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Autore: SheHadTroubleWithHerself    19/01/2021    2 recensioni
Elisabetta è in perenne lotta con se stessa.
Mentre si lamenta della sua vita monotona, trema al solo pensiero di un cambiamento che possa stravolgerla.
Nella sua testa non può fidarsi di nessuno, e questo l'ha portata a chiudere diverse amicizie, ma ciò che brama di più è poter cadere sapendo che qualcuno l'afferri in tempo.
“Che cosa pensi potrebbe aiutarti a farti sentire meglio?”
“Una persona che riesca a farmi pensare che valga la pena svegliarsi ogni mattina e vivere un'altra giornata.”
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO UNO



“Allora, come ti senti?” è ormai la domanda di rito di Paola, la sua psicologa. “Come al solito, abbastanza... ma non abbastanza. A lavoro il clima è stress puro e a casa non faccio altro che chiudermi in camera.” spiega brevemente dando un'introduzione.
Questo percorso è iniziato sei mesi fa e nonostante gli alti e bassi sa che sta iniziando a funzionare.
“Che cosa pensi potrebbe aiutarti a farti sentire meglio?” il suo viso è sempre contornato da un sorriso sincero e con la giusta dose di preoccupazione. Elisabetta non si sente mai giudicata né compatita, semplicemente ascoltata. Ma quando sente quella domanda e la risposta inizia a farsi nitida nella sua testa il suo labbro trema. Non vorrebbe quella risposta, non vuole che quella sia la risposta a tutti i suoi problemi. “Vorrei semplicemente incontrare qualcuno...” e sebbene ci provi con tutte le sue forze, la sua voce vacilla facendo inumidire le pupille. “Qualcuno che possa stringermi in questo momento e che mi faccia sentire unica.” e mentre asciuga le sue lacrime un sorriso amaro le compare in volto, davanti a lei non riesce mai a mentire o nascondere le cose. “Una persona che riesca a farmi pensare che valga la pena svegliarsi ogni mattina e vivere un'altra giornata.”
La seduta sembra passare davvero in fretta mentre la psicologa le ripete con pazienza che ognuno ha bisogno dei suoi tempi e che potrebbe provare ad uscire qualche volta e iniziare a fare conoscenze. Ed Elisabetta ci pensa per l'ennesima volta mentre torna a casa in quella fredda mattina di novembre aspettando l'autobus. Quando arriva a casa la prima cosa che fa essendo da sola è cantare. Lo fa solo quando sa che nessuno può sentirla perché qualsiasi critica o giudizio non riuscirebbe a sopportarla, è una cosa troppo importante per lei per farsela distruggere. E' l'unico momento in cui sa di essere totalmente se stessa liberando tutta la voce che c'è in lei.

Decide di passare il pomeriggio libero dal lavoro camminando per le vie di Torino cercando di impiegare il tempo in qualcosa di diverso dall'accoppiata letto e computer. Si ferma poi in un bar e ordina un caffè macchiato e una piccola crostata che la chiamava dalla piccola vetrina del bancone. Ha sempre osservato ciò che è intorno a lei, in particolare come le persone si comportassero. Ha sempre invidiato quelle persone che si divertono a tal punto da essere fastidiosamente rumorose, e si è sempre sentita vicina a chi, come lei, era seduto da solo leggendo il giornale o semplicemente tenendo lo sguardo fisso su qualunque cosa. “E' libera la sedia?” chiede poi una voce che riconduce a una ragazza in attesa della sua risposta. Annuisce semplicemente e cambia traiettoria con lo sguardo constatando che ovviamente quel gruppo era troppo numeroso e le sedie non bastavano per tutti. A lei non capita mai. Lentamente il suo viso si spegne e sa che all'esterno tutti potrebbero notare la faccia totalmente inespressiva ma non può davvero farci nulla. L'unica cosa che adesso rimpiange è il suo letto, perché avrebbe potuto chiudersi in un bozzolo e piangere fino ad avere la testa dolorante. Le lacrime spingono, le sente bollenti ancora prima che possano scivolarle sul viso e non sa come uscire dalla situazione. “Va tutto bene?” sobbalza per la seconda domanda improvvisa e solo dopo qualche secondo si rende conto che un ragazzo le ha appoggiato una mano sulla spalla. Si scosta leggermente e lo guarda con un'occhiata confusa cercando di riordinare le idee. Riesce a vedere gli occhi lucidi o li ha fermati in tempo? Le fa davvero così tanta pena da farlo sentire in dovere di avvicinarsi? “Sì, grazie” risponde liquidandolo mentre si alza dalla sedia in legno cercando di abbandonare quel bar e ritrovarsi nel posto giusto.
