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Autore: Ellenw    25/01/2021    1 recensioni
La fiction è ambientata nel Mu, dove L e Light, o meglio le loro anime, si ritrovano dopo la morte e dopo aver superato il Rito di Espiazione, e anche se le loro anime sono destinate ad andare in due direzioni diverse, non riescono a stare l'uno senza l'altro.
E nonostante le tenebre, trovano la luce.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: L, Light/Raito | Coppie: L/Light
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Un’onda di nostalgia mi assale nel trovarmi in un luogo che mai avrei pensato di rivedere nella mia vita, o morte: la casa dei miei genitori, dove sono nato e cresciuto e dove ho passato gran parte della mia adolescenza, circondato da persone che mi amavano.
Non che ci sia molto di cui avere nostalgia, se si tralasciano i ricordi di un’infanzia serena. Ho sempre cercato di comportarmi come le persone si aspettavano che mi comportassi, come mio padre avrebbe voluto che mi comportassi: non sono mai stato ignavo, ho sempre dato il massimo sia a scuola che nelle attività extrascolastiche. Non ho mai fumato, mai mi sono ubriacato, non ho mai fatto tutte quelle azioni trasgressive che compiono i giovani per attirare l’attenzione su di sé o per esprimere disappunto.
Ogni giorno della mia vita mi alzavo dal letto, mettevo in pratica quelle azioni routinarie che ci si aspettava da me senza mai scompormi o commentare quanto in realtà fosse frustrante per me non provare assolutamente nessun interesse per quello che mi circondava.
Ovviamente, per evitare di sembrare depresso o asociale, ho dovuto costruire un’immagine che coincidesse con quella di un comune giovane adulto: mi sono circondato di amici e compagni di cui non mi importava nulla, sono uscito con loro e ho intrapreso relazioni con ragazze di cui stento a ricordare il nome solo per mantenere intatta la mia apparenza.
Tutte bugie.
Avevi ragione, L, non credo di aver detto mai la verità in vita mia.
Ma tu eri come me, anche la tua era solo una maschera.
E ora che mi trovo qui non sono tanto sicuro di riuscire a superare questo Rito di Espiazione. Se sarà difficile anche solo la metà di quanto è stata difficile la mia vita, allora sono spacciato.
Di fronte a me si trova il portone d’ingresso in mogano, la mia mano immobile sul pomello della porta da troppi minuti. Alla fine giro la maniglia e la porta si apre.
Dentro è tutto esattamente al suo posto: il corridoio d’ingresso con il pavimento in legno, pochi metri più avanti un mobiletto con specchio, sulla mia sinistra l’arcata d’ingresso in salotto. La attraverso e mi ritrovo con la mente all’ultima volta che sono stato qui, pochi giorni prima della mia morte.
Mia madre mi aveva preparato una cena semplice, a base di tè e spaghetti di soia, e mia sorella era rientrata dall’università per il weekend: anche se il clima era familiare, da quando era morto papà in alcuni momenti la malinconia era tangibile, e mamma non sorrideva più, nemmeno a me.
Chissà quando verrai a sapere della mia morte, madre. E Sayu.
Quante lacrime verserete per me, che vi ho procurato solo sofferenza.
Lacrime sprecate.
Anche se l’SPK e la polizia giapponese dovessero dire loro la verità su di me so che, nonostante tutto, la loro afflizione sarebbe la stessa.
L’amore incondizionato è cosi, anche se io non credo di averlo mai provato.
Con lo sguardo osservo il salotto, il divano beige, il mobile in mogano con le stoviglie in porcellana, la televisione spenta e la luce che filtra dalla finestra, oltre le tende bianche, che illumina il tutto. Al muro vedo una dozzina di fotografie: Sayu da piccola, in costume sulla spiaggia di Jodogahama, un giovane Soichiro Yagami in bianco e nero, in divisa da poliziotto il suo primo giorno di lavoro, i miei genitori nel 1985, il giorno del loro matrimonio, mia madre incinta al parco, con un libro in mano.
I miei genitori hanno sempre amato conservare quei ricordi e appenderli al muro, per poterli ricordare ogni giorno, negli anni a venire. La cosa assurda è che in nessuna di queste foto compare Light Yagami, e questa è la prima differenza tra questa realtà costruita e il mondo reale.
