Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 10.11.2021
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Capitolo
Ventiseiesimo
Confiteor
(Non
desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)
Parte 3
Alla fine
zia Ysabeta era stata esaudita: le nozze tra suo figlio
Jacomo e Marina Morexini finirono sulla bocca di tutta Venezia,
celebrate con
fasto dogale e se la sposina era stata la donzella più
ambita, suo marito divenne
presto l’uomo più odiato, per ovvi motivi, dagli
spasimanti respinti. [1]
Hironimo
vi partecipò assieme alla sua famiglia, sorvegliato a
vista da suo cugino germano Carlo Morexini, silenzioso e implacabile
alla
stregua d’un giannizzero. Sicché al ragazzo non
rimase altro svago se non
d’offrire le sue felicitazioni alla coppia, evitando di
guardare ambedue dritto
negli occhi. Strinse (molto) forte la mano del novizzo e
baciò quella della
novizza, per poi ritirarsi nel suo cantuccio e godersi in santa pace la
festa
ch’animò San Trovaso fin quasi alle prime luci
dell’alba, filando liscia senza
brutte sorprese e perfino le tante temute lenzuola, al momento dello
sbandieramento ai convitati, mostrarono le loro brave macchioline rosse.
Insomma,
tutto bene quel che finiva bene, se Marco non si fosse
esibito in quella scena madre di gelosia nelle cucine di Ca’
Miani, guastando
l’umore d’Hironimo per i mesi a venire,
poiché le sozze insinuazioni di Jacomo
Corner parevano essersi avverate, manco avesse gettato una maledizione
contro i
due coniugi.
La crisi
matrimoniale tra il fratello ed Helena; la guerra; la
rottura con la sua domina; la cattura di Lucha e la malattia e la morte
di
Crestina … ognuno di questi elementi aveva incancrenito
l’animo del giovane
Miani ed esacerbato gli aspetti meno piacevoli del suo carattere. Si
rendeva
conto d’essere divenuto più aggressivo, dispotico,
poco incline al compromesso
e impaziente. Gli antichi passatempi gentilizi non
l’attiravano più, traviato
dalla rudezza del campo e i suoi occhi infarciti di
brutalità e squallore
avevano dimenticato come s’apprezzasse la bellezza,
pigliandosi diletto ovunque
lo trovasse e in qualsiasi forma. Se Hironimo si conteneva
però nei vizi, lo
faceva non per amor della virtù, bensì per non
compromettere il suo progetto di
distinguersi come militare: pur conscio d’essere ancora
giovane per ruoli di
spicco, nondimeno seguitava a puntare tenace alla meta, ché
se il suo amico e
cugino di terzo grado sier Ferigo Contarini era riuscito, alla fresca
età di
trent’anni, a divenire provveditore degli stradioti, allora
anche il giovane
Miani poteva ben sperare, se continuava a rigare dritto e a
comportarsi, almeno
sul campo, in maniera irreprensibile.
“Tanto
scoglionarsi per reclutare quei fanti e archibugieri, per
poi neanche riuscire ad inviargli a mio fratello …
Sacramento, avrei dovuto
partire io con loro, invece di delegare la questione a
quell’inutile capitano!
C’è riuscito Ferigo
a portargli perfino
dei vettovagliamenti, non potevo farcela anch’io?”,
borbottò frustrato
Hironimo, nascondendosi il viso tra le mani e massaggiandosi le tempie.
“Saresti
morto inutilmente”, scosse il capo Luzia, versandogli
sulla coppa un infuso siriano, regalatole dal solito sier Bastita, non
appena
suo figlio naturale Andrea gliene spediva qualche pacco da Aleppo.
“Tuo
fratello è stato anche fin troppo bravo a resistere
così a lungo”, aggiunse,
sottraendogli discreta la brocca mezza vuota di vino, non piacendole
questa
nuova tendenza del giovane.
Il
giovane Miani, accortosi invece, storse la bocca, tamburellando
nervoso le dita sul tavolo. “Con quegli uomini, avrebbe
potuto resistere ancora
di più”, grugnì, sorseggiando guardingo
la bevanda calda, trovandola abbastanza
gradevole.
