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Autore: Soe Mame    20/01/2021    5 recensioni
Il momento arriverà.
Continua ad aspettare, continua ad aspettare che arrivi.
Continua a sperare, continua a sperare che arrivi.
[1649-1738: È bastato meno di un secolo per cambiare tante cose tra il Sud Italia e la Spagna.]
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Belgio, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Da un certo punto di vista, era meglio così. Il Palazzo Reale di Palermo era ancora da risistemare, e poi avrebbe dovuto ospitare troppa gente importante... No, meglio lasciarlo a chi aveva appena acquisito un titolo tanto forte quanto breve. Re. Meno lettere delle dita di una mano.
Era meglio così, perché lui, nel Palazzo Reale di Palermo, c'era già stato, in un tempo ormai lontano persino nei suoi ricordi. Non voleva riportarlo alla luce. Non in quel momento.
Era meglio così, perché evitare quella graziosa fanciulla dai capelli castani e dall'inconfondibile ricciolo ribelle sarebbe stato troppo difficile. Poteva fingere di non vedere un ragazzo, ma non era sicuro di riuscire ad ignorare una donna per troppo tempo.
Faceva uno strano effetto essere in un albergo, avere una stanza per sé ed essere nella posizione di dare ordini. Non l'essere in un albergo e avere una stanza per sé, era strano l'essere nella posizione di dare ordini. L'albergo e la stanza per sé facevano uno strano effetto perché era nella posizione di dare ordini.
Lovino scosse la testa. C'era una cosa che doveva sistemare. Per questo si era fatto dire quale fosse la
sua camera. Era il tramonto ed era certo che la stanza non fosse vuota. Se anche lo fosse stata, l'avrebbe aspettato.
Bussò. Era una persona educata,
lui. La porta si aprì e sulla soglia apparve un idiota. Quando incrociò il suo sguardo, divenne un idiota stupito - Dato il motivo del suo stupore, era ormai ovvio che non avrebbe mai potuto aspirare ad un barlume di intelligenza.
«Lovi?»
«No, sono Sicilia.»
Il cretino ebbe la decenza di non credergli. «Cosa-»
«Mi fai entrare o devo andare a prendere una sedia?»
Per tutta risposta, Antonio si fece da parte. Dopo un secondo, però. Non perché non volesse, la sua espressione era troppo cristallina per far pensare che nella sua testa ci fosse qualcosa di diverso dalla confusione.
La stanza non era troppo diversa dalla sua: letto, armadio, scrittoio, sedia, grossa finestra, tende, tappeto. Romano si sarebbe potuto sedere sulla sedia, ma preferì sedersi sullo scrittoio. Era vicino alla porta e lontano dal letto. Al lato del letto stava la valigia, aperta, e ciò non poteva che significare che l'idiota ci stesse armeggiando fino ad un minuto prima. Quello, o Antonio aveva iniziato a trovare artistica l'idea di una valigia aperta in mezzo ad una stanza.
«Non mi aspettavo-»
«Che fossi qui?» Gli lanciò un'occhiataccia. «Credevo mi avessi visto, all'incoronazione.»
Era rimasto a guardare, senza mescolarsi alle figure più importanti. Quello era il momento di Sicilia, e di Don Carlo. E poi, dal lato del pubblico c'era una vista molto più ampia e completa.
«Che volessi parlarmi.»
Romano trasalì appena. Sperò che l'altro non l'avesse notato. Qualche forza ancestrale doveva avergli consigliato di non avvicinarglisi, perché era tornato alla valigia - che aveva chiuso senza troppa delicatezza. Pensandoci bene, forse la forza ancestrale era più il sospetto circa il contenuto delle sue maniche.
«Sono solo venuto a salutarti.» chiarì Lovino: «So che parti domattina.»
«Avresti potuto farlo domattina.»
«E invece no.»
Antonio sospirò. Poi sorrise. Eccola, l'altra espressione che testimoniava quanto fosse stupido. «È stata una bella cerimonia.» Non lo stava guardando negli occhi. «Sicilia sembrava felice.»
Romano non disse nulla. Rimase a guardare quell'espressione serena e quegli occhi troppo attratti da qualsiasi cosa non fosse lui.
«Ora hai un nome davvero lungo, eh?»
«Regno di Napoli e Regno di Sicilia.» disse Lovino, piano. «"Due Sicilie" andrà bene, se mi vuoi avvisare in tempo.»
Quel sorriso si fece più ampio. E quegli occhi continuavano a guardare il resto della stanza. «Spero di ricordarmelo.»
«È breve, se non te lo ricordi è perché non lo vuoi.» Forse era stato troppo crudele. Ma non poteva permettergli di continuare ad evitarlo.
Passò troppo tempo prima che Antonio parlò di nuovo. «Sei una nazione, ora.»
«Lo sono sempre stato.»
«Già.» Non sembrava imbarazzato da quel lapsus. Forse non se n'era neppure reso conto. Più probabile stesse solo dicendo cose a caso per prendere tempo.
Lovino puntò i gomiti contro le ginocchia. Aveva tutto il tempo che voleva. E non aveva intenzione di uscire da quella stanza prima di aver sistemato tutto.
L'ultima volta che l'aveva visto era stata esclusa qualsiasi possibilità di saluto. Difficile salutare in modo decente qualcuno, se il qualcuno aveva una ferita da stiletto e l'altro aveva uno stiletto.
«Sei...» Forse Antonio non aveva più punti a caso da guardare. «Ora sei... Dos Sicilias.»
«Già.» Lo disse come l'aveva detto lui. Lui non parve farci caso.
Sì, doveva aver esaurito i punti a caso in cui guardare. Spagna chiuse gli occhi. Per uno, due, tre secondi. Quando li riaprì, finalmente, riuscì a guardare dove avrebbe dovuto.
«Sei indipendente, Lovi.»
Romano serrò i pugni. Con un solo sguardo, gli aveva attaccato l'incapacità di guardare nel punto giusto, perché il suo atterrò sulle tende. E le tende non avevano alcun motivo di essere guardate in quel momento, quindi era grave.
«Sì.» La voce uscì appena. «Sono indipendente.»
Fu come togliersi un sasso dal petto. Un sasso enorme, pesante, di cui non si era mai davvero reso conto. Quella leggerezza improvvisa quasi lo fece rabbrividire. Quello, e le parole che aveva sentito. Era conscio di quanto quel pensiero fosse stupido - Lui non aveva più nulla a che spartire con il Regno di Spagna. Lui si era liberato di Austria, il valore di quelle parole da parte di un suo vecchio padrone era identico a quello di qualsiasi altro suo vecchio padrone.
Anche se non gli sarebbe importato nulla di sentire quelle stesse, identiche parole dette da Francia o Nordmaenner o Byzantium o Chiccazzoseliricordavatutti.
«Però» Antonio parlò di nuovo: «sono un po' triste.» Quelle parole suonavano come un «Fa un po' male.» detto mentre si ha uno stiletto nell'addome.
«Perché?» Lo sapeva benissimo il perché.
«Perché...» Finalmente, quel sorriso da idiota iniziò ad incrinarsi. «Ora sarai lontano.»
Quella cosa che doveva sistemare. Qualcosa che non era mai davvero riuscito a sistemare nel modo giusto.
Scese dallo scrittoio e si avvicinò al cretino. Era rimasto in piedi al centro della stanza, giusto per rimarcare quanto fosse tonto.
