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Autore: Dira_    06/02/2021    4 recensioni
[Seguito de "Nella Selva Oscura"]
Castiglioscuro non è più un problema per le Silvani. Lo è il bosco, e ciò che contiene.
Un mostro si è risvegliato tra gli alberi e una barista di paese si è resa conto che non più essere soltanto quello.
Rosi deve tornare nell'Altrove, un mondo popolato da spettri, criptidi e mostri; deve trovare il coraggio di affrontarli e forse affrontare sé stessa.
Nell'Altrove è facile smarrirsi: puoi dimenticare di essere un mostro per scoprire il primo amore, puoi cominciare a dubitare che obbedire agli ordini sia sempre giusto. Puoi scoprire che no, non lo è.
Perché nell'Altrove vi è una sola certezza: una volta che lasci il sentiero, è allora che la storia comincia davvero.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4.
 
 
Gnamo, sbrigati che piove!”
Scalpiccio concitato, risate e due ragazzini che stavano correndo nel bosco. Avrebbe potuto essere l’inizio di una grande avventura …
… o la vita di tutti i giorni, aveva pensato Roísín – Rosi per gli amici – mentre gli stivali di gomma affondavano nel fango, schivando radici e ciottoli aguzzi. Erano fuori dal sentiero, ed era una cosa che lei e Tobia non avrebbero dovuto fare. Ne erano consapevoli, ma fuori c’erano cose molto più divertenti, come i caramogi che li avevano seguiti schiamazzando fino a poco prima o i folletti del cavo degli alberi, che tiravano i capelli e davano i pizzicotti sulle braccia. A lei e Tobia non succedeva, ovviamente, perché loro erano Bambini Nati di Domenica. Potevano interagirci, potevano fargli i dispetti di rimando. Ai folletti piaceva.
“Non torniamo a casa?” le aveva domandato l’amico notando che stavano addentrandosi nel bosco, invece che uscirne.
“Non ho voglia,” aveva ribattuto, perché a casa non c’era nessuno e nonno Virgilio aveva sempre troppo da fare per dirle altro che stare seduta buona a leggersi un libro ai tavolini del Bar. Il che le andava benissimo, ma era tutta l’estate che non faceva altro. “Andiamo al castello.”
Tobia aveva annuito contento, perché tornare a casa per lui era forse persino più penoso che per lei; i suoi litigavano tutto il tempo.
Castiglioscuro li aveva accolti imponente come sempre, e avevano percorso le sale dove i loro passi echeggiavano tra polvere e rumore di gocce di pioggia lontane. Aveva tirato fuori un pacchetto di morositas e l’aveva diviso con l’amico, seduti sul grande tavolo della cucina. “Che facciamo?” le aveva chiesto mentre dondolavano i piedi nel vuoto.
Rosi aveva sorriso. “Si va giù? L’ultima volta ho visto degli scaffali che se guardiamo bene ci troviamo sicuro qualcosa … magari una spada!”
“Non ci abbiamo trovato lo scheletro di un topo l’ultima volta?” l’aveva presa in giro rimediandosi una gomitata. “Sei tu che hai strillato!”

“Ero sorpresa,” aveva replicato arrossendo e rifilandogli un’altra gomitata, “stavolta me lo aspetto, quindi possiamo continuare!”
“Però tua mamma dice che non dovremo …”
“Chissenefrega!” era sbottata. La mamma era al lavoro e il babbo era di nuovo partito per uno di quei suoi viaggi lunghissimi da cui arrivavano solo lettere piene di francobolli. Non doveva loro niente, tantomeno obbedienza. E poi, non era più una bambina. Aveva undici anni. Una decade vissuta tutta intera.

Erano scesi e il buio come sempre era stato così corposo da far dubitare ad entrambi di aver caricato bene le pile delle torce … ma era così nelle cantine. Era come essere avvolti in un abbraccio umido, che ti si infilava dentro e ti pareva che tutto quel nero ti entrasse anche nella bocca e nel naso. Respiravi, ma l’aria era densa, come la gelatina di frutta che faceva la nonna di Tobia. Rosi andò avanti senza curarsene, la torcia che illuminava fioca il pavimento. Arrivarono fino agli scaffali, ma ce ne dovevano essere altri, e chissà che non avrebbero davvero trovato una spada come quella che era conficcata nella roccia all’eremo di San Galgano.  
La mano dell’amico l’aveva afferrata bruscamente, e altrettanta violenta era stata la luce che le aveva sparato in faccia. “Ehi!” si era lamentata schermandosi con una mano. “Mi vuoi accecà!?”
Tobia aveva indicato qualcosa con la torcia, che stava sfarfallando. Andando avanti il corridoio delle cantine si biforcava, e da una parte smetteva il pavimento di cotto per tornare terra. “Oh questo?” aveva esclamato sorpresa, “continua?”
“Credo siano le grotte degli etruschi,” aveva ribattuto l’amico, “esploriamo?”
Aivoglia!” aveva esclamato e Tobia, stranamente, le era parso molto sollevato.
Forse perché andando avanti le torce avevano ripreso a funzionare.
 
***
 
 
Per quanto veloce viaggi, la luce scopre che l’oscurità arriva sempre prima,
ed è lì che l’aspetta.
(Terry Pratchett)
 
Rosi ricordava di aver scoperto il passaggio che collegava il castello alle Porte quando era bambina, durante una delle tante scorribande estive con Tobia.  
Quasi vent’anni prima, e se li sentiva tutti addosso. Chissà se era lo stesso per il Nero, che in quel momento chiudeva la fila del loro trio scalcagnato. Tobia che quel giorno era andato più volte vicino al farle saltare definitivamente i nervi.
Non poteva aver dimenticato cosa la faceva incazzare; l’aveva fatto apposta. Per ripicca? Non lo credeva capace, eppure in quegli anni di lontananza se lei era cambiata, diventando più cinica, spaventata e dura, poteva essere cambiato anche lui.
Rinunciare a Tobia aveva significato perdere la magia.
Chissà cosa aveva significato per lui perdere lei. Probabilmente niente; aveva sempre preferito il popolo dell’Altrove e quello del Chiaro … se l’aveva lasciata avvicinarsi, era solo perché di quel popolo una volta aveva fatto parte.
 
