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Autore: sacrogral    19/01/2021    4 recensioni
Questa è una storia postmoderna, per i debiti e i ringraziamenti si veda a fine pagina. E parla di quello che dice il titolo.
Questa storia è stata scritta in un giorno particolare e da parole particolari deve essere introdotta. D'altronde, gioco con la metaletteratura, col significato e col significante e insomma, a chi legger sa:
31 LUGLIO
A chi legger sa:
Un dì, recand’oro, spade e fior rari
Giunsi, luce chiedendo, e perdono;
Uno tra tanti, esule ero,
Ricordo la grazia, e il lieto suono
Invan mi prodigo, mai farò pari.
Genere: Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono sempre da solo, è inevitabile – tanto che ho cominciato a parlare da solo, o coi miei fantasmi. Nessuno mi infastidisce, ma di rado qualcuno mi rivolge la parola. A mia moglie, al mercato, danno sempre la roba migliore, ma mai una confidenza. I bambini non picchiano i miei figli, ma non giocano con loro. Sono rispettato, ma mai amato. Sono tollerato, ma mai benvoluto. Nessuno lancia sassi alle mie finestre, nessuno sporca i muri di casa mia, ma nessuno ne varca mai la soglia. Gli sguardi che si posano su di me per la strada rivelano l’odio e la paura, ma quando faccio il mio mestiere gli occhi della folla son tutti su di me, famelici di quella fame che attanaglia Parigi da sempre, con una cupidigia che somiglia all’amore, quello cattivo. Cammino per le strade a testa alta, ma tutti accelerano il passo, tutti mi sfuggono. Sono sempre da solo. Sono il boia di Parigi.

È un mestiere che si eredita di generazione in generazione, il mio. Mio padre era boia, mio nonno era boia. Come il falegname lascia il mestiere in eredità a suo figlio, così fa il boia. Siamo servitori dello Stato. Abbiamo servito la Corona prima, adesso serviamo la Repubblica. Nessun governo sostituisce il boia, e non lo fa solo perché sostituirlo non è facile. La morte va sempre assaporata a piccole dosi, conviverci non piace a nessuno, ci vuole un lungo addestramento.

Io la vedo, la Morte. Soprattutto quando ho bevuto abbastanza da dimenticare pure le macchie di sangue che ormai non vanno più via dai miei vestiti. Mi sghignazza in faccia, si beffa di me. Talvolta mi parla. “Un giorno ti farò un regalo, Sanson”, mi dice. Me lo immagino. Mi segue come una vecchia cagna. Non vedo mai i suoi occhi. Il giorno che li vedrò, credo, sarà l’ultimo, e a volte me lo chiedo come sarebbe, lasciarmi abbracciare da lei. Ma stavolta non voglio raccontare una storia di morte. Stavolta, almeno credo, voglio raccontare una storia d’amore.

La taverna si chiama Disperazione. Spicca sulla parete un’immagine macabra: uomini e donne, nobili e plebei, giovani e vecchi danzano al ritmo della musica di un violino, suonato da uno scheletro incongruamente sorridente. Il proprietario si rifiuta di ridipingere la parete e toglierlo di lì, sostiene – vecchio bastardo –  che gli porti  fortuna. Il posto è famigerato per le sue frequentazioni: io, il boia Sanson, sono cliente fisso, sempre solo, sempre isolato, ma ho un posto riservato. A bassa voce, si mormora che io porti lì i condannati a morte a bere il loro ultimo bicchiere. Ed è vero. C’è poi qualcosa di esaltante, per qualcuno, nell’idea di bere dalla stessa tazza di un uomo cui è stata tolta la vita. Il proprietario – vecchio bastardo – scrive sui boccali il nome del condannato, perché gli avventori possano pure scegliere.

Spiccavano, quella sera, fra la manica dei disperati, due giovani sconosciuti, trasudanti vita. Per me c’era un che di offensivo e al tempo stesso commovente nella vita che emanava da loro. Alcuni fra i clienti della ‘Disperazione’ rimpiangevano il tempo passato e perduto, altri pensavano ai figli lontani o morti. Un suonatore di fisarmonica, patito nell’aspetto e piegato nello spirito, a stento staccava loro gli occhi di dosso. Io a stento staccavo loro gli occhi di dosso. La Morte, quella sera, non c’era, forse offesa da tutta la loro rutilante vita.

