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Autore: Hoel    12/02/2021    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 10.11.2021

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Capitolo Ventiseiesimo

Confiteor

(Non desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)

Parte 3

 

 

 

 

 

 

Alla fine zia Ysabeta era stata esaudita: le nozze tra suo figlio Jacomo e Marina Morexini finirono sulla bocca di tutta Venezia, celebrate con fasto dogale e se la sposina era stata la donzella più ambita, suo marito divenne presto l’uomo più odiato, per ovvi motivi, dagli spasimanti respinti. [1]

Hironimo vi partecipò assieme alla sua famiglia, sorvegliato a vista da suo cugino germano Carlo Morexini, silenzioso e implacabile alla stregua d’un giannizzero. Sicché al ragazzo non rimase altro svago se non d’offrire le sue felicitazioni alla coppia, evitando di guardare ambedue dritto negli occhi. Strinse (molto) forte la mano del novizzo e baciò quella della novizza, per poi ritirarsi nel suo cantuccio e godersi in santa pace la festa ch’animò San Trovaso fin quasi alle prime luci dell’alba, filando liscia senza brutte sorprese e perfino le tante temute lenzuola, al momento dello sbandieramento ai convitati, mostrarono le loro brave macchioline rosse.

Insomma, tutto bene quel che finiva bene, se Marco non si fosse esibito in quella scena madre di gelosia nelle cucine di Ca’ Miani, guastando l’umore d’Hironimo per i mesi a venire, poiché le sozze insinuazioni di Jacomo Corner parevano essersi avverate, manco avesse gettato una maledizione contro i due coniugi.

La crisi matrimoniale tra il fratello ed Helena; la guerra; la rottura con la sua domina; la cattura di Lucha e la malattia e la morte di Crestina … ognuno di questi elementi aveva incancrenito l’animo del giovane Miani ed esacerbato gli aspetti meno piacevoli del suo carattere. Si rendeva conto d’essere divenuto più aggressivo, dispotico, poco incline al compromesso e impaziente. Gli antichi passatempi gentilizi non l’attiravano più, traviato dalla rudezza del campo e i suoi occhi infarciti di brutalità e squallore avevano dimenticato come s’apprezzasse la bellezza, pigliandosi diletto ovunque lo trovasse e in qualsiasi forma. Se Hironimo si conteneva però nei vizi, lo faceva non per amor della virtù, bensì per non compromettere il suo progetto di distinguersi come militare: pur conscio d’essere ancora giovane per ruoli di spicco, nondimeno seguitava a puntare tenace alla meta, ché se il suo amico e cugino di terzo grado sier Ferigo Contarini era riuscito, alla fresca età di trent’anni, a divenire provveditore degli stradioti, allora anche il giovane Miani poteva ben sperare, se continuava a rigare dritto e a comportarsi, almeno sul campo, in maniera irreprensibile.

“Tanto scoglionarsi per reclutare quei fanti e archibugieri, per poi neanche riuscire ad inviargli a mio fratello … Sacramento, avrei dovuto partire io con loro, invece di delegare la questione a quell’inutile capitano! C’è riuscito Ferigo  a portargli perfino dei vettovagliamenti, non potevo farcela anch’io?”, borbottò frustrato Hironimo, nascondendosi il viso tra le mani e massaggiandosi le tempie.

“Saresti morto inutilmente”, scosse il capo Luzia, versandogli sulla coppa un infuso siriano, regalatole dal solito sier Bastita, non appena suo figlio naturale Andrea gliene spediva qualche pacco da Aleppo. “Tuo fratello è stato anche fin troppo bravo a resistere così a lungo”, aggiunse, sottraendogli discreta la brocca mezza vuota di vino, non piacendole questa nuova tendenza del giovane.

Il giovane Miani, accortosi invece, storse la bocca, tamburellando nervoso le dita sul tavolo. “Con quegli uomini, avrebbe potuto resistere ancora di più”, grugnì, sorseggiando guardingo la bevanda calda, trovandola abbastanza gradevole.

Alla notizia della caduta di Bassano, Covolo, Enego e dell'avvicinarsi delle truppe ispano-imperiali a Feltre, i fratelli Miani, consapevoli dell'estremo pericolo in cui versava Lucha, avevano stretto la cinghia e, ai continui e urgenti appelli del fratello alla Signoria affinché inviasse rinforzi alla Scala, di tasca propria avevano pagato il capitano Domenego da Vicenza per raggiungere in fretta il maggiore. Marco, poi, aveva dato il meglio di sé e della sua arte oratoria in Consiglio, infondendo nell’impresa tutta l’energia nervosa accumulata per colpa della crisi del suo matrimonio. E l’aveva spuntata, il gaglioffo: a San Zaccaria lui di persona aveva presentato in rassegna le reclute. Magra consolazione era stato l'inaspettato soccorso di Ferigo Contarini, ch'era riuscito ad introdursi nella fortezza senza incappare nel nemico, rifornendola di vettovaglie. Tutti sforzi rivelatisi inutili, giacché quando gli archibugieri stavano per partire da Treviso e i provigionati da Venezia, la Scala ormai era divenuta irraggiungibile, la battaglia iniziata ed ogni via di comunicazione interrotta. Hironimo aveva voluto condurre lui stesso la compagnia, incurante del pericolo di venire facilmente sopraffatti: per convincerlo a desistere, Marco l’aveva quasi assordato con le sue urla, incrinandosi per qualche giorno la voce. S’era così ansioso di crepare malamente - lo aveva minacciato -  bastava un cenno e il maggiore gli avrebbe legato una palla di granito alla caviglia per gettarlo in seguito nel Canal dell’Orfano.

“Pota dell’angonaia …”, imprecò di nuovo Hironimo, stizzito dalla sua incapacità, per quanto si sforzasse, di poter influenzare e cambiare il corso degli eventi, ribelli mostri dotati di volontà propria e con l’unico scopo di tormentare lui e la sua famiglia. “Vermocane d’ona sporca svioldra …”

“La tua occasione non tarderà a venire e non mancherai di distinguerti”, finse Luzia di non aver udito quella sequela d’improperi, porgendogli ineffabile dei biscotti. “D’altronde, da come il tira il vento, ho l’impressione che questa guerra non finirà tanto presto: la Signoria sta giocando il tutto per tutto, senza esclusioni di colpi né compromessi, i nostri condottieri al fronte e i nostri ambasciatori dal Papa.”

“Spero che sier Hironimo “dalle Rose” riesca nel suo intento”, s’auspicò il Miani, roteando pensoso la coppa.

“Non c’è obiettivo, che un uomo del suo intelletto non possa raggiungere: assieme al cardinale domino Domenego Grimani, è il nostro asso nella manica”, sentenziò grave la Trivixan. “Ma la diplomazia, contrariamente al campo di battaglia, necessita di tempo. Ciò che s’ottiene in un’ora in uno scontro armato, lo si ottiene forse in giorni e in mesi di trattative, con effetti però a lungo termine.”

“I condottieri vincono le guerre, non gli ambasciatori.”

“Gli ambasciatori però posso prevenirle o scombussolare le alleanze nel corso di queste.”

Hironimo sorrise, intrecciando le dita sotto il mento. “Noto che siete rimasta la solita Luzia Trivixan”, dichiarò tra l’affezionato e il malinconico, soffiando sul liquido bollente.

“Ho rinunciato alla carriera di cortigiana honorata e di mantenuta, mica al mio cervello!”, cinguettò falsamente scandalizzata la donna, unendosi alla risata del patrizio, che le chiese, intrigato:

“E vi manca quella vita?”

“Un poco”, si passò Luzia un dito sulle labbra carnose. “Ma d’altronde, a lungo andare, ogni suo aspetto mi era divenuto pesante. Pertanto, ho giudicato meglio ritirarmi all’apice della gloria, amata e onorata, piuttosto di scivolare lentamente nell’oblio fino a ridurmi a battere le calli di Rialto per qualche spicciolo e di finire i miei giorni a languire in un qualche sozzo letto pulcioso, nell’ospedale dei derelitti”, gli rivelò spassionatamente la Trivixan i suoi pensieri, mentre intingeva un dolcetto al miele nella bevanda. “E’ stato uno spartiacque: senza i miei favori di letto, si è visto chi veramente m’era amico e chi mi frequentava soltanto per divertirsi e basta. Grazie a Dio e a Santa Cecilia, il vostro sior Barba m’è rimasto straordinariamente fedele. Per questo motivo, per me, egli rimarrà sempre il "mio signor". Ah, e anche tu naturalmente non ti sei dimenticato di me”, aggiunse ella dolce, afferrando la mano d’Hironimo, che gliela strinse di rimando.

A trentasei anni Luzia Trivixan ancora serbava la sua seducente bellezza, frutto certamente dei numerosi trattamenti di bellezza, ma anche di uno stile di vita piuttosto rigoroso, laddove lei dormiva le sue otto ore e non mangiava né troppo né troppo poco, equilibrato. Invero aveva sconvolto tutti l’anno addietro, poco prima della guerra, con la sua improvvisa decisione di chiudere il sipario sulla sua avventurosa carriera di cortigiana honorata, in un addio commuovente e trionfante, uno dei pochi per donne della sua razza.

Già un anno dopo, vuoi per il nuovo capitolo della sua esistenza vuoi per le conseguenze del conflitto, Hironimo faticava leggermente a conciliare le due Luzie, la brillante e sensuale intrattenitrice della sua infanzia e adolescenza con la posata matrona seduta davanti a sé, vestita di velluto verde scuro e dalla camicia piuttosto accollata, gli unici indizi dell’antico mestiere i perenni orecchini di perle e smeraldi alle orecchie e l’esotico turbante di seta blu notte e festechino, fermato da una catenina d’oro e una spilla di smeraldo col pendente di perla.

L’appartamento stesso aveva acquisito una certa sobrietà, pur rimanendo coccolo, elegante ed accogliente: Luzia aveva tenuto per sé un cuoco, quattro fantesche e un bravo a protezione; ogni oggetto inutile, stravagante e ingombrante l’aveva venduto e, da quanto Hironimo aveva capito, la donna viveva soltanto nella parte nobile dell’edificio, affittando di persona il resto. Tre stanze, più il portego, la cucina e un mezzado. Alle pareti, notò Hironimo, figuravano più quadri a soggetto sacro di quanto si ricordasse, accanto ai cozzanti nudi profani delle scene mitologiche, illuminati dal cesendelo d'ottone e di vetro. Le credenze di noce avevano conservato soltanto gli oggetti più preziosi, per lo più piatti di maiolica, un vaso di preziosissima porcellana e numerosi bicchieri di vetro dalle forme più svariate. All'angolo, il clavicordo, i liuti, i flauti appoggiati con cura al limite del maniacale, così come la piccola biblioteca di libri sottochiave, tra cui numerosi spartiti musicali. Eppure, nella semplicità, il gusto del raffinato e del costoso continuava a permeare l'appartamento, essendosi infatti ridotto il numero, non la qualità dell'arredamento.

“I miei investimenti nelle mude m’hanno fruttato bene e sono certa continueranno a farlo. Il corallo va forte in Siria ed in Egitto, così come il vino di Cypri e l’uva passita di Candia in Ingaltera”, raccontava la Trivixan. “Ora che possiedo una solida base economica, posso dedicarmi interamente alla musica: a quella carriera no, che vi rinuncio” e ridacchiò soddisfatta di sé. Infatti, pur ritirandosi dalla mondanità di letto, la donna rimaneva ben presente in quella culturale, circondandosi di musicisti, compositori e altri cantanti, facendoli da mecenate o scrivendo raccomandazioni ai più meritevoli e intraprendenti. Lei stessa continuava ad impartire lezioni di canto e di musica, esibendosi poi la sera, eppure Hironimo nutriva il sospetto che, sottobanco, da qualcuno i soldi per le antiche prestazioni li accettava, come ad esempio da suo zio Batista.

“Il vostro sior Barba è stato davvero coraggioso ed intuitivo ad aver insistito sul commercio del pepe. Credevamo che i Portoghesi ci avessero completamente rubato il settore, viaggiando diretti a Calcutta per comprarlo. Chi l’avrebbe mai detto, che le loro navi avrebbero invece rovinato la spezia e resa invendibile?”

Quando i portoghesi erano ritornati dall’India col doppio del carico di pepe e commerciandolo a minor prezzo, Venezia aveva panicato, per la prima volta dopo lungo tempo incapace di vendere alcuna spezia, ritrovandosi i magazzini pieni di merce a prezzo decisamente fuori mercato. Al che s’era perfino contemplato l’idea d’abbandonare il centenario commercio del pepe e di focalizzarsi sulle altre spezie, finché rimanevano disponibili.

Al contrario, il Morexini assieme ad altri mercanti avevano sostenuto, insistendo a gran voce, un approccio diverso, basandosi sulle loro conoscenze navali e soprattutto sulla spezia in questione: passata l’euforia della novità, i compratori all’ingrosso si erano accorti che, assaggiandolo, il pepe portoghese non aveva né odore né sapore, arrivava marcio e bagnato, poiché le navi portoghesi, per quanto più capienti e rapide, erano costruite con legno insalubre di pessima qualità, non isolate e pertanto le merci, stipate in una stiva troppo carica per conservarle agevolmente, divenivano soggette all’umidità, ai vermi e ai topi. In aggiunta, l’equipaggio inesperto, le velature insufficienti, i timoni tarlati contribuirono ad una serie di tragici incidenti marittimi, ponendo spesso il capitano di fronte alla dura scelta tra la vita e il cargo.

Sicché, nell’arco di neanche un anno, per bilanciare il rapporto spesa-guadagno, i mercanti portoghesi per un concetto male inteso dell’economia erano stati costretti ad alzare i prezzi, arrivando ad eguagliare se non a superare quelli del pepe veneziano, il quale ritornò in auge sia per la consueta sua eccellente qualità sia per il prezzo concorrenziale. Anche perché, sfruttando l’amicizia di suo figlio naturale Andrea col Sofì di Persia, sier Batista e i suoi colleghi avevano appreso come del pepe arrivasse ugualmente in Siria ed in Egitto e sulla costa del Malabar, aggirando scaltramente il blocco imposto dai Portoghesi. I mercanti arabi, infatti, mal tolleravano quelli portoghesi, i quali li costringevano a vendere grandi quantità di merci a prezzo risibile e senza possibilità di differenzazione. Sfruttando dunque le conoscenze del territorio, gli Arabi rifornivano Venezia del meglio dall’India, saldando gli antichi accordi commerciali e unendosi in un sol fronte contro il nemico comune [2].

“Se la famiglia del mio sior Barba l’hanno cognominata “da Lisbona”, significa che i loro galletti portoghesi li conoscono bene”, commentò Hironimo, il quale aveva seguito appassionatamente quella vicenda, aiutando volentieri suo zio ad analizzare i due differenti tipi di pepe, grazie anche alla consulenza dalla Siria del cugino Andrea, mercante di spicco ad Aleppo. “E’ di questo che adesso parlate, voi e il mio Barba? Di spezie, investimenti e danaro?”

Luzia reclinò vezzosa il capo. “Abbiamo sempre parlato di molte cose”, gli confidò in un misto di malizia e tenerezza. “Ma ora, ahimè, gli argomenti sono divenuti assai tristi e il tuo Barba ha trovato nella Signoria un’amante ancora più esigente e possessiva …  Il mio tempo è finito, Momolo, non lo sapevo allora, lo so adesso. Forse fui profetica ad abbandonare appena in tempo la professione di cortigiana, così non verranno per me.”

Il giovane Miani si raddrizzò con la schiena, inquieto, le orecchie tese. “Chi dovrebbe venire per voi?”, inquisì lentamente.

La cantante s’umettò le labbra, lisciando nervosamente il fazzoletto ricamato. “Ti sei mai chiesto, come mai a Veniexia ci siano tante prostitute e cortigiane, come mai siamo così rispettate e tutelate dalla legge? Perché, similmente ai mercanti, garantiamo alla Signoria un guadagno sicuro, siamo … quasi un arsenale statale. Patrizi annoiati; cittadini dalle mogli non più disponibili o dai troppi figli; giovani marinai di passaggio e lavoratori scapoli e desiderosi di compagnia; visitatori illustri; mercanti stranieri; pellegrini che vogliono aggiungere un ultimo peccatuccio veniale prima dell’indulgenza; artisti innamorati dell’effimera bellezza … di tutto Veniexia offre, a chi vuole pagare. Ma … con la guerra …” e Luzia sospirò, guardandosi le mani alabastrine e delicate. “Ignoro se tu ne sia o meno al corrente, ma in Senato si parla di tassare le prostitute per finanziare l’esercito e credo proprio che passerà quell’ordinanza. Già in molte, tra meretrici e cortigiane, si sono lamentate pubblicamente col Patriarca domino Antonio Contarini, sostenendo che non possono sostenere tali tasse, non quando non ci sono più uomini disponibili. Il che porterà ad un’unica soluzione: la confisca dei beni. Io … io posso rinunciare ai miei damaschi, ai miei broccati, alle mie sete … posso vendere i miei vezzi e le mie gioie, i miei ventolini ed ogni chincaglieria, perfino la prospettiva di vivere in una sola stanza non mi spaventa, ma … ma i miei liuti, i miei flauti, il mio clavicordo, i miei spartiti? No, non potrei mai separarmi da essi, preferire la morte piuttosto.”

Commosso, Hironimo le prese l’altra mano, stringendogliele ambedue a mo’ di conforto. Luzia gli sorrise tristemente rassegnata e il patrizio comprese appieno il significato delle parole dell’ex-cortigiana, sul perché il suo mondo bello, felice e dorato ma superfluo fosse finito, spazzato via dal crudo pragmatismo della guerra.