Rosi si rese conto che erano arrivati sotto Castiglioscuro perché il cunicolo che stavano percorrendo cominciò a mostrare segni di fondamenta. Roccia dura, della Montagnola, scolpita per mano dell’uomo in blocchi ocra venati di grigio. Vi passò una mano, percependone sulla punta delle dita i secoli di storia.
Come un’onda si infrangeva sulla riva, immagini antiche le si agitarono davanti alle palpebre chiuse: uomini chini di fatica che portavano grandi blocchi di roccia lungo la strada della Quercia. L’odore di legna che bruciava nei grandi camini, il brulicare di gente, il clangore delle spade e il muggito delle bestie. Sulla torre più alta, ora crollata, sventolava il vessillo dei Malavolti assieme alla balzana di Siena.
“Rosì?” la richiamò Ettore distogliendola dal flusso di ricordi che la pietra le stava restituendo. Entrambi gli uomini erano andati avanti lasciandola indietro.
Si schiarì la gola e li raggiunse. “Ci sono, scusate.”
Tobia inarcò un sopracciglio. “Momento psicometrico?”
Rosi trattenne il sorriso che le stava affiorando sulle labbra. “Sono arrugginita, non ho percepito granché.”
“Parli del tuo potere?” domandò Ettore incuriosito. Da quando avevano cominciato quelle indagini balorde non faceva che fare domande. Avrebbe pensato ad una deformazione da guardia – come l’avrebbe definito Cate – ma il giovane napoletano sembrava genuinamente interessato.
Ettore era un Bambino Nato di Domenica, ma faceva parte dello sterminato esercito degli inconsapevoli, persone o creature versipelle mai scoperti dalle Confraternite. Per un inconsapevole, supponeva, era una fortuna incontrare persone come loro: tutte le stranezze che lo circondavano avevano finalmente un senso.
Rosi però non era tanto sicura che nel caso di Ettore fosse stato un incontro positivo. “Se tocco certi oggetti posso vedere il loro passato,” gli spiegò. “Le persone che li hanno toccati o, come nel caso delle fondamenta, quelli che sono passati di qui.”
Wa, ma verament?” esclamò. “Ma chisto allora cangia tutto, no? Basta che tocchi dov’è passato e si’ttu la prova per i Sorveglianti! Basta che ti alleni un po’!”
“Non basta che mi alleni,” ribatté brusca. “Una creatura non può caricare a sufficienza la roccia perché lasci una traccia … serve qualcosa di più. Serve che tante persone vivano qui, ed è disabitato da secoli. Non è rimasto molto…” sfiorò ancora una volta i muri.
“… ma se è rimasto,” le fece eco Tobia, “è perché Castiglioscuro è speciale.”
Rosi ricordava: ricordava come il loro castello fosse ben più di un ammasso di pietre, ma bensì parte del sistema difensivo che teneva chiuso l’ingresso per il Mondo Altro.  Tutto partiva da una singola pietra, quella fondante. Era stata modellata per integrarsi alle fondamenta, ma all’origine era stata altro: una grande lastra marmorea a guisa pentagonale, posata da chi prima di loro aveva abitato lì, gli etruschi.
Si teorizzava che fosse stato quel popolo di infaticabili lavoratori del metallo ad aver accidentalmente scoperto una breccia tra l’Altro e il Normale mentre scavavano le miniere. In quell’epoca più vicina alla preistoria che alla storia, dove l’uomo era in balia della Natura, non dovevano essere passati solo folletti e fatine e per questo, gli etruschi ci avevano letteralmente messe una pietra sopra, abbandonando le miniere e la Montagnola.
Secoli dopo, quando i senesi erano arrivati, di quella grande lastra ne avevano fatto la pietra fondante del castello. Non dovevano averla usata conoscendone la reale funzione: forse nella fretta di tirar su il castello l’avevano usata assieme ad altro materiale presente in zona. Fortunatamente il potere della pietra rimaneva tutt’ora, sigillando la porta, anche se, a detta del Sindaco, una vecchia roccia consunta prima o poi esauriva la sua funzione. “Carlo Ghini è un imbecille,” commentò a chiusa della spiegazione di Tobia. “Questo sistema tiene da secoli e continuerà a farlo.” 
“Pensa che, siccome Castiglioscuro è in rovina, lo siano anche le sue difese,” aggiunse Tobia e fu bello percepire la stessa vibrazione indignata nelle sue parole.
Senza rifletterci gli sorrise e Tobia ricambiò. Fu lesta però a distogliere lo sguardo. Momenti, frammenti di passato, ecco cosa stavano vivendo. Non doveva dimenticarlo. “Se c’è un rischio è che l’Altrove muoia, non che venga ripopolato,” disse. “La porta non è aperta.”
Ettore puntò la torcia in alto, illuminando l’ambiente. La roccia naturale della grotta era ormai stata sostituita dalle fondamenta e il pavimento, da puro fango si era tramutato in pietre scivolose ma regolari e quindi più stabili sotto i piedi.
Erano nelle cantine. L’odore di uova marce non si era attenuato, ma ormai, supponeva, si erano abituati, anche se il povero Ettore continuava ad avere la faccia verdastra. “Uagliò, io a credervi vi credo pure,” disse. “Però chistu serpe aro’o caz è asciuto?”
“È una delle cose che dobbiamo scoprire,” disse Tobia. 
Svoltarono un angolo, dove c’erano pezzi di legno franati l’uno sull’altro. Vecchie scaffalature per quello che ricordava, che una volta erano state parte della dispensa.  Di colpo una delle torce si spense. Non la sua, ma quella di Ettore, che era in cima alla fila. “Ma che…” lo sentì borbottare dandogli colpetti contro la parete. “No, ja…” mormorò con una stilla di inquietudine nella voce. “Ho cambiato le batterie da poco!”
Rosi fece per rispondere, ma dopo un breve sfarfallamento di luce, anche la sua e quella di Tobia fecero la stessa fine.
“No. Ja,” ripeté Ettore, stavolta spaventato, “veramente?!”
“Sta’ tranquillo,” disse Tobia, un assurdo ritratto di serenità date la contingenze. “Si spegne perché siamo vicini alla porta. Riprende appena ci allontaniamo.”
“Questo particolare non me lo ricordavo,” mormorò suo malgrado. “Comunque, non c’è nessun pericolo, se non quello di inciampare.”
“E o’ mostro?! Ce lo siamo dimenticati?!” ringhiò Ettore e lo sentì sganciare la pistola dalla fondina. “Ma come avete fatto a sopravvivere a questo posto voi due?!”
“Incoscienza infantile.” Persino nel buio totale Tobia stava chiaramente sorridendo. “E mancanza di serpenti antropofagi, anche.”
Rosi stavolta sogghignò, che dopotutto non poteva vederla nessuno. Prese l’accendino dalla borsa e fece per accenderlo, ma un’improvvisa, violenta folata di vento gelido glielo spense ancor prima che potesse rischiarare l’ambiente.
Odorava di marcio con una forza che le ricacciò il respiro in gola. Per un momento non le sembrò di ingoiare ossigeno, ma una densa nebbia vischiosa. La testa prese a girarle e dovette appoggiarsi al muro. E vi trovò una mano. Era quella di Tobia, che la tirò in piedi. Si era accovacciata? “Andiamocene,” le disse, ogni traccia di sorriso scomparsa nella voce, “adesso.”
 