Bevevano birra e parlavano fra di loro, incuranti della risata della Morte danzante dall’affresco, come tutti i giovani si sentivano immortali.
Quasi attratto dalla luce come una falena, mi avvicinai cauto. Volevo per me parte della loro vita. Li credevo due giovani nobili, e mi sbagliavo: solo uno era nobile, solo uno era un giovane. L’altro era una ragazza. Una ragazza vestita da uomo con i capelli d’oro, e un ragazzo dall’aria gentile e dagli occhi preziosi. Io non lo so perché lo feci, sarà che già ero stufo della morte, o sarà che son sempre stato brutto e grosso, con un corpo enorme che da solo fa paura, che non so mai come muovere e che sembra fatto apposta per sollevare una mannaia. Però mi misi accanto a loro, facendo finta di non vederli come loro non vedevano me, perduti in tutto un altro mondo, e ascoltai i loro discorsi, ogni parola. Quanto ridevano. Io non sono abituato alle risate.

Mi fu evidente presto quanto quel ragazzo fosse innamorato. Parlava di finimenti per cavalli, e poi di turni di guardia da lei stabiliti, o anche di cose inutili da aristocratici, ma di fatto le stava dicendo che l’amava, con ogni sguardo, con ogni gesto, tranne che con le parole. Lei invece capiva solo le parole. Non comprendeva i cenni, le mani, gli occhi. O forse non voleva, chissà.

“Toccala”, gli dicevo a bassa voce e mezzo ubriaco  “Occhi dolci. Dolce dolce dolce mano. Io sono solo qui. Qual è quella parola nota a ogni uomo? Digliela. Io sto tranquillo qui da solo. Anche triste. Toccala, idiota”
 
E quasi mi avesse sentito, quello sprovveduto cambiò argomento, cominciò a parlare degli amori della regina, dell’autruchienne, che il diavolo se la porti, pure lei. Non poteva resistere, lo vedevo, senza parlarle in qualche modo d’amore. Tutta quella vita mi feriva. Lei invece lo ascoltava, ma non pensava a lui. Io la conosco, la gente. Aperture e chiusure, questo era lei.
 
“André, su questo amore si fanno troppe storie, si scrivono troppi romanzi” gli disse, netta come chi vuole evitare un argomento che non è in grado di affrontare.
 
André, si chiamava lui. Non un brutto nome. Significa ‘uomo’.
 
“Invece no, Oscar. L’amore è il sentimento più naturale che ci sia. Non si sceglie e va meritato”
 
Inciampava in ogni sillaba.
 
“Troppo larga, la prendi troppo larga” gli mormoravo “L’amore che non osa pronunciare il suo nome. Fatti sotto, ragazzo, smettila di meditare”.
 
“Dobbiamo pensare a…” e qui lei disse qualcosa che tagliò il discorso.
“Non ti rende la vita facile” sogghignai, divertito.
Pensai però che lui se la fosse giocata male. La scelta, il merito, tutte storie. Li osservai ancora, tutta la vita che irradiavano senza accorgersene, mentre lo scheletro ci rideva in faccia. I mei occhi piccoli e infossati nella carne incontrarono brevemente il cielo di lei. Lo compresi, il ragazzo.
Oscar, nella lingua del popolo, significa Dio e la spada. Che bella, che bella, tutta quella vita…
 
Adesso hanno inventato la ghigliottina. Il 25 aprile 1792 ho giustiziato il primo condannato con la Louisette, un tizio che aveva rubato per fame. La testa cade in un catino di zinco, io la raccolgo per i capelli e la mostro al pubblico. C’è sempre stata folla alle esecuzioni. Fino a pochi anni fa, io dovevo fare tutto da solo: un’esecuzione richiede abilità e destrezza, una spada affilata, la totale collaborazione del condannato, che deve stare fermo e immobile. Alcuni boia finiscono per dare uno spettacolo da macellai, non colpiscono bene, vanno a lavoro ubriachi. Io mai. Affinché il condannato collabori son necessarie tranquillità e presenza di spirito. Io vado a trovare tutti, la notte prima. Prego con loro. Nessuno rifiuta mai il boia, neppure quelli che rifiutano il prete. Mi lasciano i loro ultimi pensieri. Accanto a loro, c’è sempre quella cagna in nero che sorride. “Presto ti farò un regalo, Sanson”, mi dice a volte. Le sputo in faccia. E poi, a quelli con la testa sul ceppo prima, a quelli con la testa nella macchina adesso, sussurro sempre una frase. Tutti pensano che sia qualcosa di terrificante. Io dico loro: “Stasera gli angeli sussurreranno al vostro orecchio”.

Lo rividi, quel ragazzo, anni dopo, alla ‘Disperazione’. Non lo riconobbi subito, era cresciuto, era un uomo. Era un uomo solo e disperato, questo lo capii. Si mise al tavolo sotto l’affresco, a bere e a guardare la Morte che gli rideva in faccia. Non si rendeva conto, benedetto ragazzo, che stavolta la Morte ce l’aveva accanto.
Io sì, invece. La luce di lui era stata come risucchiata da una tenebra nera, nera, nera – nere son le ombre dei colpevoli, buie son le colpe degli incolpevoli. Lei gli si avvicinava.