“Ma adesso che non esercito più il mestiere”, si riprese Luzia in fretta, “non mi possono più tassare in quanto cortigiana, dunque me la caverò! E se anche come cantante e maestra dovessero crearmi dei problemi, mi reinventerò e troverò qualcos’altro da fare. La bellezza sfiorisce, la mona s’asciuga, i danari vanno e vengono, ma finché c’è questo” e si picchiettò la tempia, “e questo”, si portò una mano al cuore, “non è mai detta l’ultima parola!”

“Voi siete una spada!”, esclamò Hironimo, da sempre pieno d’ammirazione verso lo spirito intrepido, tenace e proattivo della donna, la quale non si tirava indietro dinanzi a nessuna sfida della vita. “Dovrebbero inviare voi contro i franco-imperiali!”

“Dammi un’ora con l’Imperatore Maximiano e Re Ludovico e ve li faccio ballare in catene, nudi, alla stregua d’orsi!”, dichiarò enfatica la Trivixan, per poi gettare il capo all’indietro e sciogliersi in una grassa risata, seguita a ruota dal Miani. “Oh beh, forse questo dieci o quindici anni fa …”, s’asciugò ilare Luzia una lacrima.

“Non denigratevi: voi rimarrete per sempre quell’affascinante cortigiana, cui ai suoi piedi si prostrava tutta Veniexia.”

La cantante gli pizzicò giocosa la guancia. “An, come la sai bene, mio giovane adulatore, l’arte di farti amare!”, gli fece l’occhiolino, sistemandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Non sono arrivata all’apice della gerarchia, se non mi fossi sempre trovata due passi in avanti rispetto al mio avversario. Regola che valeva allora come adesso.” Sospirò. "Anche se, lo ammetto, ho perso la mia disfida con Francesca Ordeaschi. Sai che si trasferisce a Roma? E' rimasta incinta del signor Agostino Chigi e questi l'adora al punto, che par lui aver inventato il modo di dir "pazzo d'amore"!", gli narrò Luzia l'ultimo pettegolezzo del giorno ed Hironimo la trovò estremamente distaccata, avendola invece creduta invidiosa verso l'inaspettata fortuna della sua acerrima rivale.

"Sì, la siora Francesca dovrebbe partire verso la primavera."

"A quanto pare, la visita a Veniexia è sta molto proficua, per il signor Agostino! Se ne torna a Roma col banco sistemato, un'amante ufficiale, un figlio in arrivo e il mio Bastian appresso!" ed ecco che la voce della Trivixan cangiò di tono in uno veramente indignato. Il giovane Miani scosse benevolo il capo: Bastian de' Luciani, o del Piombo come si faceva chiamare, oltre ad essere un pittore di qualità era anche un eccellente liutista, nonché dolce e piacevole nel conversare e poco gli era bastato per conquistarsi le grazie della cantante. Luzia l'aveva infatti accolto con grande entusiasmo e benevolenza nel suo circolo di musicisti e appassionati di musica, introducendolo a molti gentiluomini ed artisti, anche dopo che il ragazzo aveva relegato il liuto a svago per far della pittura la sua vera professione. L'ex-cortigiana perfino era riuscita a strappargli la promessa di un ritratto in segno d'amicizia, sennonché ecco che quel banchiere senese, in una sfacciata terna, glielo sottraeva per portarselo via a Roma. Chissà che non fosse quello il vero suo motivo di cruccio ...

"Cercate di capirlo: dopo la morte del magister Zorzon, ormai si va dicendo che l'unico suo vero erede sia il giovane Tician. Il magister Carpaccio, perfino il nostro pittore ufficiale il magister Zuan Belini appartengono oramai al vecchio gusto, alla gente piacciono i quadri alla moderna. E Bastian dil Piombo questo l'ha capito, così com'ha capito che fra poco non ci sarà più spazio a Veniexia sia per lui sia per Tician. O uno o l'altro. A Roma avrà più fortuna, ché gli altri pittori dipingono con stili diversi dal suo e, nella varietà, potrà ricavarsi il suo spazio."

"In ogni modo, mi dispiacerà congedarmi da lui ... Suonava così tanto bene ..."

"Mi sorprende piuttosto che non siate gelosa della siora Francesca. Dite, non vi sarebbe piaciuto divenire l'amante dell'uomo più ricco d'Italia? Insomma, il signor Agostino è pur sempre il banchiere dei Papi ..."

"Bah. Non ci tengo", scrollò le spalle Luzia, incurante.

"Perché?", sprizzava Hironimo di curiosità.

"E me lo domandi? Chigi è un gran porco, fatto e finito. E come tale, non poteva non innamorarsi di quel magnifico troione di Francesca Ordeaschi!", gli spiegò la donna e rise forte, coinvolgendo il giovane Miani, che sghignazzò alla grossa. "Poco tempo fa, dopo un mio concerto, il signor Agostino mi ha offerto una grossa somma di ducati per andarci a letto, pur sapendo ormai quanto casta fossi divenuta" e congiunse le mani in burlesca preghiera, fingendo un'espressione da Maddalena penitente che pareva rubata alle immagini votive in chiesa. "Ti confesso però che un pensierino me l'ero anche fatto: insomma, lui era ricco, non di malaspetto, colto, buon conversatore ... Ci sarei anche stata, sai? Peccato che, al momento di definire i dettagli, il signor Agostino m'avesse anticipato come pianificasse di violarmi il retrobottega. Al che io gli ho detto: "Benissimo, mio signor, però a patto che uno dei miei schiavoni sodomizzi anche voi nel frattanto, perché a tre mi rende assai gaudente!" Ciò, Momolo! Solitamente uno normale scappa via a queste proposte, specialmente quando si tratta del suo, di deretano da violare: t'immagini, invece, che il signor Agostino non solo era entusiasta all'idea, ma pure ha aggiunto: e portatemelo qua, allora, questo vostro schiavone, voglio proprio vedere se davvero è lo stallone che descrivete!" Basta, non ho retto più e me la sono filata via con una scusa. Da quel momento, ogni volta che lo scorgevo tra il pubblico, ero quasi contenta che la siora Francesca fosse in sua compagna. Di sicuro, ho notato che lei camminava un po' a gambe larghe ... Ma come si suol affermare: meglio le tue, che le mie di chiappe!"

Mentre ascoltava il prosaico racconto, Hironimo divenne paonazzo dal tanto ridere, gettando indietro il capo e si pose poi una mano sugli occhi umidi, seguitando a sobbalzare dalle risate. "Cul del cancaro, è proprio vero che più sono ricchi e vecchi e più sono sporcaccioni!", sentenziò ilare, pensando anche alle sue di esperienze. Con la sua ex-amante, al massimo l'avevano fatto vestiti contro il muro e le uniche proposte indecenti a Lena comprendevano molte lance spezzate per quasi l'intera serata, senza però mai deviare dalla "diritta via". Forse costoro erano talmente facoltosi e perciò annoiati, da non trovar gusto nelle cose semplici della vita, tra cui far l'amore ad una donna che lo vuole per davvero.

"Amen! Amen!", replicò solenne Luzia. "E lo fanno perché, contrariamente ai giovani, gli si drizza una volta al dì e pertanto, co' pinciano con una puta, la gh'ha da ser memorabile!"

Una fantesca venne a sparecchiare la tavola, mentre i due convitati si ritiravano presso il caminetto. Il volto della Trivixan, dapprima così allegro e piacevole, s'incupì all'improvviso in un'espressione seria e piuttosto grave. “Momolo … non vorrei giocare all’ambasciator che porta pena, però volevo chiederti: hai saputo della recente scomparsa del conte Querini di Stampalia ed Amorgo?”

Hironimo s’irrigidì sulla sedia, tamburellando nervoso le dita sulle ginocchia e contemplando distratto i ciocchi di legna sfaldarsi, divorati dal fuoco. “Purtroppo, visto che ho partecipato al suo funerale”, asserì a denti stretti, memore dello straziante spettacolo della povera sua cugina germana Maria, incinta e sorretta dal padre sier Batista e dal fratello Carlo, i cui strazianti lamenti avevano reso penosissima la Messa funebre del fu sier Zuanne. Tutto il contrario di quello di sua cugina Biancha Corner relicta Priuli, consolatasi in fretta l’anno addietro con un secondo marito, sier Zuan Antonio Malipiero.

“So bene che sei ancora in lutto per via di tua sorella Crestina, però dovresti visitare tua cugina Maria più spesso e tenerle compagnia. Ultimamente non sei molto socievole, i tuoi parenti incominciano a mormorare male di te, che sei cambiato, che non sei più il loro Momolo. Il tuo Barba mi ha raccontato di come tu abbia litigato con tuo fratello Carlo e soprattutto con tuo fratello Marco, che non vi parlate più e se ne duole moltissimo, poiché eravate sempre stati molto uniti.”

Il giovane Miani arricciò la bocca in una smorfia sarcastica. “Sparlavano di me anche quando ero il loro Momolo”, borbottò mordace, mangiucchiandosi un’unghia. “Però concordo con voi: avrei dovuto offrire miglior sostegno alla mia zermana. Non voglio giustificarmi, tuttavia … ho avuto altro per la testa” e non si riferiva soltanto alla guerra e alla sua futura partenza per Castelnuovo di Quero, men che meno allo stupido litigio di quella testa da bigoli dei suoi fratelli Carlo e Marco, che si credevano all’apice della sapienza, quando invece Marco aveva negli ultimi anni dimostrato d’essere tanto se non più puerile d’Hironimo.

Se da una parte il giovane Miani era stanco d’accollarsi i problemi altrui e di rimanere l’unico saldo in quella tempesta di casini personali, dall’altra gli recava piacere quel sentirsi utile, con uno scopo al mondo. Quindi per lui era stato un onore sostituire Lucha come castellano, perché aveva sbagliato nel ricordarlo ai fratelli maggiori?

“Alla prossima, dunque?”, ricordò Hironimo a Luzia, mentre questa, a visita terminata, lo accompagnava alla porta.

“Alla prossima”, convenne la donna, allungandogli la mano, acciocché il giovane gliela baciasse. “Tu e il tuo Barba siete sempre i benvenuti in questa casa”, gli ricordò benevola.

Un sorrisetto poco raccomandabile increspò la bocca d’Hironimo, il quale con la scusa del baciamano spinse e attirò a sé la Trivixan, avvinghiandola stretta col braccio e prendendo possesso delle sue labbra. Il suo desiderio verso di lei non s’era mai propriamente acquietato, un po’ come quel giocattolo a lungo negato, che ogni tanto riaffiorava nella mente del bambino, rinvigorendone la voglia d’ottenerlo a qualsiasi costo. E la morte di Crestina, sommata alla guerra, l’aveva ancor più reso ingordo nei confronti della vita, portandolo ad indulgere in ogni suo capriccio.

La pacatezza del cullante movimento della bocca di lui, il lento suggere della carne umida, il battito regolare nel petto e la pazienza dimostrata nel persuaderla a schiudere l’ultima barriera, quei tenaci denti dietro cui si rifugiava la nervosa lingua, rivelarono a Luzia che ormai non la stringeva più quell’adolescente inesperto e impetuoso, bensì un giovane uomo di quasi venticinque anni, sicuro di sé e della sua arte persuasiva. Si chiese, non senza una divertita punta di gusto, chi gliel’avesse svezzato e voleva complimentarsi per l’eccellente lavoro, se neppure mesi trascorsi in cavalleria gli avevano sottratto quella raffinatezza amatoria, che un uomo deve dimostrare ad una donna, se non vuol passare per un caprone infoiato, sfottuto prontamente alle sue spalle e allontanato poi con qualche scusa.

A lunghe e languide carezze s’abbandonarono le loro lingue, spostandosi il giovane sul muro, acciocché lei stesse comoda e soltanto prigioniera del suo corpo. Le mani del patrizio vagarono dai fianchi della cantante fino al petto, sfiorando e aprendo appena la camicia, per poi risalire lungo il morbido collo fino alla nuca. Delicatamente, senza fretta, la invitò ad abbandonare il capo sul suo palmo, lasciandosi sorreggere. Le baciò le palpebre, una alla volta, e Luzia sorrise al ricordo.

“Monellaccio”, sbuffò ilare, accarezzandogli la guancia ricoperta dalla barba del lutto, segno che sì, ormai lei stava trattando con un adulto. “Non demordi mai, vero?”, gli chiese, fingendo un rimprovero di cui invece non gli faceva alcuna colpa.

“Mai”, stette al gioco Hironimo, anzi, abbracciando la donna ancora più forte, intrappolandola completamente. “Vi avrò seduta sulle mie ginocchia”, le promise semiserio, soffiandole sopra le labbra tumide, ogni formalismo decaduto.

“Uhm”, schioccò la lingua Luzia. “Dovrai guadagnarti il privilegio, mi sa”, lo provocò, scorrendo le mani sulla stoffa della casacca nera sciallata fino alla camicia plissettata sottostante, ch’abbassò, denudandogli la giugulare che punzecchiò alternando delicati morsetti e pennellate con la punta della lingua. “Dovrai dimostrarmi in che sei meglio, rispetto agli altri miei amanti”, gli sussurrò all’orecchio, catturandogli il lobo tra i denti e suggendolo piano. “O sei uno di quegli insicuri, che vuole le vergini perché teme il paragone cosicché non si dica in giro: quel suo cazzo non val niente?”

Hironimo chiuse sbattendo la porta e sollevò di peso la cantante, costringendola a cingergli la vita con le gambe. “Sfida accettata!”, replicò ridendo di cuore e roteando in vorticose giravolte, che provocarono il riso anche nella Trivixan, aggrappatasi forte al trapezio del nobile, finché quest’ultimo inciampò per via delle vertigini, atterrando prima di schiena sulla panca, in un tuffo di cuscini, e in seguito scivolando di sedere per terra.

I due risero, risero, risero fino al mal di pancia, rotolandosi sui fiori stilizzati rosso brillante, blu pallido e verde chiaro del tappeto damasceno, facendosi a vicenda un tremendo solletico e Luzia fu la prima a dichiarare la resa, scalciando in aria le gambe peggio di un mulo. Al che Hironimo, gattonandole incontro,  ne approfittò per sollevarle la sottana e infilarvi sotto la testa.

“A varda zò! Indossate ancora le braghesse!”

La cantante lanciò un gridolino falsamente indignato, sporgendosi in avanti in modo da sculacciare quell’impertinente. “Vien fora, bestia!”, ma il giovane l’afferrò per le caviglie e si sistemò comodamente tra le sue gambe. Le passò una mano sulla nuca e la baciò di nuovo, scostandole a metà la camicia e abbassandole le spalline, lo scollo del busto a vita alta che a malapena le copriva i capezzoli e da cui si sparsero sopra la donna e sul tappeto, in una vivente manifestazione della dea Flora, degli odorosi fiori di gelsomino.

Luzia si sciolse i capelli rosso fuoco dal turbante e si distese sul tappeto, nel centro perfetto del disegno, invitando Hironimo a raggiungerla. Come la rosa di Damasco, si schiuse per il patrizio che le si posò sopra come l’ape, appoggiandole la fronte sul petto ed inalando piano, in piacevole carezza, l’odore floreale emanato in quella morbida valle. L’ex-cortigiana, a seconda della stagione, soleva riempirsi la fascia mammellare di viole, di fiori d’arancio, di petali di rose o di gelsomino affinché la sua pelle, svanito l’effetto del profumo, seguitasse a solleticare piacevole l’olfatto dei suoi ospiti. Lo stesso suo seno, adesso accarezzato in intenta esplorazione da Hironimo, era stato il frutto d’un accorto lavoro da scultore, sottoponendolo per anni a giornalieri bagni nell’acqua gelida, onde rassodarlo e costì mantenendolo più duro e tondo di quello di una fanciulla. Similmente, sul collo e sul viso Luzia s’applicava dei pezzi di carne appena levati dalla ghiacciaia e intinti nel latte e cannella. Si lisciava alla greca e ogni giorno si faceva fare massaggi per tonificare il corpo, sopportando ogni agonia e sacrificio in nome della bellezza. E a giudicare dagli sguardi vogliosi degli uomini quando si recava in Merceria o a Messa a Santa Caterina, i risultati a lungo termine l’avevano ripagata di tanto soffrire, vendicandola e sbugiardando quei cafoni che, raggiunti e passati i trent’anni, avevano osato chiamarla vecchia, per poi cascare bramosi ai piedi, pere cotte a puntino.

“Soltanto questa volta”, mormorò Hironimo e nei suoi occhi nerissimi Luzia comprese il significato tra le righe, del tabù che stavano infrangendo.

“Soltanto questa volta”, ripeté lei, scivolando la sua mano in basso e con destrezza figlia della pratica gli slacciò la braghetta, infilandovi la mano dentro e trovandolo già pronto, il vantaggio della gioventù.

Sono cambiato, pensò amaramente Hironimo, rigirando tra le dita le ciocche rosse di Luzia, la quale gli s’era accoccolata sopra, la guancia appoggiata sull’addome e i polpastrelli che gli sfioravano appena la sottile linea di peluria, la quale dall’ombelico gli scendeva giù all’inguine. La donna osservava pigramente i muscoli del giovane contrarsi a quella languida carezza, la pelle tesa e calda.

Le ombre pomeridiane s’allungavano all’interno della camera da letto, entrandovi silenziose dalle lunghe e strette finestre, curiose intruse, e risalivano fino al soffice letto di sei materassi, avvolgendo in caldi chiaroscuri i corpi ivi stretti e semicoperti dalle lenzuola bianchissime.

Sì, sono proprio cambiato, sospirò il patrizio, ingoiandosi le labbra e mordendole a sangue, conscio d’aver infranto quell’antico divieto: il se stesso adolescente non avrebbe mai commesso quello sgarbo nei confronti dello zio, anche a costo d’apparire rigido o stupido o stupidamente rigido, fregandosene dell’altrui scherno. Invero aveva ben assimilato l’ipocrisia comune e lo spirito di rapina e in generale disonesto dei capitani di ventura, prendendosi tutto ciò che gli piaceva, senza rimorsi né timore delle conseguenze.

