Nella foto, come
immagino Hermann e Sarah nel 1947.
L’immagine è tratta
dal film “La conseguenza”.
Capitolo
45
In una
normale, monotona e sonnolenta domenica pomeriggio
“Se tu sapessi com’è
terribile raggiungere tutta la conoscenza all’improvviso – come se un lampo
illuminasse la terra! Ora vivo in un pianeta di dolore, trasparente come il
ghiaccio. È come se avessi imparato tutto in una volta, in pochi secondi. Le
mie amiche, le mie compagne si sono fatte donne lentamente. Io sono diventata
vecchia in pochi istanti e ora tutto è insipido e piatto.”
Frida
All’inizio del mese di maggio, Hannah e Davide
avrebbero convolato a nozze secondo il rito cattolico nella Chiesa della Beata
Vergine del Carmelo. A causa della vedovanza di lui e dello scandalo che la
loro notevole differenza d’età aveva suscitato nel paese, la cerimonia si
sarebbe svolta in forma strettamente privata, alla presenza di pochissimi
intimi, ovvero il signor Gennaro e la moglie che avrebbero fatto da testimoni
e, ovviamente, Sarah e Matteo.
La sposa avrebbe vestito di bianco, con un
abito semplice e romantico, scelto insieme alla sua amica e alla signora
Carmela, senza strascico e con una coroncina di fiori tra i capelli a reggere
il velo donatole da Sarah, lo stesso che aveva indossato al suo matrimonio.
Dopo il rito, non ci sarebbe stato alcun
banchetto né viaggio di nozze, ma d’altronde di ogni giorno insieme Davide e
Hannah avrebbero fatto una festa nel reciproco rendersi felici e, solo in
seguito, sarebbero partiti per concretizzare il loro progetto di vita e non più
tornare indietro. Una partenza che, quando fu il momento, Davide decise di
rimandare, pensando di poter scongiurare le disastrose conseguenze del ritorno
inaspettato di colui che era stato suo nemico e che, a Fossoli, gli aveva dato
un’anticipazione della crudeltà nazista.
Solo dinanzi all’irreparabile tragedia, Davide
si arrese e partì con il cuore gonfio di dolore e quello di Hannah da
sorreggere.
A settembre, Davide avrebbe fatto ritorno a
Bologna, dove, in seguito alla sua domanda, gli era stata nuovamente conferita
la cattedra all’accademia musicale, mentre Hannah sarebbe tornata tra i banchi
di scuola per riprendere gli studi liceali interrotti a causa delle leggi
razziali. Era stato lui a convincerla, lasciando primeggiare il suo lato
paterno.
Seppur fossero due lavori dignitosi e loro
immensamente grati al buon Gennaro, Davide non avrebbe più fatto da
intrattenitore musicale in una sala da tè né lei sarebbe rimasta per sempre una
cameriera.
Giacché le voleva un bene dell’anima, il
sentimento d’invidia che si era annidato nel cuore di Sarah non sfociava in
rabbia verso la sua amica, bensì in un senso di tristezza per la mancata
realizzazione di sé e, a volte, come luttuosa cantilena, le tornavano alla
mente le ultime parole rivoltele da don Franco. Non gli aveva dato ascolto, né
allora né mai e, lasciando morire i sogni di bambina e sotterrando i suoi
talenti, sentiva di esser diventata ciò che non era, ovvero una persona
inasprita, incapace di gioire della gioia di un’amica.
Il rifiuto di Matteo a partecipare al
matrimonio non l’aiutava a vivere il suo coinvolgimento nei preparativi e
l’attesa del gran giorno pacificata con se stessa.
Fu in una normale,
monotona e sonnolenta domenica pomeriggio, dopo il pranzo, durante la
partita a briscola con suo padre e il compare, che lui diede alla famiglia la
notizia dell’invito ricevuto, mentre Sarah, vestita di rosa, sedeva in terra a
giocare con la cognata più piccola.
“E vui ca’ facite? Ce jate?[1]” Pur non sapendo parlare il dialetto, Sarah
comprese perfettamente la domanda proferita dal compare con un’intonazione
allarmata e, lasciando la bambola di pezza, rivolse accigliata lo sguardo verso
suo marito e l’attenzione a ciò che avrebbe risposto.
“Certo che no”, rispose Matteo, in maniera
seria e senza distogliere lo sguardo dalle carte, ed esultò per aver vinto il
giro.
All’improvviso grido di vittoria, Sarah
sobbalzò, mentre gli occhi le si empivano di lacrime per la sconfitta di una
guerra che era stanca di combattere.