Ricordo bene infatti che la mia ultima foto è stata scattata il giorno in cui sono entrato nella polizia giapponese, e mia madre l’aveva appesa vicino alla finestra.
Mentre mi guardo intorno all’improvviso sento aprirsi la porta d’ingresso, e mi immobilizzo nel panico più totale. Sento la persona al di là del muro togliersi le scarpe e indossare le ciabatte, e dopo qualche minuto Soichiro Yagami si affaccia all’ingresso del salotto e nel vedermi si arresta di colpo, spaventato.
“E tu chi saresti? Un amico di Sayu?” mi chiede con sospetto. “Chi ti ha fatto entrare?”
Ma certo, quel guardiano mi aveva avvisato che per passare la prima prova avrei dovuto convincere qualcuno della mia esistenza in un mondo in cui non sono mai esistito.
Che assurdità pensare che quel qualcuno sia proprio mio padre.
Eppure tutto torna, in un mondo dove io non sono mai esistito i miei genitori hanno solo una figlia: Sayu.
Cerco di capire come fare per passare la prova e ad un certo punto mi viene un’idea.
Decido di arrivare subito al punto.
 “Veramente no, Soichiro. Sono tuo figlio, anche se tu non lo ricordi”
Lui mi guarda come se fossi impazzito, ma non gli lascio il tempo di rispondermi ed inizio subito a spiegargli. Conosco bene mio padre, e so che è un bravo ascoltatore, anche se quello che gli sto dicendo inizialmente a lui sembra totalmente assurdo.
Inizio dal principio: dai nomi di lui e di sua moglie, dalla sua idea pura e intransigente della giustizia e da come abbia dedicato tutta la sua vita al lavoro, perché, come diceva sempre, “io lavoro per rendere il mondo un posto più sicuro per voi”. Poi gli parlo di me, della mia vocazione che era come la sua, e di come, come lui, sarei disposto a morire e a sacrificare ogni cosa per la giustizia.
Che, ironicamente, è proprio quello che ho fatto.
“Senti, non so come ti chiami ragazzo, e non so come fai a sapere tutto questo sulla mia famiglia, ma credo che dovresti andare ora” mi dice interrompendomi.
“Mi chiamo Light, si scrive Tsuki e si legge Light”
A quell’annuncio la sua espressione cambia repentinamente, e mi fissa sconvolto.
“Come lo sai?” mi chiede un sussurro.
“Che cosa?”
“Quando scoprimmo di aspettare un figlio, io e mia moglie Sachiko, non sapendo ancora il sesso del bambino, pensammo a due nomi, uno femminile e uno maschile. E se fosse stato un maschio si sarebbe chiamato esattamente come dici di chiamarti tu. È un nome particolare, non comune in Giappone. E non ne parlammo con nessun’altro, solo io e lei lo sappiamo”
Poi, finalmente, mi osserva più attentamente e vedo instaurarsi il dubbio sul suo volto.
Ci sono quasi.
“Sei diventato sovrintendente da una decina d’anni e da quando è successo per motivi professionali non parli più di lavoro con la tua famiglia. Conosco molti dei tuoi collaboratori” e gli dissi i nomi di tutti quelli che ricordavo.
Mio padre mi guarda allibito a qualche metro da me, ma io non mi interrompo. Gli parlo dei due casi che molti anni prima, su sua commissione, avevo risolto proprio io mentre ero ancora studente. Gli spiegai la dinamica di quegli omicidi e di come ero arrivato al colpevole.
Lui mi guarda attonito. “Questi particolari sugli omicidi sono noti solo a me e alla mia squadra, è impossibile e incredibile che tu sappia tutti questi dettagli. Tuttavia, per risolvere quei crimini ci siamo rivolti a L, non riuscendo ad arrivare alla soluzione. Anche due settimane fa il suo aiuto è stato fondamentale, se non risolutivo, per il caso a cui lavoravamo”
A quel nome ho un lieve sussulto.
Ma certo, in questo mondo Kira non è mai nato, ma L sì.
E ovviamente, non esistendo io, lui è ancora vivo.