Il discreto e curioso tocco della Trivixan lo destò dal suo incantamento: la cantante gli stava studiando la mano, tastando delusa la ruvida pelle. “Un tempi avevi mani così belle”, mormorò ella tristemente, contornando i fantasmi rosati delle croste cadute dalle nocche e il giallognolo dei calli sui palmi. “Creavano bellezza, non davano la morte.”

“A Padoa aiutavo a costruire le mura e portavo le barelle”, avvertì inconsciamente il giovane il bisogno di giustificarsi di quel mutamento, il riflesso fisico di quello dell’anima.

Luzia rabbrividì al pensiero dell’inferno scatenatosi in quelle tre settimane d’assedio. “Il mio tempo è finito, Momolo”, sussurrò sibillina, socchiudendo gli occhi e lasciandosi cullare dal ritmico alzarsi ed abbassarsi del petto di lui.

Anche lei era cambiata, appurò Hironimo, accarezzandole la schiena e coprendo ambedue col lenzuolo, raffreddandosi il sudore nel frattempo a risultare molesto alla pelle. Alla fine della fiera, la Trivixan stava invecchiando, malgrado i suoi momentanei e combattivi sforzi di rallentamento del processo. Pur sforzandosi d’apparire stoica dinanzi all’inesorabile declino, in realtà ella voleva sentirsi ancora amata e desiderata come un tempo, l’oggetto del desiderio di tutta Venezia, la musa ispiratrice della comunità musicale. Era impossibile, dopo anni alla ribalta, abbandonare l’ebbrezza della notorietà, l’ammirazione sconfinata della gente, il trovarsi perennemente al centro dell’attenzione per poi finire in secondo piano, scartati alla stregua di un abito passato di moda, un ricordo lontano e sfuocato, rimpiangendo giorni gloriosi che non sarebbero mai più tornati, costretti a ripiegare in attività di nicchia.

Un artista muore due volte, si dice: quando non può più esercitare la sua arte e quando lo sotterrano. Luzia Trivixan per sua fortuna ancora non era giunta a quel livello, tuttavia stava cedendo ad una sottile smania di ricerca di conferme. “Grazie a Dio e a Santa Cecilia ho il mio canto e la mia musica a consolarmi e sostenermi. Sai, quand’ero ragazzina, prima del mio debutto ufficiale, confessai a mia madre che progettavo di guadagnarmi il pane, onestamente, da cantante, solo da cantante. Lei mi rise in faccia e mi disse: “Vuoi cantare e basta? Fallo in strada per l’elemosina. Vuoi cantare in un palazzo? Allora trasformati in una sirena e attira gli uomini nelle profondità del tuo letto.” Ed era questa strisciante e persistente insicurezza che la rendeva sempre più dipendente dai suoi amici musicisti e dai suoi allievi, dalla loro ammirazione e approvazione.

Il suo Alexandro Demophon era morto da dieci anni, così come alcuni dei suoi protettori storici. Sier Batista, pur rimanendo generoso e leale nei suoi confronti, oramai s’era votato alla Signoria, relegando ogni altra donna in secondo piano, perfino sua moglie istessa. La Trivixan, aveva notato Hironimo, più che amante si stava gradualmente trasformando in confidente e amica, una piccola oasi di tranquillità dove potersi rilassare, gli amplessi sempre più saltuari e non perché il sangue e le voglie del Morexini si fossero raffreddate.

Hironimo l’aveva capito benissimo, ecco perché aveva fatto la sua mossa, approfittandone della malinconia e confusione di Luzia: ella aveva chiuso col passato, servendo se stessa e non più gli uomini; tuttavia, la solitudine di non possedere un compagno che l’assicurasse col suo amore, l’aveva resa vulnerabile nella sua inquieta voglia di sentire nuovamente la passione viva d’un amante, la sua forza e il suo calore, donandole l’ebbrezza di prendere ed essere presa, regalatale generosamente in un’altra vita da Alexandro Demophon.

Lui e la Trivixan erano simili, concluse il giovane patrizio, condannati ad anelare ciò che non potevano ottenere attraverso vie diritte e alla luce del sole.

 

***

 

Guardati dai ritorni di fiamma, dice il proverbio, ché t’arrecano soltanto dispiaceri.

Seguendo il consiglio di Luzia Trivixan, Hironimo si era risolto a visitare più spesso sua cugina madona Maria Morexini relicta Querini, per quanto lo ferisse profondamente nell’animo: stentava di riconoscere nella giovane donna sciupata e nerovestita la sua vivace e amorevole germana, invecchiata precocemente dei suoi neanche venticinque anni. I suoi occhi nerissimi avevano perduto ogni guizzo vitale, fissando smorti davanti a sé, un simulacro vuoto e senz’anima.

Maria si disinteressava di quanto le accadesse attorno, chiudendosi a riccio su se stessa e bandendo ogni passatempo dei giorni felici assieme al marito; non leggeva, né suonava, né ricamava, né deambulava nell’odoroso giardino interno, preferendo languire nel buio della propria stanza da letto, Ca’ Querini ridotta ad un sepolcro. La patrizia si rifiutava perfino d’uscire di casa, neanche per recarsi a Messa, preferendo chiamare in casa un prete per confessarsi e comunicarsi. Madre cercava d’aiutarla a trovare conforto nella religione, condividendo con la nipote la sua esperienza e a codesto trattamento un poco la vedova Querini rispondeva, più che altro ricattata dalla salute del bimbo che cresceva nel suo grembo, la cui morte sarebbe stata imputabile alla sua noncuranza.

“Come siete riuscita a sopravvivere? Come siete riuscita a vivere senza il vostro cuore, senza l’altra metà della vostra anima? Come?”

“Mi sono detta che lui è sempre meco, ovunque io mi trovi. E che veglierà su di me, ovunque egli si trovi.”

Madona Morexina aveva saggiamente preso in casa i nipotini Francesco, Crestina, Fantin, Piero,  Agustin e Nicolò Querini, terrorizzata dall’idea che la figlia potesse, in uno scatto d’imprevedibili nervi, svegliarsi dall’abulica sua stasi e compiere qualche gesto azzardato, avvertita la nobildonna dagli altrettanti ansiosi e spaventati servitori, in particolare dalla fantesca personale della contessa, la quale sosteneva di non riconoscere più la sua padrona.

“Abbiate pazienza, siora Mare. Non posso abbandonare questa stanza, non subito, non finché potrò ancora percepire l’odore di Zuanne sul suo cuscino, sui suoi vestiti.”

Sua madre non aveva potuto non assecondarla, ordinando tuttavia alla servitù di riferirle verbatim ogni singolo movimento e parola a Ca’ Querini, intanto che scriveva una pepata missiva alla consuocera madona Juliana Malipiero Querini, invitandola a salpare quanto prima da Stampalia.

“Partirsene così, il giorno dopo il funerale di suo figlio, abbandonando a se stessa sua nuora, i suoi nipoti e quell’infelice che mai conoscerà il volto di suo padre! Capisco sier Nicolò, per via dell’amministrazione dei loro feudi, ma quale scusa aveva madona Juliana?”

“Cercate di capirla: ha perso tutti e tre i figli in così poco tempo, naturale sia sconvolta! In ogni modo, scrivetele pure: è tempo che si scuota dal lutto e che s’assuma le sue responsabilità!”

In attesa dunque della consuocera, madona Morexina e la figlia Querina si dividevano in casa i nipotini, quest’ultimi ancora troppo piccoli per capire quanto stesse accadendo. Il solo che se ne rimaneva in disparte e non giocava né con la cuginetta Biancha Zustignan, né con gli zii Donatella e Francesco Morexini era il piccolo Francesco Querini, il primogenito del defunto sier Zuanne, che dall’alto dei suoi sette anni possedeva più ingegno di quanto non gli si desse credito.

Sollevata dalla dolorosa presenza dei figlioletti e confortata dalla compagnia di Marinella, la quale aveva sorpreso tutti offrendosi volontaria di trasferirsi a casa di Maria e così di rinunciare all’ultimo anno d’istruzione al convento, la vedova Querini pareva dar segni di miglioramento e anzi, con la scusa di riparare, aveva prontamente assunto un maestro di danza e uno di latino per completare l’educazione della sorella minore, partecipando anch’ella alle lezioni per ingannare il tempo e distrarsi. Dall’altra parte però, in segreto, Maria aveva sviluppato un interesse morboso per l’Aldilà, mascherandolo dietro il pietoso culto dei morti, sicché sier Batista, informato da Marinella, andò su tutto le furie quando scoprì come la figlia stesse consultando negromanti levantini per farsi dire dove il marito si trovasse esattamente, se fosse possibile comunicare con lui. L’anziano consigliere s’era dovuto frapporsi tra le due sorelle, poiché un’indignata Maria, giudicandosi tradita da Marinella, s’era subito avventata contro di lei, tirandole i capelli e chiamandola juda scariota, sporca, fumia e ingiandolia, mentre la povera fanciulla si difendeva in lacrime, descrivendo a lei e al padre quanto quei maghi e indovini l’avessero spaventata a morte, specie l’ultimo che, irrigidendosi tutto manco uno stoccafisso, aveva aperto la bocca e senza muoverla l’avevano udito parlare, sostenendo questi averlo posseduto l’anima di sier Zuanne.  

“Piaghe di Cristo!”, era dunque esploso sier Batista, abbracciando protettivo Marinella, che singhiozzava impaurita contro il suo petto. “Te lo dico io dove si trova tuo marito: morto e sepolto nella sua arca, sulla quale dovresti finalmente deciderti ad andarci a pregare, così da rinsavire e non impegolarti in tali negozi da pagani! Bone Jesu, vuoi farti scomunicare?!”

Hironimo raramente aveva visto così arrabbiato il suo barba, tuttavia condivideva in pieno la sua frustrazione e tristezza nell’assistere al lento decadimento fisico e morale dell’adorata figlia. Di conseguenza, assumendosi volontariamente il ruolo del cattivo, egli aveva rincarato la dose, rimproverando aspramente la cugina e spronandola a reagire, per amore dei suoi bambini, dell’eredità che Zuanne le aveva lasciato. Doveva tutelarla mentre i suoi piccini crescevano, per la legge mai disprezzabile dei parenti-serpenti.

Braccata da ogni lato e sbattutale in faccia la necessità di farsi animo e di vivere, Maria si persuase a darsi una seconda possibilità. Fece arieggiare Ca’ Querini, cambiare le lenzuola e, pur vestita in rigorosissimo lutto, ad uscire per qualche timida sortita fuori casa, accompagnata dai genitori, le zie ed Hironimo. Poi, su iniziativa di quest’ultimo, la vedova Querini s’aprì all’idea d’invitare anche qualche altro parente, specie i più giovani, della cui dinamica vitalità Maria necessitava più della malinconica saggezza dei vecchi. Su consiglio d’Hironimo, la contessa approfittò del Carlevar per invitare regolarmente le sorelle Querina e Marinella (con cui si riappacificò e domandò ed ottenne perdono); la cognata madona Maria da Molin Morexini moglie di Carlo; la sua nuova cugina madona Malipiera; la cugina di quest’ultima, madona Fontana; le cugine Catharina, Fiorenza, Cornelia, Biancha, Lugrezia e Violante Corner e la loro nuova cognata, madona Marina Morexini Corner.  

“Ed io che cavolo c’entro?”, arcuò sospettoso il sopracciglio Marco Contarini “dai Scrigni”, incrociando le braccia al petto.

“Tutte quelle femmine lì riunite m’inquietano, cor mio. Ho bisogno di maggior presenza maschile. Sier Daniel e gli altri sior maridi, con la scusa della politica, hanno codardamente disertato.”

“Pensavo possedessi cugini in grand’abbondanza per supplire, senza giungere a scomodarmi.”

“Anche loro se la sono data, quelle puinette (ricottine, ndr.), lasciandomi solo in balia di quelle spettegolanti sottane!”

Il “dai Scrigni” assottigliò gli occhi, i medesimi acuti ed intelligenti di suo zio sier Hironimo Donado, studiando diffidente l’amico fraterno.

Hironimo sospirò, sconfitto: quando Marco gli elargiva quello sguardo, neppure utilizzando i buoi l’avrebbe schiodato dalla sua opinione. Guardandosi furtivamente attorno, il giovane Miani trasse in disparte il Contarini, approfittando della confusione in calle per via del Carlevar. “Mi devi guardare le spalle”, gli rivelò sottovoce, ansioso.

“Eh?”

“Ti ricordi di Marina Morexini?”

“La siora tua Amia, la tua zermana o la mojer dil Corner?”

“La terza. Ecco, quando lei studiava al convento, io mi recavo spesso lì a trovarla.”

“Non mi dire che …”

“Bestia! Così poco mi stimi, da giudicarmi capace d’infilarmi di notte nel letto delle educande, in un convento?!”

“No, no, per carità, non stavo affatto pensando male.”

Hironimo lo squadrò scettico: eccome, se l’amico aveva equivocato maliziosamente, ci scommetteva il mignolo sinistro! In ogni modo, proseguì concitatamente: “Dietro la scusa di porger visita a mia nipote Dionora, ho avuto modo di riallacciare i rapporti con Marina, mia vicina di contrada. E ti assicuro, cor mio, che non ho mai avuto intenzioni disoneste su di lei: mi svagavo più che altro a stuzzicarla, divertito dalla sua innocenza misto al suo desiderio di giocare alla donna adulta. Si trattava tutto di un grande scherzo!”

“Di cattivo gusto”, obiettò severo Marco, “perché lei ci credeva e tu l’hai illusa. Anche se non puntavi a concupirla, ugualmente lei hai promesso menzogne, pigliandola crudelmente per i fondelli e per che cosa? Per farti una risata? Non è stato molto cavalleresco da parte tua.”

“Avrei in effetti dovuto scoraggiarla fin dall’inizio”, convenne il giovane Miani, non sottraendosi a quella sferzata di biasimo. Invece, aveva perduto il giudizio e risposto a quel brevissimo scambio d’effusioni, nonché utilizzato tal innocuo amoretto per colpire Jacomo Corner là dove faceva più male. “Adesso Marina frequenta la casa della mia zermana e lei parrebbe disponibile a …”

“Spero che tu non la stia corrispondendo!”, spalancò scandalizzato la bocca Marco, non concependo il suo miglior amico, per quanto discolo e irrequieto, invischiato in turpi intrallazzi adulterini.

“Mi pigli per scemo? Con mio fratello Lucha, poi, che conosce mezza Quarantia Criminal e di cui pure è stato parte?”, strillò indignato Hironimo, nauseato all’idea di sottoporre la sua famiglia a tale umiliazione, anche perché Lucha lo avrebbe sottoposto lui stesso ai tratti di corda, semmai egli fosse comparso in tribunale, imputato con l’accusa d’adulterio e fornicazione. E dopo aver rifiutato ogni rapporto civile e riconciliazione con Carlo e Marco, gli risultava insopportabile la prospettiva di perdere anche Lucha, l’ultimo fratello rimastogli accanto. “Per anni non le ho più rivolto un’ombra di parola; allo sponsalicio l’ho ignorata completamente … Ostrega d’on ostrega! Tre volte -  tre! -  che ci siamo incontrati a casa della mia zermana, dove abbiamo conversato superficialmente di tutto e di niente, e invece sembra quasi che ci siamo congedati dal convento l’alter dì!”

Marco increspò le labbra, pensoso, analizzando e soppesando ogni parola dell’amico, onde delineare la situazione e trovare una soluzione. Si sistemò una ciocca di capelli ramati dietro l’orecchio, cacciando fuori un grosso sospiro: per ficcarsi in situazioni assurde, il cor suo possedeva invero un’abilità preternaturale! “Se tu le intimassi chiaro e tondo di badare a suo marito, quella là, per ripicca, minimo ti rifila un tiro alla moglie di Putifarre e tu certo non sei un Giuseppe[3]”, ragionò il Contarini ad alta voce, soppesando i pro e i contro. “La tattica migliore rimarrebbe fare il morto: non guardarla, non parlarle, non rispondere alle sue lettere, evitala teatralmente e magari diserta qualche visita a casa della tua zermana. Se madona Marina non è stupida, capirà che sta abbaiando all’albero sbagliato e si stuferà!”

Il giovane Miani s’appoggiò al muro, contemplando scocciato la sagoma di Ca’ Nani a San Trovaso, neanche le rimproverasse la nascita di quella piattola di Marina.

In verità, non era stato completamente sincero con Marco, nel senso che sì, non aveva mai concluso nulla di concreto con la giovane donna; tuttavia allo stesso tempo, accortosi dell’interesse mai sopito di lei, il malevole desiderio di vendicarsi di Jacomo Corner gli aveva sussurrato tentatore all’orecchio, trovando terreno fertile per progettare un’epica punizione ai danni dell’arrogante patrizio e quale complice migliore, se non la cara mogliettina di lui infatuata?

