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Autore: Yunomi    02/02/2021    2 recensioni
"I pianti, le isterie, i lanci di innocenti gerani oltre i balconcini, gli sguardi accesi dalla passione e dal fuoco che non si placava mai, né con il sesso né con le conversazioni alle tre di notte, aggrovigliati come senatori romani tra le lenzuola bianche, le sigarette, i vizi dannosi, le corse in Corvette. L’amore. Quell’amore deleterio, malsano, quell’amore che mi aveva consumata come un fiammifero e che mi aveva ridotta ad un pugnetto di ossa stanche, il cui unico sostentamento era costituito da niente di più che libri e sigarette. No. Non più"
Sequel assolutamente non richiesto di Big God. La lettura è fortemente consigliata per capirci qualcosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chloe Decker, Lucifer Morningstar, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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L’ammutinamento degli organi interni
 
 
“When you separate an entwined particle
and move both parts away from the other,
even at opposite ends of the universe,
if you alter or affect one…
the other will be identically
altered or affected.”
(Only lovers left alive, 2013)
 
 
 
Paddington.
Londra.
Due anni dopo.
 
 
“Alla fine la vostra è sempre stata una relazione à la Wuthering Heights.”
Scostai lo sguardo dalle mie dita, che reggevano mollemente una sigaretta appena cominciata, e lo rivolsi verso la figura alta e slanciata alla mia sinistra. Aveva pronunciato quelle parole interrompendo con violenza un silenzio durato parecchi minuti.
Tipico delle nostre conversazioni, quello di riprendere il filo del discorso dopo buchi di svariati minuti, a volte intere mezz’ore, che era stato lasciato cadere per convenienza o per imbarazzo, come uno spaghetto troppo cotto.
Mi strinsi nel cappotto, ripensando a quando, poche ore prima, le avevo raccontato della mia vita in America, sussurrando come bambine sopra tazze di tè bollente, per non svegliare Thomas.
“Ma ti pare adesso il momento di tirare fuori questi argomenti?”, dissi, con un tono di divertito rimprovero. “Adesso che stanno arrivando?”
La figura alta e slanciata alzò le spalle sotto lo scialle di cachemire che indossava. “E perché no?”, fece lei.
“Peraltro, se cambi così tante lingue in una sola frase ti va in cortocircuito l’area di Broca.”, continuai, ostentando una saggezza e un’erudizione sull’anatomia cerebrale che sapevo perfettamente di non possedere.
“Non cambiare discorso. E rispondi alla domanda.”, insistette la Papessa, ovvero la figura alta e slanciata, puntata come una colonna corinzia alla mia sinistra. Non si chiamava davvero Papessa, eppure inspiegabilmente, un giorno, avevamo iniziato a chiamarla così; lei, dal canto suo, non si era mai opposta.
“Non mi hai mai fatto nessuna domanda, Papessa. Proprio nessuna.”
“Era sottesa.”
“Non amo i sottintesi.”
“No, ascolta bene, ho detto sottesa. È diverso.”
“Quando mai ho stretto amicizia con una laureata in linguistica…”, sbuffai, sconsolata ma lievemente divertita.
“E’ perché sono davvero un’incredibile, ottima ascoltatrice.”
“No, non è quello.”, ribattei, prendendo una boccata meditativa dalla sigaretta.
Erano le quattro del pomeriggio, e sul binario 5 della stazione di Paddington, Londra, oltre a me e alla Papessa non c’era un’anima.
Non esattamente: una gracile vecchina con un fazzoletto legato sotto il mento e un cesto di vimini crollò a sedere su una panchina a pochi metri da noi. Quindi tre anime, due delle quali tutt’altro che inglesi, – mi stupii che la Papessa non avesse ancora rivendicato le proprie origini scozzesi come di consueto – che aspettavano un treno a una stazione inglese, con un tempo grigio indubbiamente inglese e una dose spropositata di tè inglese nello stomaco.
Pensai che avesse un ché di poetico; un patriottismo trapiantato da poco innervò il mio petto infreddolito, e mi fece spuntare un sorriso sulle labbra.
Ma durò poco.
Consultai l’orologio da polso, poi il cellulare: sembrava tutto in regola.
Una leggera sensazione di ansia iniziò a pervadermi il petto; come una goccia di latte caduta nel caffè, iniziava a cambiare colore al liquido e intorbidirlo, lentamente. Mi sentivo sospesa in una condizione di aspettativa fremente, in attesa del cucchiaino che mi mescolasse come una tromba marina e unisse le due soluzioni che erano rimaste separate, in me, per così tanto tempo.
Due anni.
Erano passati due anni.
Aspettavamo l’arrivo dell’espresso che collegava l’Heathrow Airport alla stazione di Paddington.
Gli avevo detto che lo avrei aspettato al binario, vittima perenne di quel senso di maternità nei suoi confronti che nessuna pioggia londinese avrebbe mai potuto lavare via.
Una serie di fotogrammi sconclusionati mi sfilarono davanti agli occhi come un trailer, ma erano troppo veloci perché potessi concentrarvi l’attenzione per più di qualche millisecondo.
Ottanta millisecondi…