“Lascialo” le mormorai “Lui no”.

Sghignazzava la lupa nera, lo desiderava per sé.

“Lascialo” le mormorai ancora, da dietro il mio boccale “Ti do da mangiare abbastanza perché tu possa risparmiare lui, maledetta strega”.

Non resistetti più. Mi alzai e gli andai vicino e presi una sedia e mi ci buttai sopra.

“Che c’è che non va?” gli domandai, come se lo conoscessi, come se fosse obbligato a dirmelo.

Lui alzò gli occhi e sembrò vedermi a stento.

“E togliti quel ciuffo dal viso. Ti fa sembrare più addormentato di quanto non sia” gli dissi, per scuoterlo un po’. Mi sorrise di malavoglia.

“Sarebbe inutile, monsieur. Quest’occhio non vede più… non vede niente…” mormorò.

“È per questo che corteggi la morte?”

Trasalì.

“No, non è per questo” ammise, quando speravo che negasse.

“Lascia perdere, Sanson. Hanno vinto i suoi demoni. Forze ctonie e ancestrali lo hanno chiamato a sé” mi disse, la cagna nera.

“Ma sta’ zitta, vecchia cariatide” gridai, mentre lui mi guardava appena incuriosito “E tu, ragazzo, smettila di commiserarti. Hai ammazzato qualcuno? Hai debiti di gioco? A tutto c’è rimedio. Non occorre pensare a buttarsi nella Senna”.

Mi osservò con lo sguardo opaco e luminoso degli ubriachi, degli esaltati e dei penitenti.

“Sono stato io. Sono state queste mani. Lei è così calda. Non credevo che le perle fossero calde. Voi lo sapevate, monsieur? E che il suo profumo rendesse folli? Voi lo sapevate? Tanto da volerne ancora e ancora. Lo sapevate, voi, che si può volere e non volere insieme? Che l’oro e l’acqua profumano come i gelsomini, lo sapevate?”

“Ma certo che lo sapevo, pezzo d’asino. A tutto c’è rimedio. Tu non devi stare qui. Non ci si viene così, alla ‘Disperazione’. Non ci si viene così giovani e così tristi. Adesso tu vai a casa e domani sera cambi osteria. Non ti voglio più vedere in questo buco infame” gli dissi, netto.

“Domani…” mi disse, come se la parola per lui non avesse senso.

“Sì, proprio. Vai alla Bonne table. Ci saranno i soldati della Guardia di Parigi a festeggiare il giorno di paga, sarà certo più allegro di qui. Devi giurarmelo, giovane!”

Mi osservò incerto.

“La Guardia della città…” ripeté, come inebetito, ma con un guizzo di vivacità.

“Ma sì, a tutto c’è rimedio. Portale a casa, le tue mani. Ti accompagno al tuo cavallo”

La cagna nera ci lasciò fare. Lo vidi sparire, sul suo cavallo che sembrava aver più senno di lui.

“Cosa hai combinato?” mi domandai, osservando la Luna che ne delineava la sagoma “Cosa accidenti puoi aver combinato? Proprio tu che tremavi cercando le parole da dire a lei”

La Morte era al mio fianco, non l’aveva seguito. Sghignazzava.

“Non te lo sei preso, vecchia lupa. Grazie”

Non ne vedevo gli occhi.

“Non è merito mio, non è merito tuo. Un giorno ti farò un regalo, Sanson”

Bestemmiai, ma ero contento. Io me la ricordavo, tutta quella vita.
 
Una volta mi venne detto da un mio superiore che, con la ghigliottina, la morte era troppo pulita. Che dovevo tagliare una mano al condannato, prima, per essere sicuro che soffrisse. In altri Paesi, le beghine e i ragazzini si litigavano le mani dei condannati, perché poi ne fanno dei talismani. Come nel nostro vengono a raccogliere il sangue per poi farne chissà che. Io mi imposi con tutta la mia mole. “Fatelo voi, se vi aggrada” dissi, sapendo che nessuno vuol fare il boia. Quello non fiatò, e ritirò il consiglio. Io certo andrò all’Inferno, ma non per questo. Non per questo.
 