Per notti intere, davanti al caminetto, ridacchiando perversamente Hironimo aveva sognato ad occhi aperti l’intero scenario, traendovi un diletto pressoché fisico: sedurre Marina, tenerla come amante (tanto lei non avrebbe cantato comunque, anche per non perdere eredità e dote), rispedire ogni sera a Jacomo la moglie ben riempita del suo seme, vederle il ventre crescere d’un figlio suo … e quel somaro l’avrebbe cresciuto, tutto orgoglioso nella sua ignoranza, designando come erede il frutto d’un amore illecito, proveniente per di più da una famiglia dal Corner tanto disprezzata …

Di conseguenza, verso Marina egli aveva adoperato ogni carineria a lui conosciuta, sempre disponibile e cortese: al suo cenno, le suonava al liuto frivole e maliziose  frottole; le sussurrava all’orecchio poesiole d’amore (imparate a memoria) e le disegnava su bigliettini lusinghiere allegorie da innamorati. Hironimo l’elargiva vivaci sorrisi pieni di fossette e conversava con lei galante e con tono di voce morbido e caldo; apriva sempre le danze con lei e davanti al caminetto le si sedeva accanto, appoggiandole “casualmente” il braccio attorno alla spalla, mentre Marina leggeva, commossa, di un qualche infelice amore letterario. O, acquistando dei fiori di stoffa, il patrizio glieli appuntava ai capelli o sulla spallina, accarezzando allusivamente i petali e godendo del rossore di lei, dell’alzarsi ed abbassarsi inquieto del suo petto. Al momento di salire in gondola, egli indugiava in furtive carezze sulla manina della nobildonna e si passava le dita sulla labbra, conscio di come madona Corner lo stesse osservando rapita. Le recitava con teatrale trasporto gli “Asolani” del magnifico messer (e si vociferava futuro domino) Piero Bembo di sier Bernardo, anche se l’avevano fin dalla loro pubblicazione annoiato a morte, reputandoli un ammasso di luoghi comuni da minestra riscaldata. L’unico forse con cui Hironimo andava d’accordo era Perottino, l’amante infelice, più che altro perché le femmine sempre gli avevano puntualmente portato null’altro che un gran mal di stomaco, grazie ai loro capricci e false modestie. A nulla valevano le argomentazioni di Gismondo, l’amante ricambiato, su come dovesse difendere Amore dalle “false calunnie” di Perottino. Quello stronzetto alato meritava ogni spennatura, altroché. E aveva buon gioco, sier Piero, a far dire a Gismondo come l’essere si identificasse in amore e fosse in vita in quanto amore, poiché senza d’esso non esisterebbero né l’uno né l’altra. Tanto, pensava un poco invidiosetto Hironimo, al Bembo nessuna donna, zitella o matrona, gli aveva negato il suo affetto, il Miani era praticamente cresciuto ascoltando i suoi parenti spettegolare degli amori di sier Piero, da Maria Savorgnan alla medesima duchessa di Ferrara, Lucrezia Borgia d’Este. Quindi, fortunato e appagato in ogni sua avventura, ovvio che il Bembo concepisse amore come forza cosmica, unificante, presente in ogni uomo, la fonte stessa della civiltà; invece, per Hironimo amore era divenuto un sentimento divisorio, bestiale, ingordo, ch’abbassava l’uomo alle azioni più indegne pur di soddisfarlo.

In ogni modo, mentre così la dilettava, Hironimo leggeva negli occhi di madona Corner la fiamma dell’antica passione, rinfocolata dalla legna dei sottili e indiretti incoraggiamenti del giovane Miani, il quale li ammantava d’accorta ambiguità per friggerla ben bene nell’olio del desiderio e per farli passare inosservati, innocenti agli sguardi di terzi. Ormai Marina era una donna a tutti gli effetti: scavalcato lo scoglio ingombrante della verginità, ella adesso sapeva cosa aspettarsi da un uomo sotto le coperte e il patrizio gongolava nel sapere Jacomo talmente incapace, da neppure soddisfare appropriatamente sua moglie, se questa era disposta ad aprire le gambe al suo primo amoretto adolescenziale, frutto perlopiù di una fantasia d’educanda sessualmente frustrata.

Hironimo si scoprì dunque a desiderare ardentemente Marina e non per la dolcezza umida della sua femminilità o per affinità di carattere e pensiero, bensì per immaginarsi sul suo volto quello del Corner, quando gli avrebbe fottuto la bella sposina.

Ah! Lui e tutti gli altri stronzi avrebbero ben presto pagato per le loro cialtronerie, per gli anni di crudeli sfottò, per aver appellato insensibili Hironimo “figlio del suicida”, “mammoletta”, “femminuccia”, “patiens”, etc.! Incauti, l’avevano creduto una sorta di cappone, un inoffensivo eunuco cui affidare le loro donne. Oh, sì! Per meglio agire indisturbato e godersele tutte, alla facciaccia loro, li avrebbe cornificati dal primo all’ultimo e sì ripetutamente, che neanche sarebbero riusciti ad entrare per il portone di casa senza grattarle!

“Becchi fottuti, vi meritate ogni corno!”, aveva gridato euforico ad un certo punto al fuoco, vuotando il bicchiere, l’ultimo di una lunga e indefinita serie.

“Momolo, che diamine stai facendo?”, gli giunse alle spalle la voce impastata di suo fratello Lucha, sceso in camicia da notte e scalzo a controllare da dove provenisse tutta quella caciara. “Non dormi?”, sbadigliò, stropicciandosi stanco gli occhi arrossati. “Dai, che solo i ladri e gli adulteri a quest’ora rimangono svegli!”, scherzò il maggiore, sollevando per il braccio un impietrito Hironimo, la battuta cascatagli addosso più dolorosa di un secchio d’acqua gelida.

Momolo, che diamine stai facendo?

Siccome Marco Contarini era un amore – anzi, l’unico vero amore della sua vita e gli avrebbe scolpito un monumento per ringraziarlo – egli aveva accettato, soltanto per quell’occasione, d’accompagnare Hironimo a Ca’ Querini e come previsto dal Miani, madona Marina non osò avvicinarlo, intimidita dalla presenza di quell’estraneo, il quale, in aggiunta, suscitò nelle giovani matrone e zitelle un civettuolo interesse, contente d’ammirare un po’ di carne fresca, mentre un sospiro di sollievo usciva dai petti dei fratelli minori di Maria, commossi di poter parlare con un altro maschio fuori dalla cerchia famigliare.

Il vociante gruppetto si chetò all’improvviso alla vista di un’anziana donna, dalla pelle rugosa ed olivastra, vestita di larghe e vaporose sottane e d’uno scialle dai colori sgargianti, ricoperta di bracciali e collane d’oro al collo, ai polsi, alle orecchie e caviglie, perfino sul naso. Una gitana, forse, proveniente dal Levante se non addirittura dall’India, viaggiando raminga per la terra, il cielo l’unica sua dimora fissa.  

“Mariuccia, avevi promesso!”, l’apostrofò aspramente Hironimo, afferrando la cugina per il braccio e pizzicandoglielo leggermente a mo’ di rimprovero.

Sciogliendosi piccata dalla presa, la vedova Querini sbottò snervata: “Rilassati, non si tratta di alcunché di disdicevole; l’ho chiamata soltanto per leggerci il futuro! Gli astrologi lo fanno, che male c’è? Non sei curioso?”, lo sfidò beffarda. Ed esibendo un sorrisone di circostanza: “Mo’ via, non restatevene lì impalati: che temete? Che lei vi mangi?”, scherzò allegra, sedendosi lei per prima onde dare l’esempio al resto della piccola comitiva.

“Pensi che voglia sapere se sopravvivrà al parto?”, domandò sottovoce Marco ad Hironimo, nel frattanto che gli ospiti si sistemavano attorno alla gitana, la quale s’inginocchiava misteriosa e ieratica davanti a loro, leggendo a ciascuno il palmo della mano e sussurrando, come in trance, il sibillino responso, suscitando esclamazioni ora divertite, ora stupite, ora ansiose. Perfino Marinella, ancora scossa dall’esperienza col negromante, aveva ascoltato rapita la profezia dell’anziana donna, di come il suo nome avrebbe influito sul destino del suo primogenito. [4]

“Spero soltanto che le profetizzi come ritornerà sana di mente”, scosse il capo il giovane Miani, esasperato dalla melodrammatica cocciutaggine di Maria. Se suo padre sier Batista avesse appreso di quel nuovo passatempo, magia bianca, nera o verde, avrebbe scudisciato personalmente la figlia, aborrendo tali pratiche più per superstizione che per fede cristiana, sentimento condiviso anche dal cognato, il fu sier Anzolo Miani. Il quale, Hironimo ben se lo ricordava, soleva ripetere mentre sfregava l’indice rinsecchito di una mummia, acquistato al Cairo: “Chi è vivo, sta coi vivi. Chi è morto, sta con Dio. Chi è morto e sta coi vivi, non è un’anima defunta bensì un demone venuto a dar tormento. Similmente, chi afferma di poter predire il futuro o è un ciarlatano o posseduto da un demone ingannatore, perché Dio solo conosce a quale destino ci ha designati. Fino a prova contraria, omo morto no fa guerra. Ricordatelo sempre, Momolo.”

“O forse”, proseguì malizioso Hironimo, “le rivelerà come, fra un paio d’anni, si ritroverà sposata di nuovo e più innamorata che mai!” e alla battuta i due patrizi si coprirono la bocca, sganasciandosi di grasse risate.

Quand’ecco, che la gitana si piazzò davanti al Contarini, il quale trasalì dalla sorpresa e un pelino intimorito, specie quando la donna, senza tante cerimonie, gli afferrò il polso e disegnò col dito colorato di rosso ogni linea del suo palmo.

“Nati diversi, morirete uguali; tu ombra, l’altro luce; attraverso il tuo anonimato lo renderai famoso e questi ti renderà immortale.”

Marco la fissò inebetito, manco gli avesse tartagliato di fronte uno dei suoi balbettanti ed incoerenti nipotini. “Ma che diamine …?”, si voltò disorientato verso Hironimo, che fece spallucce, confuso quanto lui.

“Insomma, caro el mio Marcolin”, lo consolò però subito dopo l’amico, appoggiandogli beffardo la mano sulla spalla, “sei destinato a rimanere l’eterno secondo dietro al tuo sior barba Hironimo!”, e se la rise, pure quando il Contarini, stizzito, gli schiaffeggiò il braccio. “Dai, baba, tocca a me”, le presentò arrogante il palmo, pregustando la sciarada che gli avrebbe rifilato, tipica di quegli imbroglioni levantini, acciocché il grullo di turno s’impressionasse senza capire al contempo un accidente.

Il suo sorriso gli morì sulle labbra, quando il viso da tartaruga della gitana impallidì, stupito e al contempo commosso, mentre i grandi occhi neri all’orientale si velavano di lacrime. “Tu, che hai l’anima di Lazzaro, supererai chiunque dei tuoi pari a Venezia e fuori d’essa. Nulla di vivo dei re, degli imperatori, del Papa a loro sopravvivrà, ma il tuo operato viaggerà nel tempo e lo sconfiggerà e il tuo nome sarà conosciuto fino agli ultimi angoli della Terra e tutti lo ameranno, tale è la sua grandezza” e gli baciò la mano, imprigionandogliela quando Hironimo, imbarazzato, aveva tentato di sottrarla da quelle dita ossute. “E sarà l’amore di una donna a salvarti”, terminò la vecchia, baciandogli di nuovo il palmo.

“Aspetta! Cosa vuol …?”, esigette il Miani un chiarimento, il cuore in subbuglio e lusingato dall’incoraggiante profezia, la quale coincideva perfettamente con le sue ambizioni, sennonché la gitana lo ignorò, intenta a scrutare il destino di Marina, il naso aquilino a qualche spanna dalla mano offertole.

“Sei desiderata, ma non amata; l’odio lega chi ti vuole, ma sarà la pietà mascherata da crudeltà a preservare la tua pudicizia”, proferì la gitana, aggiungendo poi: “Due bimbi da un unico nome e spirito, uno verrà dopo che l’altro se ne andrà.”

Avvertendo una montante sensazione di claustrofobia, il giovane Miani s’alzò in fretta e si ritirò in giardino, inspirando a pieni polmoni la fredda aria invernale.

“Hironimo?”

L’interpellato in questione sobbalzò dalla panchina, scattando in piedi e indietreggiando di riflesso di fronte al nuovo arrivato. Accidenti, quanto tempo s’era trattenuto lì? A giudicare dalle lunghe ombre, parecchio tempo …

Marina Morexini Corner si stagliava in controluce, avvolta da un alone arancione che la rendeva un’apparizione pressoché sovrannaturale, sinistra, la luce vespertina riflettente sul vaporoso abito di seta rossa e la cuffia di broccato, la collana di perle e quella d’oro due tizzoni ardenti al collo, così come i bottoni d’oro della vesta. I medesimi occhi rassomigliavano alla brace nei caminetti, immobili eppure vivi di scintille.

Hironimo esaminò velocemente la situazione, realizzando di trovarsi proprio nell’opposto contesto prefissatosi. Maledizione! Dov’era finito Marco? Come aveva fatto quella furbastra a seminarlo?

“E’ tardi, ormai. Ritorno a casa”, gli annunciò Marina, annuendo incoraggiante col capo.

“Va bene. S-ciavo, patrona”, giocò al gnorri il Miani, cogliendo al volo l’allusione e si schiaffeggiò mentalmente per la sua smemoratezza.

Infatti, non comprendendo il motivo per il quale il patrizio non rispondesse al loro linguaggio in codice, la nobildonna ripeté, confusa: “Ritorno a casa.”

“D’accordo”, fu altrettanto testardo Hironimo. “S-ciavo, patrona.”

“Vado a Ca’ Nani, non m’accompagnate?”, tentò ella un approccio allora più diretto.

Momolo, che diamine stai facendo?

Lo scombussolamento interiore aveva fatto dimenticare al patrizio, che quando Marina gli avrebbe chiesto d’accompagnarla alla casa materna, quello sarebbe stato il segnale convenuto che gli garantiva libero accesso al suo letto, poiché sua madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini dormiva alla grossa e pesantemente, coricandosi in aggiunta assai presto. La serva personale di Marina avrebbe poi vigilato accorta davanti alla porta e nessuno avrebbe sospettato di niente. Jacomo Corner non aveva inquisito eccessivamente sul perché la moglie avesse insistito tanto di dormire a Ca’ Nani, credendola semplicemente attaccatissima alla genitrice. Era il piano perfetto.

Momolo, che diamine stai facendo?

“Marina …”, s’inumidì Hironimo le labbra d’un tratto divenute secche, scandagliando le varie opzioni per meglio intavolare quella spinosissima conversazione. “Marina, forse è meglio se rincasate da sola stasera.”

“Oh”, schioccò delusa la giovane donna la lingua, imporporandosi lievemente le guance. “Avete … avete da fare? Sta bene, un’altra volta …”, mormorò, tormentando a disagio la lucente stoffa rossa della gonna.

“No, Marina. Dovrete rincasare sempre da sola e non a Ca’ Nani bensì a Ca’ Corner”, tagliò corto il patrizio, il cui gelido tono di definitiva chiusura istigò un feroce sussulto in Marina, che si portò di riflesso una mano al collo, stringendo la collana di perle.

“Ma … ma voi … ma noi …”, balbettò scombussolata, il colore svanitole dalle guance per poi riaffiorare e stavolta d’ira e vergogna per quell’improvviso voltafaccia. “Pensavo che m’amaste!”, lo accusò infine, il viso distorto in una maschera d’angoscia e stizza ed Hironimo rivisse quella sgradevole sensazione di déjà vu, ai tempi del convento, quando la Morexini e lui amoreggiavano a parole e bigliettini, colpevolizzandolo lei di non provare alcun sentimento onde ricattarlo con comodo, ogni suo desiderio esaudito. All’epoca, però, stavano giocando e inoltre c’era una pesante grata di ferro a separarli; adesso, invece, soltanto l’anellino d’oro all’anulare di Marina, che senza una granitica volontà da parte di ambedue non poteva di certo fermarli.

“Pensavo che aveste finalmente capito … io … io vi ho aspettato dopo quel giorno, vi ho atteso per anni nella speranza che voi mi chiedeste in moglie, che mi rapiste durante il banchetto nuziale … Dio mi perdoni! … Perché mi avete fatto credere d’amarmi ancora, se non è così?”, singhiozzò Marina, coprendosi disperata il volto tra le mani, artigliando i capelli dalla cuffietta, spettinandosi. “V’amo e mi sono fidata!”

Momolo, che diamine stai facendo?

E va bene, giochiamo al cattivo.

“Svegliatevi, Marina! Svegliatevi! Sono i finiti i tempi dei giochi, delle dame e dei cavalieri, svegliatevi e benvenuta nella realtà!”, ingoiò Hironimo ogni minuscola parte di pietà in lui, sopprimendola dietro una maschera d’inflessibile cinismo. Chiunque in famiglia lo considerava un egoista, un violento litigioso approfittatore, benissimo, poteva recitare quel ruolo, se significava districare lui e Marina da una situazione destinata a finire per ambedue nella pubblica vergogna. Non gl’importava della virtù, quella non esisteva e se esisteva l’aveva da tempo perduta. Ci teneva invece ad evitare l’infamia ch’avrebbe gettato su Ca’ Miani, una prospettiva che non valeva neanche mille vendette contro Jacomo Corner. Padre aveva faticato e sofferto per restaurare il loro nome, compromesso da Nonno e Bisnonno, ed Hironimo non avrebbe vanificato stoltamente i suoi sforzi. Ben venissero i vizi, purché rimanessero privati e segreti. E i Corner, così ricchi ed influenti, erano figure più pubbliche di una meretrice.

“Volevate che vi sposassi? E come?”, la sbeffeggiò Hironimo, avanzando minaccioso verso di lei. “Voi eravate una ricca ereditiera, figlia unica di un’antica famiglia apostolica, bisnipote del Doxe Agustin Barbarigo, ed io? Ultimogenito di una famiglia di Ca’ Nove, il figlio del suicida, senza alcun incarico né posizione, credevate davvero che vostra madre avrebbe accettato il nostro matrimonio? I soldi sposano i soldi!”, ringhiò a denti stretti, costringendo la giovane donna ad indietreggiare, spaventata da quell’atteggiamento subitaneamente aggressivo, a lei nuovo e sconosciuto.

“Se avessimo giaciuto insieme, vostra madre m’avrebbe accusato di stupro e fatto condannare alle Orbe o all’esilio, magari perfino a morte se si fosse messa a piangere abbastanza forte dinanzi alla Quarantia! Se ci fossimo sposati in segreto, c’avrebbe atteso analogo destino più il dettaglio che vostra madre avrebbe richiesto al tribunale del Patriarca l’annullamento delle nozze. Pur di preservare voi ed il vostro brillante futuro, vostra madre avrebbe trascinato me e la mia famiglia nella rovina!”, le rivelò inclemente, aspirando feroce l’aria. Dopodiché, calmatosi un poco, s’allontanò da Marina, acquattatasi nel frattanto contro il muro del giardinetto.

