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Autore: manpolisc_    18/01/2021    1 recensioni
•Secondo libro della trilogia•
Sharon Steel ormai crede di aver scoperto tutto di sé grazie agli avvenimenti estivi che hanno caratterizzato le sue vacanze, quando in realtà non sa ancora nulla di ciò che realmente è. Sicura di aver detto addio ad una minuscola ma significativa parte della sua vita, si ritroverà ad affrontarla di nuovo, e questa volta le cose saranno troppo diverse e non sarà sicura di riuscire ad accettarle.
Dal testo:
- Era solo un sogno. - Cerca di rassicurarmi, e lo ringrazio per avermi interrotto. Non sono certa di voler dire ad alta voce quegli orrori da cui la mia mente è ormai segnata.
- Si realizzerà. - Affermo completamente sicura.
- Solo se tu vuoi renderlo realtà. -
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 Capitolo 8

-Sharon-

Dopo dieci orribili ore di viaggio sono arrivata a Londra. Durante tutto quel tempo in aereo ho visto per due volte lo stesso film, una vecchia commedia di Jim Carrey, fino a sapere alcune battute a memoria. C’era questa bambina dietro di me che continuava a prendere a calci il sedile, neanche fosse la sua peggiore nemesi, infine si è addormentata. Non posso dire lo stesso di me invece che, nonostante bramassi di cadere in un sonno profondo in modo da far passare più velocemente il tempo, non ci sono riuscita. Non appena quella bambina aveva terminato di darmi fastidio, un uomo accanto a me, forse d'affari dal momento che indossava un completo blu abbastanza formale, ha cominciato questo interminabile monologo, commentando ogni scena del film. Di certo si è divertito, almeno lui. Da aggiungere a tutti quei fastidi c’erano anche i miei pensieri e i sensi di colpa che non aiutavano affatto. Fortunatamente il viaggio in autobus è stato molto più rilassante. Ho dormito una scarsa ora, riuscendo a prendere sonno solo per il fatto che ero distrutta, l'altra sono rimasta sveglia. Almeno ho recuperato un po’ di energia. E ora vago per le stradine deserte e buie di questa cittadina ignota. Accendo il cellulare: diverse chiamate perse di mia madre e più di venti da parte di Albert. Questo è decisamente strano: deve essere per forza successo qualcosa per aver cercato di contattarmi così tante volte. Non provo neanche a telefonargli, dal momento che già prima ho tentato di rintracciare Jackson per chiedergli dove abitasse e, non avendo credito, la mia speranza di trovare casa sua è andata in frantumi. Quindi sono ben due ore che sto girando a vuoto per cercarla. Sapevo di star dimenticando qualcosa prima di partire, infatti ho dato per scontato che avessi credito sufficiente anche per un messaggio. Forse mi sarei dovuta almeno informare prima riguardo alla via, così ora non starei camminando nell'oscurità, a mezzanotte, in una città che non conosco nemmeno. Inoltre, a quest’ora non troverò nessuno a cui chiedere informazioni. Se non avessi perso tutto quel tempo a Londra per trovare un autobus che portasse qui, a Winchester, ora sarebbe ancora giorno. Continuo a vagare nell'ombra, cercando di orientarmi. Giungo all'ennesimo incrocio e sbuffo, non sapendo quale delle tre strade prendere: se quella davanti a me, e quindi continuare sulla Bar End Road; quella a sinistra, la East Hill o quella a destra, la Wharf Hill. Decido infine di muovermi verso quest’ultima: la Bar End Road sembra fin troppo lunga, mentre la East Hill è inquietante e buia. Non vorrei imbattermi in qualche mostro, o maniaco.