Un amaro sorriso mi attraversa il volto.
E in quel momento vedo mio padre che mi osserva con uno sguardo diverso rispetto a prima, questa volta fiero e commosso, e che lentamente inizia a dissolversi in piccolissime luci che si disperdono nella stanza.
E poi, di colpo, mi ritrovo catapultato di nuovo nel castello di vetro.
Nulla è cambiato, ad eccezione degli specchi. Ora oltre le vetrate si vede di nuovo la galassia che avevo visto all’inizio, sotto i miei piedi c’è il pavimento trasparente oltre il quale vedo il piano di sotto dove mi sono risvegliato. Tuttavia, tutte le stanze sono vuote.
Decido di proseguire e di provare a salire su una delle torri, così salgo le scale per dirigermi al terzo ed ultimo piano, da cui presumo poi si salga alle torri. Forse lì troverò il guardiano per capire come fare per affrontare le altre due prove.
In cima alle scale si trova un’arcata con una porta di vetro, e, oltrepassata quella, mi ritrovo in una grande sala identica alle altre due, vuota e completamente circondata da vetrate. Se non sapessi di essere al terzo piano potrei giurare di essere rimasto al primo, dato che ogni piano è identico all’altro. L’unica differenza è che qui, ai quattro angoli della stanza, si trovano quattro porte che sono certo conducano alle torri.
Sento un fruscio alle mie spalle e mi volto, vedendo il guardiano.
Come la prima volta, ha il mio stesso aspetto, anche se più sbiadito.
“Eccomi di nuovo, Light. Sei pronto per affrontare la seconda prova?”
“In cosa consiste?” chiedo, più annoiato che curioso.
L’unica consolazione è che alla fine di queste prove sarò libero, anche se impuro, e potrò aggirarmi nel Mu finalmente in pace.
“Dovrai ottenere il perdono di una persona la cui vita è stata rovinata a causa tua. Normalmente, ogni anima può scegliere la persona con cui vuole scusarsi, ma nel tuo caso, in cui le persone a cui hai rovinato la vita sono migliaia, non potrai scegliere. Anche se la prova del rito generalmente mira a farti affrontare i tuoi rimpianti, e il tuo odio.”
Non faccio a tempo a chiedere spiegazioni che di nuovo mi ritrovo catapultato in un altro scenario. Inizia ad irritarmi il fatto di non avere il minimo controllo di quello che sta succedendo, ma immagino faccia parte della mia punizione.
Mi sento perso, e non sapere cosa mi aspetta ogni volta è molto frustrante.
Non credo di avere molti rimpianti, anche se forse il mio inconscio la pensa diversamente.
Mi guardo intorno e riconosco immediatamente anche questo luogo, con la stessa velocità con cui ho riconosciuto casa mia nella prova precedente.
È l’appartamento mio e di Misa, dove ho vissuto gli ultimi cinque anni della mia vita dopo aver lasciato la casa dai miei. Mi ero trasferito qui principalmente per due motivi: il primo era operare indisturbato e nascosto come Kira, con Misa come secondo Kira, senza che nessuno potesse interferire mentre scrivevamo sui nostri Death Note. Il secondo motivo, in qualità di secondo L, era quello di trovare un quartiere generale per la squadra e proseguire con le indagini per risolvere il caso Kira.
Mi trovo di fronte all’entrata dell’appartamento, e decido di entrare senza pensarci troppo.
Se la persona a cui ho rovinato la vita e di cui devo ottenere il perdono si trova dentro questo appartamento, si tratta molto probabilmente di Misa Amane.
Effettivamente, per amore verso di me, Misa ha decisamente rovinato la sua vita, dimezzandola per ben due volte facendo lo scambio degli occhi prima con Rem e poi con Ryuk, anche se nessuna di quelle due volte fui io a chiederle di farlo. Tuttavia, starmi accanto l’ha condannata a passare molto tempo in solitudine, soprattutto nell’ultimo periodo in cui mi sono visto costretto a farle perdere la proprietà del Death Note e lei era quindi ignara di quello che stava succedendo tra me e l’SPK.
