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Autore: A_Typing_Heart    23/01/2021    0 recensioni
«Sto cercando un libro sui vampiri... qualcosa che parli di loro, della loro psicologia... qualcosa che non sia solo letteratura.» disse con una certa delusione interiore: nella sua testa suonava molto meno ridicolo. «Esiste qualcosa del genere?»
«Ovviamente esiste.» rispose lui, con uno sguardo che sembrava brillare di eccitazione. «Posso chiederti come mai ti interessa un argomento così singolare o è una domanda troppo intima per il primo incontro?»
«Mi interessano perché non ne so niente e ne devo prendere uno.»
Qualsiasi altra persona a quella frase avrebbe riso o l'avrebbe preso per matto, ma non quell'uomo, che sorrise se possibile ancora di più.
«Stai cercando quell'assassino, il Vampiro di West End.»
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Crowley Eusford, Ferid Bathory, Krul Tepes, Mikaela Hyakuya, Yūichirō Hyakuya
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La spada di Dio'
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Ferid si girò nel letto d’ospedale mettendosi sull’altro fianco. Si accorse che il vicino di stanza si alzava lentamente per andare in bagno ma richiuse immediatamente gli occhi e non lo sentì uscire, scivolando rapido nel sonno.

Si svegliò all’improvviso, ma senza avere addosso la sensazione della paura o l’impressione che qualcosa di estraneo avesse interrotto il suo sonno, del quale tuttavia non restava traccia. Si alzò dal letto e indossò la vestaglia rossa, si legò i capelli come faceva abitualmente al mattino. Attraversò il corridoio e raggiunse la cucina seguendo l’odore squisito di qualcosa.

Il tavolo era apparecchiato, c’erano i tulipani rossi, rosa e gialli nel pesante vaso di cristallo al centro, Baudelaire lo fissò dalla sedia e iniziò a fare le fusa all’istante. Ferid si avvicinò e l’accarezzò, prima di guardare verso il fornello e riconoscere la schiena esile e i capelli brizzolati di Claude. Si sedette al posto apparecchiato, sorridendo, rispondendo in modo assolutamente normale a una situazione fuori dall’ordinario come quella.

«Pancake ai mirtilli e tè Irish Breakfast, stamattina.»

«Oh, pancake? È un giorno speciale, Claude?»

«Naturalmente lo è, mio caro Ferid… è da tanto tempo che non facciamo colazione insieme.»

«Più di dodici anni.»

«È passato davvero tanto tempo.»

Claude si voltò verso il tavolo con il suo consueto sorriso dolce, gli servì i pancake e come aveva sempre fatto in quei frangenti lavò accuratamente la padella prima di sedersi a mangiare. Ferid prese la teiera e riempì le due tazze mentre lo aspettava e alla fine Claude sedette di fronte a lui. Era felice di vederlo come lo ricordava prima della malattia: in salute, sorridente, pieno di vita.

«Dunque… eccoci qui, mio caro ragazzo. Ancora una volta.»

«Sembra che tu stia bene, Claude.»

«Naturalmente.» ripeté lui; era la parola che ripeteva più spesso. «Sto molto bene, ora… e sono felice di vedere che stai bene anche tu, voglio dire… guardati. Guarda che meraviglioso uomo sei diventato. Sono molto orgoglioso di te.»

«Non sei mai stato avaro di complimenti.»

«Tu non sei mai stato poco meritevole di complimenti.» replicò lui, sollevando la tazza e inspirandone il profumo. «Dunque… come ti trovi con lui?»

«Lui? Lui chi?»

«Sai di chi parlo… il tuo bell’uomo con i capelli rossi, quello che volevi presentarmi.»

«Oh, ti riferisci a Crowley?»

«E a chi altri?»

«Già… beh, stiamo bene… anche se potrebbe dare l’impressione di un uomo grezzo, è molto gentile con me. È molto paziente, molto dolce. Non posso lamentarmi, è davvero un tesoro… si fa in quattro per me, anche quando sono di cattivo umore… e sa sempre come prendermi.»

«Sei innamorato…»

«Innamorato? No, non direi… mi piace… lui è stupendo, e…»

«Non era una domanda, mio caro ragazzo.»

Claude rise all’espressione interdetta di Ferid.

«Non serve chiedertelo… io ti osservo sempre dal posto in cui sono, mio diletto. So che ti fidi di lui come non ti sei fidato mai di nessun altro, che affidi a lui le tue debolezze… non hai più paura di mostrare le tue ferite. Gli hai raccontato ormai tutto di noi, e di te. Sei finalmente uscito dalle cinte murarie del tuo imponente castello di segreti… e l’hai fatto soltanto per potergli prendere la mano.»

Ferid tacque per un istante e guardò la mano che non teneva la tazza del tè, pensando alla stretta forte di quella di Crowley…

«Sì. È vero.»

«Quel ragazzo ha fatto un ottimo lavoro… io non avrei mai potuto fare la stessa cosa, anche se fossi rimasto con te. No, naturalmente non avrei potuto arrivare a tanto. Un eccellente risultato… ora puoi essere la versione migliore di te stesso.»

«In un qualche modo, sono diverso da prima. Non so se sono davvero me stesso… a volte è come se non mi riconoscessi neanche.»

Claude sorridendo allungò la mano sul tavolo e afferrò la sua; era calda e liscia come la ricordava.

«Perché hai avuto paura per tutta la tua vita… avevi paura di deludere tuo padre, di scatenare la furia di tua madre, di restare intrappolato in quella casa, di restare solo, di venire giudicato, di non riuscire a vivere come una persona normale, di non trovare mai l’amore… un bel po’ di pesi sul cuore, non trovi? Hai avuto sempre paura e quella ti ha sempre influenzato.»

«Sì… è vero.»

«Adesso non hai più paura… no?»

Ferid guardò dritto negli occhi castani di Claude, così profondi e pieni di amore, e strinse la sua mano di rimando.

«Ora so che mascherarmi non serve. Le maschere non mi hanno mai salvato.»

«Naturalmente.»

«E so che… le persone che più mi hanno amato sono quelle che hanno visto di più quello che tengo nascosto.»

«Certo.»

«Non ho più paura di essere come sono… o di dire che cosa sento. Gli altri… non sono più solo ombre armate di coltello pronte a colpirmi dove c’è una falla nell’armatura… e anche se lo facessero, non m’importerebbe. Adesso so che qualcuno mi protegge e che può anche guarirmi.»

«Crowley avrà buona cura di te, ragazzo mio… anche se ha i capelli rossi

Ferid scoppiò a ridere suo malgrado.

«Oh, Claude… i capelli rossi non ti sono mai piaciuti… non sei cambiato affatto!»

«Naturalmente. Dopotutto, io sono vivo nel ricordo di me che serbi nel cuore. Non cambierò mai.»

La rivelazione in quel momento turbò Ferid, che si guardò intorno. La cucina era la stessa che ricordava in Ashland Street, e persino la vestaglia di Claude era identica. Fu allora che cominciò a capire che qualcosa non andava: per prima cosa, non avrebbe dovuto trovarsi nel West End.

«Questo… è un sogno, Claude?»

«Potrebbe essere qualcosa di diverso? Dimmi. In fondo, sei tu l’esperto di esoterismo, io come sai sono esperto solo di letteratura e di teatro.»

«Beh… tu sei morto… questo è certo. Sono morto anch’io e non me ne sono accorto?»

Il viso amorevole di Claude esibì un tenero sorriso, come se stesse guardando un bambino mostrare tutto il suo acume per rispondere a una domanda da adulti.

«Oh, no, mio caro. Non sei morto.»

«A meno che io non stia vivendo una curiosa esperienza di pre-morte, direi che è un sogno.»

«Anche se lo fosse non è forse un bel sogno? È sgradevole?»

«No… no, affatto. Rivederti è bellissimo in ogni caso.»