«Tu» Le mani andarono alla sua camicia. «la devi smettere di trasformare ogni cosa in una tragedia.» Fece passare i bottoni nelle asole, forse un po' più velocemente di quanto avrebbe voluto.
Antonio non rispose. Era troppo preso dal guardarlo con quell'espressione da idiota.
«Cosa stai facendo?»
Quello fu un colpo basso e fece male. Così male che Lovino schiantò la testa sul suo petto, rischiando di tatuarsi la croce sulla fronte. Quando riuscì a rialzarla, incenerì quell'emerito coglione con la peggiore delle occhiatacce che fosse in grado di fare.
«Ti fotto la camicia, perché è troppo bella per stare su un bastardo come te.»
Spagna poteva essere stato incredibilmente acuto nel riconoscerlo come Romano e non come Sicilia, ma in quel momento non fu altrettanto sagace. «Avresti potuto dirmelo, te l'avrei lasciata, domani.»
Con calma - Con
molta calma -, Lovino si appellò a tutti i santi che ricordasse e, per aiutarsi, andò in ordine alfabetico. Gli ci volle qualche minuto. Era alla lettera N quando un pensiero invase la sua mente. Scostò un lembo della camicia ormai aperta. Si stupì di come ciò che sentisse non fosse compiacimento né delusione, ma pura e semplice sorpresa.
«È già guarita?»
Antonio annuì. «Perché, avresti voluto vederla?»
«Assolutamente sì.» Sfiorò il punto in cui, fino a chissà quanto tempo prima, doveva spiccare la cicatrice lasciata dallo stiletto. «Sarebbe stato un trofeo.» Quasi gli dispiaceva che le cicatrici delle nazioni non funzionassero come quelle umane. Aveva imparato a distinguerle molto bene.
La domanda giunse dopo qualche istante. «Lo rifaresti?» E fu detta in un sussurro.
«Sì.» Nessuna esitazione. «Se dovessi rompermi i coglioni.» aggiunse.
Neppure stavolta Antonio parlò.
«Domani te ne torni a casa tua.» Lovino incastonò gli occhi nei suoi. «E vedi di rimanerci per un po'.»
«Vuoi che me ne vada ora?»
Ora, Romano era piuttosto certo di aver parlato nella lingua delle nazioni. Non aveva intenzione di parlare in spagnolo ma, se la situazione si mostrava grave fino a quel punto, forse avrebbe dovuto arrischiarsi a fare un'eccezione.
«L'ho capito.» Quel tono si era fatto freddo. «Sei venuto per compiacerti della tua nuova vita.» Non aveva capito un cazzo. «Soltanto, non capisco se tu voglia infierire o se mi stia chiedendo di andarmene il prima possibile.» Ma proprio un cazzo di niente.
Lovino portò le mani alla sua, di camicia. Tremavano. Per la rabbia, per l'esasperazione, per chissà cos'altro. «Ti ho detto» Fece scivolare i primi bottoni. «che la devi smettere» Si premette contro di lui, così che ciò che aveva nella cassa toracica gli colpisse il petto fino a fargli venire i lividi. «di trasformare ogni cosa» Gli schiaffò le mani sul viso e lo costrinse a guardarlo negli occhi. «in una tragedia.» Prima che l'imbecille potesse ribattere in qualsiasi modo, lo zittì con la propria bocca. Se le parole avessero avuto una consistenza, gliele avrebbe strappate a morsi prima che lui potesse pronunciarle.
Quando si scostò, si premurò di far scivolare una mano ai capelli, e di tirarglieli apposta per fargli male. «È solo un mare, coglione!» sibilò: «Non sto affanculo, sto letteralmente dall'altra parte del mare! Ti basta salire su una delle tue fottute bagnarole e venire qui! Solo» Espirò, stava parlando con troppa foga. «se verrai qui, dovrai stare alle mie regole, perché questa è casa mia.» Era certo che qualche livido doveva averglielo già procurato. «Se verrai a casa mia, ti basterà bussare e io, se mi andrà, ti aprirò. Altrimenti, rimarrai a marcire sullo zerbino per l'eternità.» Gli lasciò stare i capelli e tornò al suo viso. «Non ti permetterò di fare l'incivile che apre le porte senza permesso. Non a casa mia.»
Di una cosa era certo: Antonio era confuso. Anzi, stordito. Era quasi triste che quello fosse uno stato naturale troppo frequente, nella mente di quel cretino.
Lovino, che era buono e magnanimo, gli venne in soccorso. «Te ne andrai domani.» gli ricordò: «Domani.» ripetè. «Adesso» Tuttavia, nonostante la sua bontà e magnanimità, stava raggiungendo il limite anche lui, prima che iniziasse la sua metamorfosi in falò. «non è domani.»
Non poteva dire ci fosse silenzio solo perché le orecchie erano tartassate da quel rimbombo impazzito. Finalmente, Antonio si decise a dire qualcosa. «Perdonami, non sto capendo.» Almeno si era scusato. Era conscio della cazzata appena detta.
«Ma porca di quella puttana, sono qui!» Non gli avrebbe permesso di guardare altrove. «Sono qui, ora.»
Una volta, un certo idiota era stato capace di sconfiggerlo con una sola frase. Una sola frase che non si era mai davvero reso conto di quanto volesse sentire. Lui, invece, non era mai davvero riuscito a contraccambiare. Non era mai riuscito a sistemare quella frase nel modo giusto. Gli aveva promesso una cosa, salvo poi capire di volere tutt'altro.
Ora no. Ora era certo. Sapeva come avrebbe potuto contraccambiare ciò che gli aveva detto.
«E rimarrò qui per parecchio.» Almeno, sperava. «Quindi, se mi cerchi, sai dove trovarmi.»
Nessuna risposta. Solo uno sguardo non tanto confuso quanto incredulo. Era un passo avanti. Anche se Lovino non aveva idea di come potesse essere più esplicito di così. Non che sognasse che capisse subito le sue parole, ma che almeno le intuisse dai suoi gesti, magari-
Una mano gli accarezzò i capelli. Fino a quel momento, il bastardo non l'aveva neppure sfiorato. Ed erano decenni che non lo faceva. Rabbrividì, ma non per paura. Ora poteva permetterselo.
«... Qui.»
Minuti interi di monologo e quella era la sua risposta. Forse si sarebbe dovuto incazzare. Al contrario, gli venne da ridere - Ma evitò di farlo.
«Non proprio qui "qui".» ci tenne a precisare, ché col cretino non si sapeva mai: «In un punto casuale tra il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia.»
Sorrise lui, in compenso. Ovvio, sorrideva sempre, perché era un idiota. Per non venire meno alla sua natura, si separò da lui. Quando lo fece, Lovino sentì l'aria troppo fredda contro la pelle troppo calda. Anche se era Luglio.
«Ma che-» La voce si smorzò quando lo vide togliersi la camicia. Un istante dopo, la camicia fu sulle sue spalle.
«Hai detto di volerla.» Un sorriso da emerito coglione e una frase da imbecille allucinante.
Finalmente era giunto il giorno in cui Antonio avrebbe sentito tutte le sue ossa spezzarsi tra le italiche mani di Lovino. Erano trascorsi secoli, ma era destino che quel giorno giungesse.
A dimostrazione della sua stupidità, Antonio non percepì il doloroso pericolo in arrivo e si chinò su di lui, a sistemargli il colletto. «Posso approfittare del fatto che tu sia qui?»
