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Autore: Nadine_Rose    03/02/2021    2 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 46

 

La strage degli innocenti

 

Prima parte

 

- Quando l’alba si tinse di rosso -

 

“Carissimi genitori la presente è per comunicarvi che sto bene come spero di voi tutti. Domattina partirò da Fossoli la destinazione che vado non ne sono ancora a conoscenza. Non appena arrivo a destinazione non mancherò di darvi mie notizie, in tutti i modi non fatevi pensiero che sto molto bene, e spero sempre di rivedervi tutti nella nostra cara casa.”

Dall’ultima lettera di Felice Lacerra, la vittima più giovane dell’Eccidio di Cibeno.

 

Campo di Fossoli, 11 luglio 1944

~ Un giorno all’Eccidio di Cibeno ~

 

“Sta forse discutendo gli ordini, tenente Von Wildenberg?” Dall’altra parte del telefono, l’insinuazione dell’SS-Hauptsturmführer riecheggiò come un suono metallico e distante.

Nella mano sinistra, Hermann stringeva la cornetta, mentre, con l’indice e il medio dell’altra, allentava il colletto della camicia, bisognoso d’aria e temporeggiando, alla ricerca di parole che non lo compromettessero.

“No, signore”, rispose in tono riverente ma deciso, “mi domandavo soltanto quale fosse il vero motivo, dato che l’attentato di Genova è già stato vendicato.”

La brillantina trasudava dall’attaccatura dei capelli, facendo luccicare sulla fronte cerea piccole gocce di sudore, una delle quali scivolò lungo la guancia e la colpa non era da imputare unicamente al caldo che arroventava l’ufficio e la divisa.

“Inoltre, signore, credo che ci sia un errore, perché nella lista dei prigionieri condannati c’è anche un minore di sedici anni”, aggiunse Hermann che, pur udendo il suo interlocutore sbuffare in tono spazientito, temeva più la reazione di Sarah che un provvedimento disciplinare.

“Nessun errore, tenente. Esegua gli ordini senza farsi tante domande né scrupoli.” Poi il capitano diede alla sua voce un’inflessione meno severa, mentre gli diceva: “Tra i giovani ufficiali delle Schutzstaffel, lei è uno dei migliori. Farò finta che questa conversazione non sia mai avvenuta.”

All’alba dell’indomani, Hermann avrebbe dovuto guidare il plotone di esecuzione di settanta internati politici e, presso il poligono di tiro di Cibeno, venti prigionieri ebrei ne stavano scavando già la fossa.

 

Danke, Hauptsturmführer.” Alle orecchie di Sarah, la voce di Hermann parve stanca e rassegnata, come, del resto, la sua espressione che poté scorgere attraverso la porta socchiusa dell’ufficio. Il suo profilo era madido di sudore, mentre parlava al telefono in piedi, vicino alla scrivania.

Ipotizzò che avesse appena ricevuto notizie riguardanti l’avanzata nel centro-nord degli Alleati che già, il 4 giugno, avevano liberato Roma, la capitale, la sua patria.

Alla bella notizia, Sarah, pur se una parte di sé desiderasse ardentemente la sconfitta dei tedeschi nella mera speranza di ritrovare i propri cari, non era riuscita a unirsi ai silenziosi festeggiamenti e agli abbracci commossi dei suoi compatrioti, come lei prigionieri a Fossoli, ma aveva ricercato il conforto tra le braccia di Hermann, conscia che, con l’avanzare delle truppe di liberazione, si faceva sempre più vicina la possibilità di perderlo.

«Il Großdeutsches Reich non si arrenderà mai», le aveva detto sicuro e orgoglioso, sebbene gli occhi ne svelassero la preoccupazione, ma non era questa la risposta che Sarah si aspettava, avendo lui intrecciato le dita alle sue con disperata tenerezza.

 

Heil Hitler.” Hermann salutò, senza neanche sforzarsi nel consueto dinamismo, per poi riagganciare il telefono e volgere lo sguardo alla porta, sentendovi bussare. Di Sarah aveva già scorto l’ombra di corpo sinuoso nella divisa da cameriera, di braccia leggermente protese in avanti a reggere il vassoio.