“Inoltre”, infierì Hironimo, soppesando bene le parole e scegliendo le più insolenti, “perché mai avrebbe dovuto interessarmi una sciocca ragazzina, viziata e infarcita di sogni e di chimere, al di là dei suoi danari e di una mona stretta e vergine da rompere?”

“Io v’ho amato tanto”, mormorò frastornata la giovane patrizia, le gote rigate di lacrime e il labbro inferiore che le tremava violentemente.

“Ed io no”, l’infilzò senza misericordia Hironimo, il viso più duro del marmo. “Non v’ho mai amato, né allora né adesso. Eravate un divertente intermezzo per spezzare la monotonia, ecco tutto” e sogghignò cinico. “E naturalmente non potevo non sentirmi assai lusingato, nel vedermi da voi preferito rispetto a vostro marito. L’ho sempre saputo, che il Corner non fosse altro che un pene-moscio, se neppure a due anni dalle nozze la sua sposina già si premura di cornificarlo per bene!”

“Quel giorno però … io v’ho visto, eravate davvero preso!”, gli mostrò i denti Marina, incapace di rassegnarsi alla perdita di quel dolce idillio amoroso, che l’aveva consolata dalla solitudine immensa della sua adolescenza, trattata costantemente alla stregua d’un prezioso gioiello, sì,  ma da rinchiudere in cassaforte. “Non potete mentirmi, voi avete risposto alla mia passione con altrettanta passione!”, gli ricordò malevola. “Potete mentirmi a parole, ma la vostra faccia affermava la verità: vi è piaciuto, mi desideravate e m’avreste posseduta, se non ci fosse stata quella grata a separarci!”

Hironimo s’esibì in una risata crudele, tormentandola. “Donca?”, la canzonò falsamente pietoso. “Sul serio pensate che ad uomo basti l’amore, per rispondere al richiamo di una femmina in calore?”, scivolò appositamente nel triviale, onde imbarazzare le raffinate orecchie della gentildonna, che di fatti trasalì vereconda. “Eravate un gran bel toco de mona, ingenua e disponibile e sì, m’avete eccitato, lo ammetto”, mormorò sornione, asciugandole una lacrima col dorso dell’indice e stavolta, al posto d’assecondare languida il movimento, Marina si ritrasse disgustata da quel tocco, neanche l’avessero ustionato la guancia. “Ma credetemi se vi confido, che come avrei fottuto il vostro buco, avrei fottuto tranquillamente quello di una qualsiasi puttana di campo e manco mi sarei accorto della differenza!”

Un sonoro ceffone, tutto palmo ed unghie, gli martoriò la guancia. E per la regola di porgere l’altra, puntualmente ne arrivò un secondo. “Miserabile! Viscida serpe! Porco schifoso!”, lo insultò furibonda la giovane donna, colpendolo al viso, al petto, all’addome, Hironimo che si difendeva svogliatamente, alzando di tanto in tanto il braccio per deviare gli strali dell’umiliata ed offesa nobildonna. “Meritereste mille forche, mille tenaglie! Hanno ragione su di voi: siete una carogna, una troia, un senzadio, un barbaro, un giannizzero, una creatura del diavolo! V’auguro di morire in battaglia, di soffrire peggio d’un cane!”, lo tempestava di pugni, alternandoli ai singhiozzi. “Spero che i franco-imperiali v’impicchino, vi squartino, vi sbudellino, vi cavino gli occhi, che vi brucino vivo ed ogni tortura che vi meritate!” e in un ultimo sconquassante singulto, Marina lo spintonò via, per poi accasciarsi sfinita sulla panchina. “Vorrei non avervi mai incontrato! Vorrei che quel giorno avessero trovato voi impiccato e non il vostro sior Pare! Vorrei … che non foste mai nato!”

Bene, Hironimo aveva ottenuto esattamente ciò che voleva: tanto lei l’aveva amato intensamente, tanto ora lo odiava d’altrettanta passione. Forse i suoi amici e compagni non avevano torto, quando affermavano quanto fosse nato sfortunato. Era vero. Nessun suo desiderio né progetto s’era mai avverato, per quanto egli lottasse tenacemente. Anch’egli, per un brevissimo istante lungo un sogno, s’era illuso di poter sposare Marina e di creare una famiglia con lei, medesimo errore ch’aveva poi ripetuto con la sua domina e amante.

Per questo Hironimo non temeva d’esporsi in prima fila al fuoco nemico; in fin dei conti, non aveva nessuno da cui ritornare a casa, non aveva niente da perdere, perché la sua vita era stata un unico, grande niente. Eh sì, Ca’ Miani avrebbe subito una perdita minore, se fosse morto lui al posto di Padre, che decisamente non era una barzelletta vivente come il figlio. Se la sua esistenza doveva riassumersi in una serie infinita di fallimenti e speranze infrante, forse sarebbe stato meglio non essere mai nato o morire in fasce come la piccola Emilia, quella sua sorellina volata in Cielo felice e ignara della penosa esistenza destinatale in terra.

“Tornate da vostro marito”, le suggerì atono Hironimo, scostando il volto in direzione opposta onde celarle le sue, di lacrime. “Corner sarà uno smargiasso arrogante, però vi vuole bene. Siategli tenera e fedele, rallegratelo di bei fantolini e godetevi quella poca felicità concessaci in questa vita.”

Adesso Marina piangeva e si disperava, giustamente; in seguito avrebbe dimenticato il suo amore per lui, le sue illusioni, la vergogna, la delusione e l’umiliazione del rifiuto. Ciascuno di questo sentimento le sarebbe scivolato via di dosso, poiché tutto passa, tutto scorre e finisce nell’indifferenza dell’oblio.

 

“Bestia! Me la ripaghi tu, quella camicia?”

Ad Hironimo era sfuggita la dinamica esatta, mediante la quale dal giardino interno di Ca’ Querini s’era trasferito sul morbido letto di Luzia Trivixan, così come la sua insolita irruenza e mancanza di autocontrollo nei confronti di una donna.

La voglia disperata di conforto fisico e al contempo di un tramite per sfogare la rabbia montante l’aveva condotto in uno stato pressoché sonnambolico dalla cantante, irrompendo in casa sua e gettandosi su di lei alla stregua d’un assetato nel deserto. L’aveva pizzicata in camicia, pronta per il suo rilassante bagno tardo-pomeridiano, e gliel’aveva strappata di dosso, sotto lo sguardo terrorizzato delle fantesche. “Aspettatemi fuori, ho tutto sotto controllo.”  Invero la donna a quell’impetuoso slancio s’era adattata in fretta, flessibile e versatile, rispondendo misura per misura, in un misto d’abbracci vigorosi e di lotta libera, graffiandolo e mordendolo a sangue quanto lui la stringeva fin quasi a spaccarle le ossa, possedendola senza finezza alcuna.

Luzia gli assecondò i movimenti a scatti, collerici, prepotenti finché, approfittando di un attimo di distrazione, cambiò ella il ritmo, costringendo il patrizio seduto e sistemandosi meglio sulle sue cosce, l’ampio petto di lui contro la schiena delicata di lei. La donna gli ghermì il braccio sanguinante di strisce rosse e pulsanti e se lo passò alla vita, intrecciando le dita, per poi iniziare a muovere sinuosa i fianchi, stringendo e allentando i muscoli, portando lo scontro alla pari e allo spasimo l’amante: voleva la guerra? Avrebbe trovato il suo degno avversario! Famelico fu il bacio che Luzia rubò ad Hironimo: afferratogli una pingue ciocca di capelli, lo costrinse in una dolorosa torsione a piegarsi in avanti su di lei, in un battagliero cozzare di denti e lingue. Il patrizio si ribellò, stringendole vendicativamente il capezzolo sinistro e lei allora di rimando gli morse il lobo dell’orecchio, lui la spalla e lei gli piantò le unghie nel fianco.

I due duellanti seguitarono a scontrarsi come onde furiose l’uno contro l’altro per un tempo indefinito di tempo, nessuno propenso a cedere in quella furiosa lotta camuffata d’amplesso. Si guardavano dritti negli occhi, le pupille dilatate in selvaggia frenesia, sfidandosi a vicenda in un silente dialogo fatto di rabbia, disperazione, rammarico, lussuria, tenerezza, d’insulti e carezze.

Quand’ecco che, inaspettatamente, Hironimo socchiuse le palpebre e la baciò profondamente, languido e placido, senza urgenza né violenza. Da dietro la schiena e sulle braccia, Luzia avvertì i nervosi spasimi nei muscoli del giovane, i medesimi di uno stallone imbizzarrito finalmente calmatosi e docile al suo cavaliere. All’aggressività di lui, ella aveva replicato con altrettanta aggressività; simile trattamento gli avrebbe riservato ora che il patrizio era passato ad una focosa dolcezza, massaggiando e coccolando amoroso la sua compagna.

“Uffa, era davvero la mia preferita”, bofonchiò Luzia, esaminando la camiciola mezza stracciata. Fece spallucce. “Vorrà dire che la utilizzerò per spolverare i mobili.”

“Te ne comprerò una nuova, te lo prometto”, si puntellò sui gomiti Hironimo, riprendendosi gradualmente dalle vertigini della petite mort.

“Ci puoi scommettere le tue mutande, che a proposito dove le hai gettate?”, sdrammatizzò la donna, alludendo ai vestiti sparsi alla rinfusa sul pavimento, sui cassoni e sulle careghe. Offrendogli la mano, la Trivixan aiutò il giovane a scendere dai sei materassi, conducendolo verso una bassa tinozza, pregandolo d’entrare. “Uhm, per fortuna è ancora bella calda … Anche se te la meriteresti gelida per raffreddare quei tuoi bollenti spiriti, razza di giannizzero …”

Intinta la spugna in una seconda bacinella d’acqua calda e sapone, Luzia la strizzò e in movimenti lenti e circolari la passò sulla pelle sudata di Hironimo, nettandola e profumandola, per poi risciacquare con la brocca e ripetere l’operazione. Iniziò con le braccia, cospargendo di piccoli baci picchiettati sulle ferite, placando gli impercettibili sobbalzi non appena l’acqua insaponata o la spugna veniva a contatto con la tenera carne aperta. Afferratogli una caviglia, se l’appoggiò sulla coscia e prese a sfregargli lo stinco e il ginocchio, fino a risalire all’interno coscia, invitando il patrizio a flettere la gamba e a schiuderla un poco. La donna si sciolse in un basso risolino alla vista d’Hironimo levare al soffitto gli occhi, le orecchie rosse quando la spugna gli inumidì, tamponando, le parti intime.

“Se ti vedessero coloro che ti davano della femminuccia”, commentò maliziosetta Luzia, disegnandovi sopra una rapida e serpentina S con la punta della lingua, fingendo poi un morso all’aria, provocando sia un nervosa risata nel giovane sia un inconscio balzo all’indietro.

“Sul serio non vuoi che ti ripulisca? Non m’incomoda affatto”, s’offrì cavallerescamente Hironimo, la voce mezza ovattata dal panno in cui la cantante l’aveva avvolto, istruendolo poi di sedersi sullo sgabello accanto al caminetto. Aveva azzardato a darle del “tu” e gli suonava alieno alla lingua, non avvezzo a quell’intimità di registro neppure con la sua antica e un tempo adorata amante, la sua domina. Né mai aveva dato del “tu” a Marina Morexini Corner. Soltanto a Lena, ma per motivi di superiorità sociale che d’affetto.

“Un’altra volta”, declinò ambigua la Trivixan, aprendo la porta e battendo le mani chiamò le sue fantesche, rimaste fuori pronte ai cenni della padrona. In silenzio e ignorando completamente il patrizio, due di loro disfarono e cambiarono veloci le lenzuola, mentre una terza portava sulla testa una nuova brocca d’acqua e una ciotola di fiori di lavanda secca.

“Gnese”, fece Luzia cenno ad una di quelle ch’aveva terminato di preparare il letto. “Porta a missiere una camicia pulita da notte e un caffettano di velluto -  quello indaco per favore. Dopodiché vai dal cuoco e riferiscigli di preparare una cena leggera per stasera, ma domani mattina vorrei al contrario una colazione abbandonate: missiere cenerà e dormirà meco. Infine, chiudi col catenaccio, ché per oggi non m’aspetto né accetto ulteriori visite.”

“A ve servo, patrona”, s’inchinò la massera, attivandosi subito a compiere le istruzioni datele, portando seco anche la sua collega rimasta inattiva.

“Polina, piglia quei tre miei profumi nuovi”, ordinò Luzia alla terza e all’ultima serva, dopo che questa aveva finito di cambiare l’acqua e di raccogliere gli abiti sparpagliati per terra. La ragazza s’inchinò obbediente e si diresse verso il mobiletto della toeletta, armeggiando abile coi fragilissimi flaconi.  

La cantante s’insaponò per bene, massaggiandosi il corpo in sinuosi ancheggi e piegamenti, non lasciando nulla all’immaginazione. Lentamente si versò addosso la brocca, sospirando a voce alta la soddisfazione del caldo abbraccio dell’acqua, la quale scese rapida dalla spalla lungo la schiena, insinuandosi tra le fossette di Venere fino al sedere e da lì diramandosi in rivoletti sulle gambe e ricoprendola come di una seconda pelle, il corpo ancora sodo e formoso modellato da quella liquida carezza.  Pur di spalle, ella percepiva lo sguardo insistente d’Hironimo su di sé, il fruscio inquieto del panno e, dallo scricchiolio dello sgabello, del continuo suo accavallamento di gambe, cambiando irrequieto posizione.

Sorridendo tra sé e sé vittoriosa, Luzia si voltò verso Hironimo. “Mi devo asciugare”, gli annunciò solenne, allungando il braccio in direzione del panno attorno alle spalle del patrizio, il quale s’alzò e, all’ultimo, avvolse entrambi, issandola fuori dalla tinozza. L’accomodò sulle sue ginocchia, seduti sullo sgabello pieghevole e riscaldandosi accanto allo scoppiettante fuoco nel caminetto.

Polina s’avvicinò in punta dei piedi alla coppia, recando seco su di un vassoio delle piccole e pasciute ampolle di vetro di Murano dai diversi colori e forme.

“Dunque”, esordì Luzia, cingendo il collo d’Hironimo con un braccio e con una mano afferrando un’ampolla trasparente e dalla polvere d’oro, sulla quale s’avvinghiava un fragile roseto di vetro, i petali vermigli e verdi i gambi, le foglie, perfino il minuscolo dettaglio delle spine. La cantante levò il cappuccio finemente decorato e sfilò il sottile tubo di vetro, portandolo sotto le nari del patrizio, tacito invito ad annusare. “Questa fragranza è una miscela di rosa e lavanda con un pizzico di gelsomino. Che ne dici? Molto tradizionale eppure raffinato ed avvolgente.”

La Trivixan chiuse e appoggiò il profumo. Selezionò una seconda boccetta, più alta e snella, rossa fuoco dalle spesse spirali dorate e un pampino d’uva in vetro fungeva da tappo. “Fiori d’arancio, sandalo e mughetto … ultimamente questo va piuttosto di moda …” e infine gli propose l’ultimo flacone, più basso e panciuto, blu scuro avvolto da una rete di costellazioni dorate e il tappo un sole e una luna fusi in un volto solo. “Oppure un qualcosa di più stimolante e intenso?”, aprì la fiala, sprigionando un forte odore di zenzero e legno di cedro.

Dopo settimane trascorse al fronte, qualsiasi profumo sarebbe risultato gradito ad Hironimo, purché gli scacciasse dal naso il tanfo di polvere da sparo, di sangue, di carne putrefatta o bruciata, di fango, di fumo, di sudore vecchio, di vomito e feci, odori nauseabondi che non riusciva a scacciare via neppure a distanza d’anni, neppure annusando per ore e ore i sacchetti di fiori secchi di lavanda provenienti da Spalato, come se gli si fossero insinuati nella pelle, nel cervello, nelle vene.

“Mi piace lo zenzero … e il cedro”, sottrasse il giovane uomo la boccetta dalle mani della cantante. Levò dalla punta del tubetto di vetro l’eccesso di profumo, disegnando piccoli cerchi sul polso sinistro e poi destro di Luzia. Ripeté tale azione sul collo, in seguito dietro le orecchie, ammirando la cascata fiammeggiante di capelli rossi cozzare contro il biancore del panno. “Mi ricorda il mare irrequieto, le agili galee che spezzano le sue onde schiumose. I porti lontani di Tripoli, Beirut, di Acri, Tiro e Sidone … Carovane attraversanti deserti infuocati, le antiche rovine di Palmira e di Petra, sotto lo sguardo centenario dei tre colossi di Bamiyan …”, [5] scorse la punta del naso dal gomito di lei lungo la morbida spalla, inalando a pieni polmoni la fragranza pungente della spezia, ricercando sotto quello più caldo e avvolgente del legno di cedro. Dove annusava, poi accarezzava in lenti baci aperti, confondendosi quegli umidi schiocchi alla legna sul fuoco.  “Viaggiare lontano, via da Veniexia, dall’Italia, dalla guerra … l’universo la mia terra, la mia volontà per legge … libero, libero dalle catene …”

“Quali catene?”

“Ogni catena.”

Luzia sollevò il panno, coprendo le spalle del patrizio, la cui testa s’era accoccolata sul suo petto in pensosa contemplazione delle ragnatele d’acqua sulle finestre, create, distrutte e rimodellate dall’acquazzone scatenatosi qualche ora addietro.

