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Autore: mask89    31/01/2021    32 recensioni
Due ragazzi, nati e vissuti in luoghi completamente diversi, vengono uniti dal destino. Verranno coinvolti nelle vicende del continente di Thauras, dove sono in atto oscure macchinazioni sin prima delle loro nascita.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II

 

Il rumoreggiare della folla giungeva ovattato alle sue orecchie. Le spesse mura calcaree dell’anfiteatro, unitamente al pesante elmo in bronzo che indossava, facevano da filtro. Allentò la fibbia della calotta in cuoio, che foderava la parte intera del copricapo, la quale gli passava sotto il mento. L’alto tasso di umidità presente lì sotto, mischiato all’aria stantia, lo facevano respirare a fatica. La cella in cui era rinchiuso gli sembrò più claustrofobica del solito. Si impose di respirare lentamente, conosceva ormai da tempo quella sensazione. Ogni volta che il suo turno di combattimento si avvicinava, un senso di inquietudine lo pervadeva. Non che temesse per la sua vita o che avesse paura di procurarsi qualche ferita, ormai era abituato. Odiava con tutto sé stesso quella gente che, dall’alto degli spalti, urlava nel vedere persone che combattevano fra di loro, per il mero e disgustoso piacere. Odiava vedere i loro sorrisi compiaciuti, ogni qualvolta qualcuno, stremato dalla fatica, collassava al suolo. Odiava la loro voglia di sangue a tutti i costi. Cosa ne sapevano loro della guerra? Cosa significasse combattere? Cosa si provasse ad ammazzare un uomo a sangue freddo, solo per soddisfare la loro orrenda sete di morte. Non sapevano neppure come si impugnasse una spada o una lancia, poiché il loro maledettissimo regno conosceva un lungo periodo di pace. Cosa potevano saperne della sensazione che si provava nel vedere la vita spegnersi in un uomo? Magari la stessa persona con cui, fino a qualche giorno prima, si era condiviso lo stesso tugurio. D’altronde, che poteva saperne lui di cosa volesse dire vivere un’esistenza pacifica? Da quando aveva memoria, i suoi giochi erano state le armi e la sua istruzione il continuo esercitarsi alla lotta e alla guerra.

Scosse la testa. Prese la cote dalla sacca che era poggiata sulla panca in legno. Molare il filo della spada, prima di uno scontro, lo rilassava sempre. Era il suo modo personale per esorcizzare la paura, che tentava di attanagliarlo.

Il cozzare di un bastone di legno, contro le sbarre metalliche della cella, lo ridestò dai suoi pensieri. Aveva appena finito il suo personale rito.

«Preparati, il prossimo sei tu.»

Annuì con la testa. Si alzò in piedi, si sistemò meglio la corazza, stringendo tutte le fibbie. Poi passò ai vambraci e agli schinieri. Avanzò lentamente verso le scale che lo avrebbero portato nell’arena. Sentiva gli occhi degli altri schiavi-guerrieri puntati su di lui, ma non gli importava. Il mito che lo accompagnava non lo aveva mai minimamente interessato. Che senso aveva uscire da ogni scontro sempre vincitore e senza un graffio, se poi ritornava ad essere uno schiavo? Persino un animale aveva più libertà rispetto a lui. L’unica cosa che gli interessava era porre fine, nel modo più veloce possibile, quella pantomima che lo avrebbe visto protagonista. Non gli importava nulla delle persone che avevano pagato per lo spettacolo, delle loro proteste e degli insulti che avrebbe preso, perché non avrebbe soddisfatto le loro aspettative. 

La grata del cancello lentamente cominciò a dischiudersi. Le urla della gente aumentarono di volume, finalmente l’attrazione principale stava scendendo sul campo. Appena mise piede sul terreno polveroso e intriso di sangue dell’arena, un boato si alzò dagli spalti. Donne che urlavano estasiate il suo nome, uomini che lo insultavano e altri che lo acclamavano. Ma, tutto questo cessò, all’unico movimento della mano dell’uomo che occupava la postazione d’onore.

«Signori e signore, che oggi mi onorate della vostra presenza» cominciò l’uomo «come vi ho promesso, in onore dei dieci anni del mio governatorato in questa bella città, vi ho offerto tre giorni di spettacoli. E ora, in quest’ultimo giorno, per concludere tutto magnificamente, come ultimo spettacolo vi voglio offrire il miglior combattimento che possiate mai immaginare. Credetemi, racconterete di quest’incontro finché avrete vita. Sarete invidiati da tutte le persone di questo regno, perché nessuno sarà capace di eguagliare ciò che vedrete quest’oggi. Ecco» e indicò il gladiatore nell’arena «io vi offro Caesar, l’imbattuto, l’invincibile, il combattente senza ferite.»