Allungò la mano e sfiorò la sua. Nonostante le rughe della sua pelle percepiva una sensazione di morbidezza e sentì – o piuttosto ricordò – il profumo di talco del sapone che usava per le mani.

«Sei sempre stato un figlio amorevole con me… molto diversamente da mio figlio Pascal. Sarei stato orgoglioso di essere tuo padre.»

«Ero tuo marito, Claude, non tuo figlio.»

«Solo per necessità. Sai che ti volevo adottare.»

«Sì, lo so, ma…»

«Ti ho sposato solo perché la mia malattia non mi avrebbe lasciato il tempo di scavalcare tutti quei fastidiosi cavilli dovuti ai tuoi genitori in Inghilterra e alla tua autocertificazione di nascita. Questo lo ricordi, no?»

«Sì, me lo ricordo… ma so che tu mi amavi comunque, e se non fosse stato che ti ritenevi troppo anziano per rendermi davvero felice mi avresti sposato senza mai prendere in considerazione l’adozione.»

«Ho fatto quello che andava fatto… e non ho fatto ciò che non andava fatto.» replicò lui enigmatico come mai era stato. «Ti ho amato molto, in che modo in realtà non è importante. Hai un futuro luminoso davanti a te, ragazzo mio, brilla come il sole… io sarò dentro di te, e lui al tuo fianco.»

«Claude…»

Claude continuò a sorridere, ma quando parlò stava rivolgendosi a Baudelaire. Ferid lo chiamò ancora, ma la sua voce non usciva dalla gola. Non riusciva a muoversi e rimase inchiodato sulla sedia, muto come un vecchio film, incapace di trattenere Claude che aveva preso in braccio il gatto stava uscendo dalla stanza…

«Ferid… ehi, Ferid.»

Ferid spalancò gli occhi cominciando istantaneamente ad ansimare, ma riconoscere i tratti familiari di Crowley lo tranquillizzò subito.

«Oh, sei tu…»

«Stai bene? Ti stavi agitando nel sonno…»

Tese un sorriso incerto mentre in un attimo riapparvero tutti i dettagli del sogno che aveva fatto: non gli era mai successo di sognare Claude, e il modo in cui si erano parlati era così naturale, così normale che faticò a classificarlo come un banale sogno partorito dall’inconscio.

«Non è niente… stavo parlando con Claude e Baudelaire ci stava disturbando.»

Il modo in cui si accigliò suggerì a Ferid che il suo fidanzato fosse un tantino preoccupato che la ferita alla fronte gli avesse leso qualcosa. Sollevò la mano e gli accarezzò il viso.

«Era solo un sogno, Crowley… ma se vuoi saperlo ti ha passato la palla, se vuoi continuare a portarla avanti.»

Dopo un momento di stupore Crowley sorrise.

«Claude ha le idee chiare. Deve avermi visto giocare da numero otto.»

Alla perplessità scritta nella faccia di Ferid Crowley rise piano e scosse la testa.

«È arrivato il momento di spiegarti come si gioca a rugby.»

 

 ***

 

 

Alla settima chiamata ricevuta dalla centrale per domande sull’accaduto o sulle loro condizioni di salute Ferid non badò affatto: spostava gli occhi dagli appunti disordinati di Crowley con linee di campo e numeri allo schermo del televisore che trasmetteva una partita di rugby.

«Ferid, De Stasio vorrebbe parlarti.» gli riferì Crowley con voce esasperata.

«Sto bene, grazie.» fece lui senza prendere il telefono che gli veniva avvicinato: era in qualche modo convinto di cominciare a capire come funzionava l’azione di gioco.

«Vorrebbe anche lui che tu tornassi sulla decisione di restare qui e cambiassi nascondiglio.»

«Impiccatevi!»

Che si appellasse all’Osservazione Fredda, al buonsenso, alle statistiche o alle suppliche nulla smosse Ferid dalla sua decisione. Alla fine Alford tagliò la proverbiale testa al toro disponendo che si piantonasse la zona un isolato intorno al palazzo giorno e notte per trovare Robert Warren o suoi eventuali complici con il compito di osservare le mosse del suo bersaglio.

Quella sera, dopo aver mangiato le bistecche che avevano scartato a cena il giorno prima, Ferid si versò un bicchiere del tanto sospirato vino rosso chiamato Luminare e si andò a sedere sul divano guardando la mischia muta di una partita di rugby in differita. Crowley si versò un bicchiere sul tavolo della cucina, con il telefono senza fili – che era arrivato a scottare – in mano con il vivavoce inserito.

«Te l’ho già detto… lui ha deciso così.»

«E tu sei d’accordo?»

«Certo, io supporto la sua decisione. Credimi che non l’ha presa senza pensarci.»

«Beh, è un’idiozia. Ed è ancora più idiota che tu gli dia corda.»

«Siamo una coppia, è normale che supporti le sue…»

«Crowley, per l’amor di Dio, non voglio sentire bestemmie del genere.»

Crowley abbassò il bicchiere senza aver bevuto: l’irritazione stava arrivando alla soglia di pericolo.

«Papà, smettila, ti giuro che sei a tanto così dal finire nella cesta degli scartati come la mamma.»

«Tu vuoi davvero seppellire di dispiaceri la tua povera madre, Crowley! È stata una brava madre, ha fatto tutto quello che poteva per te, e tu la ripaghi così?»

«Tu sei suo marito. Io sono suo figlio. Sono io che devo dire che tipo di madre è stata, e visto che ne parliamo: ha fatto tutto quello che poteva per crescermi come voleva che io fossi. Cattolico, obbediente, con un lavoro ben pagato perché io potessi mandare la mandria di nipotini alla scuola cattolica.»

«Ci vedi qualcosa di male?»

«Grazie di chiedermelo, papà, perché , ce lo vedo eccome. Non le importa che io sia infelice, basta che io vada in chiesa la domenica e mi sposi, possibilmente con Fionnula.»

«Fionnula è una brava ragazza. Lei è tua madre, vuole il meglio per te.»

Crowley alzò gli occhi al cielo e scolò il bicchiere di vino in cerca del conforto necessario per tirare avanti quella discussione. Ferid, che lo vide farlo, ridacchiò.

«Papà… lo conosci, Ferid. Hai visto che ragazzino era, sai dove è stato a scuola, sai che fa un lavoro onesto…»

«Non ho nulla da recriminare a Ferid, Crowley, solo che non accetto che sia il tuo uomo. Non è una questione personale: è un uomo. Questo è quanto.»

«Che cosa pensate di ottenere obbligandomi a trovare una donna se non è quello che voglio?»

Mentre si avvicinava al tavolino del soggiorno Ferid gli fece segno di calmarsi con la mano. In effetti si stava spazientendo e la sua voce lo tradiva.

«Non ci interessa se decidi di non sposarti o di farti prete, ma… lo sai, Crowley. Sei grande abbastanza da decidere se vuoi andare all’inferno oppure no, ma comportandoti così disonorerai tua madre e la sua famiglia… gli Eusford sono sempre stati…»

«Al diavolo gli Eusford!» sbottò Crowley. «E anche te, papà, se la sola cosa che riesci a pensare in questo momento è quanto si vergognerà la mamma!»

«Bada a come parli a tuo padre, ragazzo. Che cosa credi, che solo perché sei detective puoi alzare la cresta con me in questo modo, eh? Ti credi migliore di tuo padre perché hai una scrivania nella centrale di Satbury? Pensi di fare la voce grossa, ma hai ancora della strada da fare prima di potertelo permettere!»

Neil O’Brian si era infuriato. Capitava molto, molto di rado, ma una volta innescato – da buon irlandese – era molto difficile che si spegnesse senza aiuti.

«Che cos’hai combinato da quando te ne sei andato di casa dandoti arie d’importanza, ragazzo? Non hai comprato una casa, non hai una macchina decente e non sei stato capace nemmeno di trovarti una moglie decente… nemmeno una moglie pessima, veramente! Ti sei andato a trovare un uomo, in barba a come tua madre e i tuoi nonni ti ha cresciuto! Che diamine, ragazzo!»