Gli edifici, come del resto tutti quelli che ho visto finora, sono costruiti in mattoni bianchi o rossi e sono tutti adiacenti gli uni agli altri. La stradina sembra tranquilla, e quando dico tranquilla intendo che non c'è nessuno che potrebbe spuntare all'improvviso. Ed è una cosa positiva, sebbene non sia comunque serena per nulla. Prendo un respiro, mi aggiusto lo zaino sulle spalle e percorro la strada fino ad arrivare davanti a quello che deve essere un pub. L'edificio, che assomiglia più a una piccola casa a un piano, è interamente bianco e nello spazio tra il piano terra e il primo c'è scritto "BLACK BOY". Due luci esterne, simili ai famosi lampioni inglesi, si alternano alle tre finestre al primo piano; altre due si trovano al piano inferiore, all'estremità della porta nera al centro. Fuori è presente un ammasso di legna, appoggiato a un recinto nero che circonda l'intero pub. Non so dire se sia chiuso o meno: le luci esterne sono accese (e ne sono felice perché illuminano un po' la strada insieme ai lampioni), ma sembra non esserci nessuno dentro. Mi avvicino per controllare gli orari, scritti su una piccola lavagnetta al di sopra dei pezzi di legno. Mercoledì, ovvero oggi: da mezzogiorno alle undici di sera. Sospiro, sconsolata, e riprendo a camminare. Deve pur esserci qualcuno aperto da queste parti. Attraverso la strada, senza dare molta importanza all’improbabile arrivo di un’auto, dal momento che sembra una città fantasma, per andare a sedermi sulla sola panchina circondata da qualche albero nell'unica parte con un po' di verde. Prendo il cellulare dalla tasca e controllo l'ora. È inutile continuare a cercare qualcosa che non conosco. Sento il mio stomaco brontolare: avrei dovuto portarmi anche qualcosa da mangiare, o almeno avrei dovuto cambiare le banconote, ma comunque non c’è nessuno aperto. Mi guardo in giro, affranta. Ormai non so più neanche dove andare. Non è il caso di svegliare qualcuno, bussando alla sua porta, poiché non ho la certezza che conoscano Jackson e la sua famiglia. Mi levo lo zaino dalle spalle e lo poggio sull'estremità della panchina, poi ci poso la testa sopra, stendendomi. Ringrazio che non faccia freddo almeno, e che non piova, altrimenti la situazione sarebbe davvero critica.
Sono davvero esausta. Non so con quale convinzione io sia partita sicura che sarei arrivata qua e mi sarei trovata magicamente la casa di Jackson davanti ai miei occhi. Devo diminuire i miei sogni ad occhi aperti, e le mie speranze, altrimenti mi ritrovo in queste situazioni sconvenienti. Ora che ci penso, non ho neanche acquistato un biglietto per il ritorno, e non ho con me la carta di credito, ma solo quelle banconote che non sono riuscita neanche a cambiare per la fretta, e qui intorno non ho visto neanche una banca, o almeno una macchinetta. Sono fregata, in poche parole. Mi stendo a pancia in su. Non posso neanche addormentarmi, anche se lo voglio davvero tanto. Se qualcuno venisse e cercasse di derubarmi, o peggio? Chiudo gli occhi, giusto per riposare le palpebre, sperando di non addormentarmi. Rimango comunque in allerta. Quest’attimo di riposo che mi sto concedendo viene interrotto poco dopo dal suono di passi. Muovo di poco la testa per controllare se ci sia qualcuno, ma non vedo nessuno. La mia mente ha già cominciato a elaborare le peggiori ipotesi riguardo quel rumore, quindi fingo solo di essere rilassata per non dar troppo nell’occhio, quando non lo sono affatto. Qualche secondo dopo, un tonfo metallico in lontananza mi fa scattare in piedi con il cuore che mi martella nel petto. Afferro lo zaino in fretta e me lo rimetto sulle spalle mentre i miei occhi scorrono impazziti su ogni singolo angolo di questa strada. Come ho fatto a essere tanto precipitosa? Spero che sia chiunque, davvero chiunque, ma non qualche creatura. Non sono sicura che i mostri che combatto in America siano gli stessi qui, e non ho intenzione neanche di scoprirlo, soprattutto con questa stanchezza. Mi avvio dalla parte opposta al pub, cominciando ad aumentare il passo quando sento quel suono di suola delle scarpe sul cemento. Mi giro indietro solo una volta all'udire un altro colpo sordo prima di cominciare a correre, ma non vado molto lontano. Infatti mi scontro subito con quello che sembra un muro, anche se è solo un altro essere umano, spero. Il mio cuore sembra esplodermi nel petto dall'ansia e dal terrore che ho addosso. Mi allontano di fretta dal ragazzo contro il quale sono andata a sbattere e istintivamente accendo una fiamma sul palmo della mano per prevenire un suo attacco. Ho imparato a mie spese che, sebbene possa sembrare umano come me, in realtà potrebbe anche non esserlo. Come successe con quella ragazza-vampiro a giugno.