La folla esplose in un boato. Il ragazzo rimase impassibile a tutte quelle parole, a tutto quell’ardore della gente. L’unica sensazione che provava era la collera. Era stufo di essere considerato una misera attrazione, per tutta la sua vita non era stato che quello. Una stupida marionetta, a cui era stato imposto di combattere per sopravvivere. Volevano lo spettacolo? Bene, glielo avrebbe fornito; non voleva certamente deludere le loro aspettative, ma lo avrebbe fatto a modo suo.

Vide entrare il suo avversario dalla porta opposta alla sua. Lo superava in altezza di almeno quindici centimetri, anche la massa muscolare era il doppio in confronto a lui. Ma non gli importava, se pensavano di spaventarlo con un energumeno di quella taglia, si sbagliavano di grosso. Estrasse la sua fida spada corta dal fodero, mentre sistemava lo scudo dietro la schiena; con un avversario di quel calibro, alla lunga, sarebbe risultato controproducente. Lo vide correre, mentre roteava l’ascia. Rimase impassibile al suo urlo di guerra; quello schiamazzo mal riuscito non poteva spaventarlo. Restò fermo in attesa fino all’ultimo secondo poi, agilmente, schivò il colpo. Continuò quella strana danza per tutto il tempo; schivava ma non affondava mai il colpo, come se fosse incapace di maneggiare un’arma. Nel frattempo, il rumoreggiare della folla aumentava. Era giunta lì alla ricerca dello spettacolo e del sangue, invece, stava assistendo ad uno strano e sgraziato balletto, fra due uomini male assortiti. Poté chiaramente sentire le urla del suo schiavista, che lo minacciava di essere frustato fino alla morte, se non avesse cominciato a darsi da fare. Sbuffò, quella prospettiva non lo spaventava minimamente. Certo, sperava di morire in modo più glorioso ma, per la vita che conduceva, morire in un’arena per mano di uno sconosciuto o in una cella resa fetida dal suo sangue, non faceva molta differenza. Vide il suo avversario ansimare sempre più, era quasi allo sfinimento. Lo osservò caricare a testa bassa e con tutta la sua potenza, voleva chiuderla lì. Era il momento giusto. Aspettò fino all’ultimo momento poi, agilmente, scartò di lato, roteò su sé stesso ritrovandosi esattamente alle sue spalle. Fulmineo, lo colpì con l’elsa della spada alla base del cranio. Il malcapitato stramazzò al suolo svenuto, non si sarebbe svegliato prima di qualche ora. La platea, che fino a quel momento aveva pesantemente protestato per quello spettacolo da strapazzo, adesso era silente; ammutolita dalla velocità di quel colpo. Ma quel silenzio fu interrotto dalle urla furenti del governatore, rivolte al suo schiavista.

«Tu, lurido venditore di morte, mi avevi promesso uno spettacolo degno d'essere cantato da tutti i bardi del regno e invece cosa mi ritrovo? Un saltimbanco. Ora, trova subito una soluzione, prima che affidi la tua testa alle cure del mio boia.»

«Io, io…non ho nessun altro combattente con cui farlo sfidare…»

«Diecimila scudi d’oro e non hai nessuno da far combattere? Chiamate il boia, che si diverta a far soffrire quest’uomo!»

«Aspetti, aspetti!» urlò disperato l’uomo «Ho un’idea. Prima, mentre ero nel ventre dell’anfiteatro, in una cella ho notato tre tipi poco raccomandabili.»

«Sono dei banditi che ho condannato a morte. Hanno ucciso oltre venti persone, tra uomini, donne e bambini.»

«Li faccia combattere contro quel traditore. Gli prometta la libertà se vinceranno. Sono sicuro che ricorreranno a ogni bassezza per avere salva la vita . La folla gradirà, ne sono certo.»

«Sembra una buona idea! Guardie, andate giù nelle celle, liberate e armate quei tre banditi, poi mandateli nell’arena a combattere contro quel bastardo.»

La gente sugli spalti approvò con un’ovazione quelle parole. Finalmente, avrebbero avuto lo spettacolo che gli era stato promesso. Caesar, invece, rimase impassibile. Aveva combattuto, aveva sconfitto il suo avversario ma, a quanto pare, non bastava. Lo volevano costringere a versare sangue e, questa volta, non avrebbe potuto esimersi.