Alla
notizia della caduta di Bassano, Covolo, Enego e
dell'avvicinarsi delle truppe ispano-imperiali a Feltre, i fratelli
Miani,
consapevoli dell'estremo pericolo in cui versava Lucha, avevano stretto
la
cinghia e, ai continui e urgenti appelli del fratello alla Signoria
affinché
inviasse rinforzi alla Scala, di tasca propria avevano pagato il
capitano
Domenego da Vicenza per raggiungere in fretta il maggiore. Marco, poi,
aveva
dato il meglio di sé e della sua arte oratoria in Consiglio,
infondendo
nell’impresa tutta l’energia nervosa accumulata per
colpa della crisi del suo
matrimonio. E l’aveva spuntata, il gaglioffo: a San Zaccaria
lui di persona
aveva presentato in rassegna le reclute. Magra consolazione era stato
l'inaspettato
soccorso di Ferigo Contarini, ch'era riuscito ad introdursi nella
fortezza
senza incappare nel nemico, rifornendola di vettovaglie. Tutti sforzi
rivelatisi inutili, giacché quando gli archibugieri stavano
per partire da
Treviso e i provigionati da Venezia, la Scala ormai era divenuta
irraggiungibile, la battaglia iniziata ed ogni via di comunicazione
interrotta.
Hironimo aveva voluto condurre lui stesso la compagnia, incurante del
pericolo
di venire facilmente sopraffatti: per convincerlo a desistere, Marco
l’aveva
quasi assordato con le sue urla, incrinandosi per qualche giorno la
voce. S’era
così ansioso di crepare malamente - lo aveva minacciato
- bastava un
cenno e il maggiore gli avrebbe legato una palla di granito alla
caviglia per
gettarlo in seguito nel Canal dell’Orfano.
“Pota
dell’angonaia …”, imprecò di
nuovo Hironimo, stizzito dalla
sua incapacità, per quanto si sforzasse, di poter
influenzare e cambiare il
corso degli eventi, ribelli mostri dotati di volontà propria
e con l’unico
scopo di tormentare lui e la sua famiglia. “Vermocane
d’ona sporca svioldra …”
“La
tua occasione non tarderà a venire e non mancherai di
distinguerti”, finse Luzia di non aver udito quella sequela
d’improperi,
porgendogli ineffabile dei biscotti. “D’altronde,
da come il tira il vento, ho
l’impressione che questa guerra non finirà tanto
presto: la Signoria sta
giocando il tutto per tutto, senza esclusioni di colpi né
compromessi, i nostri
condottieri al fronte e i nostri ambasciatori dal Papa.”
“Spero
che sier Hironimo “dalle Rose” riesca nel suo
intento”,
s’auspicò il Miani, roteando pensoso la coppa.
“Non
c’è obiettivo, che un uomo del suo intelletto non
possa
raggiungere: assieme al cardinale domino Domenego Grimani, è
il nostro asso
nella manica”, sentenziò grave la Trivixan.
“Ma la diplomazia, contrariamente
al campo di battaglia, necessita di tempo. Ciò che
s’ottiene in un’ora in uno
scontro armato, lo si ottiene forse in giorni e in mesi di trattative,
con
effetti però a lungo termine.”
“I
condottieri vincono le guerre, non gli ambasciatori.”
“Gli
ambasciatori però posso prevenirle o scombussolare le
alleanze nel corso di queste.”
Hironimo
sorrise, intrecciando le dita sotto il mento. “Noto che
siete rimasta la solita Luzia Trivixan”, dichiarò
tra l’affezionato e il
malinconico, soffiando sul liquido bollente.
“Ho
rinunciato alla carriera di cortigiana honorata e di mantenuta,
mica al mio cervello!”, cinguettò falsamente
scandalizzata la donna, unendosi
alla risata del patrizio, che le chiese, intrigato:
“E
vi manca quella vita?”
“Un
poco”, si passò Luzia un dito sulle labbra
carnose. “Ma d’altronde,
a lungo andare, ogni suo aspetto mi era divenuto pesante. Pertanto, ho
giudicato meglio ritirarmi all’apice della gloria, amata e
onorata, piuttosto
di scivolare lentamente nell’oblio fino a ridurmi a battere
le calli di Rialto
per qualche spicciolo e di finire i miei giorni a languire in un
qualche sozzo
letto pulcioso, nell’ospedale dei derelitti”, gli
rivelò spassionatamente la
Trivixan i suoi pensieri, mentre intingeva un dolcetto al miele nella
bevanda.