***
 
Il bosco accolse Maddalena privo di suoni mentre le cuffie urlavano musica in grado di calmarla, di riportarla a terra. Privi delle voci delle Creature, era nient’altro che verde rilassante in cui immergersi e così fece, camminando lungo il sentiero che portava al castello. Il fango morbido le sporcava gli anfibi ma non ci badò. Dentro la foresta non ci sarebbero stati esseri umani ed era quello a cui puntava.
Non sarebbe arrivata al castello, ovviamente, non con la voce peggiore di tutte che la attendeva, ma poteva camminare finché non le si fosse schiarita la mente dagli ultimi strascichi dell’attacco di panico.
Abituatici. Ogni momento passato con Cate è un rischio.
Ne valeva la pena?
Fino a qualche minuto prima, tra le braccia dell’altra, avrebbe detto di sì senza esitazioni … ma adesso? La ragione le diceva di no, che il gioco non valeva la candela. Però appena Cate le sorrideva, o prendeva le sue difese come poco prima con sua madre, qualcosa dentro di lei si ribellava. Era stufa di allontanare le persone perché un mucchio di vecchi tomi sosteneva che fosse pericolosa.
Non voglio fare del male a nessuno. La mia volontà non dovrebbe contare?
Non contava neanche per Stefano: da ragazzini era stato lui a scoprirla mentre si nutriva inconsapevolmente di un compagno di scuola, e sempre lui aveva dovuto chiamare l’ambulanza dopo che le era collassato tra le braccia. Ormai quel ragazzino non era che un volto sfuocato nei suoi ricordi di tredicenne, ma ricordava il bianco degli occhi mentre, riverso sul suo letto, non rispondeva alle sue urla.
Non sarebbe successo di nuovo, perché adesso conosceva la sua natura. Con Caterina l’avrebbe controllata cacciando altrove. Non desiderava rovinare una persona a cui voleva bene. Non era cattiva.
Si fermò di fronte al ponte della Manolonga; non perché volesse, ma perché non aveva scelta. C’erano delle transenne ed erano avvolte in più giri in nastro bianco e rosso, un chiaro segnale che la strada era interrotta.
Che minchia è successo?
Forse la pioggia torrenziale di qualche giorno prima aveva danneggiato il ponte? Non l’avrebbe stupita, tuttavia quella notizia dava un’ovvia conseguenza: non potevano tornare all’accampamento. Michele ci sarebbe rimasto malissimo.
Quindi staremo a pensione dalle Silvani?
Questo significava passare più tempo con Cate, ma rendeva anche più difficile filarsela la notte per andare a caccia. Avrebbe dovuto parlarne con Stefano.
Maddalena, non potendo proseguire, ma non volendo neppure tornare in paese, tentennò sul da farsi. Non voleva abbandonare il sentiero, ma rimanere lì come uno stoccafisso non calmava il ritmo ancora concitato del suo cuore.
Se le cose potevano andare male, potevano andare peggio, perché da sotto il ponte spuntò la mano verdastra e ungulata della Manolonga. Fece un salto indietro, pronta a darsela a gambe. Poi, un sussurro. “… mella?”
Era un sussurro da vecchina, ed era terrificante perché apparteneva al mostro che si arrampicò sul ponte, accovacciandosi a neanche un metro di distanza da lei.
Era altissima: gli arti lunghi, sproporzionati spuntavano da un corpo magro e dalla pelle cadente color del fango. I capelli lunghi e ricoperti di limo le nascondevano il viso e forse era meglio così. “Mella?” ripeté gracchiante e Maddalena indietreggiò, pronta a fare lo scatto che l’avrebbe, sperava, portata a distanza di sicurezza. “Cara … mella?” finì di formulare.
Vuole una caramella?
Quella rivelazione la fermò sui suoi passi. “Caramella?” il tono era supplichevole. 
Maddalena afferrò lo zainetto da dietro la schiena e frugò, finché non trovò un tubetto vetusto di gelèe alla frutta. “Mella!” esclamò la manolonga con uno raspìo entusiasta. “Mella e basta,” precisò.
“Ah, vuoi macari che te la scarto?” sbuffò. La creatura non si era mossa dalla sua posizione accovacciata, le braccia lunghe che riposavano tra le gambe e solo la testa ben dritta, a seguire ogni suo movimento. Maddalena scartò la caramella, gettandola ai suoi piedi. La Creatura la afferrò, infilandosela svelta in bocca. Cominciò a succhiarla in modo piuttosto rivoltante ma da quel particolare Maddalena intuì perché Stefano avesse ribadito più volte la sua non-pericolosità.
È senza denti! Allora è davvero una vecchietta …
Gliene gettò un'altra. “Non tutte assieme,” disse notando che cercava la terza per terra, “manca solo che ti ci strozzi…”
Vecchia com’è, minimo è Creatura protetta. 
Non avendo niente di meglio da fare, e temendo che l’avrebbe seguita in paese se non le avesse dato tutte le caramelle di cui disponeva, decise di rimanere, allungandogliene una ogni volta che smetteva di ruminare.
L’aspetto era spaventoso, rifletté, con quelle membra sproporzionate e la pelle bitorzoluta come un rospo, tesa su costole e ossa sporgenti. Faceva paura, sì, ma era solo una vecchietta rattrappita golosa di dolci.
Maddalena percepì piano piano il cuore rallentare il suo ritmo e il respiro normalizzarsi. La presenza della Manolonga l’aveva preoccupata a lungo, ma ora che l’aveva conosciuta, era una paura che poteva permettersi di accantonare.
Facendo attenzione a come si muoveva, salì sulla porzione non transennata del ponte, arrivando a neanche un braccio di distanza dall’orchessa, che però, a parte voltare per un attimo la testa, non diede segno di averla notata.
Maddalena si sedette sulla nuda pietra, facendo penzolare le gambe sopra l’acqua cristallina del ruscello. Avrebbe pensato che l’odore di una Creatura del genere fosse rivoltante come il suo aspetto: invece odorava di terra bagnata e caramelle alla frutta. “Spero che il tuo ponte non crolli,” le disse, “è casa tua no? Là sotto nessuno ti dà fastidio.”
Le allungò l’ennesima gelèe sovrappensiero ma prima che potesse ritirare la mano, questa la prese delicatamente tra le unghie lunghe, sfiorandola appena.  “Non vuoi far male a nessuno, tu …” realizzò.
Ad essere onesti, nulla in quel bosco le aveva mai fatto del male. Spaventata e esasperata sì, ma c’era più malizia che cattiveria negli scherzi dei folletti, o nel ciarlare del Beffardello. C’era più curiosità che aggressività nella Manolonga, o nelle strane fatine – quelle che gli altri chiamavano falene - che ronzavano attorno a lei e a Cate ogni sera attorno al falò. Nei riflessi dell’acqua sotto di sé, quando passavano dal ponte per andare in paese o tornare al castello, a volte aveva scorto dei lineamenti femminili, e quei riflessi, ad un occhio attento o forse dell’Altrove, si tramutavano in lunghi capelli dorati di bellissime ninfe dell’acqua che ridevano e cercavano ogni volta di bagnarla con degli schizzi improvvisi.
L’uomo chiamato Nero aveva ragione: non c’era niente di cattivo nel bosco.
 L’unico punto interrogativo rimaneva la voce sotto il castello.
 