Senza contare del fatto che, appena saprà della mia morte ne resterà tanto sconvolta che probabilmente deciderà di togliersi la vita. O forse è già successo. È impossibile capire con quale velocità scorre il tempo in questa dimensione e da quanto tempo mi trovo qui.
Forse settimane, o mesi. O addirittura anni, chi lo sa.
Proverò a chiederlo al guardiano appena mi capiterà di rivederlo.
Appena entro, l’appartamento è silenzioso, tutto è in ordine esattamente come l’avevo lasciato l’ultimo giorno in cui sono uscito da questa porta, e dal pulpito della mia autostima, mai avrei immaginato che non sarei più tornato.
Il salotto è illuminato da una luce tenue di una lampada a muro, il divano al centro della sala e i cuscini sopra di esso sono ordinati agli angoli. La televisione è accesa su un noto telegiornale giapponese, ma il volume è praticamente a zero.
Faccio qualche passo verso il centro della stanza e dalla mia angolazione vedo che la cucina è in ordine ma la tavola è apparecchiata come se qualcuno stesse preparando la cena fino a qualche minuto prima.
Dalle grandi finestre che danno sul soggiorno vedo il panorama scuro di Tokyo e riconosco il quartiere di Okinawa in lontananza.
Tutto è come lo ricordo, ora devo solo aspettare che Misa compaia qui da un’altra stanza o che entri dalla porta d’ingresso, in caso fosse uscita per qualche commissione dell’ultimo minuto.
Come se qualcuno avesse udito i miei pensieri, avverto dei passi nel corridoio che si avvicinano.
Ma a comparire nel salotto non è affatto Misa Amane.
È un Light Yagami dallo sguardo di ghiaccio, i capelli che gli ricadono sulla fronte e gli nascondo parte degli occhi castani. È il Light di qualche mese fa, distrutto mentalmente e fisicamente dal continuo lottare in un senso e nell’altro per raggiungere il suo obiettivo ultimo, un mondo giusto.
Riprendo a respirare non essendomi nemmeno accorto di aver trattenuto il fiato fino ad ora.
È questa la prova, e il significato è più che lampante.
È questa la persona a cui, più di tutti, ho rovinato la vita.
Me stesso.
Essere Kira mi ha condannato ad un destino di morte e di sofferenza, proprio come mi aveva anticipato Ryuk quando ho raccolto il quaderno. La vita che avrei potuto avere, la persona che avrei potuto essere, un’intera esistenza svanita in quel momento, in nome di un fine ultimo e divino a cui non ho potuto rinunciare, e a cui ho sacrificato tutto.
Il Light che mi osserva non sembra minimamente sorpreso di vedermi, come se mi aspettasse. Mi osserva in attesa di sentire quello che ho da dirgli.
Morirai.
Questa è l’unica cosa che vorrei dirgli.
Fuggi.
Ma ormai è troppo tardi per lui, per me. Il destino era già segnato nel momento in cui ho scritto il primo nome.
Non sono mai stato una persona particolarmente emotiva, ma ora, guardando un me stesso palesemente infelice e pieno di odio, di risentimento e di disgrazia, sento come una voragine aprirsi nel mio petto.
Tutto questo, è stato inutile?
Ma anche se lo fosse stato, non è questo a farmi vacillare.
Guardando quel venticinquenne totalmente solo e incompreso, a farmi vacillare è la consapevolezza di averlo ucciso senza pietà. Di aver sacrificato la cosa più importante che avesse, il tempo.
Il guardiano mi disse che per superare la prova avrei dovuto affrontare il mio odio e i miei rimpianti.
E ora comprendo il pieno significato delle sue parole.
La persona che più odio al mondo è quella che sto guardando.
La consapevolezza di questo pensiero mi colpisce e mi trapassa con la stessa intensità dei proiettili che mi hanno ucciso.
“Perdonami” sussurro.
Light Yagami mi osserva, nel suo sguardo vedo solo vuoto.
“Non potrò mai perdonarti” sibila con un sorriso beffardo.
Chiudo gli occhi e tento di cacciare indietro quelle che sono sicuro siano lacrime amare. E poi capisco: lui ed io siamo la stessa persona. Quindi, dipende solo da me stesso perdonare quello che ho fatto. Devo liberare il peso che mi opprime da quando sono entrato in questa stanza. Se veramente riuscirò a perdonarmi, il me stesso del passato dovrà accettarlo. E mentre capisco ciò mi accorgo che la stanza inizia lentamente a girare intorno a noi.