“E’ stato uno spartiacque: senza i miei favori di
letto, si è visto chi
veramente m’era amico e chi mi frequentava soltanto per
divertirsi e basta.
Grazie a Dio e a Santa Cecilia, il vostro sior Barba
m’è rimasto
straordinariamente fedele. Per questo motivo, per me, egli rimarrà sempre il "mio signor". Ah, e anche tu naturalmente non ti sei dimenticato di me”, aggiunse ella
dolce, afferrando
la mano d’Hironimo, che gliela strinse di rimando.
A
trentasei anni Luzia Trivixan ancora serbava la sua seducente
bellezza, frutto certamente dei numerosi trattamenti di bellezza, ma
anche di
uno stile di vita piuttosto rigoroso, laddove lei dormiva le sue otto
ore e non
mangiava né troppo né troppo poco, equilibrato.
Invero aveva sconvolto tutti
l’anno addietro, poco prima della guerra, con la sua
improvvisa decisione di
chiudere il sipario sulla sua avventurosa carriera di cortigiana
honorata, in un
addio commuovente e trionfante, uno dei pochi per donne della sua razza.
Già
un anno dopo, vuoi per il nuovo capitolo della sua esistenza
vuoi per le conseguenze del conflitto, Hironimo faticava leggermente a
conciliare le due Luzie, la brillante e sensuale intrattenitrice della
sua
infanzia e adolescenza con la posata matrona seduta davanti a
sé, vestita di
velluto verde scuro e dalla camicia piuttosto accollata, gli unici
indizi
dell’antico mestiere i perenni orecchini di perle e smeraldi
alle orecchie e
l’esotico turbante di seta blu notte e festechino, fermato da
una catenina
d’oro e una spilla di smeraldo col pendente di perla.
L’appartamento
stesso aveva acquisito una certa sobrietà, pur
rimanendo coccolo, elegante ed accogliente: Luzia aveva tenuto per
sé un cuoco,
quattro fantesche e un bravo a protezione; ogni oggetto inutile,
stravagante e
ingombrante l’aveva venduto e, da quanto Hironimo aveva
capito, la donna viveva
soltanto nella parte nobile dell’edificio, affittando di
persona il resto. Tre stanze, più il portego, la cucina e un mezzado. Alle pareti, notò Hironimo, figuravano più quadri a soggetto sacro di quanto si ricordasse, accanto ai cozzanti nudi profani delle scene mitologiche, illuminati dal cesendelo d'ottone e di vetro. Le credenze di noce avevano conservato soltanto gli oggetti più preziosi, per lo più piatti di maiolica, un vaso di preziosissima porcellana e numerosi bicchieri di vetro dalle forme più svariate. All'angolo, il clavicordo, i liuti, i flauti appoggiati con cura al limite del maniacale, così come la piccola biblioteca di libri sottochiave, tra cui numerosi spartiti musicali. Eppure, nella semplicità, il gusto del raffinato e del costoso continuava a permeare l'appartamento, essendosi infatti ridotto il numero, non la qualità dell'arredamento.
“I
miei investimenti nelle mude m’hanno fruttato bene e sono
certa
continueranno a farlo. Il corallo va forte in Siria ed in Egitto,
così come il
vino di Cypri e l’uva passita di Candia in
Ingaltera”, raccontava la Trivixan.
“Ora che possiedo una solida base economica, posso dedicarmi
interamente alla
musica: a quella carriera no, che vi rinuncio” e
ridacchiò soddisfatta di sé.
Infatti, pur ritirandosi dalla mondanità di letto, la donna
rimaneva ben
presente in quella culturale, circondandosi di musicisti, compositori e
altri
cantanti, facendoli da mecenate o scrivendo raccomandazioni ai
più meritevoli e
intraprendenti. Lei stessa continuava ad impartire lezioni di canto e
di
musica, esibendosi poi la sera, eppure Hironimo nutriva il sospetto
che,
sottobanco, da qualcuno i soldi per le antiche prestazioni li
accettava, come
ad esempio da suo zio Batista.