Il 14 luglio 1789 io c’ero. Avevo un fazzoletto sul viso, ma non credo sia stato per questo che nessuno mi notò. Orribile e meraviglioso fu il momento. Ci credevamo tutti, in un mondo migliore, tutti. Vallo a spiegare che le Rivoluzioni sono una gran cosa, ma solo a distanza. Sul momento era solo urla e rumore e fetore degli escrementi di chi se la faceva sotto e odore di polvere da sparo e sangue. Ma io c’ero, in mezzo a mezza Parigi che stava nelle retrovie. Io allora non lo sapevo che avrei decollato Luigi XVI, e poi Marie Antoinette; non lo sapevo che la Morte mi avrebbe sussurrato all’orecchio la maledizione di Jacques de Molay alla dinastia capetingia, perché dei Templari io non sapevo nulla;  non credevo che le ultime parole pronunciate dalla regina austriaca sarebbero state le scuse per avermi pestato un piede; e neppure sapevo che avrei messo sotto la Louisette  il mio amico Danton, che qualche volta beveva con me, alla zitta, alla ‘Disperazione’. Io allora non lo sapevo cos’era Robespierre, e neppure che avrei tagliato la testa anche a lui, con la mascella slogata e tutta la sua alterigia che ormai sarebbe stata solo un ricordo. Io so solo che tutti chiedevamo giustizia, e che tutti ci credevamo.
 
Però lei la vidi, sotto la Bastiglia. Io rimasi immobile a fissarla, perché vidi Giovanna d’Arco che si muoveva fra noi, e fui incantato dalla luce cangiante dei capelli nel riflesso del rombo dei cannoni. E avrei voluto correre a dire che era troppo esposta. E le vidi, a distanza, le sue lacrime sul volto, mentre ordinava di fare fuoco. E tutta quella vita… non ne aveva perduto un soffio. Io avrei voluto dirglielo, di non stare così esposta, bersaglio facile, lei che era il comandante. E mi chiesi dove fosse lui, finché non lo vidi.

Aveva ancora la Morte accanto, e ancora avrei voluto scagliarmi contro la vecchia, gridare di non prendere loro; ma mi accorsi che c’era qualcosa di strano, pure in mezzo a quell’inferno e a quel puzzo di umanità. Ecco, quel ragazzo era fermo, pulito, e aveva gli occhi – tutti e due – vividi, lucenti. Li incontrai quando mi salutò con un cenno, sorridente. Non era vivo, anche se era più reale di me. Aspettava.

E la Morte lo lasciò andare dove voleva. Oscar – il Dio e la spada – era a terra, colpita. Lo avevo detto, lo avevo detto: troppo esposta. E allora la vidi alzarsi e staccarsi da sé, non lo so cosa vidi, per chi crede posso dire che vidi l’anima, ma non so cosa vidi, non lo so più. Però quei due ragazzi si abbracciarono, si ritrovarono, si baciarono davanti a me e, mentre tutto intorno era morte e pianto, sentii tutta la loro vita, come l’avevo sentita quella sera, e invidiata e amata quella sera, io che conosco solo la Morte e la disperazione e le ultime parole dei condannati. E io lo vorrei dire che, dopo quello che ho visto, ci credo che l’amore è il contrario della morte, che vince anche sulla morte, e la Morte non se ne risente, la Morte pietosa, la Morte viscida e desiderabile, la cagna nera; lo vorrei dire che la Morte sorrise compiaciuta, e che io adesso lo so che gli occhi della Morte hanno i colori del cielo, che verrà la Morte e avrà i tuoi occhi, ragazza bella e fiera, vestita da uomo, capace di baciare come una donna.

Mi fecero un cenno di saluto, quei due, in mezzo all’odore della polvere da sparo e alle urla e al pianto e alle bestemmie, e alla Bastiglia che crollava, e a un mondo che finiva. E io ricordo questo, io che sono il boia di Parigi: il 14 luglio vidi due giovani che andavano insieme verso la vita, accompagnati dalla Morte benevola, dalla Morte che sorrideva, dalla Morte che aveva i suoi occhi.

“Ti ho fatto il tuo regalo, Sanson” mi disse la vecchia cagna, con voce diversa.

Immobile, nella confusione e nella esaltazione e nel fango, vedendo loro allontanarsi, io seppi dire solo una cosa – e la dissi sorridendo - : “Gli angeli sussurreranno al vostro orecchio, stasera”.
 


Pago debito a 1793 di Niklas Natt och Dag per il Trionfo della Morte. Charles-Henry Sanson è diventato un personaggio, il cui reale carattere ignoro; e ovviamente tutto appartiene a Riyoko Ikeda. All’interno della storia: i fumetti sceneggiati da Paola Barbato, James Joyce, Cesare Pavese e adesso nemmeno mi ricordo più chi. Storia postmoderna. Lo spirito è tutto di Sacrogral.
  
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