Lovino sospirò. O meglio, buttò fuori tutta la rabbia espirando fino a quasi far rotolare fuori anche la voce. Fu un sospiro molto lungo.
Erano decenni che doveva sistemare quella cosa. Finalmente, aveva trovato il modo. Era stato uno stupido a credere che comunicarlo all'imbecille non avrebbe richiesto altrettanti decenni - Compressi in dieci minuti, percepiti come dieci secoli. Gli venne da ridere. Lo mascherò con uno sbuffo.
Gli artigliò le spalle. «Minchia, quanto parli.»



1738

Quello era l'incontro riservato alle nazioni.
I sovrani, i generali e i ministri europei si erano incontrati il giorno prima. In quell'incontro in cui gli umani decidevano delle loro sorti, Romano aveva accompagnato Don Carlo. Non era stato il suo unico accompagnatore. Il ragazzo che sedeva alla sua destra e la ragazza che sedeva alla sua sinistra erano con lui da diverse ore, ma aveva rivolto loro solo qualche frase di circostanza.
Era un incontro alquanto bizzarro, quello.
La stanza somigliava più ad un anfiteatro circolare. Era stato necessario scegliere un'aula abbastanza grande, data la presenza di tutto il Sacro Romano Impero, che da solo occupava metà sala. Lovino aveva scrutato quei volti germanici uno ad uno. Con sua grande sorpresa, non c'erano solo masse di muscoli occhi-azzurri-capelli-biondi: c'erano anche giovani più esili e persino fanciulle, così belle da rendere assurda l'idea che potessero essere parte della cricca di quel nano vestito di nero. Due donne, però, spiccavano in quel mare germanico.
La prima era vestita di rosso, aveva i capelli mossi e biondo cenere, sulle labbra un sorriso luminoso. Era seduta al fianco del fratello minore, vestito in azzurro chiaro. Quando Lovino l'aveva rivista, aveva sentito troppe cose tutte insieme - Un colpo al cuore piacevole, una stretta allo stomaco, una secchiata di nostalgia. Avevano incrociato lo sguardo, ad un certo punto. Manon aveva mosso la mano per salutarlo, lui aveva risposto. Per quanto la distanza glielo consentisse, non gli sembrava di vedere alcuna ombra cupa in quegli occhi o in quell'espressione.
La seconda indossava quello che chiunque avrebbe riconosciuto come un abito tradizionale, con un velo bianco, una gonna nera, una camicia bianca e una giacca colorata che avvolgevano curve che compensavano la sua scarsa altezza. Era bruna, piena di gioielli e gli era sembrato di conoscerla da sempre. Quando l'aveva notata al fianco di quel cretino di Savoia, aveva realizzato chi fosse. Era quasi doloroso vederla sedere insieme al Sacro Romano Impero. Non che lei sembrasse particolarmente a disagio: oscurava il suo compagno con la sua sola presenza e, di tanto in tanto, lanciava occhiate interessatissime verso un punto preciso dell'aula, lo sguardo sognante e qualche sospiro strappato alle labbra. Lovino non aveva fatto in tempo a sentire neppure una parvenza di qualcosa che i più stupidi avrebbero associato ad un principio di vaga gelosia, perché Sardegna si era voltata verso di lui e gli aveva rivolto un sorriso così dolce, così materno, che qualsiasi pensiero fosco era stato spazzato via. Non aveva ancora visitato la sua casa, neppure in quella manciata di anni che era stata austriaca. Si appuntò di doverci passare.
A pochi posti di distanza stavano il cretino francese e il bastardo spagnolo. Avevano svariati secoli d'età, ma era dall'inizio dell'incontro che non facevano altro che parlottare tra di loro, lanciare occhiate a qualcuno nello specifico e sicuramente dire le peggio cattiverie. Forse era un bene che molti umani fossero all'oscuro della natura di comari pettegole delle loro nazioni.
Dall'altro lato della sala, Prussia era quasi incastrato nello spazio riservato a Russia e alla sua cricca. Come per il Sacro Romano Impero, anche i vari membri della combriccola dell'impero russo erano eterogenei: fanciulle dal volto aggraziato, ragazzi di ogni corporatura, giovani così minuti da sembrare bambini - Ma non potevano esserlo, o non sarebbero stati ammessi all'incontro. Al contrario di Sacro Romano Impero - Unico bambino ammesso all'incontro -, Russia sovrastava tutti i suoi compagni, per altezza, per stazza e per l'importanza del suo naso. Alla sua destra, sedeva una splendida donna formosa come una Venere e dal viso gentile di una Vesta; alla sua sinistra, stava un'affascinante fanciulla dai lunghi capelli di platino e dallo sguardo di ghiaccio. Prussia, di contro, cercava di allontanarsi da quel gruppo, spostandosi in maniera quasi impercettibile di minuto in minuto. Sfortunatamente per lui, dall'altro capo della sala arrivavano dei «Dove stai andando, Gilbert?» che lo congelavano sul posto. Ecco di chi stavano sparlando le due oche giulive.
Non che fosse strano. Prussia si era schierato contro di loro, quella volta. Aveva pure perso, tra l'altro. Aveva perso, ma il trono polacco era finito in mano ad un suo alleato.
Da quanto aveva capito Lovino, Spagna aveva lanciato la moda di far scoppiare una guerra europea ad ogni trono vacante e svariata gente non si era potuta tirare indietro di fronte alla grande sedia vuota a casa di Polonia. Da un lato Francia, Spagna e la Savoia-Sardegna, dall'altro il Sacro Romano Impero, Austria, Prussia e Russia. Probabilmente per intercessione divina, aveva vinto la prima fazione; per motivi che ancora gli sfuggivano, il trono era andato ad uno dei compari di Sassonia, uno degli accoliti di Sacro Romano Impero.
L'aveva detto, Lovino, che era un incontro alquanto bizzarro, quello.
Il diretto interessato, Polonia, era seduto vicino a Lituania. I due sarebbero quasi stati schiacciati tra l'ala sacroromanoimperesca e l'ala russa, se non avessero avuto almeno cinque posti liberi sia a destra che a sinistra. Lì da soli, due in mezzo a centoventi da una parte e dall'altra, uno biondo e vestito di rosa pallido, l'altro castano e vestito di verde scuro, spiccavano più di tutti gli altri imperi presenti.
Al centro dello pseudoanfiteatro stava Austria, portavoce di quell'incontro. Del resto, erano a Vienna. Strano non fosse ancora intervenuto a fermare quella fiumana di chiacchiere. Forse gli era stato chiesto di procedere senza fretta.
Le nazioni presenti parlavano, ridevano, spettegolavano, lanciavano gridolini spaventati o qualche insulto con tanto di dito medio, mangiavano cibi mai visti, qualcuno era più preso dal guardarsi negli occhi con la si presumeva propria dolce metà, o ammirare qualcun altro da lontano, oppure era coinvolto in un appassionante monologo, cosa che lo rendeva un po' inquietante. Non fosse stato per alcuni volti così sbattuti da sembrare il risultato di un'assenza di sonno durata mesi, per certi occhi cerchiati da occhiaie tanto marcate da sembrare dipinte, per la spaventosa magrezza di qualcuno e per il fatto che tutti indossassero vestiti troppo coprenti, a celare cicatrici altrimenti troppo vistose, sarebbe parso un incontro persino divertente. Forse era quello, ciò che volevano le nazioni presenti. Un momento di svago. Un momento di pace per convincersi che quella guerra fosse finalmente finita.