“Buongiorno bella citta!”
 
Parli del Diavolo …
Quel proverbio poteva applicarsi anche al beffardello: l’omino apparve, rossovestito e ghignante al di là del ponte e tra, un balzello e un trotterellare, lo attraversò raggiungendola. “Vedo che t’hai fatto amicizia con la bellezza de’i bosco!” 
“Non è aria, vattene,” lo apostrofò mentre la manolonga cacciava dalla gola quello che era chiaramente un borbottare offeso. 
Il folletto esibì una chiostra di denti aguzzi. “Non vorrei interrompere du’ belle figliole a chiacchiera, ma a te, succuba, non mangi gli esseri umani?”
“No!” protestò prima di realizzare che, in un certo senso … “Non è che li mangio, prendo la loro … ma cosa vuoi?”
“Se so’ roba tua, devi andà a ripiglialli perché so’ andati dove non dovevano andare, che poi, è una cosa che fan sempre, passano i secoli e lo fan sempre! E io dico, ci credo che la loro razza dura poco, sale in zucca non ne hanno!”
Se aveva capito qualcosa dalle conversazioni che aveva avuto con il beffardello, era che doveva andare oltre l’incessante blaterare per concentrarsi su poche parole chiave. “Chi vuole mangiare chi?”
“Il nero, quella rossa e quello basso!” fece un saltello. “Quello sotto se-li-ingolla!” canticchiò.   
Maddalena cercò di fare mente locale: il folletto parlava di Rosi, del bestione di nome Tobia e del carabiniere, dato che quella mattina erano andati via dal Bar assieme. Il Beffardello era arrivato da Castiglioscuro quindi dovevano trovarsi lì. E rischiavano di esser mangiati.
Fantastico.
Considerando che la bestia affamata non poteva che essere il mostro da cui Elena l’aveva avvertita, quello capace di ipnotizzarla ogni qual volta si avvicinava alla sua tana. D’istinto cercò il cellulare, ma non poteva chiamare Stefano. Tra gli alberi non c’era mai linea. “Che è successo?” domandò alzandosi in piedi mentre la Manolonga, disturbata dal trambusto, si infilava di nuovo sotto il ponte portandosi via quello che restava del tubetto delle caramelle.
Voi fà domande o voi ripiglialli interi?”
Aiu capitu … ma io che posso fare?”
Non era una sorvegliante, non era una vânător. Era soltanto una succuba coi sensi di colpa … e con una preoccupante incapacità di farsi gli affari propri, perché comunque andò dietro al folletto, attraversando il ponte in direzione dell’ultimo tratto del sentiero. “Non sono una sorvegliante!” reiterò ad alta voce.
Il Beffardello fece una smorfietta. “Boh, ci sei te, l’ho detto a te. Se un’ti interessa, poi tornà ‘ndreò. Io la mi’ promessa l’ho mantenuta!”
Prima che potesse chiedersi a che promessa l’ometto facesse riferimento, questo la distanziò saltellando di pietra in pietra. “Gnamo!” la incitò. Maddalena imprecò e lo seguì.
 