Il ritorno a casa è lento come se ai suoi piedi avesse legato dei blocchi di cemento. Le cuffie la inondano di parole e melodie ma non le sta ascoltando, ha solo bisogno di anestetizzarsi dalla gente. Ha sempre voluto che qualcuno si accorgesse del suo dolore e che insistesse per poterla aiutare ma con il tempo che passa lei riesce sempre meno ad accettare l'aiuto. Si è ormai consolidata in lei l'idea che sia senza speranze e che le persone non ci tengono mai abbastanza. E probabilmente non vale la pena di aggiustarla viste le numerose crepe. Gli occhi pizzicano di nuovo e questa volta non ha voglia di ricacciare indietro quelle lacrime perché quello è l'unico modo per spurgare le coltellate inflitte nel tempo.

I giorni passano lenti e sempre uguali, Elisabetta fa addirittura fatica a ricordare il giorno della settimana ma almeno la sua collega non la tartassa come suo solito di richieste insulse. Sta ripiegando il tavolo colmo di jeans e magliette che assomiglia terribilmente a un campo di battaglia. Non si lamenta più dei clienti e della poca educazione che dimostrano, ripiegare sta quasi diventando una terapia. Pensa, riflette e analizza qualsiasi cosa le passi per la testa così tanto da distrarsi e non rendersi conto che un gruppo delle magliette sopracitate sono cadute rovinosamente a terra. Nota solo un ombra dietro di lei che con delicatezza le sistema lì di fianco in silenzio. Voltandosi nota che è lo stesso ragazzo di qualche giorno fa, e se ne accorge dalla leggera sciarpa rossa che indossa. Non riesce a capire come possa essersi ricordata di un dettaglio del genere, visto com'era ridotta quel giorno. Un timido sorriso le compare in volto e ha un piccolo brivido sulle braccia, le capita solo quando qualcuno compie un gesto cortese nei suoi confronti. Sussurra un piccolo grazie e pensa che probabilmente lui non l'abbia neanche sentita. Forse non si è nemmeno reso conto di chi sia. “Nessun problema” risponde con un cenno del capo accompagnato da un sorriso terribilmente tranquillo. Fa qualche passo prima di tornare indietro mormorando “Questo sorriso lo considero un progresso dagli occhi lucidi di qualche giorno fa”. Pensa che il suo volto possa prendere letteralmente fuoco, fortunatamente il ragazzo si allontana prima che lei debba pensare a una risposta. L'ha soltanto riconosciuta, perché si emoziona così tanto? Le mani sono paralizzate sullo stesso paio di jeans da almeno cinque minuti e si sbloccano solo a causa della voce della sua collega, Maddalena. “Riesci a recuperare le taglie vendute dopo che hai finito il tavolo?” e la sua voce è sempre sprizzante di arroganza e superiorità ed è il motivo per cui Elisabetta non riesce ad andare d'accordo con lei. Si limita quindi ad assecondarla come sempre annuendo alla sua richiesta. Segna su un piccolo foglio tutte le taglie mancanti dirigendosi nel magazzino esterno.