- Stammi alla larga! - Gli urlo contro mentre la fiamma comincia a tremare, come se fosse lambita da un vento forte. Non dovrei essere tanto agitata perché rischio di perdere quel briciolo di controllo sull’elemento per non essere concentrata, ma non posso far nulla per fermare la paura che mi sta man mano divorando.
- Wo! Allontana quell'affare. - Quel ragazzo alza le mani in alto, forse in segno di resa, forse per mostrarmi che non ha nulla con cui ferirmi se non una bomboletta spray. Guardo il ragazzo in volto mentre mi squadra dalla testa ai piedi, curioso, ma allo stesso tempo allarmato che possa bruciarlo. Noto i suoi occhi verdi, evidenziati dalla luce delle fiamme, quasi analizzarmi. Sposto lo sguardo sulla mia mano e ritiro le fiamme, terrorizzata. Ho fatto una stupidaggine assurda: non avrei dovuto mostrare ciò di cui sono capace. Mi sono già ritrovata in questa situazione con Delice e non è stata per nulla piacevole. Lei è la mia migliore amica e ha reagito abbastanza male, con un estraneo sarebbe perfino peggio. Tra qualche secondo scapperà e andrà a raccontare a tutto il mondo quello che ho appena fatto. Come eviterò una cosa del genere? Devo ancora lavorare per quanto riguarda mantenere la calma, perché so che mi distruggerà un giorno. Pensavo a quanto fosse assurdo il modo di ragionare di Jackson quando mi disse la verità a casa sua e mi fece l’esempio di quel bicchiere, che crede che tutto sia malvagio, ma ora mi rendo conto quanto avesse ragione in realtà. Significa essere prudenti, aspettandosi sempre il peggio dall’altro. L’errore che compio io, a differenza sua, è non saper gestire la cosa.
Tuttavia, il ragazzo rimane ancora di fronte a me e l'unico gesto che fa è quello di abbassare le mani e scuotere la bomboletta, assicurandosi che ci sia ancora della vernice dentro. E se mi volesse spruzzare la pittura negli occhi affinché possa scappare e diffondere la notizia su Facebook o dove vuole lui? Appena mi rendo conto di star diventando ridicola e troppo paranoica prendo un respiro, cercando di calmarmi. - Scusa se ti ho spaventato. Volevo buttare la bomboletta, ma un gatto è saltato fuori dal cassonetto e ha fatto casino. - Continua. Non sembra per nulla turbato dal mio gesto, a differenza di Delice, che mi associò all'alter ego di Elsa.
- Quello che hai... quello che hai visto... - Cerco di parlare tra i respiri spezzati a causa del fiato corto, un po' per la corsa, un po' per il timore che tra poco mi farà impazzire o paralizzare. Odio quando la mia mente, insieme alla paura, comincia a modellare la realtà a loro piacimento. Non provavo così tanto panico da, beh, un'eternità. Con il passare del tempo credevo di aver cominciato a gestirla, ma a quanto pare mi sbagliavo.