Forse era per questo che Austria non sembrava troppo infastidito da quella confusione. O forse si stava solo godendo in prima fila i fallimentari tentativi di fuga di Prussia e conseguenti prese per i fondelli da parte di Spagna e Francia. Lovino rifiutò di crederci, o avrebbe rischiato di provare una vaga simpatia per Austria.
Dopo un tempo indefinito, però, l'ospite dovette ritenere fosse abbastanza. Si alzò dalla sua enorme poltrona d'oro e velluto rosso e richiamò l'attenzione dei presenti: «Ordine!». Ci volle un minuto abbondante per ottenere il silenzio totale. «Procediamo con l'incontro!»
Il punto più importante, ovviamente, era la situazione a casa di Polonia. Dato che la cosa non lo riguardava, Lovino passò gran parte del tempo a (continuare a) scrutare tutte le nazioni lì presenti. Avrebbe potuto parlare con i due al suo fianco. Ma non sapeva se fosse più nervoso lui o loro, alla sola idea di farlo.
Poi, Austria annunciò che Francia aveva accettato di riconoscere la sua Prammatica Sanzione. Quasi gli venne da ridere. Le sue fonti gli avevano raccontato che erano venticinque anni che Austria andava in giro con quel foglio, cercando di farlo firmare a qualsiasi nazione gli capitasse a tiro. Fortuna voleva che Austria avesse la resistenza di un anziano dopo una giornata di duro lavoro nei campi, quindi tutti riuscivano a scappargli.
Infine, fu il suo turno. Anzi, il loro.
Si ricompose, schiena dritta, sguardo fermo. La braccia erano tese, le mani stritolavano il nulla, pugni premuti contro le gambe. Sentì una parvenza di tensione, di aspettativa, anche dalla sua destra e dalla sua sinistra.
«Il Ducato di Parma e Piacenza diventa ora parte dell'impero austriaco.» Ovviamente, Austria era partito dalla cosa più fastidiosa. «E riconosco come autonomi il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia, uniti sotto la corona libera del Sud Italia.»
Non è che fosse troppo rigido. Non è che gli fosse appena deflagrato tutto l'interno della cassa toracica. Non è che fosse dannatamente bello sentire quelle parole, pronunciate dal suo ora non più padrone, davanti a mezza Europa riunita.
Austria porse loro i documenti da firmare. L'ultimo passo da compiere.
Romano sentiva gli sguardi dei giovani al suo fianco. Ovvio. Del resto, avrebbero usato qualsiasi cognome lui avesse scelto.
Si chinò sul foglio, la mano firmò con sicurezza. Quando restituì il documento, Austria lo osservò quasi sorpreso. Era strano vedere un'espressione diversa sul volto di quel damerino impettito. Doveva averlo davvero colpito.
A volte, gli imperi sapevano dimostrarsi quasi ingenui. Perché mai avrebbe dovuto cambiare nome, se già ne aveva uno che gli si addiceva?


«Direi che» Si fermò. Sentì gli altri due fare lo stesso, alle sue spalle. «sia ora di parlare un po'.»
L'incontro era terminato. Romano e i due ragazzi con lui erano usciti per primi, per evitare di essere travolti dalle folle germaniche e russe. Sarebbero potuti andare nei giardini, ma avevano visto l'ondata russa dirigersi da quella parte e avevano scelto di rimanere nell'edificio. I corridoi erano abbastanza grandi e luminosi da non dare troppo l'idea di chiuso.
Lovino si voltò. Capelli castano scuro, un ricciolo ribelle a sfidare le leggi naturali, pelle imbrunita dal sole e occhi color cacao. Napoli era vestito di nero, una camicia bianca e rifiniture e nappe dorate a renderlo elegante e non funereo; Sicilia era vestita di nero e bianco, con un'ampia gonna rossa dai ricami d'oro e gioielli ad adornare il collo, le braccia e lo chignon. Entrambi mostravano poco più di sedici anni e si somigliavano abbastanza da poter essere scambiati per fratello e sorella. O come i suoi fratello e sorella.
Il giorno prima, aveva incontrato i loro sguardi per la prima volta. Si era limitato a salutarli con un cenno del capo ed era stato abbastanza freddo da metterli in soggezione. Se n'era accorto persino lui. Doveva rimediare.
«Quindi» Napoli parlò per primo. Avevano scelto di parlare in quel fiorentino che stava andando tanto di moda nella penisola. «volete smettere di evitarci?»
«Datemi del tu.»
Napoli e Sicilia si scambiarono uno sguardo sorpreso. Romano sentì una punta d'irritazione. Va bene, li aveva evitati anche in malo modo per una ventina d'anni, li aveva ignorati in modo plateale di fronte a mezza Europa e non aveva rivolto loro la parola se non sotto costrizione, ma non è che li odiasse a morte.
«D'accordo.» Sicilia spezzò quel silenzio imbarazzato che era venuto a crearsi. E che si ricreò un istante dopo. Era ovvio che avesse sperato che uno dei due approfittasse di quell'interruzione per dire altro.
Romano sospirò. Forse era un pochino colpa sua. «Immagino sappiate già come mi chiamo.» Non voleva essere ironico, ma la voce uscì lo stesso un po' sarcastica. «Ma io non conosco i vostri nomi.» Non si riferiva a quelli da nazione. Pregò che i suoi... Cos'erano? Fratelli adottivi? Cugini? Da dove erano usciti? Erano semplicemente nati a casa sua? Insomma, pregò che i suoi fratelli adottivi fossero abbastanza intelligenti da capirlo.
Lo furono.
«Ciro.»
«Maria Rosaria.»
Lovino strinse la mano a Ciro. Era un po' sorpreso, in verità. Avrebbe giurato si chiamasse Gennaro, dato il patrono della sua capitale.
Quanto a Maria Rosaria, ruotò la mano che gli venne porta e le fece il baciamano. Prima di scostarsi, rivolse uno sguardo alla ragazza. Cercò di non scoppiare a ridere nel vederla prendere fuoco. Ogni tanto, le cose che vedeva fare al cretino o al maniaco servivano a qualcosa.
«Non vi eviterò più.» Suonava come una promessa. Ma, del resto, non aveva più motivo di farlo. Napoli continuava a scrutarlo con sospetto. Sicilia si era portata la mano al petto e lo fissava con un'espressione corrucciata, la faccia ancora scarlatta.
«Farai bene a non farlo.» Ciro mise le braccia conserte. Maria Rosaria annuì, e aggiunse: «Siamo tutti sulla stessa barca, solo un idiota lo farebbe.» Con una certa soddisfazione, Lovino notò che il loro temperamento non era poi così diverso dal suo.
Calò di nuovo il silenzio. Non sarebbe stato facile avere una conversazione normale. Come avrebbero potuto, loro che sentivano di conoscersi da una vita ma non si erano mai incontrati? Dopo qualche secondo, Sicilia e Napoli si scambiarono uno sguardo d'intesa e lei parlò. «Don Roman-»
«Lovino.»
Maria Rosaria sbattè le palpebre, stupita. Si riprese in fretta. «Lovino, c'è una cosa che vorremmo chiederti.»