“Va bene così, Polina. Puoi ritirarti”, congedò ella la sua fantesca, la quale ripose i profumi nel mobiletto e scivolò discreta fuori dalla stanza. “Permettimi allora di portarti lontano”, si scostò la Trivixan, in modo da sedersi a cavalcioni su Hironimo. Strinse le caviglie alla base della schiena di lui e da lì partì, scorrendo le unghie sui muscoli tesi e guizzanti verso l’alto fino a raggiungergli le spalle. Coi polpastrelli Luzia percorse e massaggiò ogni curva del viso del giovane, soffiando appena sulla pelle ancora umida. “Anche se per qualche istante …”, gli circondò lo zigomo con la mano e congiunse le labbra alle sue, tirando delicatamente quello inferiore, “… permettimi di farti dimenticare ciò che ti affligge …”, mormorò tra i piccoli morsetti lungo la gola, la giugulare fino al centro del petto. Ritornarono a baciarsi, lungamente e pigliandosi tutto il tempo del mondo, intrecciati in un tremulo groviglio di carne e tessuto.

L’odore dello zenzero e del legno di cedro avviluppò l’intera camera, provocando una lieve ma gradita vertigine in Hironimo. Non era stato totalmente sincero quando aveva detto a Luzia, quanto gradisse alla follia quella spezia. Alla fine, avrebbe apprezzato un qualsiasi profumo, che non appartenesse a quelli già a lui noti.

Fiori d’arancio … la sua previa amante, la sua domina, sceglieva sempre quella soave fragranza, quasi a sberleffo di quel matrimonio tanto desiderato e che avrebbe sì avuto luogo, ma non con lui … Lavanda … Lena gli sistemava dei sacchetti sotto il cuscino, per contrastare il tanfo di polvere da sparo e di fumo, tuttavia Hironimo sapeva quanto alla contadina piacesse sfregare quei fiori secchi tra le mani, le medesime che lo stringevano la notte, nelle lunghe ore dell’attesa … Mughetto … sua cugina Maria si cospargeva d’esso, evocando dolci immagini di fresca primavera … Gelsomino … la pelle di Marina e le sue lacrime sapevano d’esso … Rosa … Madre eguagliava quel piccolo roseto che cresceva nel pingue vaso su in altana, lei stessa una rosa di maggio, un profumo intenso e inebriante che Padre si divertiva ad applicarle ai polsi, sul collo e dietro le orecchie … e di rose di ogni sfumatura profumava sempre l’altare della Vergine, nella piccola cappella votiva …

“Questo pomeriggio …”, si risolse infine Hironimo a confessare a Luzia il suo cruccio interiore, che l’aveva portato ad assediarle la casa. Un improvviso lampo riempì di bianco la sala, scomparendo furtivo per cedere il passo al fragoroso tuono. Un piccolo tavolo ovale di pino, coperto da una finissima tovaglia, era stato posizionato accanto al caminetto, preferendo la coppia cenare nella coccola intimità della camera da letto. D’altronde i commensali stessi vestivano molto informale, ambedue già in camicia da notte e con indosso soltanto un largo e comodo caffettano. Ogni tanto la tortorella ricordava, sbattendo stizzita le ali, la sua presenza nella gabbia argentata, mentre la luce arancio del fuoco, ravvivato, avvolgeva i drappi bergamaschi e bresciani, infondeva viva alle figure degli arazzi e donava brillantezza agli intricati intarsi dei cassoni dorati e degli scrigni. Una cornice di rara dolcezza, se Hironimo non fosse stato impestato di fiele. “Questo pomeriggio ho spezzato il cuore ad una donna.”

Staccando col piron la polpa dalla conchiglia della cappasanta e tociandola nel suo sughetto, la cantante arcuò il sopracciglio, cedendo la forchetta al giovane. “Soltanto ad una?”, lo stuzzicò, riempiendogli il bicchiere di vin bianco. Seduta in fondo alla stanza, Polina strimpellava un allegro motivetto al liuto, accompagnato da una canzoncina da convito. Gnese ondeggiava nell’aria il bruciaincensi di bronzo, prima d’appoggiarlo, un po’ per scacciar via l’odore di pesce e un po’ per scacciar via la malinconia.

“Mi sono comportato esattamente come lei”, sputò bile il patrizio, addentando veemente la polpa e masticando in rapidi bocconi. Luzia, silente, gli sottrasse la forchetta e gli preparò un’altra cappasanta. “Prima m’ha nutrito d’illusioni e dopo me le ha calpestate senza alcuna pietà!”, si sfogò per la prima volta ad alta voce. Accortosi improvvisamente del soggetto di quel monologo e di chi lo stesse ascoltando, Hironimo arrossì imbarazzato. “La perdonança, io … non è molto educato parlare di altre amanti davanti … ecco …”

Mentre una terza fantesca appoggiava il vassoio d’argento ricolmo di mazzancolle e Gnese toglieva quello pieno di cappesante vuote, la Trivixan roteò il piron quasi sotto al naso del giovane, in giocoso ammonimento. “E di che ti dovresti scusare? Non immagini quante confidenze io abbia dovuto ascoltare, quante infinite ed insulse lagne da parte dei miei protettori , clienti ed amici sulle loro mogli e, ovviamente, sulle loro altre amanti e cortigiane. Ergo, ho le spalle larghe, io!”, dichiarò allegra, sfilando la polpa carnosa dei crostacei dalla loro corazza in poche precise mosse. “Inoltre, credi che non me ne fossi all’epoca accorta? Avevi gli occhi brillanti d’amore e non per me”, cinguettò, ponendo la codina di mazzancolla sulle labbra del giovane, invitando a schiuderle.

“Nondimeno, ho mancato ugualmente di tatto”, ribatté testardo Hironimo, addentando un pezzo del crostaceo.

“Donca, debbo a questa donna del mistero il tuo imprevisto arrivo? La tua sfrenata irruenza?”, inquisì enfatica la cantante, nettando col pollice l’angolo della bocca del patrizio e suggendoselo birbante. “Immaginavi lei mentre ci congiungevamo? Oppure quest’altra infelice, cui hai spezzato il cuore?”, lo pungolò scherzosa, reclinando all’indietro il capo ed infilandosi in bocca una mazzancolla, dall’inizio fino alla fine della codina in un unico goloso boccone.

Il giovane Miani aprì la bocca, per poi chiuderla, mordicchiandosi incerto il labbro inferiore. Alla fine si risolse di sorseggiare un poco di vino, sorridendo vezzoso a Luzia. “A dire il vero, ero totalmente affascinato dalle tue chiappotte alte e pastose!”, le rispose per le rime, pigliando una lunga sorsata senza ingoiarla. Si sporse in avanti per baciare la donna, schiudendole le labbra e spillandole dentro il vino, dopodiché s’assaporarono a vicenda il gusto fruttato sulle lingue.

“Oh, sfacciato!”, lo rimproverò giocosa la Trivixan a bacio terminato, fustigandolo col fazzoletto. “Stai certo, che ti farò pentire stanotte!”, gli promise sensualmente minacciosa, infilando il piedino tra le pieghe del caffettano, in mezzo alle gambe del patrizio.

La verità era che, dopo aver crudelmente rifiutato Marina, Hironimo s’era sentito talmente soffocare da quel suo atteggiamento da verme infame, d’annaspare in disperata ricerca di un palliativo che scacciasse quell’orrida sensazione di viscido marciume, che simili alle piaghe gli incancrenivano l’animo, percependole quasi fisicamente addosso. In quei nauseabondi istanti aveva desiderato purgarsi di quel malessere e ritrovare la calma, nonché di bearsi del lenitivo contatto di pelle contro pelle, scacciando il calore di un abbraccio quella gelida morsa di vergogna di rimorso. Dopo essersi sentito sbattere in faccia per l’ennesima volta la sua inutilità al mondo, esigeva una qualsiasi prova tangibile ch’era voluto, apprezzato e magari a qualcuno necessario.

Luzia gli prestava gentilmente ascolto, però anche quello apparteneva ad un obbligo del suo previo mestiere: chissà fino a che punto lei l’ascoltasse sul serio o fingesse, fin dove l’avrebbe capito senza giudicarlo uno sciocco frignone.

Né Hironimo le avrebbe potuto confessare, quella notte, che cosa egli avesse sognato da costringerlo a svegliarsi di soprassalto, urlando, la mano corsa al collo. Ogni notte, dall’inizio della guerra, lo perseguitava quel medesimo angosciante incubo, nel quale, al posto di Padre, l’impiccato era lui e scendeva, scendeva, scendeva in basso, sotto il pavimento di Rialto, sotto le fondamenta, sottacqua, sotto il fondale e le viscere stesse della terra …

 

Zefiro spira e il bel tempo rimena,
Amor promette gaudio agli animali …

Hironimo si svegliò non senza qualche difficoltà, la testa pesante e riempita di cotone eppure non aveva bevuto un granché la sera precedente. Ciononostante, la luce livida del mattino gli feriva gli occhi e i capelli sulla nuca gli s’erano rizzati, come per avvertirlo di una situazione d’imminente pericolo. Si guardò cauto attorno, non riconoscendo dapprincipio l’ambiente circostante, sovvenendosi grazie all’odore di zenzero ancora nell’aria dei come, quando e perché fosse finito a rotolare sul materasso assieme a Luzia Trivixan.

Si scoprì non essere molto orgoglioso di se stesso.

A fatica il giovane scese dal letto, liquidando in fretta le abluzioni mattutine e relegando al barbiere la sua toeletta; trovò i vestiti ben piegati e pronti per l’uso, che subito indossò, dirigendosi in seguito verso la sala principale, attirato dal profumo  invitante della colazione.

… Ognun vive contento, io me lamento
Ch’amor m’ha fatto albergo di tormento.

“Oh, bondì a vossioria! Hai fatto la grassa mattinata, eh? Almanco ti sei divertito ieri sera?”

Hironimo gelò sul posto, l’intera colonna vertebrale percossa da un unico gigantesco tremito.  Gli si seccò la saliva in gola e dalla bocca uscì un mezzo verso di saluto; tuttavia non si sottrasse all’incontro, avanzò invece lentamente verso il tavolo al centro, laddove sedeva Luzia intenta a suonare e cantare una frottola del Tromboncino, mentre sier Batista Morexini suo zio sorseggiava imperturbabile una bevanda al limone e zenzero.

“Siediti e mangia: non farai mica come gli inglesi, che lasciano raffreddare fino all’immangiabile il cibo prima di riempirsi il piatto?”, gli intimò spiccio l’uomo, addentando una frittella.

Suo nipote prese meccanicamente posto sulla carega davanti a lui, sedendosi in uno sgraziato tonfo e seguitando a contemplare il “da Lisbona” come ipnotizzato. Il giovane Miani tentò nuovamente di comunicargli almeno che non aveva fame, lo stomaco chiuso in una morsa dolorosa, ma ancora una volta la sua gola non produsse alcun suono, neanche avesse la lingua appiccicata al palato.

L’intero scenario appariva totalmente assurdo e grottesco: il suo barba lì quasi stravaccato dinanzi a sé, intento a colazionare come se nulla fosse, di tanto in tanto scambiando qualche parolina con la cantante, anch’ella serafica e imperscrutabile. Non lo ignoravano, però si comportavano come se tutto ciò fosse normale, condividere la medesima tavola assieme all’amante della donna con cui, la sera precedente, Hironimo aveva giaciuto più volte.

“Come facevate a sapere che mi trovavo qui?”, vinse infine il giovane patrizio l’iniziale stordimento, ponendo all’avunculus quella giusta domanda, fonte di quell’inaspettata giravolta d’eventi.

Al che cadde la maschera d’atmosfera in apparenza rilassata e lo sguardo del Morexini divenne improvvisamente gelido e sferzante, sebbene il suo sorriso rimanesse amabile e disinvolto. “Luzietta, dolcezza mia, potreste per cortesia lasciarci soli un attimo?”, fu il velato ordine dietro quella cortese domanda.

Coltolo al volo, la Trivixan annuì e appoggiò delicatamente il liuto sulla gamba del tavolo. Al cenno di sier Batista ella lo raggiunse: l’uomo le baciò la mano, poi la guancia ed infine la bocca, sempre fissando di sbieco il nipote, che non abbassò mai il suo, ingoiando silente il lampante messaggio ossia che, giovane o non giovane, amato o meno amato, in famiglia l’alfa rimaneva lo zio, sotto la cui autorità, gli piacesse o meno, Hironimo doveva sottostare.

“Andateci piano con lui”, sussurrò all’orecchio la cantante all’anziano patrizio, schioccandogli un secondo bacio. Il Morexini bofonchiò di rimando qualcosa d’inintelligibile, congedandola tramite un terzo bacio. “Vi prego di ritirarvi, patrona”, l’incalzò teneramente, sottraendo dispettoso dalla treccia una lunga ciocca rossa.

“Restate servido, mio signor”, obbedì affettata la donna. E girandosi verso Hironimo: “Patron”, s’inchinò e in un frusciante sgonnellare, Luzia scivolò fuori dalla sala, chiudendo la porta dietro di sé e un incomodo silenzio s’impose tra i due uomini, i quali gareggiavano a chi avrebbe abbassato per primo gli occhi.

“Sappi che mi hai deluso profondamente”, ruppe gli indugi sier Batista, intrecciando le dita sul tavolo, svanita in lui ogni aria sorniona o sarcastica per sostituirsi ad una di duro e inappellabile pragmatismo, la medesima che indossava in Consiglio e in Collegio. Hironimo capì non trovarsi dinanzi a suo zio, bensì ad un giudice e un senatore della Serenissima Signoria.

“Sior Barba, se si tratta della Luzietta …”

“La tua povera siora Mare”, lo interruppe di malagrazia il Morexini, mostrandogli ferino i denti, “è venuta in lacrime a casa mia, raccontandomi come ti abbia atteso per tutta la notte, in piedi, insonne, domandandosi dove tu fossi finito, che fine avessi fatto! Ti rendi conto, cancaro desgrassià, quale agitazione, quale immeritato dispiacere le hai arrecato? Come se mia sorella non avesse pianto abbastanza in vita sua, ti ci dovevi mettere di mezzo anche tu?!”, batté il pugno sul tavolo, rovesciando qualche bicchiere e facendo tintinnare piatti e posate. “Perché ti sovverrai, spero, di chi fu l’ultimo che non rincasò più a Ca’ Miani? O debbo rinfrescarti la memoria, testa da bigoli, sul modo in cui questi ritornò dalla siora tua Mare?!”, ringhiò il “da Lisbona” ed Hironimo strinse la bocca, colpevole, memore delle tragiche circostanze della morte di Padre e dell’ansia che aveva provocato in Madre, ogniqualvolta i suoi figlioli uscivano la sera e rientravano nel cuore della notte, incapace la donna d’addormentarsi fintanto che non li sapeva al sicuro nei loro letti. Questo mentre ancora vivevano a Venezia, poi al fronte ...

Le guance gli bruciarono dalla vergogna al pensiero di come avesse egoisticamente pensato unicamente a se stesso, senza penarsi di mandare qualcuno ad avvertire Madre, almeno per rifilarle una panzana che si fermava a cena da un amico o da Maria, la quale certamente gli avrebbe retto il gioco. Tanto s’era crogiolato nelle sue sofferenze, da non accorgersi di come ne stesse provocando a terzi.

“Ti paiono cose da fare? Uh? Con la guerra in corso; con tuo fratello Lucha storpiato d’un braccio; con te che non rivolgi più la parola a Carlo e Marco? La vuoi uccidere, quella povera donna di tua Mare? Non hai un minimo di rispetto ed empatia verso il tuo prossimo? E soprattutto verso la siora tua Mare, cui devi la medesima devozione che riservi alla Virgo Maria Mater Dei? Sempre che tu ne abbia, poi, bruciacristi pagano che non sei altro!”

“Sior Barba … io … ieri pomeriggio …”, farfugliò Hironimo un tentativo di spiegazione, perlomeno sul motivo per il quale non aveva mandato ad avvertire Madre, tanto l’aveva sconvolto da non ragionare più lucidamente.

“Taci! Chi t’ha dato il permesso di parlare?”, lo zittì in un secco gesto sier Batista. E puntandogli contro l’indice: “Come se non bastasse, hai messo in imbarazzo anche i Contarini “dai Scrigni”, ché quando la tua siora Mare si recò a San Trovaxo a domandare al Marcolin dei tuoi vagabondaggi, quegli per poco non si sentiva male, avendoti fermamente creduto rincasato ed in letto da che mo’! Quanto amore per una carogna ingrata come te!  E sopraffatto dai sensi di colpa, quel povero ragazzo -  di gran lunga più sensibile e responsabile di te! – non ha mai lasciato sola per un istante la tua siora Mare, accompagnandola ovunque e confortandola! Pensava quell’infelice essere colpa sua, perché non t’aveva sufficientemente tenuto sott’occhio! Ma tu dimmi se a quasi venticinque anni, ti si deve ancora far da balia, porco … porco juda scariota maladet’elo et quei cancari d’i soi parenti!”, sbraitò furioso l’uomo, stringendo convulsamente i pugni. “Se ti abbiamo permesso d’arruolarti nei cavalleggeri, era con la speranza che t’inculcassero un po’ di disciplina, non che ti trasformassero definitivamente in un turco mammalucco!”

Hironimo era abituato da anni ad ingerire insulti e rimproveri da chicchessia, amici, parenti e serpenti, sicché neanche la paternale del “da Lisbona” l’avrebbe in teoria scosso, se questi non avesse giocato subdolamente la carta di Madre, scuotendolo così nel più intimo, ognora vulnerabile quando si tirava in ballo la genitrice e saperla ferita e tormentata per l’ennesima sua vigliaccata, equivalse al Miani ad una pugnalata al cuore. Quanto al resto, suo zio aveva ragione: per l’ennesima volta aveva dimostrato una cecità mostruosa, badando unicamente alle sue magagne e coinvolgendo chi non se lo meritava nei suoi casini, confermando le comuni dicerie sul suo caratteraccio ed indisciplina e sputtanando di conseguenza l’operato dei suoi genitori, i quali s’erano prodigati con ogni mezzo di fornirgli un’educazione da cristiano.