Crowley sentiva le viscere sobbollire e sull’onda del momento decise di sputare in faccia al padre tutto quello che pensava di Dio, del suo pessimo matrimonio e degli errori che avevano fatto con lui, ma mentre prendeva fiato per interrompere il suo vomito di insulti vide Ferid gesticolare e lo guardò: stava ripetendo lo stesso gesto di prima, con più urgenza e con tutt’e due le mani, perché gli era chiaro che stava per scoppiare.

Lasciò uscire il fiato senza un fonema mentre suo padre recriminava che non era nemmeno capace di sparare decentemente.

«Okay, basta così, papà. Se vuoi parlarmi trattandomi da uomo e non da bambino lo faremo un’altra volta perché ho da fare adesso. Se invece intendi insistere con questa tua testardaggine non mi richiamare neanche.»

Chiuse la telefonata e piazzò bruscamente il telefono nella base di ricarica. Si accorse di avere in mano un bicchiere vuoto, quindi recuperò la bottiglia e lo rabboccò mentre si sedeva sul divano vicino a Ferid.

«È stata tosta, eh, Crowley?»

«Avere genitori irlandesi è così. Una scornata continua.» borbottò lui, e bevve. «Gli passerà… e se non gli passerà, non importa. Io voglio essere felice, e se significa stare con te e infastidire loro mi sta bene così.»

Ferid incrociò le gambe nella sua posizione comoda e accennò a dire qualcosa quando il telefono squillò di nuovo. Anche da lì era possibile leggere sul grande display il nome associato al numero chiamante e Ferid fece un sorriso esitante. Dal canto suo Crowley decise di ignorare la chiamata del padre come se lo squillo non fosse quello del suo apparecchio.

«Sai, è buono questo vino.»

«Sì, lo è… senti, Crowley, posso parlarti di… ?»

Questa volta fu il cellulare a squillare. Crowley troncò la chiamata e spense la suoneria.

Sta mettendo davvero a dura prova la mia pazienza.

Si riappoggiò allo schienale e passò il braccio intorno alle spalle di Ferid. Avrebbe voluto avviare una videochiamata con suo padre solo perché si indispettisse nel vederli insieme, ma poi allontanò il pensiero della sua famiglia. Quella sera voleva averla soltanto per loro: basta distrazioni.

«Dicevi che volevi dirmi qualcosa?»

«Vorrei… parlarti di una cosa, sì. Avrei dovuto parlartene prima, ma…»

Avesse avuto le antenne si sarebbero rizzate subito: con quella premessa il suo primo pensiero andò a Robert Warren.

Sta per dirmi la verità. Vuole dirmi il vero motivo di tutta questa follia.

«Beh, fallo ora.» replicò con una calma che non sentiva. «Di che si tratta?»

«Che cosa sai dei Cosworth, Crowley?»

Così orientato su Robert rimase totalmente basito da quel cognome che gli suonava tutto sommato poco familiare. Si accigliò frugando nella memoria, ma trovò ben poco: non ricordava alcun caso Cosworth nella sua carriera, né di averne letto sul giornale.

«Beh… niente, credo… so che la Cosworth ha costruito il motore Ford, c’entra qualcosa?»

«No, non credo proprio… ma senza volerlo ti ho raccontato metà della loro storia, quando ci conoscevamo appena.»

Perplesso, Crowley prese un altro sorso di vino e si mise a rievocare tutte le discussioni che ricordava con Ferid prima che si trasferisse a casa sua, ma non ne emerse nulla. Sconfitto, lo guardò scuotendo la testa.

«Lo hai letto nel diario che ti avevo lasciato… ma posso cominciare dall’inizio, se preferisci.» gli disse Ferid, giocherellando con l’orecchino. «I Cosworth… sono una dinastia nobiliare inglese. Sono visconti.»

Oh, cielo, non starà per dirmi quello che penso?

Crowley tolse il braccio dalle sue spalle per rabboccare il bicchiere un’altra volta e puntellò i gomiti sulle ginocchia, sperando che le sue paure non si riflettessero nel suo sguardo.

«Uhm… beh… non ha tanto senso girarci intorno…»

Ferid fece oscillare il vino rimasto nel bicchiere, prese un sospiro e proseguì.

«Mio padre era Foster Oakley, diciannovesimo visconte di Cosworth.»

Crowley si portò la mano alla bocca per non sputare il vino che stava bevendo e con un colpetto di tosse scongiurò che gli andasse di traverso, ma lo stupore non poteva deglutirlo con tanta facilità.

«A-allora avevo ragione, la tua “casa di campagna” era una villa!»

«Sì… la tenuta Cosworth è piuttosto grande, in realtà.»

«Lo sapevo, è… ma scusa… se tuo padre fa “Oakley”, perché tu ti chiami “Bathory”?»

«Strano che tu mi faccia questa domanda… è la stessa cosa anche per te. Porti tutti e due i cognomi, ma quasi tutti ti chiamano Eusford.»

«Solo perché ci sono migliaia di O’Brian!»

«Oh.» fece Ferid, preso in contropiede. «Beh, sì, plausibile… beh, con i titoli nobiliari è un pochino diverso… mia madre secondo la nobiltà ungherese aveva un titolo più importante di quello di mio padre, quindi il suo cognome ha la precedenza. Per questo mi chiamo Bathory, ma quando mio padre è morto ho comunque ereditato il suo titolo.»

Crowley sbatté gli occhi fissandolo, così perplesso che si stava dimenticando di bere. Qualcosa in quel discorso di titoli nobiliari gli faceva inceppare le rotelle del cervello e ci mise un tempo spropositato per elaborarlo.

No, aspetta, questo vuol dire che sono fidanzato con un visconte?

Solo allora ricordò in quale modo Ferid gli aveva raccontato la storia, in particolare la sua conclusione: nel suo diario lamentava l’impossibilità di rifiutare l’eredità dei suoi genitori. Ivi compreso il suo titolo?

«Ma sei… Ferid, vuol dire che sei un visconte?»

«Tecnicamente sono il ventesimo visconte di Cosworth e duca di Bátor, in Ungheria…»

Non aveva la minima idea di che territorio fosse Bátor, ma era comunque abbastanza da causargli smarrimento e una punta di imbarazzo. Dopo aver taciuto per un buon minuto bevve un altro sorso e fece un sorriso incerto grattandosi la punta del naso.

«E quindi un misero detective di primo livello della squadra omicidi non è alla tua altezza, giusto?»

«Se lo chiedi a qualche nobile dirà sicuramente di no, ma ti direbbe anche che lavorare come meccanico o come libraio non lo è. Avrai notato che faccio una serie di cose non proprio da nobili.»

«Mh… quindi non è un modo per dirmi che non puoi stare con me?»

«… Ma che sei, ubriaco?! Metti giù quel bicchiere, subito!»

Con un sospiro di sollievo gli obbedì e posò il calice sul tavolino.

«Mi hai spaventato, Ferid. Eri così serio che pensavo mi stessi per dire che visto che sei nobile non potevamo avere un futuro e che visto come stava buttando male con Robert te ne tornavi in Inghilterra…»

«Un brindisi al tuo ottimismo, signor Eusford.» fece lui, sollevando il bicchiere con l’aria seria di chi sta brindando all’inizio di una guerra. «Mi dispiace ma non ti libererai di me così facilmente, dovrai uccidermi.»

«Non scherzare su questo, per favore.» sospirò Crowley, appoggiandosi allo schienale. «Ma perché dirmelo stasera, con quell’aria seria? Mi aspettavo che mi dicessi che Bobby ti vuole morto per… ah, nemmeno io so che cosa mi aspettavo, qualcosa di apocalittico come minimo!»

«Solo… visto come vanno le cose tra di noi ho pensato di raccontartelo prima che… te lo dicesse qualcun altro, o che lo venissi a scoprire…»

«E che sarebbe successo? Hai ucciso tu i tuoi genitori, per caso?»