«Ditemi.» Si era ripromesso di essere onesto, con loro. Anche se era certo non sarebbe stato facile. Poteva sentirli vicini, ma erano oggettivamente degli estranei.
«Ci sono delle voci.» Sicilia sembrava molto cauta.
Lovino non capì. «Di vivi o di morti?»
A nessuno dei due quella domanda parve strana. Quasi gli venne da sorridere, ma si trattenne. «Di vivi.» rispose Napoli: «Quindi ben peggiori.»
Romano annuì. Sicilia proseguì: «Ti siamo immensamente grati per quello che ci hai fatto ottenere.» Quel preambolo non lasciava presagire nulla di buono. «E siamo ben lungi dall'accusarti. Qualsiasi cosa tu abbia-»
«Che voci?» Il preambolo era durato anche troppo.
Maria Rosaria sospirò. Doveva odiarli anche lei, i preamboli. «Si dice che tu abbia ottenuto tutto questo» Aprì le braccia, più ad indicare loro che la reggia in cui si trovavano. «perché hai...» La sua voce si smorzò, le braccia ricaddero lungo i fianchi. «Perché hai fatto dei favori a Spagna.»
Lovino inspirò a fondo. Le mani andarono nelle tasche. «C'è un bel po' da specificare, eh?» Era alquanto irritante che si vociferasse ciò che lui aveva voluto evitare ad ogni costo. Ma, suppose, sarebbe dovuto essere ovvio. La gente non era capace di non pensare male. Guardò Napoli e Sicilia. Voleva essere onesto, con loro. E poi, lui era superiore alla gente incapace di non pensare male. «Sì, sono andato a letto con Spagna per più di cinquant'anni.» Ciro e Maria Rosaria trasalirono. Pensavano fossero solo dicerie? «Però» Si sfiorò il polso con la mano. Non aveva mai smesso di nascondere lo stiletto nella manica. «tutto questo l'ho ottenuto sconfiggendolo. A Roma.» Incastonò lo sguardo nei loro. Voleva che capissero. «Ho vinto la mia indipendenza. Quel che è successo prima e quel che succederà poi non cambia quel che è successo a Roma.»
Napoli e Sicilia tornarono a guardarsi. Dal modo in cui continuavano a scambiarsi occhiate, era palese ci fosse della complicità. Chissà se riuscivano persino ad indovinare i pensieri dell'altro. Quando tornarono a rivolgersi a lui, i loro occhi brillavano di uno strano fuoco.
«Siete arrivato davvero lontano, Don Roman-»
«Lovino.» ricordò a Ciro: «E il tu.» Dovette interromperlo di nuovo: «Anche se questo non è un arrivo.»
Quegli sguardi interrogativi erano ovvi. Gli sfuggì un accenno di sorriso. «Abbiamo solo iniziato.»
Don Carlo era del suo stesso parere. Erano liberi dagli austriaci, avevano un nome che non li legava a nessuno, ma c'era ancora, sottilissimo, quasi invisibile, un filo che collegava i regni del Sud Italia alla corona europea dall'altra parte del Mediterraneo.
«Lovino.» disse Maria Rosaria: «Qual è il tuo obiettivo?»
Era quasi strano che qualcuno non conoscesse la filastrocca che la sua mente canticchiava da secoli. «Qual è il mio nome?»
Napoli e Sicilia tornarono a guardarsi, una muta richiesta di suggerimenti. Conoscevano la risposta, ovvio, ma non capivano cosa c'entrasse. Fu Napoli a rispondere. E Lovino fu fiero di sentirgli dare una risposta intelligente.
«Italia Romano.»
«Ecco.»
Era affascinante come il suo nome da nazione racchiudesse i suoi due desideri. Bastava pronunciarlo per urlare al mondo cosa volesse. Il suo nome da nazione e il suo nome umano erano così perfetti che non avrebbe potuto chiederne di migliori.
«Volete» La voce di Maria Rosaria si era abbassata: «lasciarci indietro?»
Non era il voi di cortesia. Parlava di due persone distinte.
«Siamo la stessa nazione.» Lui parlava di tante persone distinte. «Soltanto un coglione si lascerebbe dietro dei pezzi di sé.»
Sicilia e Napoli si scambiarono un'occhiata titubante. Doveva essere un dubbio che avevano da molto tempo. Solo in quel momento Lovino realizzò che anche loro due, come lui, dovevano essersi macerati in timori e preoccupazioni circa il suo ritorno - Sarebbero sopravvissuti, loro, a lui? O la sua presenza li avrebbe fatti scomparire?
«Il tuo intento è molto bello.» commentò Napoli. Sicilia annuì e riprese la parola: «Ma se voi diverrete-»
«Avete i vostri popoli.»
«Eh?» Ciro e Maria Rosaria sgranarono gli occhi scuri. Si guardarono di nuovo, quasi a voler cercare la stessa perplessità nell'altro, prima di tornare a rivolgersi a lui.
«Una cosa non esclude l'altra.» Aveva visto morire degli imperi. Aveva sentito sulla propria pelle cosa provasse una nazione in punto di morte. Non aveva intenzione di permettere che cose del genere succedessero di nuovo. Soprattutto, non a casa sua. Non a loro. «Abitanti del Regno di Napoli, e abitanti d'Italia. Abitanti del Regno di Sicilia, e abitanti d'Italia.» Non abbandonò i loro sguardi. «L'abbiamo detto prima, no? Siamo tutti sulla stessa barca. Siamo la stessa nazione. Siamo pezzi della stessa cosa.»
«Noi siamo pezzi tuoi.» gli ricordò Napoli. Sembrava turbato. «Tu puoi esistere anche senza di noi.»
Un ricordo lontano. Fastidioso. Gli venne da ridere. «Sì, probabilmente è vero.»
Napoli e Sicilia trasalirono.
«Anzi, di certo starei meglio, senza di voi.»
I loro volti impallidirono di colpo.
«Ma» La sua voce era assolutamente calma. «Starsene da soli è noioso.» Lasciò andare il sorriso. «Pensatela come volete, non m'interessa.» Non era del tutto verissimo. «C'è qualcosa che voglio, e ho intenzione di riprendermela. E non ho intenzione di perdere qualcosa che mi è stato dato dai nostri popoli.»
Gli sguardi esitanti di Napoli e Sicilia tornarono ad incontrarsi. Poi, dopo qualche istante, tornarono a guardare lui. Su quei volti, pallidi fino a poco prima, apparvero dei sorrisi.
«Pruvamo a firarci.»
«Si ci lascerai areto, te ne pentirai.»
Li conosceva da sempre, ed erano perfetti sconosciuti. Era una sensazione strana. Però, pian piano, stava imparando a conoscerli davvero.
«Ma v' 'o devo aripete?» E non gli stavano dispiacendo. «Me parevate 'n po' più sveji.»
Di una cosa era certo. Il suo non volerli abbandonare non poteva essere sbagliato. Erano lì, davanti a lui, vicini a lui. Sulla sua schiena era rimasto solo il segno di un quadrato schiacciato e l'ombra di un solco all'altezza della spalla. La loro esistenza aveva inciso cicatrici finte, ma la loro presenza le aveva cancellate, come se non fossero mai esistite. E questo non poteva essere sbagliato in nessun modo.
«Lovi!»
Una voce femminile rimbombò nel corridoio, accompagnata dai tuoni che si sprigionavano dai tacchi. Manon si bloccò a metà strada, la mano andò alla bocca. Lovino si sentì grandinare addosso chicchi di nostalgia grossi come cocomeri.