“Avanti.” Al suo permesso a entrare – pronunciato in italiano, sapendo già che fosse lei –, Sarah aprì la porta con la spalla, avendo le mani occupate dal vassoio e, mentre ne contemplava il lento movimento trasudante fascino, per un momento, sentì di odiarla, ritenendola colpevole della sua perplessità per gli ordini ricevuti.

La guardò poggiare il vassoio con il bicchiere di limonata sulla scrivania nella silenziosa austerità imposta loro dai ruoli che ricoprivano, fin quando non giungesse la sera per tornare a essere soltanto un uomo e una donna. Intreccio di corpi, groviglio di emozioni.

Con un fazzoletto, tirato fuori da una tasca interna della giacca dell’uniforme sbottonata, Hermann si asciugò la fronte imperlata di sudore e, spostando lo sguardo su un punto indefinito della scrivania, invano si sforzò di parlarle con la tracotanza di chi comanda. “Domattina, all’alba, settanta internati politici partiranno per la Germania”, le mentì con le stesse parole che, di lì a poco, avrebbe destinato ai condannati, “e andranno in un campo di lavoro.”

Si piegò leggermente per afferrare il pacchetto di sigarette poggiato sulla scrivania, prima che i loro occhi potessero incrociarsi, rivelando l’inquietudine dell’uno e lo sconforto dell’altra, poi aggiunse: “Dovrò alzarmi presto e preferirei che non venissi da me stasera.”

A tale richiesta, Sarah si stupì, giacché mai, né prima né dopo un trasferimento di prigionieri, Hermann si era sottratto a trascorrere la notte con lei, seppur, non sempre, data la stanchezza di entrambi, sfociasse nell’amplesso e, dietro la nuvola di fumo della sigaretta, non fece in tempo a intercettare il suo sguardo per accertarne la sincerità. Con passo greve e svelto e il consueto saluto nazista, entrò nell’ufficio il sergente maggiore e lei, distolti di scatto gli occhi dal suo amato e accennandogli un inchino, afferrò il vassoio e uscì in fretta.

 

Una notte di ansietà, fra insonnia e sudore, precedette l’alba che si tinse di rosso, del sangue degli innocenti. Sotto il manto scuro del cielo notturno, uno dei settanta condannati trovò la salvezza, altri due fuggirono verso l’orizzonte dei campi, ma non prima di aizzare una rivolta al poligono di tiro. Hermann sapeva che non sarebbe stato facile.

Calce viva fu cosparsa sui sessantasette fucilati, mentre in lui, oltre la rabbia per l’imprevista ribellione che aveva dovuto sedare e l’irrequietezza per l’ulteriore mole di lavoro che ne sarebbe conseguita, covava il cruccio per l’esecuzione di quell’ordine errato, ingiusto.

Portò il pollice e l’indice sul labbro inferiore spaccato da un pugno. Anche della mancanza di prontezza nei riflessi attribuì la colpa a Sarah e, intanto, nel silenzio imposto ai venti prigionieri ebrei, ripose la speranza, affinché nessuna voce arrivasse al campo a farle conoscere la verità.

 

Buio si fece il mattino e, per lei, crepuscolo dell’amore, quando a Fossoli risuonò sommessamente l’annuncio della strage di uomini innocenti.

Uscendo, un brusio inquieto di persone riunite davanti alla baracca di fronte alla sua la indusse a fermarsi stupita e preoccupata e vide un uomo tappare la bocca a una donna per impedirle di urlare. Era il grido di madri, mogli, sorelle, figlie a cui erano stati strappati figli, mariti, fratelli, padri.

Dibattendosi, la donna fu trascinata nella baracca e non bastò la forza di un solo uomo.

“Li hanno ammazzati tutti, ma state zitti, per carità.” La voce flebile e tremolante passò di bocca in bocca, fino a raggiungere Sarah.

Con lacrime silenziose, si unì al dolore della sua gente e non poté che provare odio verso colui che ne era stato il responsabile.

 

“E non riesco più a sorprendermi.

E la pazzia che danza intorno a me.

E penso che dovrei difendermi,

ma è più difficile combattere,

se il pianto di una madre no,

non può salvare la notte.”

 

Nomadi, Dove si va

 

   
 
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