Il mare della California, un cardigan color panna, vasche da bagno, le sue lunghe dita di pianista sulla mia pelle, nei miei capelli, chiuse intorno alla mia gola, patatine fritte, un SUV nero…
Appena due anni.
Pareva che la distanza tra il momento in cui i miei piedi avevano lasciato l’America, e quello in cui avevano toccato il suolo umido e insofferente dell’Inghilterra fosse stata riempita da una vita intera. Due anni sembravano un lasso di tempo irrisorio, rispetto a tutto quello che era successo.
Deglutii a fatica.
La Papessa mi rivolse uno sguardo saggio e consapevole che cercai di ignorare; non disse nulla, grazie al cielo.
Una voce metallica annunciò che l’Heathrow Express stava giungendo al binario 5.
Chiusi gli occhi; la mente iniziava a giocarmi tiri mancini.
Mi sferzò sul viso una ventata di aria calda, estiva e impossibile in quel luogo (eravamo pur sempre a Londra ed era novembre, per la miseria); un aroma di whiskey torbato e sigarette forti mi impregnò le narici. Un odore così familiare che dovetti fare un grosso sforzo di buonsenso per non cadere tra le braccia di quel profumo fantasma.
“Comunque, certamente lui è Heathcliff.”, disse la Papessa, dopo aver riflettuto per lunghi minuti.
Mi scossi leggermente, come se la mia mente avesse fatto un giro intorno al mondo e fosse ripiombata improvvisamente nella mia scatola cranica con un allegro oplà e una riverenza. Sapevo che dettagli di questo tipo non sfuggivano ad un occhio attento come quello della Papessa. Ma decisi che non ero pronta a ritornare sull’argomento.
Piuttosto, mi lasciai sfuggire un gemito di frustrazione. Mi morsi nervosamente l’unghia dell’indice, e tentai l’approccio sarcastico. “Ancora parli di Cime Tempestose? Dio santo.”
“Non mi interrompere. Dunque, lui è Heathcliff, tu sei quella deficiente di Catherine Earnshaw e Thomas…”
“… sono lieta di vederti manifestare tutto il tuo orgoglioso nazionalismo inglese in questo squisito compendio sulla letteratura vittoriana, davvero, ma-”
La Papessa mi puntò contro un indice come un pugnale, perentoria. “Non sono inglese. Sono scozzese.”
Ah, ecco, come da programma: la rivendicazione della madrepatria.
“Come ti pare, Papessa. Il punto è che hai rotto le palle.”, dissi poi con tenerezza, schiacciando il mozzicone sotto lo stivaletto.
La Papessa fece per controbattere, ma alzò improvvisamente lo sguardo verso una piccola folla di persone che si accingeva a scendere dal vagone. “Aspetta, credo di vederli. È quello lì, alto, con l’aria di volersi scopare qualsiasi cosa?”
“Sembrerebbe proprio lui.”, risposi, con un sospiro oberato di agitazione.
Ero certa che il mio cuore stesse cercando di risalirmi la trachea, arpionandosi alle pareti interne del mio collo come se dotato di ramponi. O artigli. In quel momento più che mai mi sembrava di star subendo un tradimento organizzato a mia insaputa; come se cuore, cervello, budella avessero ordito un sordido inganno per spodestarmi.
Una sorta di ammutinamento degli organi interni, se volete. Tu quoque, cuore, fili mii!
 Cercai di organizzare un sorriso affabile e sereno; o per lo meno tentai di non assumere un’espressione che avrebbe potuto portare chiunque a chiedersi se mi avessero ammazzato il marito in Vietnam.
Poi lo vidi.
All’improvviso.
Come se il palcoscenico fosse stato buio e vuoto fino a quel momento.
Come se un fascio di luce avesse sgomitato tra le nuvole e si fosse aperto un pertugio nel cielo di Londra per avvolgere la sua figura; un riflettore puntato sulla sua testa, come a voler dire levatevi, plebe, apritevi al suo passaggio.
Non era cambiato di una virgola.
Torreggiava sugli altri, non solo per la sua altezza, ma perché emanava un’aura magnetica che per forza di cosa attraeva lo sguardo a lui. Era impossibile distogliergli l’attenzione di dosso.
Un tremito mi scampanellò alla bocca dello stomaco come un’ammonizione.
Mi sorpresi a chiedermi se io fossi cambiata, in quei due anni; no, non è esatto. Mi chiesi se lui mi avrebbe trovato cambiata.
Sentii le guance infuocarsi e mi morsi un labbro, mentre avanzava verso di noi con Chloe al braccio.
Dio, perché non riesco a smettere di sorridere?
Mi accesi un’altra sigaretta.
 La Papessa mi lanciò uno sguardo accigliato – all’epoca non seppi dire se fossimo arrivate ad un livello di intimità tale da leggerci vicendevolmente nel pensiero: fatto sta che mi sfilò la sigaretta dalle dita. Prima che potessi protestare, la Papessa mi guardò fissa negli occhi, seria.
“Ora sei una madre.”, mi ammonì, calpestando la sigaretta.
Ricambiai lo sguardo e cercai di spingere un groppo secco giù per la gola, verso le mie fedifraghe interiora che non ne volevano sapere di smettere di agitarsi come farfalle rincoglionite.
Colpita nel segno.
“Lo so.”, replicai, cercando di nascondere un brivido che mi si era arrampicato sul collo come un ragno, percependo per la prima volta da quando la conoscevo lo scarto tra di noi. Forse non avevo ancora capito come interpretare i pensieri che fluttuavano come alghe dietro gli occhi della Papessa, ma mi fu chiaro che lei aveva decisamente un vantaggio su di me.