E' metà novembre e inizia ad esserci un'aria abbastanza fredda ma non l'ha mai sofferta così tanto. Ha solo una maglietta bianca a maniche corte ed una felpa nera legata in vita. Solleva la dura serranda e i suoi occhi registrano l'ennesima stanza perennemente in disordine. Cammina quindi tra i pacchi di vestiti ancora da sistemare chiedendosi per quanto ancora riuscirà a scampare una distorsione alla caviglia in quelle condizioni. Quel lavoro non dura molto fortunatamente e torna alla porta sul retro del negozio con una scatola di cartone riempita a metà riuscendo persino a chiudere la porta dietro di lei. La porta sul retro dà direttamente nel reparto uomo, riesce quindi a constatare che il ragazzo è ancora lì, probabilmente dentro un camerino visto che la tenda si muove. Sistema la scatola di cartone proprio vicino alla porta ricontrollando di aver prelevato tutto ciò che le serviva. “Mi daresti un consiglio?” sente poco lontano. Alza lo sguardo superando in altezza le lenti degli occhiali (gravissimo errore per i suoi occhi, ma non riesce a togliersi quel vizio) ed è ovviamente il ragazzo senza nome a parlarle. Si avvicina lentamente pronunciando la domanda di rito “Come posso aiutarti?” senza rendersi conto di aver già la risposta. “Pensi sia la taglia giusta?” Sta indossando un paio di jeans skinny blu scuro con qualche strappo neanche troppo evidente. Il tessuto definisce la forma delle sue gambe che non sono troppo voluminose o magre, è probabilmente il jeans perfetto per il suo corpo. Ora che non indossa più il cappotto può notare che è un ragazzo abbastanza asciutto e senza la sciarpa nota la linea della mascella totalmente priva di barba come le sue guance. Osserva poi il suo volto caratterizzato da labbra sottili e occhi scuri, forse neri, il tutto incorniciato da capelli castani leggermente ondulati. Lo sta davvero fissando, chissà da quanto tempo, si scuote quindi facendo poi finta di pensare ad una risposta come se la sua decisione potesse salvare la vita di qualcuno. “Sì, la taglia sembra essere quella giusta. Li senti stretti?” Lui si muove osservandosi allo specchio e sollevando le ginocchia per testare il tessuto per poi guardarla negando. “Allora ti consiglio di prendere questi.” sentenzia sperando di liberarsi presto della situazione, quello sguardo sembra volerla penetrare. Poi sgrana gli occhi, “Io n-non lo dico solo perché lavoro qui” giustifica immediatamente. “Oh, non preoccuparti, grazie mille per l'aiuto...” scruta poi la targhetta gialla che penzola da cordino allacciato al collo “...Elisabetta” termina rientrando nel piccolo camerino.
La giornata passa lentamente e, come ogni volta, Elisabetta si ossessiona all'idea di poter parlare di nuovo con lui. Solo perché è stato gentile con lei. E' davvero tipico per lei crearsi migliaia di storie e scenari quando incontra qualcuno che le ha concesso delle piccole attenzioni. Incastra ogni singolo particolare come se componesse un puzzle infinito per poi arrivare all'ultimo pezzo e distruggerlo, consapevole che non accadrà mai niente di tutto ciò che ha immaginato.

Passano parecchi giorni, e ogni mattina spera che quel ragazzo varchi la soglia del negozio e che magari le sorrida. Ovviamente non succede e semplicemente una volta che la saracinesca cade a terra si dirige verso casa. Le cuffie nelle sue orecchie sparano a tutto volume una canzone di cui non ricorda il nome, ma è lenta e malinconica e le crea un peso nel petto parola dopo parola. Avanza ormai per inerzia evitando tutte le persone presenti nel portico che parlano ridendo davanti a un Mc Donald e arriva al bordo del marciapiede. La canzone è finita, estrae il cellulare dalla tasca del giubbotto per cercarne un'altra e le macchine sfrecciano davanti a lei buttandole addosso ventate fredde a cui lei risponde chiudendo gli occhi. Cosa succederebbe se tutto finisse? Adesso. Ci ha sempre pensato riflettendo su cosa avrebbero fatto le persone intorno a lei in quel momento. A come avrebbero reagito i parenti e cosa avrebbero pensato le persone che l'avevano conosciuta. La vede perfettamente la macchina che si avvicina a velocità costante, è una macchina apparentemente nera e lucida e i suoi fanali la stanno completamente accecando e non c'è assoluta esitazione nel piede sinistro che cerca di spostare la figura davanti a lei mentre la pubblicità di Spotify le impedisce di ascoltare qualsiasi altro brano. Percepisce