma.
La faccia stralunata di Jim vale più di qualsiasi gestaccio potessi fargli.

“Non esiste” grugnisce Lip “Non andiamo senza di te”.
Finisco di attaccare il logo della band sulla gran cassa e poi gli lancio un’occhiata oltre la spalla. “Non farmi ripetere, per favore. Abbiamo avuto questa discussione una settimana fa e abbiamo deciso di comune accordo che oggi sareste andati senza di me”.
Lui scuote la zazzera rossa. “Noi non abbiamo deciso nulla, tu ci hai imposto di andare! Sei stata dittatoriale”
“E non ho voglia di esserlo di nuovo”. Gli afferro un avanbraccio marmoreo e lo tiro vicino. “Smettila di fare i capricci, ho bisogno che mi aiuti. Aaron farà mille storie e ho bisogno che tu prendi il tuo migliore amico, lo metti sul furgone, guidi fino a Salt Lake City e lo costringi a partecipare al contest”.
“Ma…” brontola.
“Niente ma, Philip. Ho accettato due mesi di clausura e i sermoni per voi, non ti azzardare a contraddirmi” ringhio.
“Mi fai un po’ paura” sospira.
“Allora fai come dico” sibilo.
Alza le mani in segno di resa. “D’accordo”. Rimette la gran cassa sul furgone e chiude il portellone. Aaron, accompagnato da Jim e mamma, ci raggiunge fuori. Ha la sua chitarra in spalla e un’espressione furiosa dipinta in faccia. “Ora sarebbe un buon momento per darle il permesso di venire con noi” borbotta verso suo padre.
Jim alza le spalle con innocenza. “Abbiamo un accordo, figliolo”.
“È un accordo stupido” mugugna mettendo lo strumento sul sedile.
“Va bene così” assicuro “Sarete fantastici anche senza di me”. L’occhiata di Aaron mi trapassa come un coltello nel burro. So cosa pensa, abbiamo discusso a lungo di questa storia. Mi ci è voluto un pomeriggio e un numero considerevole di baci per riuscire a persuaderlo ad andare.
“Buona fortuna. Fategli il culo” esalo. Vorrei auguragli in bocca al lupo in un altro modo, ma qui fuori non posso dargli altro che un semplice sorriso.
Lip riesce a trascinare Aaron nel furgone e a sparire prima che lui decida di buttarsi giù e tornare indietro.
Un’ora più tardi, apro la porta d’ingresso con la bocca piena e il sacchetto dei biscotti al cioccolato stretta al petto. Lo sguardo di Chastity mi scorre addosso. “Hai deciso di mollare il punk per abbracciare il trasandato?”.
Mi liscio il pigiama con le pizze. “Sono in convento, non giudicarmi”.
Bella come un raggio di sole, entra in casa e sorride a mamma e Jim. “Salve, signori Anderson”.
Loro ricambiano l’entusiasmo. “Chastity, tesoro, che piacere. Cosa fai qui?”.
Esibisce un sorrisino da angelo. “Il gruppo religioso di cui faccio parte, Le Ancelle del Signore, si raduna per una giornata dedicata alla preghiera, alla sorellanza e all’importanza della purezza. Ci spingono sempre a cercare nuove possibili ancelle, così ho pensato che magari avrei potuto portare Julianne con me”.
Giuda! Col cavolo che passo la giornata con lei e le sue amiche adoratrici della castità e della noia. “Oh, che peccato” mugolo “Sono in punizione fino alla fine dei tempi, perciò”.
La voce di Jim ha lo stesso effetto delle unghie contro la lavagna. “Mi sembra un’idea eccezionale”.
“No” sbotto “A me non sembra”.
Chastity scuote la coda di cavallo. “Il ritiro comprende un pranzo con le ex ancelle, un pomeriggio di preghiera tra i boschi, la cena con le sorelle e poi un pigiama party nell’hotel”.
“No” brontolo.
“Torneremmo domani per la messa” continua zuccherosa.
Jim sembra in brodo di giuggiole. “Dove si terrà?”.