La piacevole serata trascorsa assieme a Luzia non era stata altro se non un effimero palliativo, sufficiente per esorcizzare per qualche oretta i sensi di colpa e scacciare la realtà fuori dalla porta del suo cervello. Ma, similmente alla sbornia, il giorno dopo tutto ritornava e si pagava cogli interessi, poiché in nome della distrazione, di sicuro qualche altro male s’era nel frattanto combinato.  

“Chi vi ha detto ch’ero qui?”, mormorò Hironimo, strappandosi via nervosamente le cuticole da sotto il tavolo.

Sier Batista grugnì malevolo, scoccandogli un’occhiataccia di sufficienza. “Appartengo al Consiglio dei Dieci, furbastro. Sarei davvero un pessimo membro, se non sapessi neppure ciò ch’accade sotto il mio stesso tetto, noi che abbiamo l’incarico di sapere cosa succede in ogni angolo della Signoria”, e finita di sorseggiare la bevanda, si nettò gli angoli della bocca.

“Inoltre”, proseguì egli, piegando accuratamente il fazzoletto, “la mia Luzietta a suo modo s’è sempre dimostrata leale e continua ad esserlo. Anche in questo mi hai deluso, nezzo mio: tra voi due colombelle in amore, speravo che fossi tu quello a pigliar coraggio e a chiedermi da uomo a uomo di frequentare la Luzietta e non viceversa, com’è invece accaduto. Sì”, reiterò il Morexini, dinanzi all’espressione sconvolta del nipote, “lei non mi ha mai tenuto nascosto alcunché: pacta sunt servanda, nezzo mio, con Luzietta avevamo stilato un preciso accordo e lei ha diligentemente adempiuto ad ogni suo dovere. Adesso che siamo amanti “informali” e il contratto è stato rescisso, Luzietta, per rispetto, ugualmente continua a chiedermi il permesso. Se non è vera devozione, questa!”

Ironico come le persone tra le più vituperate si fossero, invece, rivelate tra le più oneste.  “L’avete detto, sior Barba: lei non è più vostra per contratto, può fare ciò che più le aggrada”, non si trattenne Hironimo dallo sfidare ugualmente sier Batista, ricordandogli che, stando così le cose, la sua parte di colpa rimaneva, certo, ma assai ridimensionata. Sì, avrebbe forse dovuto discuterne almeno con Luzia, per capire come funzionasse la faccenda esattamente tra lei e suo zio, invece d’imporsi prepotentemente, manco un cervo in calore. Su quel punto aveva senz’ombra di dubbio sbagliato.

“Perché non ti sei mai fatto avanti con me?”, volle invece sapere il Morexini, scrutandolo attentissimo. “Suvvia, non insultare la mia intelligenza. Credevi sul serio, che prima o poi non me n’accorgessi? Non sei il primo né sarai l’ultimo ad aver desiderato la donna altrui. Chiunque a Veniexia, almeno una volta nella vita, o s’è dovuto nascondere sotto il letto o scappare fuori dalla finestra, per evitare di farsi beccare dal terzo incomodo”, e in questa pratica sier Batista in gioventù aveva posseduto abilità al limite dell’acrobatico. “Tra criminali ci si riconosce , ti ricordi? Se m’è bastata una sola occhiata per capire come Marchetto avesse la ganza – lui ch’è molto più scaltro e dissimulatore di te – figurati quanto poco ci ho messo per pigliare te in castagna!”

Incrociando le braccia al petto, il giovane Miani replicò altero: “Avete sbagliato carriera, sior Barba: intuitivo ed infallibile come siete, avreste dovuto farvi frate domenicano e inquisitore!”

“Non mi provocare, putelo, ché ancora non m’è del tutto passata la voglia di sottoporti alla strappata!”, replicò acido il “da Lisbona”, non accennando ad un benché minimo sorriso, ergo il prurito d’appioppare qualche ceffone al nipote discolo gli era rimasto eccome. “Da ragazzo, questo te l’abbono, perlomeno avevi la buona creanza di rispettare le regole e di stare al tuo posto: ti giuro, mi hai positivamente impressionato vedendoti lottare contro la tentazione, ammirandoti per la tua forza di volontà. Ora, al contrario … guarda: non so se arrabbiarmi con te o compatirti …  Insomma, Momolo, cos’è cambiato? Temevi forse che ti rifiutassi la Luzia? E perché mai avrei dovuto? Anzi, ti avrei saputo in buone mani, piuttosto che nel letto di una qualche bagascia poco raccomandabile.”

Oggettivamente, Hironimo non riusciva più a formulare un pensiero coerente, la situazione completamente sfuggitagli di mano. Aveva creduto aver compreso l’animo della cantante e invece lei gli si era concessa anche per via di una crisi di mezz’età (da lui correttamente azzeccata) ma soprattutto perché aveva ottenuto la benedizione del suo amante. Il quale era sempre stato al corrente della verità, mettendolo sornionamente alla prova e lui, il buffone di casa, lo aveva magari divertito nel processo.

Ma vaffanculo.

“Luzia, sior Barba, era la mantenuta vostra e dei vostri amici. Io ero l’estraneo e se non avessi fatto torto a voi, lo avrei arrecato ai vostri amici. Non vi volevo né biasimato né ridicolizzato per la mia sgradita intromissione”, gli spiegò infine il giovane Miani, optando per la sincerità in quella situazione assai confusa e ambigua. “Adesso che Luzia è la vostra amante e basta … tutt’ora vi appartiene, è voi che lei sotto-sotto anela, anche se lo nega apertamente. Avete visto come poc’anzi v’ha obbedito?”, ammise il giovane a malincuore, realizzando l’amara verità. “In me lei vede soltanto un sostituto, una versione più giovane di vossioria. Poiché oramai la considerate sempre di meno un’amante, Luzietta per sentirsi ancora utile e desiderata ha scelto me ed io l’ho scelta, perché se lei ha accettato, concedetemelo, un tanghero donnaiolo come voi, può ben sopportare uno come me” e sfogatosi ben bene Hironimo sospirò, pizzicandosi la radice del naso e avvertendo una grossa spossatezza.

Uno dei benefici acquisiti dalla carriera politica, oltre al prestigio sociale, era stata la pazienza d’ascoltare un discorso fino alla fine e di non scaldarsi mai, qualsiasi fosse stato il contenuto. Anche se l’aveva rimproverato a guisa di scolaretto e l’aveva sminuito attraverso appellativi infantili, sier Batista aveva udito in concentrato e rispettoso silenzio le giustificazioni del nipote, il quale sarà pur stato un pirata saraceno, ma quando si decideva a vuotare il sacco era disarmante nella sua sincerità. In aggiunta, possedeva i medesimi tic di Anzolo quando quest’ultimo gli confidava i suoi schietti pensieri, per quanto ostici e cupi essi fossero.

“Luzia è la mia amante, sicuro, e neppure l’unica s’è per quello, sebbene io le sia molto affezionato”, dichiarò il Morexini, addolcendo il tono e servendosi di un bicchiere d’acqua. “Confiteor: tra tutte è stata la mia preferita, per questo ho redatto quel contratto in comune coi miei amici, per tenercela più stretta e sfruttare la sua ben nutrita rete di conoscenze. Una mano lava l’altra. Ti sorprenderà l’ammontare d’informazioni, che le cortigiane riescono a carpire e, non a caso, noi Dieci le consultiamo spesso, a titolo d’informatrici.”

“Ecco perché vi siete raffreddato nei suoi confronti: quando venite da lei è per discutere degli affari della Signoria, non per …”, concluse Hironimo, capendo infine come mai, per non compromettersi, ambedue avevano dovuto mantenere un certo distacco. E rabbrividì dinanzi al freddo cinismo dell’avunculus, lui che tanto appariva amorevole e caloroso, ma che al comando della Signoria non esitava a mettere da parte o a sfruttare l’antica amante. “Malgrado fosse la vostra preferita, malgrado l’abbiate vincolata in un contratto … non vi è mai importato saperla in letto con qualcun altro, dopo che aveva finito con voi? Anche adesso, non vi dà fastidio che io …?”

“No”, fu la lapidaria risposta del Morexini. “Perché Luzietta è una donna, non la donna. Soltanto su di una non transigo e si tratta della tua siora Amia, mia mojer. Lei è mia e di nessun altro. Il resto delle pollastrelle? Facciano quel che li pare, la cosa mi è totalmente indifferente. Se loro mi cornificano per dispetto, io lo faccio perché m’annoiano e così siamo alla pari e amici come prima. La moglie è la moglie e le altre un piacevole passatempo, senza impegni e senza futuro. Detto ciò”, terminò l’anziano patrizio, passando al nipote il cesto ricolmo di frittelle, “ora finisci di colazionare  ed assicurati d’inventarti una scusa convincente per la tua siora Mare.”

“Non siete mai stato geloso?”, non riusciva a capacitarsi Hironimo di tanta flemma. O menefreghismo.

“Contrariamente a te”, spezzò a metà sier Batista una frittella, “io non ho mai avuto problemi a condividere i miei giocattoli tra fratelli e amici.”

“Dunque la Luzietta corrisponde a questo per voi? Ad un giocattolo?”

“Tu ti sei comportato forse meglio?”, gli inflisse lo zio il colpo di grazia e al giovane patrizio non rimase altra opzione, se non incassare docilmente e in silenzio. Per motivi diversi eppure uguali, tutti e due avevano sfruttato i favori offerti da Luzia Trivixan, nessuno cercandola per amore sincero.

“Ascoltami bene, nezzo mio, perché non amo ripetermi”, aggiunse l’ultima chiosa sier Batista, riassumendo in parte la sua previa perentorietà.  “Io sono sempre stato di manica larga con tutti,  molto più liberale di certa gente che sembra uscita da un monastero ortodosso di frati eunuchi, flagellanti eremiti e stilobati. Ma su di una cosa non accetto compromessi: la fiducia. Mai più -  capito? -   mai più ti devi azzardare ad agire alle mie spalle!”, ribadì egli intransigente il concetto, picchiettando sul tavolo a ciascuna parola.  “Ti ho mai negato qualcosa? Ti ho mai maltrattato? La risposta è: mai, sior Barba. Ergo, niente giustifica quel tuo giocare al nascondino con me, visto che mai ti ho dato un valido motivo per temermi!”

Di nuovo il Morexini aveva ragione: in molti si sarebbero leccati le dita ad avere dei parenti così generosi e tolleranti. Al posto di farne tesoro, Hironimo s’era comportato da ingordo, pretendendo sempre di più, insaziabile. Realizzò che se da una parte mirava ad emulare Padre, dall’altra gli piaceva la vita gaudente dello zio, due figure però alla fine troppo inconciliabili tra di loro, destinante a fare a pugni.

“Non tutti, sior Barba, ragionano come voi!”

“Da uno a dieci, sai quanto me ne cale? Io sono me stesso e tu oramai dovresti conoscermi assai bene!”

Appoggiando i gomiti sul tavolo e nascondendosi sfinito il viso tra le mani, il giovane Miani borbottò sincero: “Mi dispiace, sior Barba. Avrei dovuto dimostrarvi maggior rispetto e riconoscenza.”

“Fai bene a dispiacerti, però non cambia ciò ch’hai fatto”, s’alzò in piedi l’anziano patrizio, sgranchendosi una gamba intorpidita. “Non ti chiederò d’indossare cilici o il digiuno di mona per penitenza; mi basta che tu mi sia leale e di fidarci a vicenda. In questi tempi tremendi di guerra, pregni del male italico di pugnalarsi alla schiena, l’unica nostra speranza è rimanere uniti e quisquiglie quali rivendicare il possesso di una donna, lasciamole ai perdigiorno. An, Luzietta!”, cambiò sier Batista repentinamente tono, alla timida comparsa della cantante, venuta a controllare che i due uomini non si fossero scannati l’un l’altro.

“Avverto il vostro pope, che state per scendere?”

“Dopo, mia cara, prima finiamo la colazione. Sedetevi piuttosto, fateci compagnia”, la invitò il Morexini e Luzia prese posto proprio in mezzo a zio e nipote. Notando l’irrigidimento d’Hironimo, che non sapeva dove guardare, e un certo disagio anche nella donna, il “da Lisbona” esclamò: “Non vi preoccupate, Luzietta: il mio nezzo adesso sguazza nella confusione dell’imbarazzo. Ma imparerà a purgarsi d’inutili gelosie, per focalizzarle dove invece meritano.”

Perché Hironimo si sorprendeva di quella loro noncuranza? Perché provava una fitta di dispetto nel cuore? Sapeva chi fosse la Trivixan, del suo passato, dei suoi amanti, clienti e protettori. E allora cos’era quella sgradevole sensazione di soffocamento?

Forse perché, per l’ennesima volta, gli era stato sbattuto in faccia, quanto lui non avrebbe mai primeggiato in alcunché?

Eppure … supererai chiunque dei tuoi pari a Venezia e fuori d’essa. Il subitaneo ricordo della profezia della gitana rincuorò il giovane patrizio, il quale piegò la bocca in un sorriso quasi sulfureo, massacrando la povera frittella fino a ridurla in patetiche briciole sul piatto.

Adesso pativa umiliazione dopo umiliazione, l’eterno secondo, sottomesso e impotente dinanzi ai suoi maggiori. Ma poi, oh! Sarebbe infine giunta l’ora del riscatto ed egli avrebbe con la sua brillantezza oscurato tutti. La gitana, le stelle, il Fato gliel’avevano promesso: un grande avvenire l’attendeva, destinandolo a grandiose imprese ed egli finalmente non sarebbe mai più stato il solito Momolo da sbeffeggiare o compatire.

Esatto, esatto, segui il tuo istinto e vedrai come t’eleverai rispetto agli altri! Non dipenderai né risponderai mai più a chicchessia; finiti i giorni della cieca obbedienza! La tua volontà sarà l’unica tua legge, libero, libero di seguire il tuo glorioso destino, senza imposizioni!  - gli sussurrò all’orecchie quella strana e familiare vocina – Hanno paura di te, del tuo potenziale, per questo ti frenano, t’ostacolano! Sono loro gli invidiosi e presto, oh sì, avrai tu la tua personale Luzietta, rango, danari, finalmente chi ti disprezzava imparerà a temerti. Non sarebbe bello, vederli adoranti ai tuoi piedi?

 

“Perché sei ancora in tempo, sai?”

Completamente paralizzato sul pavimento di quella mefitica cella dell’Abbazia, incerto se stesse sognando o meno, Hironimo tentò d’urlare e  di divincolarsi dalla presa di quel … quell’essere dalla faccia vagamente umana, sebbene sfigurato da zanne e i bulbi oculari completamente neri. Ma i suoi denti rimanevano caparbiamente serrati tra di loro e nessun muscolo gli obbediva, mentre la creatura, aggrappandosi alle sue caviglie, s’issava dalla nuda terra e s’arrampicava su di lui, famelica e trionfante.

“Mi ci sono voluti ben quindici anni …”, si vantò, la lingua biforcuta che vibrava nervosa a guisa di lucertola, creando lunghe ombre sulla faccia color del gesso da lebbroso e petecchiale del sifilitico.“E adesso sono così vicino da godermi il mio premio … scusami, il nostro premio … Io so cosa vuoi, cosa noi vogliamo … Basta che ti abbandoni a me … Non vuoi che la profezia s’avveri? Non desideri più quella gloria che fin da ragazzino sognavi? La vendetta? L’umiliazione dei tuoi nemici? Te la posso dare e molto di più … Ma tu, poi, mi devi ripagare …”, e quella bocca storta si piegò in un sorriso orribile, tutto zanne e saliva e nel suo buio si muovevano convulsamente strette delle figure indefinite, come i vermi in un cadavere.

Più l’essere avanzava sul suo corpo e più perdeva le sue sembianze umane, reggendosi su braccia nodose dagli arti disgiunti e riattaccati all’inverso, le dita aguzzi artigli picconanti la carne indifesa del giovane immobile sotto di sé.  Il collo della creatura si piegava gradualmente all’interno della cassa toracica, aprendosi nella pelle altri occhi su cui Hironimo osservava il suo terrorizzato riflesso. Braccia sottili fuoriuscivano dal naso mancante, dalle orecchie e dagli angoli di quelle fauci vermiglie, quasi quell’essere fosse composto da altre creature al suo interno. Quasi … quasi s’alimentasse di loro …

Il patrizio serrò le palpebre, percependo salati rivoli di lacrime bagnargli le tempie. Non voglio! … Non voglio! … , ripeteva ossessionatamente, imponendosi d’aprire quella maledetta bocca serrata e di gridare soccorso. A chi poi? Chi sarebbe mai accorso?

“Non mi vuoi? Ma come? Mi parevi ben disposto in passato! Le mie catene sono forti! Nessuno può spezzarle! Tu stesso le hai mostrate pieno d’orgoglio!”

E Hironimo d’un tratto se le vide addosso, catene di spine che gli martoriavano il corpo, traendo sangue, stritolandolo pian pianino … soffocava … non … non … Premevano verso il basso, spingendolo contro il pavimento, tirate esse da sotto da mani invisibili … Mancava poco e forse la terra sottostante si sarebbe spaccata da tanta pressione ed egli sarebbe precipitato giù, perennemente prigioniero …

“Non t’attende null’altro destino, se non questo. Perché dunque non goderne i vantaggi in terra?”, s’ingigantiva la creatura, quasi si nutrisse del terrore d’Hironimo e il suo peso, aggiunto alle catene, pesava sul torace del giovane fin quasi a spezzargli le ossa. “Sei un peccatore, quale speranza ti resta? Il perdono?”, lo canzonò, imitando la vocina bonaria dei curati di campagna. “Ma dove? Ma quando? Sei sporco e resterai sporco! Marchiato! Non ti si vuole più! Verrai giudicato, condannato ugualmente e allora manda tutto alla malora e divertiti! Non c’è perdono, non c’è misericordia lassù per te! Nessuno ti vuole, nessuno ti ama, nessuno ti verrà mai in soccorso, nessuno ti ascolterà, hai schifato tutti con le tue iniquità e non hai alcuna via di scampo! Tu. Sei. Mio.!” e  rise talmente forte, da scuotere l’ambiente attorno a sé, provocando un generale fuggi-fuggi dei topi, che terminarono puntualmente nelle fauci della creatura in acuti e terrorizzati squittii, dilaniati da quelle figure all’interno d’essa, sprizzando sangue e budella, macchiando inesorabilmente Hironimo, il quale realizzò essere quella la sua inevitabile fine.