«Ah, no, sei impegnato.» Belgio sventolò la mano. «Torno dopo-»
«No, aspetta.» Si voltò verso Ciro e Maria Rosaria. Non era in grado di parlare con loro attraverso gli sguardi, quindi dovette usare la voce: «Potremmo proseguire in un luogo più adatto di un corridoio.»
«L'albergo è bello.» notò Napoli.
«Fanno una zuppa di pomodori molto buona.» aggiunse Sicilia.
Lovino annuì. Avevano fin troppe cose da dire. E, con le pause imbarazzate in mezzo, ci avrebbero messo il decuplo del tempo a raccontarsele.
Fu strano vedere allontanarsi Napoli e Sicilia, e vedere Belgio avvicinarsi. Era come se il suo futuro e il suo passato si stessero prendendo a colpi di spada, senza dar segno di voler sopraffare il suo avversario.
Quando fu abbastanza vicina, Manon lo stritolò in un abbraccio. Era ancora alta quanto lui, ma la sua forza fisica sembrava aumentata.
«Come sei cresciuto, Lovinoje!» Lo lasciò andare, e Lovino barcollò un po'. «Però sono felice che tu non sia diventato grande e grosso!» Una risata allegra. «I fisici massicci lasciali ai giganti!»
Erano ventiquattro anni che non la vedeva, ed era ammirevole che fosse ancora così appassionata di bellezza maschile olandese.
«Credevo ti piacessero i damerini biondi.» Sperò che Manon cogliesse quella frecciata in modo scherzoso.
Per fortuna, lo fece. «Mi piacciono i begli uomini biondi con gli occhi chiari!»
Una combinazione davvero scontata e di scarso gusto. Si accorse che Manon gli aveva preso le mani. Quelle di lei erano appena più piccole delle sue, e spiccavano nel loro colorito chiaro.
«Mi dispiace.» Avrebbe voluto dirglielo nella sua lingua, ma non conosceva il belgiese.
Manon inarcò le sopracciglia. «Di cosa?»
«Di non aver capito.» Le strinse le mani. «Di aver fatto finta di non capire. Di averti lasciata sola.»
Belgio sbattè le palpebre. Il suo viso si era fatto serio. «Sono passati quasi ottant'anni.» gli ricordò.
Lovino annuì. «Dovevo dirtelo.»
Manon scosse la testa. Era tornata a sorridere. «Grazie.» Il sorriso arrivò agli occhi. «Non sono stata corretta nello sfogarmi con te. Eri ancora troppo giovane per le cattiverie delle nazioni.»
«Ma-» Un dito vicino alle labbra lo zittì.
«Lo so che ne hai passate di ogni genere, Lovinoje. A maggior ragione, non avrei dovuto coinvolgerti.»
«Ma-»
«Però non me ne pento.» Una risata leggera. «Se ti ho dato modo di farti vedere un'altra possibilità, non me ne pentirò mai.»
Romano voleva dirle una cosa, ma cambiò idea. Non c'era bisogno che Manon sapesse quanto i suoi "pensieri cupi" avessero causato una reazione a catena a tratti del tutto inaspettata. Non era stato solo lui a cambiare.
«Ma basta con questo rimuginare sul passato!» trillò Belgio: «Abbiamo un sacchissimo di cose da dirci! E dovremo farlo prima che rispediscano me a Bruxelles e te...» Piegò appena la testa di lato. «In effetti, te dove sei?»
«Sei mesi a Napoli, sei mesi a Palermo.»
«Oh! Come... Come si chiamava?»
«Proserpina.»
«Che nomi difficili che avete, laggiù...»


Il palazzo era abbastanza grande da poter camminare per mezz'ore intere senza incontrare nessuno. Era stato strano, strano e piacevole, passeggiare sottobraccio a Manon. Il se stesso del passato l'avrebbe invidiato.
Parlarono molto, tanto da accorgersi, alla fine, di come la luce del sole provenisse dallo zenit piuttosto che dal lato. Con sua grande sorpresa, era stato lui a parlare di più. In compenso, Belgio era stata più rumorosa.
«Mi raccomando, scrivimi!» aveva trillato Manon, al momento di congedarsi: «Palazzo di Nassau, Bruxelles!»
Lovino era rimasto confuso. «Non stavi in un Palazzo Reale, tu...?»
Allorché, Belgio era parsa ricordarsi solo in quel momento di un dettaglio. «Ah, giusto.» Aveva sventolato la mano. «Non ti avevo detto che il Palazzo del Coudenberg è andato a fuoco qualche anno fa...»
«Eh?»
Sì, anche loro avrebbero avuto svariate altre cose da raccontarsi in un luogo più adatto di un corridoio.
Rimasto solo, Lovino aveva vagato un po'. Se avesse incontrato qualcuno del Sacro Romano Impero - se non Sacro Romano Impero -, non si sarebbe trattenuto dall'incenerirlo con lo sguardo. Solo quello - Gli era stato pregato di non scaldarsi troppo, ché si sarebbe rischiato l'incidente diplomatico. C'era più di un motivo per cui Lovino vagava in quel palazzo austriaco. Di certo, la remota possibilità di intravedere un certo moccioso tonto e svenevole non era tra quelli.
In compenso, s'imbatté in qualcun altro. Neppure lui era uno dei motivi. Ovviamente.
Antonio era da solo, affacciato ad una finestra. Lovino era sicuro fosse stato insieme a Francia fino a quel momento, ed era altrettanto sicuro che avessero passato il tempo a sfottere Prussia fino a costringerlo a battere in ritirata a Berlino.
«Siete due oche.»
Spagna si voltò. Sorrideva come l'imbecille che era. «Hola, Dos Sicilias!»
Non aveva detto nulla a riguardo della sua frase, quindi aveva implicitamente ammesso di essere un'oca. Ed era stato l'unico ad azzeccare il suo nome senza metterci "Regno" davanti. C'era ancora tempo, prima di essere un Regno.
«Don Carlos è un bravo re?»
«Sì. Stento a credere sia mezzo spagnolo.» Romano gli si avvicinò e si affacciò alla stessa finestra. Erano abbastanza in alto. «Deve essere merito della sua metà italiana.» Piegò le braccia sul parapetto. «A Novembre ha fatto inaugurare un teatro bellissimo, a Napoli. Abbiamo visto l'Achille in Sciro. Era bello.» Serrò le labbra. Poi, sputò le parole: «Se capiti per sbaglio da quelle parti, dacci un'occhiata.»
«All'Achille in Sciro o al teatro?»
«A tutti e due, coglione.»
Si rifiutò di guardare accanto a sé. Gli bastava sentire lo sguardo divertito dell'altro. Anche se gli pareva di sentire una punta di sorpresa.
«Quindi...» Il tono dell'altro sembrava quasi casuale. «Posso venire a trovarti presto?»
«Vaffanculo.»
Ringraziò il vento freddo dell'Austria. Almeno una volta tanto, qualcosa di germanico tornava utile. Purtroppo, era difficile che il cretino non si fosse accorto di quanto il viso gli stesse andando in fiamme.
«Sei felice?» E anche la domanda demente era arrivata. Antonio non si smentiva mai.