“A Nephi. La quota per partecipare sono cinquanta dollari”.
“No” ribatto.
Jim balza in piedi e raggiunge il portafoglio. “Io penso che ti farà bene e che dovresti proprio andare. Cosa ne pensi, tesoro?”.
Mamma annuisce. “Mi sembra un’idea meravigliosa! Conoscerai un sacco di ragazze simpatiche e così potrai distrarti un po’”.
Uso i biscotti come uno scudo. “Io non ci vado”.
Lui porge i soldi a Chas. “Allora è deciso, vai a fare lo zaino”.
“Sono diventata invisibile, per caso?” sbraito.
A quanto pare si, perché Jim mi obbliga a fare la doccia, lo zaino e a seguire la traditrice fino alla sua macchina.
“In questo momento ti sto odiando” borbotto “Sappi che pur di non andare tra le ancelle ci faccio finire fuori strada”. Lei mi ignora e sale sulla confetto-mobile. “Te lo giuro, Chas”. Mette in moto e si allontana dalle nostre case. “Sai quanto odio queste stronzate, eppure mi ci stai trascinando lo stesso”. Stringo le braccia al petto e ci manca poco che mi metto a battere anche i piedi. “Fammi scendere, piuttosto che passare la notte con te dormo su una panchina”.
“Julianne?” esala esasperata.
“Sì, Giuda?”.
Lei ridacchia. “Stai zitta”.
Metto il broncio e mi abbandono contro il sedile. Lei esce dalla periferia e imbocca l’autostrada. “Lo sai che Nephi è dalla parte opposta, vero?”.
Un sorrisino scaltro le adorna il viso. “Guarda dietro”.
Confusa, mi sporgo dietro al sedile e per poco non mi viene un infarto. Peyton e Dorothea balzano fuori facendomi mancare un battito. “Sorpresa!”.
“Cristo Santo” esalo stringendomi il petto “Voi cosa fate qui? Stai trascinando anche loro nella tua setta?”.
Chas ride. “Non andiamo al ritiro delle ancelle, per chi mi hai presa?”.
Un meraviglioso sospetto mi solletica la mente. “Dove stiamo andando?”.
Mi scocca un sorrisino complice. “Salt Lake City, baby. Andiamo al Rock Band Contest, i ragazzi ci stanno aspettando”.
“Loro lo sanno?” chiedo sbalordita.
“Aaron mi ha aiutato a organizzare ogni cosa” spiega “È stata sua l’idea. Ci abbiamo lavorato insieme tutta la settimana”.
“Perché non mi avete detto nulla?”.
Sistema lo specchietto. “Ci serviva che la tua reazione fosse al cento percento autentica, non sei poi una così brava attrice come pensi”.
Mi assalgono un sacco di dubbi. “E sei sicura che non lo scopriranno? Le ancelle non faranno la spia?”.
Mi lancia un’occhiata saccente. “Abbiamo pensato a tutto, tesoro. Ho chiamato fingendomi mia madre e dicendogli che non stavo bene e che non avrei partecipato”.
Dottie si sporge in avanti. “Io ho detto che dormivo da Pey”.
Peyton ridacchia. “Io ho detto che dormivo da Dottie”.
“Non pensi che controlleranno? A mia madre hai dato un opuscolo”.
Peyton me ne porge una copia. “Lo abbiamo modificato, il numero che si può chiamare è del mio cellulare”.
“Così se tua madre o Jim dovessero chiamare per controllare, noi saremo pronte” conclude Dots.
Chastity accarezza il volante peloso. “Oltretutto i miei genitori e i tuoi pensano che io sia un angelo dolce e perfetto, non sospetteranno assolutamente nulla”.
“Non ci credo” sospiro.
Chastity si appoggia sul naso un paio di occhiali da sole. “Credici, tesoro. Abbiamo pensato a tutto noi, l’unica cosa che devi fare è scegliere la musica e preparati per la migliore serata della tua vita”.