«Eh? No!» fece lui indignato. «Mia madre è morta per complicazioni della sua malattia due anni dopo la mia fuga e mio padre ha avuto un incidente a cavallo! Ha battuto la testa cadendo e non aveva il casco, e per inciso, io ero al lavoro qui a New Oakheart quando è successo.»

«E allora di che cosa mi sarei dovuto arrabbiare? Mi dovevo vergognare? Adesso lo dirò per tutta la città che esco con un lord, non è mica cosa da tutti!»

«No… okay, Crowley, no, non dirlo in giro, non voglio che…»

Crowley passò le braccia dietro la sua schiena stringendolo a sé e lo baciò interrompendolo; lo sollevò a pura forza bruta per trascinarlo sulle sue gambe e smise di baciarlo solo quando sentì di aver spento qualsiasi protesta. Difatti quando staccò le labbra Ferid non parlò e si limitò ad accarezzargli i capelli e il viso.

«Sai che cosa trovo piuttosto assurdo?» gli domandò, accarezzandogli la gamba.

«Cosa?»

«Per essere cresciuto come rampollo di famiglia nobile di religione cattolica hai sviluppato una strana concezione di te stesso.» osservò Crowley, cercando di essere più dolce possibile nel dirlo. «Ti sei lasciato trattare come se non valessi niente… comprare e rivendere, in senso metaforico, da persone che francamente non meriterebbero i capelli che lasci nella spazzola, figurarsi tutto il pacchetto…»

«Non mi sono mai sentito nobile… e poi, Bobby mi aveva scaricato in un fetido motel, e Bobby non era… nessuno. I Warren erano braccianti agricoli e io un rampollo, come dici tu, ma questo non ha cambiato…»

Crowley stroncò quella frase altamente autodistruttiva posandogli il dito sulle labbra prima di sorridergli.

«Mi concede l’alto onore di insegnarle come si fa l’amore tra gentiluomini, Lord Cosworth?»

Gli occhi celesti di Ferid gli ricambiarono lo sguardo con sorpresa, poi le sue labbra si tesero in un grande sorriso.

«È un sì?»

Crowley fece per spostare l’indice ma prima che potesse abbassare la mano lui la fermò tenendogli il polso, infilò in bocca il dito e lo succhiò con la medesima malizia con cui tempo prima – momento ben impresso nella sua memoria – aveva passato la lingua su uno spicchio di mela.

È assurdo come riesca a passare da momenti di timidezza da ragazzino a questo in pochi secondi… però adoro quando lo fa.

«Lo prenderò per un sì.»

Crowley lo prese da sotto le ginocchia e si alzò dal divano tenendolo in braccio, mascherando benissimo lo sforzo che comportava sollevare da seduti un uomo adulto per quanto magro fosse.

«Spero che abbia buona memoria, Lord Cosworth, perché se no la obbligherò a scrivere tutto.»

Ferid ridacchiò divertito.

«Ti eccita un sacco questa cosa del Lord~»

«Altroché, non ho mai fatto l’amore con un nobile.»

Crowley portò Ferid fino alla camera da letto e su quella soglia si accorse della gatta che li stava seguendo. Con una mossa fulminea del piede chiuse la porta prima che il felino riuscisse a raggiungerli.

Resta fuori, Cosetta. Non è roba per te.

Ferid non protestò per l’esclusione della sua gatta, per fortuna: una discussione sul felino di casa avrebbe guastato l’atmosfera, e per la prima volta l’atmosfera sembrava proprio quella giusta. Crowley distese Ferid di traverso sul letto, lo baciò sulla bocca e sul collo e sorrise.

«La prima cosa da imparare è la regola dei trenta.»

«Trenta… trenta cosa, Crowley?»

«Trenta baci, piccolo perverso, che cosa credevi?»

«Oh, nulla di che, lo giuro~» flautò lui, spostandosi i capelli dal viso. «Allora, che cos’è esattamente, signor Eusford?»

«Trenta baci prima di arrivare a qualsiasi zona possa valerle una multa per atti osceni, Lord Cosworth. Una regola che le è completamente sconosciuta, vero?»

«Ignota, messere~»

Crowley sospirò e sfilò la maglia viola – come le rose che gli aveva regalato – senza alcuna fretta, e si prese anche la briga di appoggiarla con cura sul comodino.

«Quando mi hai detto di essere stato sposato certo non mi aspettavo di doverti insegnare tutto… ma non è affatto male come idea.»

«Oh, non temere… non mi dovrai insegnare proprio tutto

Crowley sorrise in risposta al suo sorrisetto malizioso e lo baciò, iniziando a contare. Senza affrettarsi e anzi rallentando il più possibile arrivò fino a ventinove, appena sotto l’ombelico.

«Sono trenta, Ferid? Hai contato?»

«Sono ventinove~»

«Oh, molto bravo, non hai imbrogliato e non ti sei distratto… ma non ti preoccupare…»

Si interruppe per aprire il bottone e la zip dei suoi pantaloni e dargli un bacio sulla pelle lasciata scoperta.

«Da adesso non ti lascerò abbastanza tranquillo da contare fino a trenta.»

 

 

 ***

 

 

Il giorno seguente, dato che Yuu era al lavoro, Mikaela fu il primo fortunato a venire a sapere del coronamento della relazione tra Crowley e Ferid direttamente da quest’ultimo: non era intenzionato a raccontarlo come fosse il primo appuntamento di una ragazzina, ma alle domande di Mikaela sul perché avesse quell’aria felice aveva molto faticato a dare la pacata risposta “niente di che”. E dopo qualche secondo aveva vuotato il sacco.

Aveva ancora sulla faccia lo stesso sorriso rilassato e soddisfatto quando uscì dall’appartamento dei vicini con Mikaela al seguito. Questi chiuse la porta a chiave dietro di lui e poi gli fece un sorriso insolitamente felice, che rendeva il suo viso d’angelo particolarmente luminoso.

«Sono contento che vi siate trovati bene e che i tuoi timori fossero infondati… anche se te l’avevo detto che lo erano.»

Ferid si limitò a fare un sospiro, senza smettere di sorridere. Non gli pareva vero di essersi davvero afflitto per settimane all’idea di cosa sarebbe successo tra loro se avessero scoperto di non avere intesa sessuale. Non che fosse stato ridicolo prospettarsi la possibilità, perché era assolutamente vero che non l’avevano: avevano modi completamente opposti di consumare una relazione, esperienze piuttosto diverse e resistenze mostruosamente differenti; ma era stato assurdo pensare che potesse bastare questo per distruggerli.

«È vero, Mika, me l’avevi detto~»

«Come tutto il resto, il sesso si impara. E dopo aver imparato a sopportare, ad ascoltare, a capire e a parlarsi, ti assicuro che imparare a darsi piacere è la cosa più facile in una coppia.» fece il ragazzo, chiamando l’ascensore con la cartella di scartoffie burocratiche sotto il braccio. «Dopotutto, per quanto voglia sembrarlo Crowley non è santo, e nemmeno tu, quindi vi serve solo conoscervi un po’ meglio.»

«Sembrava quasi un sottile insulto~»

«No, affatto. I puritani e i santi autoproclamati mi fanno venire il voltastomaco.»

Ferid non poté impedirsi di pensare all’alone di santità che le circostanze fortuite gli avevano conferito nella piccola comunità della chiesa di Saint Thomas, e non riuscì neanche a evitare un basso risolino nervoso.

Santità, come no…

L’ascensore arrivò all’ultimo piano e Mika spalancò la grata.

«Ci vediamo più tardi per finire la partita?»

«D’accordo, tanto non sono nelle condizioni di chiedere a Crowley un bis proprio stasera, quindi anche dopo cena sono disponibile!»

«Ah, non so se ci sarò io.» replicò Mika entrando nella cabina. «Io sono nelle condizioni di chiedere a Yuu-chan un bis.»