“Il
vostro sior Barba è stato davvero coraggioso ed intuitivo ad
aver insistito sul commercio del pepe. Credevamo che i Portoghesi ci
avessero
completamente rubato il settore, viaggiando diretti a Calcutta per
comprarlo.
Chi l’avrebbe mai detto, che le loro navi avrebbero invece
rovinato la spezia e
resa invendibile?”
Quando i
portoghesi erano ritornati dall’India col doppio del
carico di pepe e commerciandolo a minor prezzo, Venezia aveva panicato,
per la
prima volta dopo lungo tempo incapace di vendere alcuna spezia,
ritrovandosi i
magazzini pieni di merce a prezzo decisamente fuori mercato. Al che
s’era
perfino contemplato l’idea d’abbandonare il
centenario commercio del pepe e di
focalizzarsi sulle altre spezie, finché rimanevano
disponibili.
Al
contrario, il Morexini assieme ad altri mercanti avevano
sostenuto, insistendo a gran voce, un approccio diverso, basandosi
sulle loro
conoscenze navali e soprattutto sulla spezia in questione: passata
l’euforia
della novità, i compratori all’ingrosso si erano
accorti che, assaggiandolo, il
pepe portoghese non aveva né odore né sapore,
arrivava marcio e bagnato, poiché
le navi portoghesi, per quanto più capienti e rapide, erano
costruite con legno
insalubre di pessima qualità, non isolate e pertanto le
merci, stipate in una
stiva troppo carica per conservarle agevolmente, divenivano soggette
all’umidità, ai vermi e ai topi. In aggiunta,
l’equipaggio inesperto, le
velature insufficienti, i timoni tarlati contribuirono ad una serie di
tragici
incidenti marittimi, ponendo spesso il capitano di fronte alla dura
scelta tra
la vita e il cargo.
Sicché,
nell’arco di neanche un anno, per bilanciare il rapporto
spesa-guadagno, i mercanti portoghesi per un concetto male inteso
dell’economia
erano stati costretti ad alzare i prezzi, arrivando ad eguagliare se
non a
superare quelli del pepe veneziano, il quale ritornò in auge
sia per la
consueta sua eccellente qualità sia per il prezzo
concorrenziale. Anche perché,
sfruttando l’amicizia di suo figlio naturale Andrea col
Sofì di Persia, sier
Batista e i suoi colleghi avevano appreso come del pepe arrivasse
ugualmente in
Siria ed in Egitto e sulla costa del Malabar, aggirando scaltramente il
blocco
imposto dai Portoghesi. I mercanti arabi, infatti, mal tolleravano
quelli
portoghesi, i quali li costringevano a vendere grandi
quantità di merci a
prezzo risibile e senza possibilità di differenzazione.
Sfruttando dunque le
conoscenze del territorio, gli Arabi rifornivano Venezia del meglio
dall’India,
saldando gli antichi accordi commerciali e unendosi in un sol fronte
contro il
nemico comune [2].
“Se
la famiglia del mio sior Barba l’hanno cognominata
“da
Lisbona”, significa che i loro galletti portoghesi li
conoscono bene”, commentò
Hironimo, il quale aveva seguito appassionatamente quella vicenda,
aiutando
volentieri suo zio ad analizzare i due differenti tipi di pepe, grazie
anche
alla consulenza dalla Siria del cugino Andrea, mercante di spicco ad
Aleppo.
“E’ di questo che adesso parlate, voi e il mio
Barba? Di spezie, investimenti e
danaro?”
Luzia
reclinò vezzosa il capo. “Abbiamo sempre parlato
di molte
cose”, gli confidò in un misto di malizia e
tenerezza. “Ma ora, ahimè, gli
argomenti sono divenuti assai tristi e il tuo Barba ha trovato nella
Signoria
un’amante ancora più esigente e possessiva
… Il mio tempo è finito,
Momolo, non lo sapevo allora, lo so adesso. Forse fui profetica ad
abbandonare
appena in tempo la professione di cortigiana, così non
verranno per me.”