Prese lo scudo da dietro la schiena e lo afferrò saldo nella mano sinistra. Si mise in posizione di guardia. Non sarebbe stato uno scontro facile. Non lo preoccupava il numero di avversari; non era la prima volta che si trovava in una situazione di svantaggio numerico. La sua preoccupazione era motivata dalla risma di persone che si trovava ad affrontare: tagliagole e, a quanto pare, della peggior specie. All’interno dell’arena, tra combattenti, vi era un codice d’onore da rispettare. Era uno scontro all’ultimo sangue ma, comunque, vi erano delle regole non scritte a cui si attenevano tutti; nutriva forti dubbi che quei tre le avrebbero rispettate, visto che in ballo vi era la loro libertà e la vita. Li vide entrare, il loro equipaggiamento era di prim’ordine. Gli avevano fornito armi ed armature dell’esercito. Doveva aver fatto veramente arrabbiare il governatore, per farli agghindare in quel modo. Schivò abilmente la lancia che il bandito più basso gli aveva scagliato contro. Con la coda dell’occhio la vide conficcarsi pesantemente nel terreno; estrarla avrebbe richiesto solo tempo e fatica, due cose che al momento non poteva permettersi. Il più muscoloso dei tre gli si avventò subito addosso. I suoi colpi erano potenti, ma mancava di tecnica; prevedere le sue mosse non era difficile. All’ennesimo affondo si abbassò; poi, velocemente, con la spada vibrò un colpo verso la gamba destra. Il malcapitato urlò di dolore, ma quel grido fu sopraffatto dal boato della gente, che finalmente vedeva il sangue scorrere. Si guardò subito attorno, per capire dove fossero gli altri due. Trovò il primo, vicino al cancello da cui era entrato; fece per cercare il secondo, ma non ne ebbe il tempo. Sentì intorno alla sua gola un cappio; si dimenò, ma quel bastardo non mollava la presa; anzi, ad ogni suo sforzo diveniva sempre più forte. Nella foga lasciò andare la spada, che il suo avversario fu rapido nello spedire lontano, con un calcio. Si impose di rimanere lucido e fu la sua salvezza. Vide che l’altro iniziava ad avvicinarsi velocemente, con la spada sguainata pronto a colpirlo. Deviò il colpo con lo scudo; sfruttò quel momento, in cui era privo di ogni difesa, per colpirlo con un calcio violento allo stomaco e lo vide piegarsi a terra dal dolore. Sentì la presa sul collo farsi meno pressante; approfittò di quell’attimo per sfoderare una vigorosa gomitata all’addome del suo carceriere, ma non ebbe il risultato sperato. Nonostante l’imprecazione di dolore, il bandito lo teneva ancora saldamente per la gola. Usò tutte le sue forze residue, per trascinarlo con sè al suolo. Sperava che quella mossa lo facesse cedere, ma non sortì alcun effetto. Anzi, la sua situazione peggiorò, dato che l’avversario ne approfittò per immobilizzargli il braccio dello scudo con una gamba. Si agitò disperato; era privo di difese e vide l’uomo, che poco prima aveva colpito, riprendersi e pronto a trapassarlo a morte. Chiuse gli occhi, mentre con la mano libera andava alla disperata e vana ricerca di un’arma, una qualsiasi. Ed il suo desiderio si realizzò. Sentì nel palmo un manico di legno molto familiare. Lo afferrò con tutte le sue forze e lo indirizzò contro il suo avversario. La lancia trapassò la gola del malcapitato, uccidendolo sul colpo. Sentì la pressione sul collo diminuire all’improvviso; ne approfittò per dare una poderosa testata sul naso del suo carceriere. Lo sentì guaire dal dolore. Si servì di quel momento per liberarsi completamente dalla presa. Si alzò in piedi rantolando. Si guardò rapidamente intorno. Il bandito a cui aveva squarciato il quadricipite femorale si era rimesso in piedi, ma faticava a camminare. Si sarebbe occupato di lui dopo. Si avvicinò lentamente alla sua preda. Si slacciò lo scudo e si mise a cavalcioni, immobilizzandolo. Colpì la testa del malcapitato diverse volte con il bordo dello scudo. Volevano uno spettacolo memorabile? Bene, glielo avrebbe offerto. Si fermò soltanto quando il volto dell’uomo divenne una poltiglia irriconoscibile. La folla urlava estasiata per quel macabro spettacolo. Prese la sua spada da terra e si avvicinò all’ultimo obiettivo. Lo guardava mentre cercava di sottrarsi al suo destino. Mentre cercava di scappare da lui, inciampò diverse volte, finché non si trovò bloccato contro il muro dell’arena. Gli avrebbe dato una morte rapida. Puntò la spada contro la sua testa e con un colpo secco lo decapitò. Lasciò andare l’arma a terra mentre, lentamente, si trascinava verso l’uscita. Un senso di nausea lo investì; non un uomo, un macellaio, ecco cos’era. Il pubblico estasiato inneggiava in suo onore, solo un uomo rimase impassibile a quel massacro. Con uno sguardo indecifrabile guardò il combattente lasciare l’arena, che lo aveva visto protagonista.

 

   
 
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