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Autore: Fauna96    02/02/2021    0 recensioni
[Rosencrantz e Guildenstern sono morti]
Rosencrantz/Guildenstern, pre canon. Quando c'erano domande, ma anche le risposte.
Non è vero che la gente non li distingue; e come non potrebbe? Sono diversi nell’aspetto, nella postura, nel modo di parlare, anche nel modo di pensare. La gente non si dà la pena di distinguerli, il che è un’altra cosa. Uno vale l’altro, perché l’uno è sempre con l’altro
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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N.d.A: non so cos'ho scritto, davvero. Ho visto il film e mi sono innamorata. Devo ancora leggere la commedia vera e propria, dunque la storia è basata esclusivamente sul film (e su Gary Oldman e Tim Roth, okay). Ambientato in un mondo in cui le cose vanno ancora per il verso giusto, in cui non è ancora arrivato nessun messaggero. L'autrice ammette anche di non aver fatto ricerche circa il periodo storico o l'università di Wittenberg o le usanze della nobiltà danese del tempo.
Titolo tratto dalla canzone In the Best Case Scenario We'd Die at the Same Time dei My Name is Ian.


In the best case scenario
 

Non è vero che la gente non li distingue; e come non potrebbe? Sono diversi nell’aspetto, nella postura, nel modo di parlare, anche nel modo di pensare. La gente non si dà la pena di distinguerli, il che è un’altra cosa. Uno vale l’altro, perché l’uno è sempre con l’altro.
Rosencrantz e Guildenstern.
Guildenstern e Rosencrantz.
Perché imparare la differenza tra loro quando sono sempre insieme, quando, in fin dei conti, gli esperimenti sconclusionati di Rosencrantz e i ragionamenti pragmatici di Guildenstern li portano alla stessa destinazione, letteralmente e figurativamente?
Gli unici che si prendevano la briga di distinguerli, addirittura di nominarli separatamente, erano i loro genitori, perché, be’, erano i loro genitori, erano pressoché obbligati a riconoscere ciascuno il proprio figlio. Anche da bambini, però, erano sempre, sempre insieme, impegnati a giocare, discutere, parlottare, e non hanno mai smesso. Probabilmente i loro genitori in effetti erano contenti di avere due rampolli che andassero tanto d’accordo; dopotutto, erano confinanti, e i vicini è sempre meglio tenerseli buoni. Peccato solo che uno dei due non fosse femmina…
Guildenstern ricorda l’afflato di orgoglio nel petto nel portare Rosencrantz in giro per la biblioteca, per le sale un po’ polverose, ma l’orgoglio non stava nel mostrare il suo castello, che in sé non era nulla di che, ma nel mostrare Rosencrantz. Era suo amico, solo suo, e lo diceva a voce anche piuttosto alta a chiunque incrociasse le loro corse infantili. Rosencrantz lo guardava con occhi grandi e blu e fitti di ciglia mentre Guildenstern lo presentava al maniscalco, alla cuoca, ai paggi.
Il fatto era che Guildenstern aveva poche cose che potesse definire solo sue: era il terzo di cinque, né fratello maggiore né fratello minore, e non era femmina, come la sua unica sorella, quindi nessuno gli prestava troppa attenzione. Qualunque cosa volesse, i suoi fratelli ci sarebbero arrivati prima; i suoi genitori l’avrebbero ascoltato dopo gli altri, e non possedeva neanche uno spadino che non fosse stato prima dei suoi fratelli.
Rosencrantz, invece, non aveva mai badato ai suoi fratelli; al loro primo incontro, una qualche battuta di caccia con annesso banchetto, non si era imbambolato a guardare gli stocchi dei ragazzi più grandi, né tantomeno aveva degnato di più di un’occhiata la fanciullina della casa, intorno a cui tutti gli adulti mormoravano sciocchezze. No, Rosencrantz guardava lui, solo lui, come se già sapesse. O come se avesse deciso immediatamente di volere lui come compagno di giochi, come amico, come altra faccia della moneta.
Forse era proprio così.
«Padre, ti presento il mio amico Rosencrantz» aveva detto, e l’aveva ripetuto a tutta la famiglia e a tutta la servitù, con la pomposità dei suoi sette anni. Il mio amico Rosencrantz. Dopo tutti quegli anni (quanti?) ‘amico’ si è perso: è rimasto, nella testa di Guildenstern, ‘il mio Rosencrantz’. Se potesse, e se qualcuno glielo chiedesse, risponderebbe così. Non che ce ne sia davvero bisogno.
Rosencrantz da bambino era molto simile al Rosencrantz adulto: distratto, con le mani sempre impegnate a costruire, piegare, assemblare. Forse era diventato così bravo a inventare cose e giochi perché era quasi sempre solo: i suoi fratelli erano già quasi adulti e lui era un buffo bambino lasciato a se stesso in mezzo alla servitù indaffarata. Ma a Guildenstern non aveva mai dato l’impressione di soffrire la solitudine: Rosencrantz si ingegnava a trovare amici tra gli uccelli e gli insetti, era felice di contemplare le nuvole e scegliere le forme più fantasiose.
