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Autore: sacrogral    19/01/2021    5 recensioni
Il titolo lo devo a Ungaretti. Qualcuno ha visto qualcosa del poeta nella storia, ma credo sia essere troppo indulgenti.
Storia ambientata in un luogo che sta diventando sempre più presente nelle mie storie.
E ho rubato un momento perduto a madamigella e ad André.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Non è un’osteria come le altre, la Disperazione. C’è chi sostiene che lì soffi lo Spirito. Che poi è un modo per dire che è il ricettacolo di tutti i pezzenti di Parigi.

L’affresco della morte ridente, nel bene e nel male, è il suo punto di forza. Il Trionfo della morte dipinto sulla parete, alla destra di chi entra, intendo. Il gestore, uomo di rara stazza e bruttezza, sostiene che sia stato dipinto da Caravaggio, quello della Morte della Vergine acquistata da Luigi XIV. Michelangelo da Merisi non ha mai messo piede a Parigi e mai ha dipinto affreschi di Trionfi, tantomeno nelle osterie, eppure c’è qualcosa nell’ispirazione realistica e cupa, nella sprezzatura del disegno e della luce, che potrebbero ricordare, a un osservatore fino, i tratti del pittore italiano. C’è chi invece sostiene che sia stato il diavolo in persona a lasciarlo lì, in tempi lontani. Son quelle storie che si tramandano di padre in figlio, alla Disperazione.

Certo quella pittura non è di buon auspicio. Ma nessuno, fra gli avventori, è alla ricerca di fortuna, o spera di trovarne. Alla Disperazione, incastrata fra i bui edifici di rue Saint-Lazare, ci si giunge disperati, com’è giusto che sia, dopo un lungo viaggio, dopo giornate di fiele. Ci si vede appena, l’oste non ha voglia di sprecare candele. La Morte ti ride in faccia, e ricorda ogni momento che è democratica, e cattura uomini e donne, vecchi e bambini, felici e infelici, aristocratici e plebei.

Il boia Sanson è ospite fisso: nessuno gli rivolge mai la parola, ma ha un posto riservato. Parla da solo, spesso, o coi suoi fantasmi, gente che vede solo lui. Porta qui, alla Disperazione, i condannati, a bere il loro ultimo bicchiere. Poi il padrone lo conserva, e vi scrive sopra un nome, ed è come bere dalle mani della morte stessa.

Un suonatore di fisarmonica con una gamba di legno, uno dei tanti disperati accattoni di Parigi, ci viene a spendere il suo guadagno della giornata. Qualche volta suona, qualche volta parla, a tutti e a nessuno. La sua voce è quella del popolo francese. E poi ladri – ma alla Disperazione non si ruba, cane non morde cane, si complotta e basta – e poi assassini – ma alla Disperazione non si ammazza, quello si fa fuori. Qui si osservano i bastardi e gli onesti, i preti e i peccatori, i vecchi e i ragazzini che ballano al ritmo della Morte ghignante, che sorride in faccia a tutti.

E poi, talvolta, per caso, appare qualcuno che non c’entra niente. A volte qualcuno, ispirato dal suo angelo o dal suo demone, entra alla Disperazione senza pensarci, senza permesso. Ci entra troppo finito dentro e troppo indifeso, oppure, di rado, giovane e troppo felice. Ma mai se ne erano visti due come quelli che entrarono una sera qualunque, portandosi dietro la luce che lì dentro mancava. No, due così, alla Disperazione, non si erano mai visti.

E chi lo avrebbe detto, poi, che uno di quei due avrebbe avuto parte tanto ampia quando sarebbe giunto il momento? Chi lo avrebbe immaginato che un giorno poi non così lontano lo si sarebbe visto guidare l’assalto alla Bastiglia? Se non lo avessi visto con questi occhi, qualche anno dopo, io stesso non lo avrei creduto. Chissà se vale la pena, il diventar leggenda, quando hai già quello che desideri nelle mani, e la cosa più saggia sarebbe goderselo e vivere.