«Di cosa?» Fissò lo sguardo sugli edifici d'innanzi a sé. Era tutto così ricco, maestoso, imponente, imperiale da far imbarazzare per la spudoratezza. «Del fatto che ora posso stare a casa mia? Del fatto che ho un re? Del fatto che ho un nome tutto mio? Di cosa dovrei essere felice?» La voce era uscita più stizzita di quanto avrebbe voluto.
Spagna, per tutta risposta, rise. Quando uno era stupido, era stupido. «Lovino... Vargas
«Sì, lo so qual è il mio nome.»
«L'hai tenuto.»
La domanda era: gli esseri di forma umana come loro avrebbero mai potuto spiccare il volo? Se sì, sarebbe potuto succedere lanciandosi dal probabile decimo piano di un palazzo? Lovino si poneva questi quesiti esistenziali, perché altrimenti avrebbe dovuto guardare Antonio dritto negli occhi e dirgli: "Sì, ho scelto di tenere il nome che mi hai dato!".
«È adeguato.» concesse, dopo qualche secondo. Forse gli stavano fumando le orecchie. Tra poco avrebbe pianto lava e sputato lapilli. «Mezzo italiano, mezzo spagnolo. Come il re.»
«Come il re.» Antonio lo graziò e non insistette. Sapeva che gli sarebbe arrivata una testata, in caso contrario. «Cosa farai?» Una domanda di circostanza. Ma Romano si ricordò quanto Spagna sembrasse tenere alle sue risposte, persino a domande stupide come quella. L'ebollizione doveva essere iniziata.
«Aspetterò.» Chiuse gli occhi. La brezza era piacevole, quasi necessaria. «Feliciano non è qui. È ancora un bambino, vero?»
«Sì.»
«Gli è andata bene, ad Austria.» Gli venne da ridere. «Altrimenti, come avrebbe giustificato l'assenza di Nord Italia?»
Spagna non rispose. Ma Romano non aveva bisogno di una risposta. «Aspetterò che la piccola Serenissima diventi alta almeno quanto me.» Riaprì gli occhi. «E, mentre lo aspetterò, scriverò la mia autobiografia.» Si tirò su, senza però staccare le mani dal parapetto. «Adesso ho un po' di roba da raccontare.»
«Ho un po' paura...»
«Fai bene.» Finalmente, si voltò verso il bastardo. Gli sembrava di dover alzare di meno la testa, per guardarlo negli occhi. «Tu sei l'antagonista brutto e cattivo.»
«Oh, no...» Antonio sospirò. Tuttavia, sembrava incuriosito da qualcosa sul suo viso. «I tuoi occhi...»
«Hanno deciso di che colore essere.» completò Lovino. Nascose un ghigno soddisfatto con uno sbuffo. «È colpa vostra, mi avete attaccato il verde.»
«È un verde diverso.» notò Spagna: «È come quello delle olive.»
«Se provi a dire puttanate del tipo che s'infiamma come l'olio, giuro che-»
«Oh, non ci avevo pensato!» Gli tirò una guancia. «Sei proprio bravo, Lovi!»
«Lasciami subito o ti spacco la faccia e gioco a dadi con i tuoi denti.»
Antonio obbedì, ma non lo fece con il dovuto timore. Continuava a ridere, il coglione. Lovino vagò con lo sguardo su di lui, per poi interrompersi all'altezza del petto. Afferrò un lembo della giacca e lo tirò appena. «Sapevi che dovevamo rivederci» Lo fulminò con lo sguardo. «e ti sei messo tutti questi strati?»
L'espressione dell'altro era stupita e stupida. Una delle sue espressioni base, insieme a quella con le labbra bloccate in un sorriso ebete. Espressione che, un istante dopo, arrivò.
«Pensavo non volessi rivedermi per un bel po'.»
«Tu sei scemo, quindi non devi pensare.»
Fece appena in tempo a dirlo, ché Antonio lo catturò in un abbraccio fin troppo forte. Lovino iniziò a chiedersi se non fosse diventato più debole lui, perché non era possibile sentire le costole in procinto di incrinarsi due volte nella stessa giornata.
«Mi soffochi, coglione!» Per protesta, e solo per protesta, abbattè i pugni sulla sua schiena. Li lasciò lì solo per comodità. Soltanto una persona molto fantasiosa avrebbe potuto vederci un abbraccio.
«Se mai ci saranno problemi» disse il cretino, troppo vicino al suo orecchio per la sua voce allegra: «fammi sapere e li eliminerò!»
«Ma che cazzo vuoi, brutto deficiente.»
«Mi ci vorrà un po' per abbandonare le vesti del Capo, quindi lascia che ti aiuti un po'.»
«Stamo freschi, allora.»
Poi l'idiota disse un'altra cosa. Qualcosa che non gli aveva detto, l'ultima volta, stordito com'era. Prima, però, gliel'aveva ripetuto un numero ridicolo di volte, ma Lovino non se ne sarebbe dimenticato neanche se gliel'avesse detto una volta sola. Nonostante fossero passati decenni, ricordava distintamente ogni singola volta. Era stato quel ricordo a non farlo impazzire, a ricordargli che ci fosse qualcuno che non lo odiava nonostante il suo carattere di merda, a fargli guardare Spagna negli occhi mentre lui era guardato dall'ombra di un imbecille, a ricordargli che, dietro quello sguardo folle, c'era un idiota - ma idiota tanto.
«Dillo ancora.»
Aveva molto da raccontare nella sua autobiografia. Tuttavia, su certe cose avrebbe taciuto. Avrebbe potuto dire di tacere per pudicizia, ma la verità era che voleva che alcune cose continuassero ad appartenere solo a lui. Tipo quelle parole stupide.

Mi chiamo Italia Romano, o Sud Italia. Il mio nome umano è Lovino Vargas.
Un tempo, mi chiamavo Lavinius Valles, ma il nome che ho ora è più bello. Non so che minchia significhi, ma era il nome di una regina più forte di un guerriero.
Forse il linguaggio poco raffinato e l'assenza di parole forbite potrebbero farvi desistere dal proseguire.
Chissene frega. Questa è la mia storia e la scrivo come cazzo mi pare.


.

Note:
* I nomi di Napoli e Sicilia sono semplicemente tra i nomi più diffusi nelle loro case.
(Anche se, ad onor del vero, "Ciro" non era poi così diffuso, all'epoca. Però non volevo chiamarlo scontatissimamente "Gennaro" e trovo suoni carino insieme a "Rosa".)
Sardegna è una OC di Tayr Seirei.
* Ripetere il contenuto del Trattato di Vienna del 1738 mi sembra abbastanza superfluo, ma metto la nota per segnare le fonti.
Ne approfitto per fare una precisazione: Carlo fu re di Napoli e di Sicilia dal 1734 e dal 1735, ma fu riconosciuto ufficialissimamente come tale solo a partire da questo Trattato. [ 1, 2 ]
* Il motivo per cui Lovino sente Sardegna quasi "materna" è un riferimento al fatto che sarà il Regno di Sardegna (Nominalmente, in realtà Piemonte(Savoia)+Sardegna) a "dar vita" al Regno d'Italia. Sì, un'altra sensazione preveggente da parte di Romano.
* La Prammatica Sanzione di Austria è sempre quella nominata nel capitolo precedente.
* La "zuppa di pomodori" di cui parla Sicilia è la Tomatensuppe, un piatto che parrebbe essere abbastanza diffuso nei paesi germanici.