«È più divertente farlo insieme a te» aveva però detto a Guildenstern una volta, con il sole che li accecava e le ginocchia sporche di erba e tutte le risposte del mondo davanti a loro, scintillanti di vita. Guildenstern aveva sorriso al cielo e aveva dato un colpetto con la spalla a quella di Rosencrantz. Avrebbe voluto dire che tutto era più divertente con Rosencrantz, che tutto era meglio con Rosencrantz, perché riusciva a vedere il mondo in una luce particolare che a lui, Guildenstern, sembrava in qualche modo preclusa. Non glielo aveva detto, però, perché era solo un bambino e non sapeva proprio come tradurre in parole tutte le cose che gli si affollavano nella testa e nel petto. E anche quando aveva imparato le parole, le formule di cortesia e tutto quanto, non era riuscito comunque. Forse perché i sentimenti hanno poco a che fare con i luoghi in cui ti insegnano a parlare.
La prima volta a Elsinore avevano sì e no tredici anni.
Tutti i figli dei nobili venivano mandati lì a fare i paggi, prima o poi, soprattutto se non erano primogeniti e non avevano granché da fare a casa, a parte occupare spazio e tempo di persone già piuttosto impegnate. E perché allora non mandarli a occupare tempo e spazio del re a cui pagavano i tributi?
Aveva detto queste cose in un sussurro rabbioso la prima notte, con i denti e gli occhi stretti per trattenere le lacrime. La sua stanza da paggio nella reggia era pressoché identica alla sua a casa, solo più spoglia. E più fredda. L’unica cosa calda era la spalla di Rosencrantz contro la sua, e i suoi occhi in cui danzavano le braci del camino. Lui non era offeso per essere stato spedito a Elsinore, né tantomeno avvertiva quella sensazione di impotenza tanto familiare a Guildenstern. Rosencrantz trovava il lato positivo anche nelle sale gelide della reggia e nascosto tra le pieghe delle vesti dei cortigiani. Rosencrantz era l’estate nel bel mezzo di novembre.
Anche a tredici anni era difficile esprimere tutto questo, e forse anche pensarlo; quindi Guildenstern si era limitato a cercare con tutte le sue forse di non scoppiare a piangere.
A Rosencrantz comunque non sarebbe importato, dato che si era addormentato con la testa sulla sua spalla e un braccio attorno a lui, ignorando la propria camera due porte più in là.
Dorme anche ora nello stesso modo.
I letti degli studentati di Wittenberg sono più o meno un quarto dei letti per paggi di Elsinore, cigolano in maniera incredibile e le lenzuola sono più buchi che stoffa. Guildenstern cerca di girarsi e si ritrova un gomito tra le costole e un piede congelato sugli stinchi. Non può neanche spingere via Rosencrantz, non tanto perché lo manderebbe per terra, ma perché per il movimento ci finirebbe anche lui. Lo sa per esperienza. Quindi stringe i denti e spera che nella notte quel dannato piede si scaldi. È incredibile che Rosencrantz, l’incarnazione vivente del sole, abbia i piedi freddi.
«Quando dico di andare a dormire con le calze…» il suo brontolio non riceve alcuna risposta, ovviamente: quando Rosencrantz dorme, dorme. Non lo sveglierebbero nemmeno le cannonate.
Guildenstern si dibatte ancora un pochino, infila una mano sotto la camicia di Rosencrantz, un po’ per ripicca, un po’ per sentire davvero la pelle calda contro la sua, e appoggia la guancia contro la sua fronte. E pensa, come sempre, perché raramente Guildenstern riesce ad addormentarsi senza rimuginare e ruminare.
Pensa che forse solo nel buio e così aggrovigliati potrebbero essere scambiati l’uno per l’altro e, francamente, neanche in questo modo. Rosencrantz dorme come un bambino, immobile e con la bocca semiaperta; Guildenstern si agita, sa di parlottare ogni tanto e si sveglia ogni tre ore, pressappoco.
Ed è vero che negli anni hanno preso l’uno le abitudini dell’altro, ma di qui a dire che sono intercambiabili… Come se lui, Guildenstern, potesse sopportare di stare tutto il tempo con un proprio sosia. Ridicolo, finirebbe nel sangue dopo mezzora. Con Rosencrantz, di solito, resiste qualche ora prima di minacciarlo di morte.
Senza Rosencrantz, non resisterebbe neanche dieci minuti.
Forse è per questo che continua a svegliarsi nella notte e a tastare finché non sente un braccio, una spalla, un viso familiare. Forse la verità è che dormire non gli piace: è troppo simile alla morte, alla non-esistenza. Quando dormi sei solo, e Guildenstern non è mai solo, o quasi mai, o comunque non abbastanza a lungo per sentire la mancanza di Rosencrantz. Di solito, non fa in tempo a chiedersi dove sia finito che sente i passi un po’ dondolanti avvicinarsi, il braccio appoggiarsi sulla spalla in maniera casuale ma senza pesargli troppo, e va tutto bene.
Poco importa se confondono un nome con l’altro, alla fine: la gente ha sempre capito ben poco di loro due.
Rosencrantz sospira nel sonno; Guildenstern chiude gli occhi. La luce della luna filtra ancora gentilmente dalle imposte.
  
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