- Wow, una Salamandra. Non se ne vedono in queste zone, siamo tutti Ondini o Gnomi. Suppongo tu sia americana. – Osserva poi, dato il mio accento decisamente diverso dal suo. – Da dove vieni? - Mi chiede con un cenno della testa e un sorriso quasi invisibile ma furbo e allo stesso tempo beffardo. Lo squadro anch’io come lui ha fatto prima con me. Un semplice cappello di lana grigio, con dei teschi bianchi disegnati sopra, nasconde parte dei suoi capelli scuri, così neri da fondersi con il buio intorno a noi. Un ciuffo gli ricade sul lato destro della fronte, nascondendo l'occhio, ora di un verde più scuro per la poca luce. La sua carnagione è molto pallida, più bianca di quella di un fantasma. È piuttosto snello, ma per nulla gracile. Indossa un maglione nero con su scritto "MISFITS" in verde, simile al colore dei suoi occhi, e con l’immagine di uno scheletro con un panno rosso in testa che regge una pagina di giornale, rivolgendola verso di me. Poi ha un giubbino di jeans con le maniche grigie e il cappuccio dello stesso colore, un pantalone nero e così le Supra. Anche le punte delle dita della mano sinistra sono leggermente sporche di nero.
- Da una cittadina tra il Nevada e la California. - Lui tiene gli occhi puntati su di me per qualche secondo, poi sorride in modo divertito.
- E cosa ci fai qui? - Emette un verso breve, soffocato in gola, per ridere. - Cioè, abiti vicino a Las Vegas e vieni in campagna qui? - Scrollo le spalle.
- Non devo darti spiegazioni. Non ti conosco neanche. - Gli do le spalle e comincio a camminare nella direzione opposta alla sua, con l'intenzione di tornare all'incrocio. L'ultima volta che diedi più confidenza di quanto avrei dovuto a un estraneo davanti al cinema mi ha trascinato in un vicolo, quasi strangolato e cercato di portarmi via. Non vorrei che capitasse la stessa cosa adesso perché questa volta non ci sarà nessuno a difendermi, anche se non sembra affatto come Luke. Il ragazzo comincia a camminare e mi affianca, io mi allontano ulteriormente da lui mentre ripasso davanti al pub. - Scusa se sono finita contro di te. La prossima volta farò più attenzione. -
- Ti sei persa, non è vero? – Chiede, continuando a camminare accanto a me. Mi blocco e lo guardo, abbastanza curiosa. Non ho più così tanta paura, è un Elementale come me e saprei cavarmela in qualche modo, ma sono solamente confusa. Gli ho chiesto scusa, non ha senso che continui a camminare con me; può tornare benissimo al suo graffito. Non dobbiamo stringere amicizia per forza, e non voglio neanche: non sono venuta qua per conoscere nuova gente, soprattutto Elementali, ma solo per trovare Jackson. Jackson! Il ragazzo è di queste parti, posso sicuramente chiedere informazioni a lui. Se quest'ultimo è un Elementale, questo aumenta le mie probabilità di raggiungere casa Mitchell. Annuisco alla sua domanda e gli sorrido gentilmente.
- Sono venuta a trovare un mio amico, ma non ho la più pallida idea di dove abiti. Tu sei di Winchester, giusto? - Scuote la testa.
- Newtown, ma conosco bene la zona. Mi muovo spesso. - Si avvicina a un altro cassonetto e butta anche l'altra bomboletta, poi cerca di pulirsi le dita sporche. - Allora, chi cerchi? Ti accompagno, tanto ho finito il mio graffito. - Alzo un sopracciglio, guardandolo. Non sono così ingenua com’ero una volta, non mi fido di lui. Non posso escludere che lui non proverà a farmi del male solo perché ha un approccio diverso da quello di Luke.
- Non ti conosco neanche. Senza offesa, ma non mi fido di te. Tra l’altro anche tu sei un Elementale, quindi capisci la mia poca fiducia. - Incrocio le braccia al petto, scettica, e lo guardo. Lui continua a strofinarsi i polpastrelli mentre quel ciuffo ora gli nasconde la maggior parte del volto, rendendolo ancora più cupo, ma annuisce.