I suoi occhi sono fissi nei miei. Ma questa volta, non vedo odio, solo commiserazione.
“Invece si, lo farai” dico.
La stanza inizia a girare molto più velocemente, ma sento che sto diventando più leggero e che sto scomparendo piano piano. Il ragazzo dagli occhi ramati mi guarda ancora, questa volta il suo sorriso è vero e sincero.
È la prima volta, forse, che lo vedo sereno.
E poi tutto svanisce e in un lampo mi ritrovo di nuovo seduto sul pavimento al centro della sala di vetro, nel castello volante. Mi alzo di scatto e mi dirigo deciso ad una delle porte agli angoli della sala, sicuro di voler andare fino in fondo.
Al di là della porta c’è una scala a chiocciola strettissima e ripida, che gira su se stessa all’interno della torre e che sale verso l’alto. Ovviamente, anche le pareti della torre e questa scala sono di vetro e quindi totalmente trasparenti. A pochi centimetri da me, mentre salgo scalino per scalino, posso vedere il panorama oltre le pareti, e la bellezza della galassia oltre il vetro mi lascia nuovamente senza fiato.
Dopo diversi minuti e almeno un migliaio di scalini, ho il fiato corto, ma finalmente sono arrivato in cima. La scala a chiocciola termina molti metri più in alto, di fronte ad una porta anch’essa in vetro, oltre la quale si trova una terrazza circolare che circonda la parte più alta della torre. Qui fuori la vista è semplicemente spettacolare.
Da così in alto posso vedere tutto il castello, anche se ci sono due torri che superano il altezza quella in cui mi trovo. Il castello visto dall’alto sembra ancora più grande, oltre il tetto in vetro riesco a vedere i due piani con le grandi sale da cui sono arrivato, e, ai lati del castello quattro altissime torri, in una delle quali mi trovo io. Un’altra torre, la quinta, si dirama a partire da una delle altre torri laterali al castello, come un ramo che si separa dal tronco principale. Alzando lo sguardo verso l’alto, osservo lo spazio e le costellazioni dal punto più alto che ho potuto raggiungere.
Ma una voce mi richiama al presente.
“Light, il tuo tempo in questo luogo è quasi terminato. Appena supererai la terza prova, potrai accedere al Mu”
Il guardiano è di fronte a me, sulla terrazza della torre.
“Cosa farò nel Mu?” chiedo.
“Dovrai cercare di redimerti, ma non ci saranno prove da affrontare. Avrai solo, molto, molto tempo per pensare.”
“E se non riuscissi a redimermi?” all’improvviso questo dubbio mi passa per la testa.
“In quel caso, finirai nel mondo degli Shinigami, dove le anime impure continuano ad uccidere esseri umani per prolungare la loro esistenza. Anche se, come dicesti tu stesso a Ryuk tanto tempo fa, nemmeno la loro esistenza è senza significato”
Resto a fissarlo sconcertato. Quindi, se non riuscissi a purificare completamente la mia anima nel Mu, diventerò uno Shinigami?
Ma se così fosse, significa che tutti gli Shinigami che ho incontrato nella mia vita, un tempo erano umani. Umani che non hanno espiato le loro colpe.
Il custode annuisce, rispondendo al mio pensiero. Avevo dimenticato che sembra sapere tutto di me, persino quello che mi passa per la testa. Dev’essere stancante conoscere e guidare così tante anime verso il Mu ogni giorno.
“In cosa consiste la terza prova?” chiedo.
“Dovrai assumerti la responsabilità delle tue azioni e affrontare il rimorso, tuttavia questa volta il perdono non c’entra nulla. Se la supererai, allora accederai al Mu. Spero tanto che ti salverai, Light. Nonostante nel vedere la tua anima percepisco tutte le morti che hai causato, questo luogo così particolare mi dà l’impressione che ci sia ancora qualcosa di puro e insondato dentro di te”
Sorrido amaramente. “Lo spero tanto” dico.