***
 
“Di cosa volevi parlarmi?”
L’accoglienza di Don Doriano era stata ben diversa da quella della famiglia Ghini, Alina doveva ammetterlo. Il prete era parso sinceramente contento della sua visita, da come l’aveva sollecitata ad entrare e l’aveva portata negli uffici della canonica, offrendole una vasta pletora di beveraggi e persino una fetta di torta “che m’han portato la cara Demiris, dovessi sentire che mani che ha!”.
Alina si era sempre trovata bene con gli uomini di Chiesa. A Roma erano soprattutto loro ad ingrossare le file delle Confraternite: preti, frati e qualche occasionale diacono nei ruoli di supporto, una schiera tonacata dove poteva dire di esser cresciuta … ne conosceva i modi di fare. Don Doriano le ricordava quei confratelli romani: eloquio mite, sorriso misurato … emozioni ben serrate dietro una facciata di cortesia. Era ciò a cui era abituata, quindi si era sempre trovata bene con lui.  “Volevo parlarle di quello che mi è successo nel bosco qualche sera fa,” esordì.
“Ah, certo … la notte del plenilunio,” annuì sedendosi di fronte a lei e asciugandosi la fronte sudata con un fazzoletto. La sua stazza, abbinata ad un abbigliamento non particolarmente traspirante, non gli permetteva di godere della frescura di quei locali. “Come stai a proposito, ti sei ripresa?”
“Sì,” rispose preferendo non soffermarsi su quell’argomento, che ancora l’umiliazione bruciava. “Io e mio padre abbiamo una teoria su quello che potrebbe essere accaduto.”
E gliela espose. L’uomo la ascoltò attentamente, la postura rilassata ma i lineamenti del viso tesi nella concentrazione.
Dopo che ebbe finito di parlare Don Doriano rimase in silenzio ed Alina attese paziente. Preferiva le persone che riflettevano a quelle che le parlavano addosso nel tentativo di quietare le proprie emozioni concitate. Come Carlo Ghini, ad esempio. Nell’attesa bevve un sorso della bevanda gasata che l’uomo l’aveva praticamente costretta ad accettare.
Era zuccherina e appiccicosa e non la gradì, ma la finì comunque.
L’uomo poi si alzò, passeggiando per la stanza; era un ambiente fresco anche d’estate, pieno di scaffali di metallo scuro a malapena illuminati dalla finestra che dava sul cortile, chiusa da una pesante grata di ghisa. Non tirava neanche un alito di vento, eppure l’uomo vi si piazzò di fronte come se trovasse refrigerio. “Ti ho mai raccontato perché mi hanno trasferito qui?”
Alina scosse la testa; non c’era mai stata sufficiente confidenza per avere una conversazione a tu per tu.
“Sono in età da pensione, e questo sicuramente è stato un motivo…” iniziò scoccandole un sorrisetto complice, a cui rispose per inerzia, “ma fu anche una punizione.” Fece una pausa, e quando capì che non gli avrebbe chiesto chiarimenti, continuò: “Sei di Roma, quindi conoscerai il monte dei cocci, al Testaccio.”
“Sì, è una sacca di Altrove,” confermò.
“Una zona relativamente tranquilla, tanto che era amministrata da una Confraternita che poneva più attenzione ad apporre cartelli e mettere palizzate, che ad andarla a controllare sul serio … pensa che avevano anche permesso di organizzarci dei tour turistici!” Fece un sospiro. “Era la mia Confraternita, sai. Ero assegnato lì, officiavo a Santa Maria Liberatrice e i miei confratelli erano anche il mio gregge. Brave persone, lavoratori onesti … ma è vero a volte quello che si dice dei romani. Pigri.”
Alina non commentò: era lì per fare delle domande e si era ritrovata ad ascoltare le storie di una vecchia gloria. Si mosse sulla sedia impaziente e l’uomo ridacchiò.
“Alla vostra età avete il fuoco dentro …” commentò divertito, “ma non è una critica! È bello che la nuova generazione sia già pronta a prendere il nostro posto …” fece un gesto, come a scacciare una mosca. “Comunque, ero contrario all’apertura, al lasciare che il Chiaro si confondesse con l’Altrove. Certo, il monte era aperto pochi giorni l’anno e solo di giorno, ma sai com’è con il Chiaro … si prende un braccio quando tu vuoi dargli solo il mignolo. Dei ragazzi scalarono l’ingresso e ci andarono di notte.”
“Non credevo ci fossero Creature pericolose in quella zona…”