- Tranquilla, non ti uccido. Basta che tu non sia un Cacciatore Oscuro, altrimenti non avrai nulla da me. - Mi avverte e alza lo sguardo, facendo ritornare il ciuffo sull'occhio destro. La sua espressione si fa seria e dura, non più rilassata come prima. Scuoto la testa, anche se ancora non sono certa al cento per cento che non sia uno di loro.
- Non lo sono. Ho avuto brutte esperienze con loro. - Lui mi studia per qualche secondo, poi accenna un fugace sorriso. Rinuncia alla possibilità di pulirsi le dita e mette la mano sporca in tasca, l'altra me la porge.
- Sono Casian Trow. - Osservo la sua mano, poi la stringo mentre alzo lo sguardo sul suo volto.
- Sharon Steel. - Al mio nome sgrana gli occhi leggermente, alzando le sopracciglia, non so dire se per l'incredulità o per timore, di cosa non so. Continua solamente a fissarmi, come se avesse un fantasma davanti, poi molla la mia mano di colpo.
- Davvero? Sei come una leggenda, un mito, tra gli Elementali. - Dice ancora con sguardo meravigliato, come se non riuscisse a realizzare che sia qui per davvero. Gli rivolgo un sorriso imbarazzato, non sapendo cosa rispondergli per tentare di celare la mia confusione. Mito? Già è tanto che i miei insegnanti ricordino il mio nome, e ora mi dice che tutti gli Elementali sanno chi sono. Per quale ragione, poi? Sono come tutti loro, non ho nessuna abilità speciale, nessun potere in più rispetto agli altri, anzi mi ritengo anche inferiore, data la mia poca esperienza. Perché mi considerano una leggenda? Non mi conoscono neanche.
- Buono a sapersi. Comunque, ti prego, dimmi che conosci Jackson Mitchell. Ho passato l'ultimo giorno in viaggio e sono stanchissima. Ho bisogno di raggiungerlo al più presto. -
- So dove abita. Siamo amici, ma mi dispiace dirti che la strada è lunga. - Mi rivolge un sorriso dispiaciuto. Sospiro, immaginando già i chilometri che mi toccherà percorrere. – E casa sua è dispersa nel nulla. Oh, e a piedi ci impieghi un'ora. - Aggiunge mentre schiudo la bocca, turbata dalla sua affermazione.
- Un'ora? - Chiedo incredula, poi scuoto ripetutamente la testa, rifiutandomi di crederci. - Non esiste. Muoio prima. - Lui forza una risata. Sono sicura che non sia il tipo di ragazzo che potrebbe farsi anche cinque minuti di risata continua. Sembra un tipo piuttosto solitario ma gentile: non come Harry quando lo vidi la prima volta. Casian non sembra affatto misterioso, nonostante il suo aspetto potrebbe trarre in inganno, e non mette neanche in soggezione. Quando incontrai il dampiro, invece, ho avuto minuti d’ansia. Pensai davvero che avrebbe potuto lanciarmi il suo coltellino, e come dimenticarsi di quel suo sguardo così penetrante che, in soli pochi secondi, sembra riuscire a scavare così in profondità da portare alla luce ogni segreto più oscuro.
- Oppure ti fidi di me, e ti accompagno in macchina. - Mostra un sorriso sincero. Non vorrei seguirlo, sinceramente, ma neanche percorrere non so quanti chilometri da sola di nuovo: rischierei un infarto per la fifa. - Non ti faccio del male, parola di Elementale. - Non credo di riuscire a sopportare un'ora a piedi fino a casa di Jackson senza cedere prima.
- Oppure chiami Jackson e mi dai la conferma che siete amici. - Nonostante la stanchezza, non voglio che veda che sia vulnerabile affinché se ne possa approfittare, oppure pensi che non riesca a ragionare lucidamente. Sembra simpatico, un tipo a posto, ma mai dare nulla per scontato. A volte, anche ciò che si crede di conoscere di più, risulta essere totalmente differente.