poi una pressione sull'avambraccio e si ritrova dopo pochi secondi sdraiata a terra con una smorfia dolorante sul volto. Emette un gemito di fastidio ed è completamente confusa dalla situazione, riesce solo a notare che le cuffie si sono staccate e qualcuno le sta ancora tenendo il braccio. “Ma non l'hai vista?” il tono di quella voce è quasi aggressivo e non fa altro che rimbombare nella sua testa peggiorando la situazione. “Stai bene?” chiede ancora e quasi le sembra di riconoscerla. Il palmo della sua mano sinistra brucia ma non riesce a prestargli attenzione a causa di due occhi scuri che la scrutano. Non è possibile, vorrebbe davvero riuscire a dirlo ma ha la gola è secca. La gente intorno a lei continua a camminare lanciando giusto un'occhiata incuriosita. “Sei tu.” sussurra poi il ragazzo che adesso sembra preoccupato, probabilmente perché Elisabetta non muove nessuno dei suoi muscoli facciali. “Riesci a sentirmi?” la sua voce è fioca e terribilmente spaventata, ma lei si sente totalmente paralizzata. Riesce dopo un paio di secondi ad annuire lentamente, il bruciore alla mano ritorna e si rende conti di essere ancora semi sdraiata sul freddo asfalto. La schiena è dolorante e mentre cerca di rialzarsi storce le labbra per reprimere ogni verso. “Aspetta, fatti aiutare.” Una volta in piedi le gira la testa, ma lui le sta tenendo entrambi i polsi mantenendola in equilibrio. La accompagna poi in una panchina della piazza e si avvicina ad una piccola fontana per bagnare quello che Elisabetta crede sia un fazzoletto. Una volta tornato seduto accanto a lei preme lentamente il fazzoletto sulla ferita e fa sì che lei emetta un sibilo. “Lo so, lo so” cerca di confortarla ma lei riesce ancora a percepire la preoccupazione o paura che risiede sul suo volto. “Grazie” è l'unica parola che riesce a pronunciare dopo un'eternità. E' riuscito ad eliminare gran parte della polvere dalla ferita ma ovviamente un fazzoletto di carta non è lo strumento giusto. Il suo sguardo è basso quando lui sospirando le fa l'ennesima domanda, “Che cosa è appena successo?”. Per un secondo lo guarda e cerca di studiare la scusa migliore per poter allontanare e finalmente tornare a casa. “Penso di essere scivolata, o forse non ho visto la macchina, non c'è bis-”, “Ero lì. Eri ferma e hai puntato il tuo sguardo verso la macchina senza mai togliergli gli occhi di dosso.” tuona anche se subito dopo sussurra delle scuse. “Non mi è sembrato un incidente.”, “Ascolta, grazie mille per l'aiuto ma va tutto bene. Non so cosa mi sia successo, semplicemente adesso è tutto a posto. Io devo tornare a casa.” informa Elisabetta mentre si rialza. Dissimula perfettamente i piccoli dolori e senza alcun saluto si dirige verso casa sua.
Appena varca la porta di camera sua i suoi occhi perdono ogni controllo e delle calde e silenziose lacrime solcano le sue guance. Era così vicina a risolvere ogni suo problema, a spegnere tutto senza più doversi preoccupare di nulla. Non sa esattamente cosa pensa del destino, ma se così fosse allora sente qualsiasi entità o divinità contro di lei per non averle permesso di arrivare così in fondo. Non ci aveva mai provato sul serio. Aveva vagliato ogni possibilità ma la paura di non riuscire ad arrivare fino in fondo l'aveva sempre fermata. E come volevasi dimostrare, era successo anche quella sera. E' così sconvolta dall'accaduto da non aver minimamente pensato a cosa dire ai suoi genitori del palmo della mano graffiato. Ora che la ferita è pulita e disinfettata vede due solchi simili a due binari, non troppo profondi ma ancora colorati di un rosso acceso. Quando le viene ovviamente chiesto della ferita, risponde di essersi graffiata a lavoro ma che non è niente di grave e fortunatamente, come ogni volta, i suoi genitori non indagano oltre.





Eccomi qui dopo esattamente sei anni di inattività! Sono già stremata dalla pubblicazione del prologo e del primo capitolo. Ottima partenza.
Mi rendo conto che non sia poi così allettante questa storia data l'immagine cupa che vi ho dipinto (soprattutto in questo periodo storico), ma spero possiate apprezzare il suo realismo.
Ringrazio comunque ognuno di voi che perderà qualche minuto anche solo per avere un'idea di ciò che sto scrivendo. Se avete critiche, consigli o considerazioni da fare a riguardo non createvi alcun problema a farmelo sapere!
   
 
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