“No,” convenne, “ma vi sono alcune presenze. Spettri, più che altro, e forse è ciò che quei ragazzi cercavano. Il brivido dell’avventura … uno di loro si imbatté in qualcosa e si spaventò, mettendo il piede in fallo. Cadde dalla parte più scoscesa della collina. Una disgrazia, poteva solo farsi un bernoccolo ma picchiò male la testa.”
Alina aggrottò le sopracciglia. “Essere stato trasferito qui è stata la sua punizione? Ma lei aveva avvertito…”
“Avevo avvertito, ma non avevo fatto nulla di concreto. Ero il Don di quella parrocchia, ero il Sorvegliante più anziano, ma non intervenni abbastanza vigorosamente.” Si voltò verso di lei, con una sorriso triste, “… e un ragazzo è morto per questo.”
“Non è colpa sua,” argomentò ma consapevole che non sarebbe servito a molto. Dopotutto, la loro religione sulla colpa aveva costruito le fondamenta. “Mi dispiace per quello che le è accaduto, però…”
“… cosa c’entra con quello che sta succedendo qui?” finì per lei. “Forse niente. Forse tutto … perché io so che la Montagnola ha un mannaro. Ho parlato con il povero Tobia, ed è un uomo senz'altro turbato … ma quello che mi ha descritto, era un lupomanaio, non ho dubbi. Tanto che sono stato io a chiamarvi da Roma, e non mi sono fermato ad un no superficiale stavolta. Ho insistito e ho avuto te e tuo padre, Alina.” Tornò al tavolo, ma lo circumnavigò per starle accanto. In piedi, la sua mole lo faceva simile a quelle grandi statue in marmo delle cattedrali, parate a festa e imponenti. Gli occhi chiari, circondati da rughe, brillavano duri, come quelli di suo padre. Una vecchia generazione di guerrieri, forse infiacchiti dal peso degli anni, ma non ancora pronti a cedere il testimone.
“Se mi dici che qualcuno ti ha aggredito la notte del plenilunio, io ti credo. Se mi dici che pensi che qualcuno stia aiutando quella bestia empia a nascondersi, io ti credo. E sono a tua disposizione per portare alla luce tutto ciò che è nascosto.”
Alina non poté frenare un sorriso di sollievo. Sospettare di tutti i Sorveglianti era un suo dovere, ma la storia personale di Don Doriano le permetteva un concreto beneficio del dubbio. Se li aveva chiamati lui, non poteva essere la stessa persona che nascondeva la bestia, questo anche suo padre avrebbe dovuto ammetterlo.
“Non dovremo cercare lontano, padre … può immaginare di chi sto parlando.”
“I miei confratelli,” l’uomo annuì grave. “Carlo e Marina sono brave persone … Marina, poi, a dispetto di ciò in cui crede, è un’amica.” Increspò le labbra in una smorfia dolente. “Ho sempre pensato che fossero come i miei confratelli romani, buone intenzioni ma pigrizia mentale. Tu invece vi vedi dolo?”
“Chi avrebbe la possibilità di nasconderlo a me e mio padre se non qualcuno che conosce l’Altrove?”
“La bestia potrebbe avere una famiglia.”
“Una famiglia in cui non ci siamo mai imbattuti e di cui nessuno sa niente? Le Confraternite si occupano anche di catalogare gli informati.”
“È così, e a Malacena vi sono solo tre famiglie, i Silvani, i Neri e i Ghini,” ammise con un sospiro. “Avete prove? Perché ai Chiaroscuri di Siena dovremo portare un caso solido.”
“Ho chi può testimoniare la presenza del lupomanaio. La succuba.”
L’uomo fece una smorfia poco convinta. “Temo non sia sfruttabile, data la nomea della sua razza. No, è meglio non coinvolgerla.” Si accarezzò il mento, coperto dalla folta barba che gli copriva persino il collarino ecclesiastico. “E quelle tisane che Marina ti ha dato? La sua famiglia ha avuto streghe … e lei stessa traffica con le erbe, non è un segreto.”
“Ne ho ancora qualche bustina.”
“Potremo farle analizzare, ma ci vorrà del tempo.”
“Io e mio padre non ce ne andremo finché questa storia non sarà conclusa.”
Don Doriano sorrise. “Allora portamele, e farò qualche telefonata a dei vecchi amici.”
Alina ricambiò alzandosi. “Grazie, padre.”
L’uomo le prese una mano tra le sue. Le aveva sudate, ma Alina tollerò quel contatto, perché sarebbe stato scortese far altro. “Non devi ringraziarmi, mi stai regalando un’ultima occasione per ripulire una comunità da una minaccia dell’Altrove. Sono io che devo ringraziare te e tuo padre per non aver rinunciato.”
“Siamo Radu, non lo facciamo mai."
 