- D'accordo. – Prende il cellulare dalla tasca del giubbino e scorre tra i contatti della rubrica dopo aver sbloccato lo schermo del suo Samsung. Un paio di secondi dopo dall’altro capo del telefono si sentono dei rumori, finché la voce di Jackson non diventa chiara attraverso l’apparecchio.
- Che c’è? – Risponde lo Gnomo con voce impastata dal sonno, roca.
- Hey, Jackson Mitchell. – Dice quindi Casian.
- Hey… Casian Trow? – Chiede, questa volta più confuso. - Cas, davvero che c’è? Non è l’ora per uno dei tuoi scherzi. –
- Lo so. Ci si sente. – Detto ciò spegne la chiamata e posa il cellulare, dopodiché mi rivolge uno sguardo, cercando di capire se mi fidi ora o meno. Quindi annuisco, sapendo almeno che è davvero suo amico e che quel nome è sul serio il suo. - Ora ci serve solo un'auto. - Si strofina le mani con un sorriso malizioso ed inquietante in volto.
 ***
Dopo che Casian ha preso "in prestito", come ha affermato, una Dacia Logan MCV del 2009 di un blu spento, mi accompagna a casa di Jackson, o almeno spero che sia quella la strada giusta. Ho fatto bene a imboccare la Wharf Hill invece che la Bar End Road: questa è davvero fin troppo lunga. La cosa strana in tutto questo è quella di doversi sedere a sinistra poiché in Inghilterra si guida a destra. È davvero bizzarro. Ringrazio però che Casian non guidi come un pazzo: se ci fosse stato Harry al suo posto ci avremmo impiegato la metà del tempo. Inizio anche a essere nervosa: ho voglia di parlare con Jackson, e anche di riposarmi magari, ma al tempo stesso sono in ansia proprio per lo stesso motivo. Almeno Casian non sta rendendo il viaggio in auto così pesante. È un tipo molto loquace, quasi logorroico. A prima vista sembra che sia riservato, che rimanga nel suo piccolo e che non voglia essere disturbato. È così all’inizio, ma appena ci si passano anche solo dieci minuti insieme cambia totalmente. È molto solare e subito ha cominciato a parlare di lui per passare il tempo, e mi fa piacere sia perché mi sta distraendo dalle mie preoccupazioni sia perché l’ho conosciuto un po’ meglio. Mi ha raccontato di essere un Ondino e di aver sviluppato i poteri qualche mese prima dei suoi ventidue anni, cosa rara dal momento che, una volta superati i diciotto, è difficile riuscire a controllarli. Ora ne ha ventiquattro. Suo padre è il manager di una band, anche se non ricordo il loro nome, mentre sua madre lavora come cameriera in un piccolo ristorante. Lui non ha finito il liceo: è stato espulso dopo una rissa nel cortile, anche se non mi ha accennato al motivo per cui è scattata. L'unica cosa che mi ha riferito è che non fosse molto amato nella sua scuola. Credo che sia stata vittima di bullismo, ma non ne sono sicura. Non ho voluto chiedere: mi sembrava scortese e fin troppo privato. In fin dei conti è stata solo una mia impressione e so anche che non è semplice parlarne. Anch’io, in un certo senso, lo sono stata. Sempre giudicata, allontanata, umiliata... È una cosa che fa schifo, subirla e farla subire.
Ciò che gli invidio è la sua indipendenza. Nel senso che è molto coraggioso a girare da solo per l'Inghilterra per esercitarsi nella sua arte. Vuole diventare un'artista, ma non vuole l'aiuto da parte dei genitori. Se la gente sapesse chi è suo padre, sicuramente lo guarderebbero con altri occhi. Ma a lui sta bene che lo reputino come un ribelle da cui stare alla larga: almeno non ha problemi con la gente. È stato quasi ovunque: Swavesey, Edinburgh, Bristol, Cambridge, Cardiff e molte altre. Deve essere bello viaggiare continuamente, malgrado la nostalgia di casa. È molto legato ai suoi che lo supportano sempre, sebbene stia lontano da loro.