Scacciai ogni pensiero, di qualsiasi natura, e annuii decisa.
La ringraziai con un battito di ciglia che ero certa avrebbe colto – tenetevi strette le persone che non hanno bisogno che parliate per comprendervi.
La Papessa fece un mh convinto, come a volersi appurare che io avessi compreso, e voltò la sua regale persona verso la coppia che stava giungendo verso di noi: erano così fuori contesto, in mezzo ai pendolari inglesi.
Troppo abbronzati, troppo poco vestiti per il clima inglese di quel novembre.
Difatti, Chloe Decker si strinse nella giacchetta di panno, rimpiangendo in quel momento tutte le scelte vestiarie che l’avevano spinta a comporre il suo bagaglio. Stirò un sorriso al mio indirizzo, un sorriso in cui individuai un pizzico di imbarazzo. L’odore di guaio aleggiava intorno a loro, intorno a lui, soprattutto, come un’aura palpabile; solo ora mi rendevo conto che non era affatto una visita di piacere.
“Puzza di tragedia lontano un miglio. Non vedo l’ora.”, disse sottovoce la Papessa, dando voce ai miei pensieri con la sua linguaccia biforcuta. 
“Taci.”, risposi, rifilandole un’amichevole gomitata tra le costole.
Lanciai alla Papessa uno sguardo che solo lei conosceva, e che corrispondeva al nostro modo, unico e segretissimo, di dire: à la guerre comme à la guerre.
Un grido di battaglia, se permettete.
Quando Lucifer mi si palesò di fronte, bello e dannato come me lo ricordavo, e con un sorriso da togliere il fiato, l’unica cosa che la mia mente riuscì a produrre nell’arco di quegli ottanta secondi maledetti fu un sonoro e ridondante: vaffanculo.
A quell’altezza storica ancora non potevo sapere che l’approdo di Lucifer su suolo inglese avrebbe precipitato la mia vita in nuovo, roboante, pantagruelico casino.
Onestamente? Avrei dovuto prevederlo.
“Hey.”, dissi, improvvisamente grata per la compostezza che quel biennio in Inghilterra era riuscito a plasmare attorno al mio carattere.
Gli sorrisi.
Mi buttò le braccia al collo.
Ricambiai la stretta e fu come sprofondare in un pozzo già noto.
Avete presente Alice in Wonderland di Tim Burton? Quando lei cade la seconda volta, anni dopo, nella tana del Bianconiglio?
Ecco.
Così fu la mia caduta: nonostante fosse una traiettoria di cui è facile indovinare la direzione (inesorabilmente verso il basso), nonostante sapessi che lo schianto sarebbe stato catastrofico, e che mi avrebbe ridotta ad un grumo di gelatina da raccogliere con un cucchiaino, in fondo ero pervasa da quel senso di sicurezza che solo le cose note sanno darti.
Conoscevo fin troppo bene il buco nero che mi teneva tra le sue braccia, recuperando due anni di lontananza in mezzo secondo.
Conoscevo ciò a cui ero stata portata da quando Lucifer Morningstar era piovuto nella mia vita come una stella cadente. O come una meteora.
Mentre mi stringevo a lui, inspirandone pienamente il profumo, la mia mente mi ragguagliava pazientemente di ciò che il mio cuore, di nuovo così vicino al suo da togliermi il respiro, faceva così fatica a ricordare: i pianti, le isterie, i lanci di innocenti gerani oltre i balconcini, gli sguardi accesi dalla passione e dal fuoco che non si placava mai, né con il sesso né con le conversazioni alle tre di notte, aggrovigliati come senatori romani tra le lenzuola bianche, le sigarette, i vizi dannosi, le corse in Corvette.
L’amore.
Quell’amore deleterio, malsano, quell’amore che mi aveva consumato come un fiammifero e che mi aveva ridotta ad un pugnetto di ossa stanche, il cui unico sostentamento era costituito da niente di più che libri e sigarette.
No.
Non più, disse una voce ferma dentro di me, riportando quel subbuglio di cervella ed intestini all’ordine.
Non ora.
Feci per staccarmi da lui, da quell’incastro così ingannevole perché sembrava essere stato costruito per contenermi perfettamente; mi accorsi dopo una manciata di secondi di troppo che la Papessa aveva appoggiato una mano guantata sul mio avambraccio, e che Chloe mi stava fissando con uno sconforto negli occhi che, si vedeva, ancora non le era arrivato alla mente, dove sarebbe stato razionalmente disciolto come in un bagno di acido. Lo sapevo che i suoi dubbi su di me non si sarebbero mai sbrogliati del tutto, checché lei ne dicesse. E potevo darle torto?
Mi staccai da lui; gli diedi un pugno affettuoso sul braccio, come a voler ristabilire dei confini che tutti lì, sul binario 5, compresa la vecchina col foulard in testa, a modo proprio aveva percepito come violati.
Rilassai le spalle, mentre l’immagine di Thomas e della nostra bambina raggomitolati nel nostro appartamento a Belsize Park mi riportava lentamente alla sanità.
Sorrisi, stavolta sinceramente.
Le colazioni in tre, la pappa sparata sui mobili, il tè che sembrava auto versarsi nelle mie tazze di porcellana ad ogni ora, mentre lavoravo, l’odore accogliente di Thomas.
Ce la puoi fare, mi dissi.
Lucifer mi guardò.
“Ciao, Molly. Mi sei mancata.”
Vaffanculo.
Come non detto.
 