Chiudo gli occhi e dico mentalmente addio a questo luogo che a quanto pare riflette nient’altro che me stesso. Non penso che ritornerò mai più qui.
Quando li riapro, mi trovo in un luogo totalmente diverso. E appena vedo quello che ho davanti, resto senza fiato. Perché mi trovo in una stanza a me sconosciuta, anche se forse mi è capitato di vedere una cosa simile in qualche film di guerra.
La stanza che mi circonda è piccola, circa venti metri quadrati, senza nessuna finestra. Io mi trovo al lato sud, di fronte a me si trova un piccolo tavolo, al di sopra del quale si trova una pistola beretta 92-FS. La riconosco immediatamente perché anche io, in quanto poliziotto, ne avevo una identica in dotazione. Ovviamente, non mi è mai capitato di usarla contro una persona. Mi vengono i brividi al pensiero di come dovrò usarla per superare la prova.
In linea d’aria a circa sette metri dal tavolo vi è una semplice sedia in legno abbastanza datata, e appena alzo lo sguardo mi si accappona la pelle, perché il muro retrostante la sedia è pieno di schizzi di sangue, come ad indicare che le persone sedute su quella sedia venivano giustiziate proprio in questa stanza.
Appena capisco di trovarmi in una camera di esecuzione retrocedo di un passo, ritrovandomi sulle spalle al muro. Che diavolo significa tutto ciò?
Io non ho mai ucciso nessuno. Almeno non così.
Mentre sto cercando di capire come superare questa prova assurda, e soprattutto se riuscirò a superarla, una porta in fondo alla stanza, sul lato alla mia destra, si apre. Non avevo notato prima la porta semplicemente perché è completamente mimetizzata con le pareti, che sono sicuro siano insonorizzate.
E per poco non cado per terra quando mi accorgo chi entra da quella porta.
Non mi guarda di striscio, anzi sembra che non si sia nemmeno accorto di me, ma io non potrei mai, per nessun motivo, dimenticarmi di lui. È esattamente come lo ricordo l’ultima volta che l’ho visto: le mani in tasca, i jeans blu scuro larghi una taglia in più del necessario, ai piedi le scarpe da ginnastica slacciate e consumate, la maglia bianca che gli ricade sui fianchi.
L si accomoda sulla sedia macchiata del sangue, nella sua solita posizione con le gambe raccolte al torace e i piedi sulla sedia, un pollice tra le labbra, e finalmente mi guarda.
Il suoi occhi grandi sono neri e indecifrabili come la notte. I suoi capelli neri e lucidi come il petrolio gli ricadono sulla fronte e coprono gran parte del suo viso.
“Light-kun” sussurra in saluto e mi sorride.
E finalmente capisco quello che devo fare. Il guardiano mi ha detto che questa prova mi avrebbe portato ad assumermi la mia responsabilità e ad affrontare i miei rimorsi.
E chi se non L poteva incarnare tutto ciò.
Respiro a pieni polmoni e afferro la pistola tra le mani. Anche se è stato Rem a scrivere il suo nome sul Death Note, sono stato io ad averlo incastrato e aver spinto Rem ad ucciderlo. E ora devo ucciderlo di nuovo, per rivivere il mio più grande rimorso in eterno.
Eppure mentre afferro la pistola mi tremano le mani, la vista è offuscata.
L è seduto immobile di fronte a me, dietro di lui al muro pieno di scie di sangue presto si aggiungerà il suo. Mi guarda con uno sguardo di sfida, un accenno di sorriso sul suo pallido viso.
Punto la pistola verso il suo volto, ma le lacrime che mi riempiono gli occhi non mi permettono di metterlo completamente a fuoco. Tuttavia, la distanza tra noi è talmente ridotta che anche un cieco centrerebbe l’obiettivo.
L’ultima immagine che vedo sono i suoi occhi neri, e oltre ad essi vedo l’unica persona al mondo con cui abbia mai avuto sintonia.
Sento le lacrime bagnarmi le guance e incessanti scendere lungo il mio collo.
Perdonami, amico mio.
E poi premo il grilletto, e sento il rumore dello sparo e del getto di sangue che segue riecheggiare dentro di me.
  
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