Ferid guardò con sorpresa il ragazzo biondo e lui fece un sorriso malizioso mentre chiudeva la grata. Ferid vi si aggrappò mentre la porta interna si chiudeva.

«Mika, folletto dispettoso che non sei altro… voglio i dettagli quando ritorni, capito?»

Mikaela non replicò e gli fece solo un cenno di saluto con la mano mentre la cabina scendeva. Ferid lasciò la presa e rientrò in casa preso dal curioso – e un po’ perverso – pensiero che stessero facendo entrambi la medesima cosa a una parete di distanza.

Io non mi sono accorto di niente… chissà se lui invece ha sentito qualcosa? Forse mi ha fatto quella domanda perché già lo sapeva!

La sua riflessione venne interrotta mentre entrava in salotto, dove la sua gatta era comodamente stravaccata sullo schienale del divano. Non fu tanto Pandora a distrarlo, quanto la voce di Crowley che parlava con qualcuno, e scoprì che stava usando il cellulare appoggiato contro i libri sul tavolino per una videochiamata.

«Oh, guarda chi c’è! Aspetta un momento, nonna!»

Lui tese una mano verso di lui, con uno dei sorrisi più ampi e belli che gli avesse mai visto fare.

«Sono al telefono con nonna Susan, vieni a salutarla!»

«Cosa… Crowley, no!» sussurrò Ferid, atterrito alla sola idea. «Non voglio vedere tua nonna avere un infarto in diretta appena mi vede, sei pazzo?»

«Smettila, guarda che gliel’ho già detto… non c’è nessun problema… solo due parole, Ferid, ti prego.»

Non si aspettava che Crowley dichiarasse alla sua famiglia il suo orientamento e la sua decisione di stare con un uomo così, nel corso di una telefonata dopo lunghi mesi di silenzio e anni che non si incontravano, ma ancora meno si aspettava che non fosse un problema per loro.

Esitante si avvicinò al divano, prese la sua mano e si sedette accanto a lui. All’improvviso si sentì nervoso come se si fosse appena seduto in tribunale, anche se il giudice era una signora sulla settantina con una crocchia di capelli resi argentati dal tempo, con spessi occhiali sugli stessi occhi blu di suo nipote e un sorriso autentico seppure con denti troppo perfetti per non essere finti.

«Nonna, eccolo qui. Questo è Ferid.»

«Ta shara fatu bi muqabalatika, Ferid!»

Ferid restò basito almeno quanto Crowley con quella frase e ammutolirono entrambi per qualche secondo. Poi Ferid soffocò per quanto poteva una risata con la mano e Crowley si grattò il naso, in imbarazzo.

«Nonna, Ferid non è mica arabo, che cavolo gli hai detto?»

«Oh, no, davvero? Con un nome come Ferid pensavo che lo fosse… speravo di fare bella figura con il mio arabo, che peccato!» fece Susan, ridacchiò e poi proseguì: «In effetti è un po’ troppo chiaro per essere arabo, è così argentato che sembra venire dalla luna!»

Susan si sporse avvicinandosi tanto alla telecamera che del suo viso si vide solo una limitata porzione. Crowley sospirò.

«Nonna, cosa fai? È una videochiamata, se ti avvicini non ci vedi meglio…»

Per ovviare al problema della nonna il nipote prese il telefono e l’avvicinò a Ferid, e allora anche la vecchia signora O’Brian tornò a mezza figura nel riquadro.

«Ah, scusa, caro… sai, Florence ci ha spiegato un po’, ma io e tuo nonno non capiamo molto di queste cose moderne… siamo anziani, ahimè…»

«Sarà, ma mai troppo vecchi per imparare l’arabo… dove diavolo l’hai pescato, a proposito? Non mi dirai che hanno aperto una scuola di lingue a Eanverness.»

«Certo che l’hanno fatto, ma non ci sono mai andata.» fece lei, che studiava lo schermo con l’aria di stare leggendo una difficilissima ricetta. «L’ho imparato un po’ dalla famiglia che ora gestisce la tavola calda dove andavamo quando eri bambino, caro, ti ricordi? L’ha preso in gestione la famiglia Khalam, e il loro figliolo va a scuola con Patrick, sono migliori amici… si chiama Salil, un bambino adorabile, ma nero come il carbone in confronto al tuo fidanzato, caro.»

«Nonna… dai, non metterlo a disagio.» la rimproverò lui con tatto.

«A disagio? Oh, caro! Il tuo fidanzato è bello come una statua greca, poco importa se è verde, giallo o blu, Crowley caro. Ferid caro, devi venire anche tu a trovarci! Gideon sarà contento di sapere che non sei arabo, si comporterà bene… oh, niente di personale, mio caro, ma non gli piace l’islam.»

«Figurarsi.» commentò Crowley, rimettendosi all’interno dell’inquadratura della chiamata.

«Lo sai com’è lui: terra, whisky e maiali sono tutto quello che gli interessa, Gid non si metterà mai con la testa a capire una cosa che non può diventare una buona bottiglia o una cena gustosa.»

«Non hai proprio preso da tuo nonno, Crowley~»

«Grazie a Dio no.» convenne lui. «Adoro nonno Gideon, ma vive in un altro millennio.»

«Neanche tanto, se decide di non rastrellarci quando ci presentiamo come coppia.»

Crowley sollevò le sopracciglia e poi scrollò le spalle.

«Vero anche questo… ma nonna, sei davvero sicura che non sia un problema? Per te, o per il nonno, che io…»

«Mio caro, le emorroidi sono un problema. I calli, le vesciche, l’ulcera e il trattore rotto quando è tempo di raccolto. Questi sono problemi, tesoro.» disse l’adorabile signora, con un’espressione dolce che scaldava il cuore al solo vederla. «Gid borbotterà un po’ perché Ferid non è un uomo di mondo, ma…»

«In che senso, scusa?» fece Ferid, incapace di trattenersi.

«Nel linguaggio del nonno vuole dire che non sai mandare avanti una fattoria e trasformare un maialino in un assortimento di insaccati. Niente di metafisico, Ferid, tranquillo.»

«Mh…»

Per un attimo Ferid si chiese se la loro avversione non avrebbe preso vie più subdole per manifestarsi, se la famiglia di Crowley non avrebbe cominciato a criticare come vestiva, parlava, camminava e tutte le cose che non sapeva fare nella speranza di allontanarlo, o che l’amato parente capisse che non andava bene per lui… ma la paura durò molto poco.

«Ferid caro, mi sa che non è facile per te… ma parola mia, la famiglia O’Brian sarà felice di essere anche la tua finché renderai felice il mio adorato nipote. Neil è sempre stato più… rigido, sai. Il matrimonio con Maureen non gli ha giovato molto, è una donna così ossessionata dal dovere che perde di vista che una famiglia dev’essere un posto dove si torna sempre con il sorriso.»

Ferid non riuscì a trovare niente da dire dopo parole tanto toccanti: non aveva mai concepito una famiglia in quel modo, neanche nei suoi migliori sogni. Quando guardò Crowley negli occhi lo vide davvero felice e non faticò a capire come mai, dopo la discussione acre della sera prima con il padre.

«Però per una cosa mi fai molta rabbia, Crowley caro.»

A quella frase il nipote di Susan si rabbuiò e la guardò dallo schermo con aria particolarmente mesta.

«Vi metterò in imbarazzo con la parrocchia…?»

«Ah, s’impicchi la parrocchia.» sbottò lei, lasciando sorpresi entrambi gli uomini. «Ma prima di trovare questo meraviglioso ragazzo potevi sbagliarti e fare almeno un paio di pro-nipotini alla tua vecchia nonna!»

Crowley, incerto se prendere sul serio o meno quell’affermazione, si grattò la testa senza sapere che cosa dire.

«Oh, beh, mai dire mai, potrebbe anche essercene qualcuno~»

«Ferid!»