***
 
Non sarebbero mai riusciti ad arrivare alle scale.
Per Tobia quella consapevolezza aveva il sapore di un sogno … o di un incubo: la testa gli girava come se l’avessero colpito forte e con le torce che non funzionavano era cieco in quel cunicolo.
Era la Creatura, quell’odore nauseabondo non poteva essere prodotto che dal regolo. Nel bosco non li aveva colpiti, ma in uno spazio chiuso con pochissimo ricambio d’aria li stava stordendo.
Afferrò il braccio di Roísín, tirandola su: la ragazza obbedì ma il movimento brusco fu troppo e le cedettero di nuovo le gambe. La riacchiappò a volo. “Ettore,” annaspò cercando l’amico, “Ettore, usciamo…”
Le orecchie gli ronzavano, ma non aveva idea se fosse per la poca mancanza di ossigeno o perché il regolo fosse lì. Non udiva rumori, se non i loro respiri spezzati e un improvviso conato di vomito.
Aveva trovato Ettore. Lo raggiunse mentre stava vomitando l’anima, appoggiato dall’altra parte della parete qualche passo più indietro. “Dobbiamo uscire subito.”
“Non ce la faccio…” tossì convulso. “Non respiro…”
Tobia, che si era premuto il fazzoletto di stoffa sulla faccia, lo afferrò per una spalla e lo costrinse a staccarsi dal muro spingendolo in avanti, verso la figura semi-accasciata di Rosi. Di loro tre sembrava quella messa peggio. “Roísín,” la chiamò, “appoggiati a me, dobbiamo salire...”
Questa mormorò qualcosa di non intellegibile. Era ad un passo dallo svenire e non c’era tempo da perdere. Tobia, ignorando il pavimento che sembrava ondeggiare come se fossero in mare, se la caricò sulle spalle.
Moriremo soffocati se non usciamo.
Tolse il fazzoletto dalla faccia, che gli servivano entrambe le mani, e con Rosi sulla schiena ed Ettore a fianco, tenuto per la cintura dei pantaloni per aiutarlo a non inciampare, si diresse verso l’uscita. Da lontano vedeva il chiarore delle cucine. Se fossero andati oltre la pietra di fondazione sperava che la magia del castello li avrebbe protetti. Sperava.
E poi Rosi smise di respirare.
Lo sentì come se qualcuno gli avesse tirato un cazzotto nello stomaco. Rosi era sulla sua schiena ed era un peso immobile. Nel panico accelerò e i suoi piedi incespicarono nei gradini, erano arrivati, doveva solo salire una rampa di scale …
Gli cedettero le gambe. Tobia crollò, trascinandosi dietro Ettore, mentre il peso di Rosi lo schiacciava a terra impedendogli di rialzarsi: era troppo debole.
I Neri non avevano paura di morire; la morte era l’altra faccia della vita e chi meglio di loro era consapevole del fatto che era necessaria? Sarebbe stato un sollievo se fosse arrivata, aveva pensato a volte.
A Tobia venne da urlare perché non voleva morire lì, e far morire i suoi amici con lui.
E poi una luce; forte, violenta, e non poteva essere il chiarore del piano di sopra perché lo abbacinò. “Tobia!” era il suo nome, pronunciato però da una voce di ragazza che non riconobbe. Sentì dei passi e poi una mano che gli afferrò il braccio, strattonandolo. “Che minchia avete?! Sùsati!
Quell’accento … Tobia abbinò la voce al nome: alla luce della torcia di un cellulare era Maddalena Russo che gli stava parlando. “Che è successo?” continuò strattonandolo di nuovo, quasi gli intimasse di rimanere sveglio, “Dov’è il mostro?” e lanciò un’occhiata angosciata oltre a loro.
“Non lo so…” si staccò dal palato. “… qualcosa ci sta facendo male …dobbiamo allontanarci, dobbiamo salire.”
Maddalena annusò l’aria e poi irrigidì i lineamenti. “Amunì,” disse, prendendo Rosi da sotto le braccia facendola rotolare al suo fianco. Tobia riuscì così a tirarsi su e anche Ettore, sentendoli parlare, cercò di tirarsi in ginocchio con un gemito. “Amunì,” ripeté, “vi do una mano io, forza!”
Fece alzare Ettore, passandosi poi un braccio attorno alle spalle; Tobia riprese Rosi sulla schiena e lentamente, come se fosse una scalinata da mille gradini, presero a salire. Maddalena teneva la torcia davanti a sé, e Tobia notò come camminasse svelta, ingombro di Ettore a parte, e come non apparisse colpita dal miasma del regolo. Lanciava rapide occhiate alle sue spalle di tanto in tanto e nel farlo, gli occhi venivano illuminati dalla luce artificiale del cellulare, riflettendo come quelli dei gatti.
La salita durò meno di un minuto, ma a Tobia parvero ore. Rosi, sulla sua schiena non si spostava, non si lamentava, non faceva niente ... come se fosse morta.
Doveva rimanere calmo, se si fosse lasciato andare al panico avrebbe rischiato di cadere trascinandosela dietro come aveva fatto prima.
Dopo la pietra, come aveva sperato, l’odore cominciò a diminuire. Maddalena, che era in testa, fu la prima ad arrivare alle cucine, portando Ettore al grande tavolaccio rustico che vi campeggiava al centro. Ce lo appoggiò contro e poi corse a recuperare anche lui, passandosi un braccio attorno alle spalle come aveva fatto con il carabiniere. Strinse i denti per la quantità di carico che fu costretta a subire, ma non si lamentò e gli ultimi metri per Tobia furono molto più leggeri.
Ettore, che stava respirando ad ampie boccate come se fosse appena riemerso dall’acqua li aiutò a stendere Rosi sul tavolo. Appena notò le condizioni dell’altra lasciò andare un’imprecazione, scattando a controllarle il polso. Imprecò di nuovo e a Tobia sembrò che una voragine gli si fosse aperta sotto i piedi.
Non c’è battito. Non respira.
Si dovette appoggiare al tavolo perché gli girava di nuovo la testa e no, non erano i miasmi del regolo. Dietro una cortina di panico vide l’amico sbottonare la camicia di Rosi, e dare istruzioni concitate a Maddalena. La ragazza le reclinò la testa e le aprì la bocca, avvicinando il viso al suo e certo, era la respirazione bocca a bocca, mentre Ettore, tra un colpo di tosse e l’altro, le stava facendo un massaggio cardiaco. Stavano cercando di rianimarla.  
Salvatela. Salvatela, vi prego, non lasciatela morire …  
Gli pareva che il mondo si fosse fatto lento, come fotogrammi che andavano a scatti e e non era previsto che lui si muovesse. Doveva rimanere fermo e aspettare un segno, una speranza, un suono.
E poi Rosi tossì.
Il mondo riprese a girare a velocità normale mentre Rosi si voltava di lato e respirava e tossiva, e strabuzzava gli occhi paonazza ed era viva … solo allora Tobia si appoggiò con la schiena contro il tavolo, premendo i palmi delle mani contro il legno, talmente forte che qualche scheggia gli si infilò nella pelle, ma non importava, non importava assolutamente. Rosi era viva.
 