Le audizioni per il Rock Band Contest si tengono al 801 Event Center, un locale che normalmente ospita concerti dal vivo. Dopo un pranzo al volo, raggiungiamo i ragazzi all’interno della struttura. Nervosismo e agitazione infestano l’aria con gas nervini. Gruppi di ogni tipo e stile vagano per l’edificio, trascinando strumenti e facendo vocalizzi. Troviamo la nostra band in un angolo presa dalla conversazione. Lip è il primo a vederci. “Siete arrivate, finalmente!”. Mi trotta incontro e in un secondo mi ritrovo a volteggiare come una bambola di pezza. “Se ti fa stare meglio non lo avevano detto nemmeno a me”.
Mi posa a terra e per un secondo tutto gira. “No, non mi fa stare meglio” esalo “Forse è anche peggio”.
Aaron sorride, facendomi tremare le ginocchia già instabili. “Lip non sa tenere un segreto”.
“Beh, ma io sì” ribatto mettendomi al collo il badge che Tyson mi sta porgendo.
“Lo so” espira “Posso parlarti un secondo?”.
Annuisco e lo seguo lungo il corridoio e dentro la prima stanzetta aperta. Mi spinge contro il muro di cemento di una stanza adibita a magazzino e vi avventa sulle mie labbra prima ancora che abbia il tempo di rendermene conto. Appoggia un braccio sopra la mia testa e con l’altro mi stringe il fianco. La sua mano si insinua subito sotto la maglietta e mi manda a fuoco la pelle.
“Non te lo aspettavi, vero?” esala roco.
Mi bacia la guancia. “Il tuo ingegnoso piano mi ha quasi fatto uccidere Chastity” sospiro.
Le sue labbra mi scivolano lungo il collo. “Me ne sarei fatto una ragione”. La mia mano trova i suoi riccioli come se avesse mente propria. “Ma non avrei mai permesso che restassi a casa. Ho bisogno di te qui”. Gli alzo il viso e cerco i suoi occhi. Deve guardarmi quando dice queste cose. Ho necessità che mi guardi. “Non sacrificarti mai più per me”.
Non è una promessa che posso fargli.
E so che non è una promessa che potrebbe fare lui.
Gli prendo il bavero della t-shirt e annullo qualsiasi tipo di distanza sia rimasta fra noi. Non ci deve essere distanza. Non lo sopporterei.
Qualcuno si schiarisce la gola facendoci girare verso la porta. Peyton cerca malamente di trattenere un sorriso. “Vi hanno chiamati”.
Usciamo dalla stanzetta, raccattiamo li strumenti e seguiamo un dipendente lungo uno stretto corridoio. Ci ritroviamo in una sala smisurata, alla cui fine è disposto un palco e davanti ad esso un lungo tavolo pieno di giudici. Le luci colorate che pendono dal soffitto creano un’atmosfera soffusa, che un po’ attenua il panico.
L’addetto scribacchia il nome della band su un plico. “Ora tocca ai Blood Rain, poi i Daisy Seeds e poi ci siete voi. Siete gli ultimi di questo gruppo, quindi una volta che avrete finito i giudici sceglieranno le due band che passano. Tutto chiaro?”.
Peyton si sporge verso di lui. “Quante sono le band per gruppo?”.
“Dodici” risponde il ragazzo.
Ah. Peyton chiude la bocca e annuisce. La mano di Aaron cerca la mia nella penombra. Intreccio le dita con le sue e gli accarezzo il polso con il pollice.
I Blood Rain salgono sul palco con sicurezza e decisione. Il cantante afferra il microfono come se non facesse altro nella vita e se lo avvicina alle labbra piene. “Salve a tutti, noi siamo i Blood Rain e questo è il nostro singolo, Walls Could Talk”.
Iniziano a suonare e il sottile vetro delle certezze si incrina. Il loro sound è pazzesco, insieme creano un’armonia perfetta e senza sbavature e, per quanto sia difficile ammetterlo, la canzone spacca di brutto.