* Come detto da Manon, il Palazzo del Coudenberg, il Palazzo Reale di Bruxelles, andò a fuoco nel 1731, per un incidente. Essendo in gran parte di legno e pieno di opere d'arte e archivi, si trattò di un combustibile a forma di palazzo. (In teoria non ci furono vittime - Per questo l'ho nominato solo di sfuggita -, ma alcune fonti mi sembrano discordanti.) Non avendo più un palazzo in cui risiedere, i nobili si trasferirono al Palazzo di Nassau (Oggi sostituito dal Palazzo di Carlo di Lorena).
La carcassa del palazzo rimase intoccata fino al 1774, quando si decise di raderla al suolo. Oggi, al suo posto, ci sono la Place Royale e il Parc de Bruxelles. [ 1, 2, 3 ]
* Nel 1738 non esisteva il "Regno delle Due Sicilie": c'erano il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia. Tuttavia, "Due Sicilie" è il nome con cui era chiamata l'area geografica che li comprendeva (alias il Sud Italia) - Per questo Lovino lo precisa: "Due Sicilie" è un generico riferimento al Sud Italia, senza oscurare o dare più rilievo ad un regno o all'altro.
(In questa storia, "Due Sicilie" è più un diminutivo di "Regno di Napoli e Regno di Sicilia" e non un nome ufficiale - Per questo Austria prima e Romano sul finale parlano di "Sud Italia" e non di "Due Sicilie". In particolare, sul finale Lovino scrive "Sud Italia" anche perché con "Due Sicilie" avrebbe escluso Sardegna e i territori di Roma.)
Il "Regno delle Due Sicilie" effettivo nascerà nel 1816, dopo il Congresso di Vienna, e le cose andranno malissimo.
* Carlo di Borbone fu un sovrano amato dal suo popolo e il giudizio che ne danno gli storici è perlopiù positivo.
Al di là delle numerose riforme che favorirono la crescita dei due regni, due azioni in particolare aumentarono la sua popolarità. La prima fu il suo scenografico rifiuto di introdurre l'Inquisizione a Napoli, con tanto di spade sull'altare ed elegante fanculizazzione del cardinale arcivescovo. La seconda fu a seguito della sua nomina a re di Spagna: una volta divenuto re di Spagna, i Regni di Napoli e Sicilia sarebbero stati fatti a pezzi e ridistribuiti tra le potenze straniere; per evitare ciò, Carlo rinunciò ai suoi titoli di re di Napoli e di Sicilia e li passò ai suoi figli, dunque concretizzando la loro indipendenza.
Carlo di Borbone fu re di Napoli (come Carlo E Basta) e di Sicilia (come Carlo III) fino al 1759, e re di Spagna (sempre come Carlo III) dal 1759 al 1788, anno della sua morte. [ 1, 2, 3, 4 ]
* Il Teatro di San Carlo (o Teatro San Carlo, che le preposizioni semplici occupano spazio!) di Napoli fu inaugurato il 4 Novembre 1737. Costruito per volontà di Carlo di Borbone, il suo nome deriva ovviamente da lui e non da un qualche santo. L'Achille in Sciro, di Domenico Sarro e Pietro Metastasio, fu la prima opera ad esservi rappresentata - Lo stesso Carlo assistette alla prima.
Il Teatro San Carlo è il teatro più antico d'Europa ad essere ancora in uso. Fu il primo teatro italiano ad istituire una scuola di danza e la sua struttura fu presa come modello dai teatri di tutta Europa. [ 1 ]


Qui si conclude la storia dell'indipendenza del Sud Italia prima dell'epoca napoleonica e di una Restaurazione ovviamente finita male, ma queste sono altre storie-, una storia fatta di maledizioni degli occhi verdi, patate e pomodori, nomi cose animali città, bitch slap a non-parenti e bungee jumping dalle scogliere, e- Ma chi voglio prendere in giro, questo è l'ultimo capitolo! (´;Д;`)

Ultimo capitolo che è un patchwork: ho aggiunto almeno tre blocchi - Sì, anche in questi due mesi. -, spero non sembri troppo a pezzi. (!) Spero anche che tutte le domande abbiano trovato una risposta! (Se così non fosse, chiedete e vi sarà dato - Se poi sembrasse che io mi sia dimenticata qualche Dettaglio Fondamentale, correggerò dopo essermi inchinata su un pavimento su cui sono state apposte delle fabacee.)

... ((o(;△;)o)) *Si ricorda che è l'ultimo capitolo e dovrebbe scrivere qualcosa di Molto Profondo.*
Adesso vi svelo un segreto segretone: questa è la prima volta che scrivo una long su una mia OTP. Ho scritto long multicoppia o con protagoniste delle coppie che sono al secondo o al terzo posto, ma una long su una mia OTP di un certo fandom mai - Solo monocapitolo e raccolte. Spero che questa storia non vi sia dispiaciuta, perché io ne sono abbastanza soddisfatta - Anche perché altrimenti non l'avrei pubblicata mi ha permesso di attingere a spunti che avevo in mente dal 2013! (๑•̀ㅂ•́)و

... Ecco, a proposito della storia sul Risorgimento. Potrebbe essere che io sia andata a fare un po' di ricerche. Potrebbe essere che io abbia ridotto la mole di ricerche ai minimi termini. Potrebbe essere che io abbia isolato le cose che mi interessano. Potrebbe essere che io abbia deciso una determinata scansione in capitoli. Potrebbe essere che, salvo grafomania, i capitoli risultino casualmente nove, come questa. Potrebbe essere che io abbia deciso le scalette dei suddetti capitoli. Potrebbe essere che io abbia deciso la tematica della parte di Romano. Potrebbe essere che Una Certa Persona A Caso mi abbia loscamente suggerito la tematica della parte di Veneziano, nonostante io le avessi detto di non farlo o mi sarei messa a pensare a questa storia. Potrebbe essere che io abbia le scene ben chiare in mente. Potrebbe essere che io mi debba solo sedere e scriverla.
Oppure no.
Trattandosi poi di un batuffolo di angst, dubito seriamente la scriverò a breve. È che, insomma, tutto questo viaggio per arrivare fin qui, e Lovino non ha reincontrato Feli e non si è ripreso Roma e- SUPER SPOILERONE: l'Italia viene unificata nel 1861 e Roma diviene capitale dieci anni dopo! Non vi aspettavate questo mega-spoiler così a tradimento, eh?

Mo' basta parlare di me, ché c'è gente da ringraziare!
GRAZIE a MikoKagome96, Kixiu_, Charlotte77, robertalovino, europa, Dalybook04, Ofeliet ((*´゚ω゚ノ) e a tutti coloro che hanno anche solo letto questa storia! (ノ^ヮ^)ノ*:・゚✧
Alcun* l'hanno messa in una certa lista addirittura dal primo capitolo, folli! *Si commuove per la fiducia, spera non sia stata malriposta (?)-*
Un GRAZIE in particolare a Tayr Seirei (Soranance Eyes), beta, fonte di versioni alternative molto più belle (E dunque in realtà canon (?)) e motivatrice. ☆ È colpa del suo "Secondo me, potresti scriverla." che sono finita a scrivere nove capitoli di Spamano e a (ri)pensare ad altri nove capitoli di roba italiana.

Come sempre, spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento, così come spero che questa storia vi abbia tenuto una buona compagnia. ☆
  
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