«Ah, se Dio mi vuol bene ci saranno!» sospirò la signora O’Brian. «Sprecare così quei tuoi lineamenti e quei bei capelli rossi in un nulla di fatto è un crimine… beh, beh. C’è sempre l’utero in affitto… quando vi sentirete pronti, cari miei.»

Ferid tacque e puntò uno sguardo molto serio su Crowley.

«Tua nonna mi piace. Da impazzire.»

Subito dopo alle spalle di Susan apparve un uomo anziano, basso ma robusto con larghe spalle e nessuna traccia di somiglianza con il nipote, che tuttavia era proprio il nonno Gideon.

«Gid! Gid, guarda, c’è Crowley al telefono, con il suo fidanzato!»

«Quello arabo?» borbottò lui, cupo.

«Ma no, caro, Ferid ha solo il nome arabo. Su, guardalo!»

L’anziano si chinò sul telefono e Ferid si sentì come scannerizzato da quegli occhi ombreggiati da cespugliose sopracciglia. Provò un piccolo ma sentito dispiacere quando lo vide scuotere la testa come deluso, anche se non poteva che ammettere a se stesso di esserselo aspettato.

«Sottile e delicato.» sentenziò lui. «Troppo sottile e delicato per lavorare la terra.»

«È un uomo, non un trattore, nonno.» gli fece notare il nipote accigliato. «Deve stare con me, non venire a raccogliere il mais insieme a te.»

«Beh, vuol dire che non prenderai la mia fattoria quando sarò vecchio?»

«Nonno… io ho una carriera al dipartimento di polizia, lo sai… e di questo possiamo riparlare quando inizierai a stancarti della vita di contadino, e non è ancora successo.»

Gideon scrollò le spalle e diede loro la schiena mentre si versava un enorme bicchiere di latte da una brocca di alluminio posta sul mobile della cucina.

«Beh, saprà almeno star in cucina con tua nonna ad aiutare per la cena.» commentò allora, con i baffi imbiancati dal latte. «Abbiamo posti vuoti a casa per le feste e un paio di mani in più a sbucciar le patate fan sempre comodo.»

Ferid e Crowley si scambiarono un’occhiata sorpresa e dopo un borbottio di difficile interpretazione l’uomo se ne andò col grosso bicchiere in mano. La moglie sorrise soddisfatta.

«Che t’avevo detto, caro? Ha il tatto di uno abituato ad appender maiali, ma è l’uomo che ha cresciuto il bambino che ora è l’uomo che hai vicino, non può essere poi così male!»

Quando, qualche minuto dopo, Crowley chiuse la chiamata per andare al lavoro in centrale Ferid era decisamente di buonumore: Susan era molto più aperta di mente e gentile di quanto osasse sognare e il marito, per quanto burbero, aveva tutta l’aria di un brav’uomo gentile ma troppo duro per farlo vedere chiaramente. Nessuno dei due gli era sembrato ostile come temeva.

«Ferid, mi stai ascoltando?»

Ferid girò la testa e si sorprese di vedere Crowley vicino alla porta, intento a sistemarsi la giacca.

«A che pensavi?»

«A niente! Non tornerai a casa per cena, immagino.»

«No, non credo di essere a casa prima delle undici. Ma non ti preoccupare, qui sei al sicuro… ci sono due unità che tengono d’occhio il palazzo, una fissa sul parcheggio dietro e una che sorveglia l’ingresso. Tu resta buono qui, Ferid.» gli intimò con una certa durezza. «Non uscire per nessuna ragione, neanche per un incendio se non riesci a vedere dove sia, chiaro?»

«Non uscirò, Crowley caro.» replicò lui con divertita enfasi sul nomignolo usato dalla nonna. «Farò lo spezzatino per cena, così quando torni basta scaldarlo… lo preparerò prima e quando Mikaela torna dalle sue commissioni torno di là. Abbiamo una partita molto equilibrata ancora in sospeso, oso sperare in una vittoria.»

Ferid sistemò il colletto della sua giacca invernale e gli batté piano la mano sul petto.

«Vai, caro, o farai tardi… ma non correre in macchina, okay?»

«Sono un poliziotto, non corro mai in macchina… se non c’è nessuno da inseguire, almeno.»

Crowley gli diede un bacio sulle labbra e fece per uscire quando si bloccò: Pandora si stava strofinando contro la porta, pronta a tentare un’evasione. Ferid accennò a chinarsi per prenderla ma Crowley fece prima di lui; la prese in braccio e lei attaccò delle rumorose fusa. Restò fermo lì, basito, a guardare l’irlandese darle qualche carezza sulla testa alla bestiolina che non accennò neanche a tirare fuori le unghie.

Ma come… fino a ieri si odiavano…

«Vale anche per te: stai in casa. Bada a Ferid, che non mi fido.» disse Crowley alla gatta, e la lasciò tra le braccia del padrone con un sorriso. «Ci vediamo stasera, se sarai ancora sveglio. Ciao, Dora.»

Crowley lasciò l’appartamento salutato dalle oziose fusa di Pandora e dal silenzio perplesso di Ferid. Osservò la sua gatta, che gli ricambiò lo sguardo con uno pigro e sonnolento.

«È la prima volta che ti chiama per nome, ti ha sempre chiamato Cosetta…»

Sorrise e le grattò le orecchie.

«Ho quasi paura a dirlo, ma… non ti sembra che tutto si stia sistemando, un po’ alla volta?»

Pandora chiuse lentamente gli occhi e li riaprì, in un gesto felino che a Ferid sembrava proprio una conferma.

 

 ***

 

Solo poco più tardi Ferid canticchiava il motivetto di una pubblicità che non riusciva a togliersi dalla mente mentre mondava le verdure necessarie a preparare lo spezzatino. Sussultò quando sentì lo squillo del suo cellulare, tanto di rado squillava, e fu con grande sorpresa che vide sullo schermo un numero di telefono non memorizzato. Non aveva idea di chi potesse chiamare quel numero nuovo da una linea fissa e pensò a un errore, quindi rispose a cuor leggero.

«Sì?»

«Ciao, Rid. Stai passando un piacevole pomeriggio?»

Il respiro gli si bloccò bruscamente come fosse piombato di peso dentro un lago di acqua gelata. Non aveva idea di come Robert fosse riuscito ad avere quel numero che gli aveva dato la polizia di Satbury, ma il solo pensarci gli fece sentire la sua presenza così vicina e minacciosa da potersi immaginare il fiato caldo sul collo. Se lo toccò in un gesto di paura inconscia.

«So che sei tu, Rid, non ti sforzare… sei da solo a casa? Bada alla tua risposta, potrei già saperlo…»

Il gatto con il topo… lo sta facendo per farmi paura o mi sta osservando?

Ferid posò il coltello e si avvicinò alla finestra della cucina, senza ancora accorgersi che non aveva ripreso a respirare.

«Riesci a vedermi… oppure no? Da dove ti sto guardando?»

In uno scatto incontrollato tirò la tendina coprendo la finestra e Robert scoppiò a ridere.

Ci sono cascato come un idiota… non mi sta davvero guardando, ha solo immaginato che a quelle parole avrei cercato di trovarlo là fuori.

«Basta giocare, Bobby! Perché non puoi semplicemente vivere la tua vita da cane scabbioso lontano da me e lasciarmi in pace, per una volta?!»

«Ah… ironico che proprio tu mi dica questo, dopo quello che hai fatto.»

La sua risposta lo lasciò del tutto interdetto, tanto che non seppe neanche cosa controbattere. Riusciva solo a pensare che doveva chiudere la chiamata e usare il telefono di casa per chiamare in centrale. Doveva dirlo a De Stasio, che l’avrebbe detto a Crowley non appena fosse arrivato al dipartimento.

«Non riattaccare.»

Aveva già il pollice sopra l’icona rossa quando sentì un gemito acuto di dolore. Con il cuore in gola e la mente che a malapena elaborava i pensieri riaccostò il telefono all’orecchio. Sentiva in sottofondo il fischio di un bollitore, o almeno gli ricordava proprio il rumore del suo.