“Facite buon[2]”, intervenne quasi prepotentemente donna
Filomena, con la sua stazza robusta, sempre fiera nel suo ruolo di massaia e,
portando a tavola il caffè, proseguì in italiano, affinché la nuora potesse
capire bene: “Non potete essere complici di un matrimonio disonorevole.”
Sarah immaginava dove sarebbe andato a finire
il discorso.
“Ci sono tante vedove di guerra della sua età
e lui si risposa proprio con una ragazzina?” Anche la moglie del compare
s’intromise, infierendo sui futuri sposi e ferendo Sarah che, seppur inerme,
dentro ribolliva. “Avranno almeno vent’anni di differenza. Potrebbe essere suo
padre.”
“Di certo, lei non è una bambina e ha guardato
ai propri interessi”, riprese la madre di Matteo, incalzando con le sue calunnie.
“Prima della guerra, lui faceva il professore e scriveva musica. Era una
persona importante e, quando le cose si sistemeranno…” Lasciò il discorso in
sospeso e, strofinando pollice e indice, alluse a un interesse economico.
“A iss ’o teng proprij ’ngann[3]”, affermò il compare, inalberatosi e
continuando a giocare. “Ha visto la ragazza sola, senza famiglia e se n’è
approfittato”, si concesse una pausa, per meglio lasciar scivolare quella
goccia capace di far traboccare l’intero vaso, “come stava per fare con Sarah.”
Sarah non riuscì più a trattenersi e scattò in
piedi, pronunciando a voce alta il nome di suo marito con un tono di
rimprovero. Su di lei, fu indirizzata un’attenzione fatta più di sguardi
irritati che stupiti e, intimorita dal sentirsi tutti contro, trattenne nelle
mani chiuse a pugno le parole che avrebbe voluto urlare in difesa dei suoi
amici.
Come laghi d’inverno, le lacrime si
ghiacciarono nei suoi occhi, poi scintille infuocate divennero le sue pupille
di miele verso colui che, ancora una volta, fu cieco al suo dolore, ma riuscì
soltanto a dirgli: “Io torno a casa.” Seppur pervasa dall’ira, la sua voce
fuoriuscì fioca e tremolante e lui ne fu sordo.
“Finisco questa partita e andiamo via”,
ribatté, serenamente concentrato sulle carte, aizzando il fuoco dentro di lei,
la quale riprese più decisa: “No, Matteo, io vado via adesso.”
Afferrò dallo schienale della sedia la sua
giacchettina color panna, mentre si riappropriava del suo spirito combattivo.
Senza salutare nessuno, si diresse verso la porta d’ingresso e, prima che
potesse sbatterla alle sue spalle, per Matteo iniziò già una paternale.
“La lasci andare via così?” Sua madre fu la
prima a intromettersi, seguita dalla moglie del compare che, però,
sdrammatizzò: “Non si capisce più niente, Filumè.”
“Pecché nun ’a vai a piglià? È mugliereta, t’adda rispettà[4]”, fece suo padre e il compare non poté che
ribadire: “Se non ti rispetta, ca’ omm sì?[5]”
Con sguardo fisso e duro, Matteo si alzò e la
sedia stridette sul pavimento contemporaneamente allo sbattere della porta.
Uscì di casa, a larghe falcate, portando con sé insicurezze e frustrazioni e,
con la rabbia da esse scaturita, fermò l’incedere di sua moglie, prendendola
per un braccio.
“Devi smetterla di farmi vergognare”, ringhiò,
strattonandola verso di sé, “hai capito?”
Fremente di risentimento, Sarah non si
sorprese neanche dell’inaspettata violenza, ma ad essa si ribellò,
divincolandosi e urlando un perentorio «lasciami», per poi riaffermare
decisamente: “Io torno a casa.”
“Tu torni dentro con me”, insisté lui a mo’ di
comando, con più forza e un altro strattone.
“No!” Al diniego di Sarah, la sua mano si
mosse in fretta, scagliandole un potente schiaffo che l’ammutolì, dapprima per
il dolore, poi per lo stupore e la delusione.
Era quello l’uomo che, in realtà, aveva
sposato e lei più non era la ragazza di un tempo, quella che, nel luglio del
’44, fu capace di tener testa al comandante di Fossoli.
“Forse è vero
mi sono un po’
addolcita,
la vita mi ha smussato
gli angoli,
mi ha tolto qualche
asperità.
Il tempo ha cucito
qualche ferita
e forse tolto anche ai
miei muscoli
un po’ di elasticità.
Ma non sottovalutare
la mia voglia di lottare,
perché è rimasta
uguale.
Non sottovalutare di
me niente,
sono comunque sempre
una combattente.”
Fiorella Mannoia,
Combattente