Io detesto anche solo l’idea di carità- la carità è l’elemosina, la disuguaglianza consacrata dalla bontà d’animo, vera o simulata che sia. Io concepisco solo la giustizia, quella a modo mio. Ma quei due – eccoli lì – a offrire da bere, a regalare denaro, di un buon umore per me soffocante, a ricordarmi lo stato miserando della mia vita. Quei due non erano gente da pidocchi e cimici addosso, né da abiti da straccioni. E neppure avevano timore che qualcuno tirasse fuori un coltello e li scannasse, così, per il gusto di farlo. Forse lo sapevano che qui non si ammazza. O magari non sapevano nulla, c’erano capitati per caso. Con quella gioia di vivere addosso.

Quella sera, credo che ciascuno di noi disperati li abbia guardati e studiati con i propri occhi, e facendoci noi tutti un esame di coscienza di cui solo i disgraziati disonesti son capaci abbiam visto ognuno quello che voleva vedere. Louise la zoppa ci avrà visto la sua giovinezza riflessa, e anche se a venticinque anni ha ancora alcuni denti in bocca e quasi tutti i capelli in testa, son pronto a giurarci che per i capelli del biondo avrebbe venduto sua madre al mercato; August le grand, il nano deforme, di sicuro avrebbe dato la mano destra, l’unica che gli resta, per l’altezza di quell’altro; e chissà chi altro cosa, qui dentro. Io avrei dato l’anima per un momento di quella gioia. La gioia purissima senza movente. Non avevano l’aria che abbiamo tutti qui, quella piena di rabbia di chi non ha avuto ancora il tempo o l’occasione di mordere fino in fondo le cose e le persone. Tutti qui ad aspettare che Parigi si lasci toccare e prendere, tranne loro due.

E siccome li guardavano tutti, seduti nelle botti mezze ammaccate che qui fungono da sedie, ecco, siccome di sottecchi li spiavano tutti – pure il boia, con quella sua faccia da beccamorto, che non sembra mai accorgersi di nulla ma poi magari vede tutto – ecco, allora anch’io smisi di farmi i fatti miei.
E possa cadermi il cielo in testa se non li trovai immersi in discorsi d’amore. Intendo d’amore, proprio. Alla Disperazione! O meglio, il giovane coi capelli scuri ne parlava, l’altro stava lì, mezzo a ascoltare, mezzo a distrarsi, a osservare con una certa tristezza, mi parve, quelli che aveva attorno.

“Lascia che ti mostri cosa intendo” disse, ad un tratto, forse esasperato dalla scarsa attenzione.

“Cosa vuol dire ti mostri?” gli chiese l’amico e, già, me lo chiesi anch’io. Che mai voleva dire con ti mostri?

“Devi chiudere gli occhi, però, altrimenti non funziona”.

“Sempre meglio”, dissi, fra me e me. In effetti qualcosa di strano c’era, in questi due. Troppo delicato, e fin troppo bello, il biondino. E troppo educato, e fin troppo – come dire – protettivo, ecco, quell’altro. Protettivo come può esserlo un uomo con una donna. Oppure – sogghignai – con un amico particolare. Nulla di cui stupirsi, siam tutti gente di mondo.

“André, se si tratta di uno dei tuoi scherzi…”

“Ma no, stai tranquilla”.

Bene, mi dico, questa è bella davvero. Gli si rivolge al femminile, pure. Forse ho capito male.

Si è fatto convincere, quello biondo. Ha chiuso gli occhi. Me lo studio con più agio. Ha la pelle liscia come un bambino. Ci credo che faccia venire pensieri strani. E adesso quell’altro gli ha preso la mano. Ma che razza di mondo. Son venuti per questo, a mischiarsi ai disperati.

“Non aprire gli occhi”.

Questa scena è immonda, penso. Va bene tutto, ma stasera, qui, soffia proprio lo Spirito. E meno male che li sto osservando solo io, ora come ora. Certo che, a guardarla bene, quella mano… forse un pianista… forse un poeta… perché una mano così delicata e così elegante… bisognerebbe che tornassi alla birra, sennò viene voglia di toccarla pure a me.

Se la rigira, lui, quella mano. Se la tiene appoggiata sulla sua. Poi sfiora il polso, con due dita, con una carezza leggera.