«Se riattacchi la chiamata la torturo e la uccido!»

Sentì lo schioccare di qualcosa – un rumore simile a una cinghia o a un frustino da equitazione, gli venne subito da associarlo – e poi di nuovo il grido di una donna. Gli sembrò di aver preso un calcio violento alla bocca dello stomaco per quanto gli si strinse dolorosamente.

È arrivato a lei… ha preso davvero Krul.

«Parlagli, deve riconoscerti!»

Non era affatto necessario: la conosceva abbastanza bene da riconoscerla anche solo da un gridolino come quello. In ogni caso qualsiasi dubbio – o speranza che fosse – venne dissipato quando a seguito di un altro colpo lei lo mandò al diavolo con veemenza.

«L’hai riconosciuta, Rid?»

Il suo primo istinto fu ricoprirlo di minacce e insulti, intimandogli di togliere le sue luride mani da lei in quell’istante… ma qualcosa, un barlume di lucidità, lo fermò e lo costrinse a prendere il respiro e a calmarsi.

Conta sul fatto che lei sia una moneta di scambio… se ignoro la sua provocazione potrei convincerlo a lasciarla perdere.

«Non proprio.» rispose quindi. «Che cosa diavolo stai facendo, Bobby? Hai preso un’altra vittima da dissanguare?»

«Può essere.» replicò lui, appena più freddo di prima. «Vuoi unirti a me e vederla appesa per i piedi e sgozzata come un maiale finché non si dissangua?»

Ferid si morse il labbro inferiore. Si sforzava di pensare il più rapidamente potesse, ma non riusciva a trovare la soluzione; non aveva alcuna idea di cosa potesse funzionare nel trattare con una persona tanto squilibrata seppure la conoscesse.

«Se ti interessa salvare questa strega vieni da me. Ti aspetto a casa sua, so che sai dove si trova.»

«Non lo farò, Robert.»

Ci fu un rumore improvviso di metallo e un grido di sofferenza che neanche quella coriacea, piccola donna che era Krul riuscì a smorzare. Ferid strinse il telefono tanto forte da farsi male alle dita. Sapeva che non avrebbe dovuto cedere, che doveva dire tutto subito a Crowley e ai suoi colleghi, ma quando sentì un altro grido come quello precedente non riuscì più a pensare.

«D’accordo! Smettila, Robert, maledizione, lasciala stare!»

«Vieni subito, Rid, mi sono spazientito con il passare del tempo…»

«Non venire!» gridò Krul, più distante dal telefono. «Ferid, non venire per nessun…!»

Sentì di nuovo quello schiocco e qualsiasi cosa fosse stroncò la frase di Krul. La sentì mugugnare e immaginò che dovesse averla imbavagliata o le stesse coprendo la bocca con qualcosa.

«Sta’ zitta, brutta stronza! E ti avviso, Rid!» aggiunse in tono duro, di rabbia mal celata, rivolto a lui. «Se vedo un poliziotto… se sento una sirena… do fuoco alla casa con la tua strega dentro!»

La comunicazione venne interrotta e Ferid rimuginò per alcuni secondi, che gli parvero ore, sul da farsi; pensò alle opzioni che aveva, ma ogni soluzione gli sembrava sbagliata.

Aveva già il numero di De Stasio sul display – poiché non sapeva se Crowley stesse ancora guidando – ma non avviò la chiamata. Andò invece alle finestre, diede una lunga occhiata fuori, e solo dopo aver riflettuto qualche altro minuto con gli occhi celesti fissi sul parcheggio fece una telefonata.

«Ferid, che succede?» fu la prima, discretamente allarmata risposta di Mikaela.

«Mikaela, ho bisogno del tuo aiuto, ma non c’è un minuto da perdere.» esordì Ferid, rendendosi solo vagamente conto di quanto la propria voce suonasse ferma e risoluta. «Ascoltami attentamente, perché non voglio ripeterlo.»

«Ma che sta succedendo?»

«Devo uscire da qui, e i poliziotti che sorvegliano il palazzo non devono scoprirlo.»

Mikaela tacque per un attimo, ma se Ferid si aspettava delle proteste o ulteriori indagini restò sorpreso.

«Che cosa vuoi che faccia?»

 

 ***

Mikaela tornò alla palazzina in sella alla sua moto tenendo una velocità che non desse nell’occhio in un senso o nell’altro ed entrò dal cancello parcheggiando vicino all’ingresso. Smontò di fretta e lanciò un’occhiata alla strada verso un’auto dove due uomini sui sedili anteriori sembravano aspettare qualcosa che tardava ad arrivare.

Eccoli… devono essere la pattuglia che controlla l’ingresso… mi auguro che Ferid sappia che cosa sta facendo.

Il ragazzo biondo entrò e infilò l’ascensore per fare in fretta, e mentre saliva si sfilò il casco integrale. Aveva ascoltato il piano di Ferid al telefono, e l’aveva seguito per ragioni che non comprendeva neanche lui: era un ragazzo che dotato di buonsenso e di logica, o almeno così si riteneva, e aveva deciso di assecondare una richiesta senza conoscerne neanche la ragione.

Ma non farebbe una cosa del genere per gioco… dev’essere successo qualcosa di grave… qualcosa di tanto grave da non poterlo raccontare a Crowley.

Finalmente arrivò all’ultimo piano e lì trovò Ferid che spalancò la grata non appena la cabina si fu arrestata.

«Era ora, Mikaela, in nome di Dio, perché ci hai messo tanto?!»

«Ero sulla Madigans e dovevo anche comprare la tuta, ho fatto prima che potevo.» si giustificò Mikaela, e abbassò la cerniera per sfilarsela di dosso. «Vuoi dirmi che cosa sta succedendo?»

«Ora non ne ho il tempo, devo cambiarmi e abbiamo pochi minuti per levare le tende!»

«Quindi mi porti con te?»

Ferid parve preso in contropiede da quella domanda e ammutolì, come se si fosse reso conto che non aveva considerato qualcosa di importante nella messa a punto della sua strategia.

«Posso andare da solo.» disse poi, e prese a infilarsi la tuta che Mika si era appena tolto. «Anzi, è meglio se vado da solo.»

«No, per niente. Usciremo di qui con il tuo piano e mi dirai che cosa sta succedendo… non è sicuro andare là fuori senza che qualcuno ti accompagni.»

Ferid parve in parte sollevato e non mosse obiezioni, così Mikaela buttò dentro casa gli abiti che si era tolto per riuscire a indossare la tuta appena comprata dal negozio sportivo sulla Madigans, ficcati in fretta e furia nella borsa anche quella acquistata nello stesso posto, e ripescò jeans, scarpe, giubbotto e berretto che per primi gli capitarono sotto mano.

Diede una mano a chiudere la cerniera e a infilare i voluminosi capelli argentei di Ferid sotto il casco integrale. Come la tuta sportiva aveva già dimostrato qualche tempo prima, le loro taglie erano abbastanza simili da consentire loro di mettere in atto quel trucco da illusionisti: visti da lontano e in sella alla moto sarebbe stato impossibile capire che il pilota che stava per uscire dal parcheggio non era lo stesso che era rientrato pochi minuti prima.

Ferid occhieggiò l’orologio e con più fretta ancora infilò guanti e stivali.

«Andiamo, è ora.»

«Non vuoi spiegarmi?»

«Strada facendo.» tagliò corto lui. «Il nostro diversivo è in arrivo e dobbiamo approfittarne.»

«Diversivo?»

«Sì. Non so chi stia montando la guardia, ma se fosse uno sveglio o scrupoloso si chiederebbe come mai un ragazzo che è uscito vestito in un modo torna in tuta e poi esce di nuovo subito dopo con un passeggero… abbiamo bisogno che qualcuno lo distragga abbastanza da non fargli notare nulla di strano in noi.»