Non ho seguito il percorso che ha fatto, ma l’ultima stradina che imbocca è la Bridge Ln. Continua a guidare per cinque minuti, poi si ferma dietro una Jeep nera, parcheggiata nel vialetto che interrompe il muretto in mattoni e muschio, con diverse radici intrecciate sulla ringhiera. Non so perché, ma ora il mio cuore batte più veloce. È la prima volta che lo rivedo dopo tanto tempo. Sempre se Casian non ha sbagliato abitazione o non mi abbia mentito per tutto questo tempo, ma ormai anche questo pensiero non dura più di un secondo. Mi volto a guardare la casa, nonostante non riesca a vederla del tutto a causa del buio: non c'è neanche una luce esterna. Esce dalla macchina e si aggiusta il giubbino mentre io rimango seduta, poi va a bussare alla porta d'ingresso. Mi giro e lo scruto da dentro l’abitacolo della macchina: lui gioca con le proprie dita mentre aspetta impazientemente che qualcuno gli vada ad aprire. Qualche secondo dopo la porta si apre, ma non riesco a vedere chi sia. L’Ondino fa un cenno con la testa nella mia direzione, poi un'altra figura esce dalla casa e cerca di guardare dentro la macchina. Appena riconosco i capelli biondi arruffati e la statura di Jackson, apro lo sportello per uscire, leggermente impacciata sotto il suo sguardo attento. Indossa dei pantaloncini a quadri blu scuro e una canotta bianca mentre ai piedi ha delle infradito del medesimo colore. Appena riconosce il mio volto, la sua espressione diventa irriconoscibile: incredulità, timore, sensi di colpa, imbarazzo. Non credeva che potessi fare una cosa del genere, ovvero venire fin qui per lui; neanch'io, in verità, ma l'ho fatto per la verità, mica per lui. Chiudo lo sportello e mi avvicino a loro due. Io e il biondo ci scambiamo un lungo sguardo: lui cerca di capirci qualcosa in questa situazione, io cerco di capire come comportarmi. Per tutti i mesi estivi ero furiosa con lui, non volevo sentirlo nominare o ricordarlo, ma la mia rabbia sembra scomparsa ora che è davanti a me. Tuttavia, il suo sguardo rimane indecifrabile. Lui inspira e lancia uno sguardo a Casian, non capisco se di rimprovero o altro, poi si avvicina a me. Nello stesso istante in cui lui mi circonda la vita con le braccia e mi stringe a lui unisco i polsi dietro il suo collo per abbracciarlo. Mi è davvero mancato, anche se non volevo ammetterlo a me stessa.
- Cosa ci fai qui? Stai bene? - Annuisco con la testa sulla sua spalla mentre rimango ancora abbracciata a lui, avvolta da questo tranquillo silenzio. Non vorrei staccarmi più dopo così tanto tempo lontano da lui, ma lo schiarirsi della voce di Casian interrompe questo momento.
- Allora… mi sa che io vado. Ho ancora qualche murales da fare in giro. - Non appena l'Ondino parla, Jackson si stacca dalla stretta e mi osserva per qualche secondo come a controllare che sia davvero io, poi gira il volto verso l'amico e annuisce.
- Puoi rimanere anche qui per la notte, lo sai. -
- Ho diverse cose da fare, come riportare al proprietario quella mezza cartuccia. - Casian fa un cenno verso la macchina. - E poi sai che sono un tipo notturno. Domani avrò tutto il giorno per dormire. - Jackson annuisce e rimane in silenzio, senza obiettare.
- Grazie Casian. - Dico dopo aver sciolto quel nodo in gola che mi si era creato, rendendola secca, e lui mi sorride.