“Sai, Oscar, ci sono difetti che la gente non ammette volentieri, e altri sì, come se fossero medaglie al valore. Non aprire gli occhi. Per esempio, nessuno riconosce mai di essere vile, mentre tutti dicono senza difficoltà di esser testardi. Pensano che sia indice di personalità forte. Invece, il non cambiare idea, il non ascoltare gli altri, è solo segno di ottusità. Non aprire gli occhi”.

Quel ragazzo ha una voce che commuoverebbe i sassi. E quell’altro… che  Dio mi fulmini se quello non è donna. Io lo avevo sentito dire che ci sono donne che vestono da uomo, ma ai ricevimenti, alle feste a Versailles, mica in giro per le vie, mica nelle osterie più sordide di Parigi. Eppure quella è una donna, fatta e finita. E adesso le trema la mano.

“Invece l’idea portata avanti contro tutti e tutto è un’idea debole, o un’idea fortissima che può cambiare il mondo – non ci sono vie di mezzo” le dita di lui risalgono il palmo, e lo percorrono indietro, mentre parla d’altro, si infilano nel polsino della camicia della ragazza, lente, lente “È necessario saper distinguere, ma spesso non lo si fa. Quel che interessa è solo poter dire, a prescindere,  ho ragione io”.

La ragazza stringe gli occhi, forse vorrebbe aprirli. Possa finire arruolato negli Zuavi pontifici se riesco a spiegarmi come ho fatto a scambiarla per un uomo. Cieco, cieco. Possiede il collo di un cigno, la bellezza di un quadro. Vorrei vederle gli occhi sotto le palpebre serrate, subito.

“La realtà è un mutamento continuo. E la forza di vivere, che rende la vita una necessità e una gioia, si nutre di simboli quotidiani, rinnovantisi, esotici, bellissimi…”

Si porta la mano alle labbra, e depone la bocca lì, dove il dito indice e il medio si separano, e anche lui chiude gli occhi, e per un attimo restiamo tutti e tre immobili così, e io sono quel ragazzo. E tremo.

E d’improvviso lei scatta, si riprende la mano bruscamente, io torno alla mia birra calda, quel tipo ha lo stupore negli occhi.

“Cosa pensi di dimostrare, dimmelo!” si inalbera lei.

“Ma Oscar” le dice, con voce innocente, con aria innocente “Me lo hai detto tu che il desiderio è solo una favola per le sartine, che l’amore è ammirazione e stima e basta… e mi hai detto di provarti il contrario, cioè che esiste anche il brivido che ti gela le spalle. Io ho capito questo”.

“E perché mi hai detto di chiudere gli occhi?” gli chiede ancora.

“Perché, guardando in faccia me, avresti riso” ribatte, prontissimo.

Lei annuisce, e comincia a ridere sul serio, come rasserenata.

“Però hai tremato sentendoti toccare”, le dico col pensiero “Però hai tremato sotto la sua voce”, rammento rivolto alla Morte che ride.

Il boia gira di nuovo lo sguardo verso di loro. Tutta la Disperazione mi sembra tornare di nuovo reale adesso.

Io vedo di sfuggita lui che si passa la lingua sulle labbra, e si morde il labbro, a trattenere un sapore, prima di ridere con lei.

“E tutti quei discorsi sul senso della vita, André?” gli chiede, allegra.

“Verità sacrosante” afferma, mettendosi una mano sul cuore “Ma in certi momenti non conta ciò che dici, conta come lo dici”.

“Tu sei completamente matto” risplende lei nel sorriso.

Non ho assistito a nulla di davvero importante, quella sera. Le fogne di Parigi continuavano ad essere intasate. Gli storpi della Corte dei Miracoli infestavano le strade come sempre. La cagna austriaca dormiva ancora sotto baldacchini di velluto e oro. I cani si litigavano ancora tozzi di pane con uomini più famelici di loro. Non era cambiato nulla e poco sarebbe cambiato per anni a venire.

Eppure non ho dimenticato. E mi sono scaldato al ricordo. E io, che son tutto e niente, Michel Gobemouche, poeta fallito, pittore mediocre, ladro e buffone, accattone e flaneur, ho riconosciuto in loro quello per cui val la pena vivere. Non serve diventare leggenda se hai già tutto nelle mani. E quella sera ho scritto versi d’amore.
 
 
 
 
 
  
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