Le pareti vibrano e il famoso settanta percento che avevo assicurato ai ragazzi inizia a colare a picco. I Blood Rain somigliano terribilmente agli Hazy Heavy. Sono quattro bei ragazzi, che fanno rock e ti fanno tremare la gonna. Il problema che ormai mi sembra più che lampante è che i Blood Rain hanno una marcia in più. Sono più connessi, sono più sicuri e soprattutto hanno del tutto incantato la giuria.
Siamo fottuti.
Fottuti al quadrato.
 
 
“Oh, beh” ridacchia Matt “Cosa avevi detto? Settanta percento? A quanto stiamo ora? Dodici?”.
Ho sei paia di occhi puntati addosso. Mi fissano tutti. Si sono addirittura messi a semi cerchio intorno a me, come se fossi il fottuto generale. Io non ho le loro risposte.
Lip mi lancia un’occhiata nervosa. “Cosa facciamo? Quelli hanno appeno reso la nostra band un escremento di sorcio”.
“Cerchiamo di pensare positivo”. Dio, è davvero questo il mio consiglio?
Matt oscilla. “Scherzi? Non gli facciamo nemmeno le scarpe a quelli lì, cosa abbiamo più di loro?”.
Tyson mi guarda. “Jay”.
“Cosa?” chiedo stupidamente.
La sua voce è quasi un sussurro. “Abbiamo te”.
Oh, beh, che culo. Hanno proprio uno splendido vantaggio.
Il fastidio addetto si avvicina con passo svelto. “Stanno salendo i Daisy Seeds, poi tocca a voi”.
“Grazie!” rispondo con astio facendolo allontanare di corsa.
Mi stropiccio il viso. “Okay, questo è il piano” indico Matt con l’indice “Tu trova del caffè e fatti passare la sbornia, ci servi lucido. Ty controllalo e assicurati che non beva nulla di alcolico. Ragazze aiutate Lip a preparare tutto quanto. Io cerco Aaron. Qualcuno ha visto dov’è andato?”.
Lip fa un cenno con il mento. “Credo sia in bagno”.
“Ci rivediamo qui tra cinque minuti” ordino.
Scappano tutti in direzioni diverse e io mi dirigo verso la toilette dei signori. L’odore di pipì e di uomo mi investe non appena varco la soglia. “Aaron?” mugolo. Il pavimento è umido e appiccicoso allo stesso tempo. “Sei qui?”.
Lo trovo seduto su un water chiuso, con i gomiti sulle ginocchia e le mani nei capelli. “Mi sembra di non riuscire a respirare”
“Hai scelto un posto orrendo per prenderti una boccata d’aria” esalo.
Lui non si scompone, quindi faccio l’ultima cosa che vorrei fare in un posto simile. Poggio prima un ginocchio, poi l’altro e mi accuccio davanti a lui. Gli prendo il viso tra le mani, il suo sguardo spaventato incontra il mio e mi sento morire. “Aaron…”.
“Farò un disastro. La mia spalla è appena guarita, non riuscirò a suonare e cantare insieme. Manderò tutto a puttane” soffia.
“Quella è la mia battuta”. Gli accarezzo le guance. “Tu non incasini mai niente, Aaron. Sei il tipo di persona che aggiusta le cose. Non sei come me, tu rendi tutto migliore”.
“Non voglio rovinare tutto anche per loro” sospira.
“È solo la paura a parlare, non devi ascoltarla”. Non riesco a vederlo così. Lui è il mio punto solido, non può vacillare. Se traballa lui vuol dire che devo rimare ferma io. “Cosa vuoi che faccia? Vuoi scappare? Posso rubare una macchina. Vuoi che ci ritiriamo? Vado a cercare un addetto. Vuoi che ti incoraggi? Sei assolutamente e totalmente la persona più talentuosa che conosca. Puoi farcela, Aaron. Io so che puoi. Dimmi di cosa hai bisogno, perché mi sono inginocchiata nel posto più schifoso del pianeta per te ed è solo il minimo che farei”.
Deglutisce rumorosamente. “Canta con me” sussurra.
“Come?”.
La paura comincia a diradarsi dai suoi occhi. “Canta con me”.
   
 
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