- Ci vediamo Sharon. - Rivolge un sorriso a entrambi per salutarci e poi si avvia verso la macchina, infilandosi le mani in tasca. – Ah. - Apre lo sportello e richiama l'attenzione di Jackson. - Hai notizie di Harry? - Lo Gnomo scuote la testa.
- No, purtroppo. - Sospira, con sguardo triste. Ci credo che Jackson sia preoccupato: lo sono io per Harry, e lo conosco da meno tempo, mentre per lo Gnomo è il suo migliore amico. Sono passati mesi, e di lui nessuno sa nulla. Più volte ho cercato di rifiutare l'idea che fosse morto, ma altre volte non ho potuto fare a meno di pensarci. Nessuno è indistruttibile, neanche il più forte di tutti. Anche Casian sembra triste alle parole di Jackson, ma non sorpreso. Credo che anche lui abbia avuto le mie stesse paure. Avvilito, entra in macchina e mette in moto, per poi fare retromarcia e sparire in fondo alla strada da cui siamo venuti. - Sei venuta qua da sola. Non ci credo. -
- Neanch’io. - Ammetto. Un sorriso invisibile gli appare sul volto, poi mi fa segno di entrare.
- Vieni, c'è della pizza avanzata. - Il mio stomaco comincia a tremare di nuovo, ma sono felice che questa volta sia per la fame e non per paura o ansia. Non ho mangiato nulla durante le ultime ventiquattr'ore, se non qualche nocciolina sull'aereo. Non appena entro dentro casa la luce del corridoio si accende, mostrando un pavimento di legno, abbastanza antico, le pareti bianche e una rampa di scale che porta al piano superiore. Gli unici oggetti presenti in quello spazio sono un tavolino di marmo chiaro con sopra una statuetta di un pino e una pianta, uno specchio al di sopra di un termosifone e una lampada accanto alla porta, sopra un tavolino. Sposto lo sguardo sui gradini delle scale, dove sta apparendo un'ombra. In cima a queste c'è una ragazza con addosso dei pantaloncini neri e una canotta dello stesso colore, disegnati su questa due cuori che fanno da occhi a un sorriso, entrambi bianchi, all'altezza del diaframma. Ha la pancia leggermente scoperta e i capelli che le ricadono sulla spalla sinistra, con le punte colorate di blu. Mi osserva attentamente, poi sposta lo sguardo su Jackson.
- Chi è questa? - Domanda in modo abbastanza rude. In effetti, non potrebbe essere gentile dopo essere stata svegliata all'una di notte.
- Avery, lei è Sharon. Sharon, Avery. - Sorrido alla ragazza, la quale non ricambia. Mi sembra di incontrare Harry una seconda volta. La sua ragazza continua a fissarmi con aria minacciosa, in cima alle scale, senza aprire bocca. Ora ho capito perché Harry abbia perso la testa per lei: è bellissima. Se Jackson non avesse parlato e non mi avesse distratto non sarei riuscita a toglierle lo sguardo di dosso. Smetto di osservarla anche perché la porta, credo quella della cucina, si apre e una vecchietta fa capolino sulla soglia.
- Nonna, è l'una! - Esclama Jackson, spazientito. - Dovresti dormire. - La signora anziana esce completamente dall'altra stanza, scalza, e mi osserva. Indossa una camicia da notte bianca lunga fino alle caviglie e ha una treccia con cui regge dei folti capelli neri. Non appena nota la mia presenza sorride, evidenziando le rughe sul suo volto. Chiude il libro e si toglie i piccoli occhiali da lettura dalla punta del naso.
- Nora. - Mormora con voce rauca e strozzata. Corrugo la fronte e giro istintivamente la testa per controllare se ci sia qualcun altro dietro di me, poi torno a guardare la nonna di Jackson appena trovo conferma del fatto che non ci sia nessuno. Lei continua a fissarmi. Chi è Nora?
   
 
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