«Capisco, ma che cos’hai preparato?»

«Lo vedrai.»

Mikaela tentò di capire che cosa passasse per la testa di Ferid, ma non arrivò a nulla se non alla certezza che aveva tutta l’aria di essere un uomo diverso da quello che aveva conosciuto fino ad allora: i suoi occhi, la sola cosa che fosse visibile sotto il casco, sembravano ardere ma al contempo erano freddi e calmi. Era molto distante dall’uomo della finta allegria, dalla parlantina che mascherava l’insicurezza e della presunta codardia.

I suoi occhi… nei suoi occhi vedo la stessa cosa che ho visto in quelli di Crowley, quel giorno… qualsiasi ragione abbia per fare questo, è tutt’altro che un capriccio.

Uscendo Mikaela ebbe un lampo di comprensione riguardo al diversivo: una volante della polizia era ferma sul ciglio della strada con i lampeggianti accesi e degli agenti di pattuglia stavano parlando con gli uomini in borghese che piantonavano l’ingresso.

«Li hai chiamati tu?»

«Sì.» rispose Ferid mentre montava in sella. «Gli ho detto che avevo visto quei due entrare nel negozio qui davanti quattro volte senza comprare niente e che ora stavano lì davanti. Gli ho detto che sospettavo volessero rapinarlo.»

Mikaela era preoccupato e colpito allo stesso tempo da tanta pianificazione. Montò in sella dietro di lui e gli si aggrappò quando accese il motore, ma non si aspettava quello che fece subito dopo: invece di partire deciso e immettersi in strada verso la loro destinazione uscì molto piano dal cancello e si andò a fermare proprio accanto all’auto dei suoi guardiani.

«Che cosa diavolo fai, Ferid?!»

Ferid ignorò o non udì proprio il suo sussurro angosciato; mise il piede a terra e dopo aver dato un’occhiata ai due uomini in borghese si alzò un po’ la visiera.

«Che cosa succede, agenti?»

«Niente di interessante, controlli di routine.» rispose brusco l’agente di pattuglia. «Non c’è niente di cui impicciarsi, circolare!»

«D’accordo, d’accordo… me ne vado.»

Si abbassò la visiera e ripartì, questa volta filando via a velocità sostenuta fino all’incrocio successivo dove lo fermò un semaforo rosso. Allora Mikaela, dopo un’occhiata alle loro spalle, si decise a chiedere.

«Perché ti sei fermato a parlarci? Gli agenti non servivano a distrarli?»

«L’hanno fatto… ora avranno il ricordo di un motociclista che si è fermato a chiedere qualcosa alla vista di una macchina della polizia, ma è un comportamento assolutamente normale. Affrettarsi ad andarsene mentre erano occupati gli avrebbe suscitato molto più sospetto e avrebbero rimuginato su di noi, sul ciclista che era andato e tornato per poi schizzare via.»

«Sei sicuro che andrà così?»

«Se fossi al loro posto ti insospettirebbe di più un ciclista che se ne va a tutto gas mentre sei distratto da un agente o uno che si ferma proprio davanti a te a scambiare due parole?» gli domandò Ferid in un tono leggero, ma diverso dal suo solito. «Il miglior posto dove nascondere qualcosa è sotto gli occhi di tutti, Mika.»

Il semaforo divenne verde e Ferid ripartì. Durante il tragitto non potevano parlare, non sarebbero riusciti a sentirsi, e Mikaela ebbe relativamente poco tempo per rimuginare sulla questione o chiedersi se stava facendo la cosa giusta ad assecondare i piani di quello scapestrato testimone dell’indagine: zigzagava nel traffico in una maniera tale che più di una volta si ritrovò a stritolarlo con i brividi lungo la schiena per qualche sorpasso azzardato o curva ad alta velocità, ma il percorso divenne meno pericoloso quando arrivarono nel West End, con le sue strade meno trafficate.

Si fermarono davanti a una libreria che Mikaela trovò vagamente familiare e seppe che era quella dove era stato una volta come cliente e dove Ferid lavorava. L’esercizio, però, quel giorno era chiuso: la saracinesca era abbassata e mostrava orgogliosamente l’elaborato disegno di un albero con una falce di luna incisa sul tronco.

«Non è il posto dove lavori?» domandò Mikaela quando Ferid si sfilò il casco. «Cosa facciamo qui?»

«Qui nulla, la destinazione è più avanti, quella casa alta laggiù.» fece lui indicandola. «Ma non voglio che mi veda arrivare con te.»

«Chi dovrebbe vederti?»

«Ascoltami bene. Il Vampiro mi ha telefonato. È a casa della donna per la quale lavoro qui alla libreria, che abita proprio lì, e mi ha detto che se non fossi venuto il prima possibile l’avrebbe torturata fino a ucciderla. Non solo questo, ma ha anche detto che avrebbe dato fuoco alla casa intrappolandocela dentro se avesse visto la polizia.»

Mikaela comprese di aver sottovalutato la gravità della situazione, ma non si sentiva di condannare l’istintività di Ferid o il suo disprezzo per il pericolo: se ci fosse stata una persona importante per lui nella medesima situazione avrebbe di certo agito nello stesso modo. Gli lanciò uno sguardo intenso.

«Cosa posso fare adesso per aiutarti?»

«Andrò lì dentro da solo… Mika, per favore, non ho tempo per discutere!» l’interruppe quando lo vide in procinto di replicare. «Entrerò lì e cercherò di fargli lasciare Krul. Se possibile, cercherò di andarmene insieme a lei, ma è difficile che succeda. Se non esce nessuno da quella casa in quindici minuti, chiama Crowley e raccontagli tutto quanto.»

«E se lasciasse lei e prendesse te?»

Ferid esitò un momento, poi tese un sorriso nervoso.

«Chiama Crowley, perché credo che non riuscirò a salvarmi da solo neanche stavolta.»

Ferid si voltò e fece un passo verso la casa mentre si sfilava i guanti, ma si fermò di scatto. Mikaela, che stava guardando l’orologio della farmacia vicina per avere un riferimento del tempo trascorso, non se ne accorse finché non lo sentì parlare.

«Mika, un’altra cosa.»

«Niente stronzate di commiato, Ferid. Se non esci vivo da quella casa sono un uomo morto anche io.»

«Ho tutte le intenzioni di sopravvivere, il martirio non si addice a un degenerato come me.» lo rassicurò lui, con un eroico tentativo di sorriso. «Ma più importante, Robert… il Vampiro di West End… è molto, molto simile a me. Che sia una maschera o un trucco, potrebbe averlo anche oggi e aver ingannato Krul in quel modo per entrare in casa. Quindi, quando mi vedrai uscire, fammi una domanda.»

Mikaela aveva soltanto intravisto il Vampiro nel vicolo, ma aveva sentito Yuu affermare la stessa cosa. Ferid aveva in mente una sorta di parola d’ordine con la quale avrebbe potuto riconoscerlo in caso di dubbio, persino se Robert – sospettando l’intervento di una terza persona – avesse deciso di indossare la sua tuta per creare l’illusione definitiva.

«Cosa vuoi che ti chieda?»

Ferid esitò solo un momento; lo sguardo fisso sulla casa più alta.

«Chiedimi come mi chiamo.»

Un impostore avrebbe detto di chiamarsi Ferid Bathory, la risposta più ovvia, perciò lui doveva averne in mente un’altra: chiunque con le sue sembianze avesse dato una risposta differente sarebbe stato inequivocabilmente lui. Mikaela annuì e prese il cellulare.

«Quindici minuti da quando ti perderò di vista dentro il cortile, Ferid. Non un secondo di più.»

«Mi affido a te.»

Ferid attraversò la strada e si diresse di corsa alla casa con lo steccato di legno scuro. Senza esitazione entrò dal cancello aperto e scomparve alla sua vista.

Mikaela avviò il cronometro sul suo cellulare senza staccare gli occhi dal cortile della casa.

   
 
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