C’erano diverse ragioni per cui aveva deciso di abbandonare l’Altrove.
Una delle tante è che nel Chiaro non rischiava di morire due volte in due giorni.
Rosi contò i polmoni in fiamme, nausea e miliardi di puntini che le oscuravano il campo visivo … e rimase stesa sul tavolo delle cucine, a fissare il soffitto pericolante.
 “Marò … Rosì, m’agge fatto morì di spavento…” mormorò Ettore da qualche parte vicino alla sua spalla destra. “Pensavamo fossi morta!”
Lo aveva pensato anche lei; quando ogni respiro si era fatto impossibile aveva realizzato di essere vicina ad incontrare il Creatore. Si portò le mani tremanti al viso. “Sì …” mormorò roca dando un colpo di tosse, “me ne sono resa conto.”
Il silenzio calò nel grande ambiente, illuminato da lame di luce brillante di mezzo dì. Doveva essere ora di pranzo nel mondo normale, e si chiese se Caterina si fosse ricordata di tirare fuori l’insalata di riso dal frigo per non servirla gelata ai clienti. Quella riflessione le appariva aliena, come se la normalità fosse talmente lontana da far fatica a percepirla come tale. Tutto il suo mondo era finito a testa in giù mentre soffocava in quel budello di roccia e fango.
Aveva bisogno di bere qualcosa di forte.
Prima però c’era da fare la conta: voltò il viso per incontrare Ettore, che si strofinava un po’ troppo frequentemente gli occhi, tossendo a ritmo sostenuto. C’era Tobia che fissava un punto di fronte a sé e aveva l’aria di chi era stato appena investito da un tir e non si era accorto di essere sopravvissuto. Rosi non fece in tempo a chiamarlo che l’ultima persona si palesò nel suo campo visivo …
“… e tu che ci fai qui?” domandò alla siciliana che sentendosi rivolgere la parola trasalì sorpresa. Prima che potesse ripetere la domanda, Ettore le parlò praticamente addosso.
“Le domande dopo, ora che sei viva dobbiamo andarcene! Quella roba è là sotto!”
“Si chiama serpe regolo … e non salirà, la pietra fondante non lascia passare le Creature.” Rosi tentò di alzarsi a sedere sul tavolo e Tobia si scrollò dalla sua stasi per aiutarla. Continuava a guardare ovunque tranne che nella sua direzione e fu seriamente tentata di afferrarlo per i capelli e costringerlo a voltarsi.  
“Ne sei sicura?” il tono sarcastico, ma anche spaventato di Maddalena li fece voltare tutti verso di lei.
Da dove è spuntata fuori?
Interruzioni napoletane permettendo, era il momento di far chiarezza. “Sì. Con tutto il baccano che abbiamo fatto ci sarebbe di sicuro andato dietro, ma non l’ha fatto e non lo farà,” disse spiccia. “Piuttosto, che ci fai qui?”  
Incontravano il regolo e casualmente la Russo era nei paraggi? Non aveva mai creduto granché nelle coincidenze. Maddalena serrò le labbra, lo sguardo che saettava dall’imbocco delle cantine alle scale dei piani superiori dove c’era l’unico punto di accesso e uscita al castello. Voleva scappare? “Passavo di qui…” disse debolmente.
“Per caso?”
Tobia si schiarì la voce. “Maddalena mi ha dato una mano a portarvi su … se non ci fosse stata lei saremo ancora là sotto,” fece una pausa, “tu saresti ancora là sotto.” 
A questo Rosi accusò il colpo anche se cercò di mascherarlo: non dimenticava la grande rivelazione che le avevano fatto solo poche ore prima. Maddalena era una stramaledetta succuba, non una simpatica fatina del folklore siciliano. “Intendevo come sapevi che eravamo là sotto.”
“Ve l’ho detto, passavo per caso e…” aprì e chiuse la bocca un paio di volte, finendo per tacere. Se non altro era del tutto incapace di inventarsi una palla.
“… e ci hai salvato la vita,” reiterò Tobia, “grazie,” e poi inarcò un sopracciglio nella sua direzione e Rosi ebbe l’irritante sensazione di essere nel torto. Arrossì.
“Già, meno male che passavi di qui!  Ma a te chilla puzza nun agge fatto niente?” le domandò Ettore.
Maddalena esitò ancora e di colpo Rosi realizzò il perché di quella titubanza.
Non ha idea che sono a conoscenza della sua natura. Se ci ha trovato coi mezzi dell’Altrove penserà di non potermelo dire …
Avrebbe dovuto pensarci e si sentì un’idiota per non averlo fatto. “Mi hanno detto cosa sei. Quindi ripeto la domanda … come hai fatto a trovarci là sotto?”  
L’altra impallidì come se l’avesse accusata di qualcosa e no, non l’aveva fatto anche se i due deficienti con cui si accompagnava avevano assunto l’aria da santi protettori di fanciulle fragili.
“Il beffardello,” mormorò di malavoglia, “quando sono nel bosco mi sta sempre rintra i piedi. Mi vinni a circari e mi disse che eravate nei guai … ho girato tutto il castello e alle fine erano rimaste solo le cantine.”
Era frustrante da ammettere, ma aveva senso. Quel folletto era attratto dalle belle ragazze e Maddalena ne era l’epitome. Che si fosse preoccupato per loro era insolito, ma i folletti non erano creature maligne. Dimostravano di affezionarsi agli umani e di sicuro si era affezionato a Tobia, che lo rimpinzava di caramelle da quando erano cittini. “E che ci facevi nel bosco?”
“Una passeggiata,” ribadì. Era spaventata, ma il tono cominciava a mostrare esasperazione. “Aora chi sugnu succuba non mi è permesso? Non c’è anima viva ccà, pì cchi dovrei essere un pericolo?!” 
“Non sto dicendo…”
“Certo che puoi, il bosco è di tutti, umani e creature,” rispose Tobia interrompendola. “Quello che Rosi sta cercando di dire è che siamo molto contenti che il beffardello ti abbia trovato e che tu abbia trovato noi.”
Rosi capì che doveva farla finita: incongruenze spiegata, la realtà era che Maddalena aveva davvero loro salvato la vita. “Sì … esatto, grazie,” concesse a mezza bocca.  
La ragazza non sembrò trovare conforto nelle sue parole da come buttò fuori un “prego” piuttosto antipatico.
Dio, quanto odiava gli adolescenti.  
A quel punto Ettore, cavalier servente #2, si sentì in dovere di dire la sua. “Tranquilla, Rosi fa così con tutti!” esclamò gioviale. “Non le piace ringraziare.”
Aprì la bocca per rispondergli a tono, ma Tobia la batté di nuovo sul tempo. “È vero, gliel’avrò sentito dire due volte. Questa è la seconda.”
“La fate finita?” brontolò. “Comunque ho un’altra domanda … ed è solo curiosità,” aggiunse di fronte all’occhiataccia combinata dei due uomini, “noi siamo quasi collassati in pochi minuti, e stiamo ancora tossendo l’anima, ma tu ne sei uscita senza strascichi. Non hai sentito quell’odore nauseabondo? Sei immune?”
“L’ho sentito, ma non mi ha dato fastidio,” rispose, “comunque non direi che sono immune.”
Rosi aggrottò le sopracciglia. “Cioè?”
Maddalena si massaggiò un braccio, voltando di nuovo la testa in direzione delle cantine. “Sento la sua voce,” mormorò, “se entro qui dentro mi chiama … e mi dice di scendere. Non adesso … ma è successo già due volte.”
“Per far che?”
“Non ne ho idea … ma non mi piace,” inspirò, “mi scanta, mi fa paura… perché mi verrebbe voglia di dargli retta e scendere giù.”
Rosi le si avvicinò. “Ascolta…” iniziò, ma Maddalena fu lesta ad indietreggiare mentre un lampo preoccupato le balenava in volto.  
Ha paura di me … da quando?  
Da quando era a conoscenza della sua natura, ovviamente.
Racimolando ricordi dei suoi studi realizzò il perché e d’un tratto non ebbe più tanta voglia di fare la Sorvegliante cattiva. E poi, magari ci aveva già pensato sua madre a coprire quel ruolo. Dubitava, purtroppo, dato quanto Caterina le ronzava attorno.
Una cosa per volta.
“Non credo sia la Creatura a chiamarti,” le spiegò con un sospiro, “potresti essere attirata dalla porta.” All’espressione confusa che le venne restituita scosse la testa: era un discorso troppo lungo da fare e non avevano tempo. “Piuttosto, sei assolutamente sicura che non ti fa male andare laggiù? Stai bene?”
Maddalena scrollò le spalle. “Se quello è il suo modo di cacciare o di difendersi, non sono io la sua preda.”
Rosi era consapevole che le seguenti parole avrebbero causato più di una reazione avversa, ma aveva un obiettivo che non poteva raggiungere e una soluzione a portata di mano. Non aveva scelta. “Ti devo chiedere un favore … scenderesti giù a scattare delle foto?”
 
***
 
Note:
 
Da lettrice odio i cliff-hanger. Da scrittrice, li adoro. Sorry not sorry. :P
  
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