Quegli occhi lo puntavano fiammeggianti, bramosi quanto la lingua biforcuta che si nettava dalle labbra da pesce i rimasugli dei topi. La creatura si sporse golosa in avanti e gli occupò l’intera visuale, ogni angolo invaso senza possibilità di distogliere altrove lo sguardo. Ogni tanto delle squame si sollevavano e compariva un bulbo oculare che roteava in cerca di chissacché, oppure lingue o braccia mulinanti all’aria.

Non poteva fuggire. Non poteva rifugiarsi nella pietà di nessuno. Era sempre stato solo, giudicato, abbandonato e … per cosa, poi? A confronto di certa gente, le sue erano quisquiglie d’infante!

“Giusto, giusto …”, convenne la sibilante creatura, ridacchiando gutturalmente, accarezzandosi la molle pancia deforme, da cui s’intravedevano la sagoma di mani e facce premere su di essa, similmente ai calci di un nascituro sul ventre materno. Ma quelle spinte erano spasimate, grattando, scavando alla ricerca di una via d’uscita, una qualsiasi via d’uscita, anche a costo di squarciare quella carne squamosa e al contempo pelosa. “La colpa non è tua … no, no, sono gli altri che ti hanno fatto sbagliare … tu ti sei soltanto difeso … era il tuo diritto! … ”, cinguettò falsamente amorevole, allungando quelle mani-artigli verso il cuore d’Hironimo, pronto all’estrazione.

No.

“Che?”, si bloccò l’arto a mezz’aria, mentre la creatura reclinava il capo, perplessa.

No. La colpa è mia. Soltanto mia. Io ho fatto quelle scelte. Potevo agire diversamente, ne avevo la libertà, ma ho preferito agire d’impulso, d’orgoglio, credendomi chissà chi quando in realtà non sono niente.

“Bene, bene, altre giustificazioni?”, si batté ilare l’essere la zampa sulla coscia tra il mammifero e il rettile. “E a chi, sentiamo? Chi vuoi che le ascolti? Uh? Chi? I tuoi fratelli? Bah, li hai sempre osteggiati!” e nell’aria la creatura creò figure di fumo rassomiglianti Lucha, Carlo e Marco che lo fissavano crudeli, impietosi, colmi di rancore.

“I tuoi parenti? Peggio ancora, ad ogni occasione li fregavi alle spalle!” e di nuovo quelle larve si stagliarono sinistre e minacciose dal buio, guardandolo senza pietà alcuna e anzi gli puntavano accusatori il dito, gli occhi bianchissimi privi di pupille e la bocca un’unica fila di denti.

“Tua madre?” ed Hironimo guaì agonizzante nel vedere Madre tra quei fantocci, severa ed inavvicinabile, gelida nel suo rifiuto. Fece male, male, male, gli bruciò fino in fondo all’anima. Eppure, gli infuse per contrappasso una piccola speranza: perché, tra le mille incertezze della vita, di una cosa egli era stato costantemente sicuro, ed era l’amore incondizionato di Madre nei suoi confronti.

“Dopo quello che le hai fatto? Che se ne fa di un figlio ribelle, disobbediente, che non le ha mai dato alcuna soddisfazione? Un figlio che forse sarebbe stato meglio se fosse nato morto?”

Le insinuazioni della creatura cascavano però nel vuoto, inascoltate. A parole ed opere Madre gli aveva dimostrato per anni il suo affetto, mai Hironimo n’era rimasto digiuno. E nessun’illusione, nessun manichino col suo volto avrebbe potuto ingannarlo dell’incontrario. Sì, egli era stato tutt’altro che un figlio modello, ma era amato, Madre lo amava e quindi quell’essere almeno su quel punto stava mentendo.

Hironimo artigliò una manciata di terra.

“Oh, se tu fossi morto  senza battesimo, mi sarei risparmiato un sacco di lavoro, non immagini quanto quelli là ti vogliano a tutti i costi … quanto continuassero a mettermi i bastoni tra le ruote …”

Quelli là?

La creatura s’irrigidì, il suo corpo deforme scricchiolando come l’eco di una frustata. “Nessuno si cura di te”, ribadì minacciosa, accortasi di quel lapsus. Si chinò nuovamente su Hironimo e gli alitò bellicosa sopra uno scirocco di zolfo e carne putrefatta. “Nessuno t’ascolta …”

Stavolta il giovane non temette di sostenere quegli occhi infernali: la fiammella dell’amore di Madre gli aveva ricordato un piccolo stralcio di conversazione udito anni addietro, una promessa preziosa, un consiglio all’epoca ignorato, ma mai obliato. Lei m’ascolta.

“Uh?”

Madre me l’ha assicurato. Quando nessuno mi vuole ascoltare, Lei m’ascolta.

Un altro schiocco fece tremare la creatura, le cui squame s’alzarono e fremettero irrequiete di paura e di rabbia, roteando imbizzarriti gli occhi e le lingue farfuglianti maledizioni. “Menti!”, berciò, reclinando quella faccia sfregiata dalla lebbra e malfrancese fin quasi a rotearla da spostare il mento aguzzo all’insù.  “Hai offeso troppo quelli là, per sperare nella loro mercé. Figurarsi se ti prestano pure orecchio!”

Sì, io ho mentito e mi sono comportata da indegna carogna. Madre però mai con me. E se Madre ha detto che Lei m’ascolta, Lei m’ascolta.

Suo zio lo aveva ammonito come la fiducia fosse l’unico scudo nei momenti di periglio e adesso Hironimo nutriva l’assoluta fiducia nelle parole di Madre, nella disponibilità di Mater. Aveva dubitato di tutto e di tutti, perfino di Pater, lontano e distante, giudice inflessibile. Aveva temuto il suo giogo, in realtà lieve se paragonato alle catene che per anni l’avevano stritolato vigliaccamente sotto pretesa di libertà, aggiungendo egli stesso di sua mano ciascun anello, anno dopo anno.

Forse sarebbe stato condannato, forse il giudice non gli avrebbe riservato alcuna misericordia, però ogni imputato aveva il diritto ad un avvocato ed ora Hironimo nutriva un’assoluta fiducia in Mater, nella sua intercessione, per quanto poca cosa potesse offrire in cambio di clemenza.

Ma aveva fiducia, l’aveva.

“Che ne sai tu? Che ne sa quella becera di tua madre? Sei un ignorantaccio, un miscredente, un lurido peccatore, un … un …”

Lei m’ascolta.

“No, ti sbagli!”

Lei m’ascolta!

“No, maledetto! Ti ho detto di no! Quellala mia rivale non vanificherà i miei sforzi! … Non ti avrà! Non ti avrà …!”, tremava la creatura da capo a piedi, contorcendosi in spasimi dolorosi al sol guardare, al punto che Hironimo avvertì quelle torture auto-inflittesi  sulla sua medesima pelle.

Ciononostante, tenne duro. Lei m’ascolta e tu … tu starai zitto! , si ribellò dopo anni di acquiescenza a quella voce tentatrice, a quell’io-assassino che l’aveva spinto alle peggiori decisioni, portandolo poi a giustificarsi tramite arzigogolati sillogismi e a considerarsi candido agnellino, vittima innocente. Tendendo i muscoli del collo, storcendo quelli della faccia e piegando le labbra, Hironimo simile ai fantolini concentrò ogni sua energia nel rompere la barriera di denti e finalmente parlare con la sua vera voce, non quella dell’orgoglio o della maschera a lungo indossata.

“A me zitto? A me zitto?!?”

“M-mmmm …”

“Tu, ingrato, tu dovresti invece ringraziarmi! Io ti ho reso ciò che sei! Sei la mia creazione! E pertanto mi devi obbedienza!”

“Mmm-a-aa- …”

“Potresti essere grande, te lo giuro! Perché rivolgersi a quegli inutili di lassù, eh? Sempre ad ostacolarti coi loro moralismi, mai una parola di conforto … Sempre lì in alto a giudicarti dal quel bel trono d’oro! A farti sentire perennemente in colpa! Io invece t’ho sempre sostenuto, t’ho guidato e t’offrirò molto di più, se t’inginocchierai ad adorarmi! Non chiedo molto, mi pare!”

“Maa-add-o-on ...”

“PERCHE’ DEVI NOMINARLA?!? Perché vuoi rovinare tutto?! Saresti stato il mio trionfo contro quelli! Non credere di liberati facilmente di me! Io non ti cedo! Non ti cedo!”

“Ma … don … na … Ma … donna … Madonna!”

La creatura cacciò fuori allora un urlo ingolato e al contempo acutissimo, che neppure un esercito di unghie graffianti il vetro avrebbero potuto eguagliare in stridore; né il rimbombo del cannone dal calibro più grosso avrebbe trovato un facile paragone. L’essere spalancò la bocca, gridò assieme alle altre figure dentro d’esso, si divincolò esagitato, coprendosi stizzito e vergognoso il volto deforme e rimpicciolendosi sprofondò nell’abisso sottoterra.

Hironimo spalancò gli occhi, ululando terrorizzato e annaspando in cerca d’aria: si guardò forsennatamente attorno, riconoscendo il buio inflessibile della cella e il pavimento di nuda terra sulla quale giaceva supino. Avvertì il peso delle catene, ma la morsa del ferro lo rincuorò, conferendo un aspetto reale alla sua situazione e strappandolo dalla tremenda prigione onirica, in cui la sua mente sconvolta l’aveva gettato.

Ma era sul serio stata una visione? Un incubo? O l’aveva vissuto per davvero?

Con calma e tremando violentemente, il patrizio s’accarezzò le braccia e le gambe madide di sudore, scovando i polpastrelli le famigliari ferite inflittegli da Mercurio Bua e null’altro. Eppure, ancora percepiva quegli artigli sulla carne indifesa, l’alito umido e nauseabondo della creatura, i suoi occhi da mosca, la pelle marcia, le sue ora lusinghiere ora minacciose parole sibilargli alle orecchie.

Non ti cedo! Non ti cedo!

Battendo i denti dal nervosismo e dalla paura, Hironimo si portò lentamente sul fianco dolorante, strisciando le gambe intorpidite all’altezza del petto, chiudendosi in posizione fetale. Un’enorme stanchezza e la disidratazione lo stavano gradualmente indebolendo, cullandolo verso un sonno profondo, cui però egli resisteva tenace, lo sguardo puntato contro il buio.

Allucinazione o sogno … quelle figure le vedeva distintamente, le udiva bisbigliare, indicarlo, acquattate predatrici nelle tenebre, in attesa che lui abbassasse la guardia per balzargli addosso e trascinarlo nella loro tana.

Non ti libererai tanto facilmente di me!

“Madonna … Santa Maria Vergine … Oh, Madonna … Oh, Madonna … Santa Maria … Santa Maria …”, balbettava in lacrime Hironimo, ogniqualvolta quei puntini brillanti s’avvicinavano troppo a lui, circondandolo, tendendo le loro filiforme mani ossute. Vieni con noi! , parevano invitarlo, acuendo invece il terrore che paralizzava l’inerme patrizio, il quale per impedire d’addormentarsi aveva preso a mordersi le mani e le dita.

“Madonna … Santa Madonna … Oh, Madonna …” e puntualmente, come le bestie notturne rifuggivano il fuoco, quelle larve antropomorfe si rannicchiavano, retrocedevano, posticipavano l’assalto all’udire quelle singhiozzanti invocazioni.

Che cos’erano? Spiriti? Demoni? O i ricordi delle sue passate colpe?

Cosa volevano da lui? Si trovava all’inferno? Nella sua tomba? Era vivo? Era morto?

No! No! No! Non era morto, non era ancora morto!

Dilaniato da tali dubbi, Hironimo trascorse l’intera notte in sì angosciosa veglia, il nome della Madonna costantemente sulle sue labbra, l’ultimo appiglio per non affogare tra i flutti dell’eterna disperazione.

Confesso, confesso, confesso che …

… peccavi per superbiam in multa mea mala iniqua et pessima cogitatione, locutione, pollutione, sugestione, delectatione, consensu, verbo et opere, in periurio, in adulterio, in sacrilegio, omicidio, furtu, falso testimonio, peccavi visu, auditu, gustu, odoratu et tactu, et moribus, vitiis meis malis …

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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E dunque un finale col botto – anche per le mie coronarie, perché quest’ultima scena in piena notte l’ho scritta e giustamente al minimo rumore sobbalzavo, infilandomi sotto le coperte.

Questa versione del “Confiteor”, per quanto possa suonare grammaticalmente discutibile, appartiene però al IX secolo, quindi una tra le più antiche, e mi piaceva come ha riassunto tutti, o quasi, i dieci comandamenti violati.

Abbiamo ufficialmente terminato qui le digressioni del Nostro: ancora pochi capitoli e arriveremo alla fine della seconda parte del racconto.  Ci saranno sicuro altre riflessioni, ma veleggiamo verso vicende più dinamiche.

Mi sono divertita a scrivere questi “Confiteor”, pur soffrendo per il talora impietoso svisceramento dei personaggi, ma hé, il le faut bien! D’altronde, abbiamo parlato di trascorsi poco “onorevoli” e quindi era inevitabile mostrare i lati più turpi del protagonista e degli altri personaggi. Ma li amo lo stesso!

Piccolo angolo del pettegolezzo: Francesca Ordeaschi effettivamente fu l'amante di Agostino Chigi, quando questi si recò a Venezia nel 1511 e tanto lo ammaliò, che lui se la portò a Roma. Dopo ben cinque figli, nel 1519 i due si sposarono, la cerimonia celebrata dallo stesso papa Leone X. Chigi commissionerà a Raffaello Sanzio "Il trionfo di Galatea" e "Banchetto di Amore e Psiche" ed altri affreschi per il suo palazzo, onde celebrare l'evento. Purtroppo, Agostino morirà l'anno seguente e poco dopo la stessa Francesca lo seguirà, secondo alcuni avvelenata. Quindi sì, fortunata fino ad un certo punto XD

Quanto a Sebastiano del Piombo, andrà a Roma e si distinguerà come pittore e la sua "Dorotea" è stata identificata come il ritratto dell'Ordeaschi. Ed in effetti, ha la faccia un po' da furbetta. Come mai, poi, abbiamo detto che Chigi era libertino? Beh, suo amico fu niente di meno che Pietro Aretino e chi l'ha letto, conosce il suo pensiero sulle relazioni intime ...

In ogni modo, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] Sempre il nostro Sanudo riporta (25.03.1509): In questo zorno fu fato le noze di sier Jacomo Corner, di sier Zorzi, cavalier, procurator, in la fia quondam sier Orsato Morexini, quondam sier Francesco, in cha’ Nanni a San Trovaxo; heriede, dà di dotta ducati ... e più, et era da tutti desiderata.

[2] Malgrado la flotta più veloce e adatta a viaggiare direttamente sugli oceani, invece d’affidarsi alle carovane, i Portoghesi non riusciranno a capitalizzare le nuove rotte verso l’India, appunto per i problemi tecnici riportati nel capitolo. Nel 1550 ormai il monopolio del pepe era ritornato definitivamente a Venezia, grazie al sostegno degli Arabi che fornirono più spezie di quanto potessero fare i viaggi di Vasco de Gama. Fra’ Agostino d’Azevedo, nel suo rapporto al re di Spagna Filippo II, scrisse: “Il meglio delle Indie procede verso Venezia.” Nel 1596, malgrado lo sfruttamento delle Americhe, i commerci in Siria frutteranno alla Serenissima ben due milioni di ducati annuali, sbaragliando completamente la concorrenza portoghese, la cui sconfitta nei trasporti navali potrà dirsi completa.  

 [3] Celebre episodio biblico di #metoo alla rovescia. La moglie di Putifarre, l’egiziano cui Giuseppe era stato venduto dai fratelli, s’era invaghita dell’avvenente ragazzo, insidiandolo di continuo e proponendogli di andare a letto con lei. Giuseppe, invece, non voleva assolutamente far torto al suo padrone che tanta fiducia aveva riposto in lui, al punto da conferirgli in casa un’autorità seconda soltanto alla sua. Umiliata e stizzita dal secco rifiuto da parte del giovane, la donna, durante una colluttazione, afferrò la sopravveste di Giuseppe mentre egli scappava via, che usò per accusarlo davanti al marito di tentato stupro. Ovviamente, Putifarre credette alla moglie, facendo sbattere Giuseppe in carcere.

[4] Dal matrimonio di Marina Morosini in Marco Antonio Foscarini (1515) nascerà Andrea Foscarini (1519-1590), distintosi prevalentemente nell’ambito navale, sia come capitano di galee che come governatore  nel Collegio della Milizia da mar, provvedendo alla formazione della ciurma e all’armamento della flotta.

[5] tre colossi di Bamiyan = sono le tre statue di Gautama Buddha, nella valle di Bamiyan nel centro dell’Afghanistan, risalenti al VI – VIII secolo d.C. Queste tre gigantesche statue erano considerate la summa dell’arte buddista e gupta dall’India, con influenze degli imperi sasanide e  bizantino e del Tokharistan. All’interno dei colossi c’erano delle stanze affrescate. I tre Buddha vennero distrutti nel marzo del 2001 dai talebani per ordine del mullah Mohammed Omar che li aveva dichiarati degli idoli. Dal 2002 sono incominciati e, tuttora proseguono con enormi difficoltà, i tentativi di costruzione e di restauro, soprattutto dopo la scoperta di un’altra statua nel 2008, di un Buddha dormiente.

 

  
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