 
Ooh, it gets dark, it gets lonely
On the other side from you
I pine a lot, I find the lot
Falls through without you
I'm coming back love, cruel Heathcliff
My one dream, my only master.
(Kate Bush, Wuthering Heights)
 

 
ebbene sì.
dopo una breve pausa di riflessione sono tornata. 
quanto sono durata? poco più di una settimana, dite?
beh, spero che ne siate tutti contenti. io sono esaltata a dir poco. proviamoci. non so cosa verrà fuori.
non temete, se ora ancora ci sono dubbi riguardo la cagione di questa trasferta oltreoceano da parte dei nostri freschi sposi, verranno sciolti nei prossimi capitoli. non vi lascio a soffrire, parola di lupetto.
siete sempre i benvenuti a lasciare un commento o a chiedere spiegazioni! mi fa sempre un immenso piacere.
spero che questa nuova avventura su suolo inglese possa interessarvi!
inoltre, vi segnalo il profilo facebook che ho creato da poco, dove posterò vari scleri che di solito accompagnano la stesura, e dove ho intenzione di postare delle immagini del "cast" di "Big God" - e dei personaggi che "Tante grazie per i crisantemi" introdurrà - così come me li sono inventati.
non so, mi era sembrata un'idea carina, in fondo.

https://www.facebook.com/yunomi.tazzadite
venite a dire ciao; non mordo, giuro.

vostra,
Y.
 

   
 
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