Il
giovane Miani si raddrizzò con la schiena, inquieto, le
orecchie tese. “Chi dovrebbe venire per voi?”,
inquisì lentamente.
La
cantante s’umettò le labbra, lisciando
nervosamente il
fazzoletto ricamato. “Ti sei mai chiesto, come mai a Veniexia
ci siano tante
prostitute e cortigiane, come mai siamo così rispettate e
tutelate dalla legge?
Perché, similmente ai mercanti, garantiamo alla Signoria un
guadagno sicuro,
siamo … quasi un arsenale statale. Patrizi annoiati;
cittadini dalle mogli non
più disponibili o dai troppi figli; giovani marinai di
passaggio e lavoratori
scapoli e desiderosi di compagnia; visitatori illustri; mercanti
stranieri;
pellegrini che vogliono aggiungere un ultimo peccatuccio veniale prima
dell’indulgenza; artisti innamorati dell’effimera
bellezza … di tutto Veniexia
offre, a chi vuole pagare. Ma … con la guerra
…” e Luzia sospirò, guardandosi
le mani alabastrine e delicate. “Ignoro se tu ne sia o meno
al corrente, ma in
Senato si parla di tassare le prostitute per finanziare
l’esercito e credo
proprio che passerà quell’ordinanza.
Già in molte, tra meretrici e cortigiane,
si sono lamentate pubblicamente col Patriarca domino Antonio Contarini,
sostenendo che non possono sostenere tali tasse, non quando non ci sono
più uomini
disponibili. Il che porterà ad un’unica soluzione:
la confisca dei beni. Io …
io posso rinunciare ai miei damaschi, ai miei broccati, alle mie sete
… posso
vendere i miei vezzi e le mie gioie, i miei ventolini ed ogni
chincaglieria,
perfino la prospettiva di vivere in una sola stanza non mi spaventa, ma
… ma i
miei liuti, i miei flauti, il mio clavicordo, i miei spartiti? No, non
potrei
mai separarmi da essi, preferire la morte piuttosto.”
Commosso,
Hironimo le prese l’altra mano, stringendogliele ambedue
a mo’ di conforto. Luzia gli sorrise tristemente rassegnata e
il patrizio
comprese appieno il significato delle parole
dell’ex-cortigiana, sul perché il
suo mondo bello, felice e dorato ma superfluo fosse finito, spazzato
via dal
crudo pragmatismo della guerra.
“Ma
adesso che non esercito più il mestiere”, si
riprese Luzia in
fretta, “non mi possono più tassare in quanto
cortigiana, dunque me la caverò!
E se anche come cantante e maestra dovessero crearmi dei problemi, mi
reinventerò e troverò qualcos’altro da
fare. La bellezza sfiorisce, la mona
s’asciuga, i danari vanno e vengono, ma finché
c’è questo” e si picchiettò
la
tempia, “e questo”, si portò una mano al
cuore, “non è mai detta l’ultima
parola!”
“Voi
siete una spada!”, esclamò Hironimo, da sempre
pieno
d’ammirazione verso lo spirito intrepido, tenace e proattivo
della donna, la
quale non si tirava indietro dinanzi a nessuna sfida della vita.
“Dovrebbero
inviare voi contro i franco-imperiali!”
“Dammi
un’ora con l’Imperatore Maximiano e Re Ludovico e
ve li
faccio ballare in catene, nudi, alla stregua
d’orsi!”, dichiarò enfatica la
Trivixan, per poi gettare il capo all’indietro e sciogliersi
in una grassa
risata, seguita a ruota dal Miani. “Oh beh, forse questo
dieci o quindici anni
fa …”, s’asciugò ilare Luzia
una lacrima.
“Non
denigratevi: voi rimarrete per sempre quell’affascinante
cortigiana, cui ai suoi piedi si prostrava tutta Veniexia.”
La
cantante gli pizzicò giocosa la guancia. “An, come
la sai bene,
mio giovane adulatore, l’arte di farti amare!”, gli
fece l’occhiolino,
sistemandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Non sono arrivata
all’apice della gerarchia, se non mi fossi sempre trovata due
passi in avanti
rispetto al mio avversario. Regola che valeva allora come
adesso.” Sospirò. "Anche se, lo ammetto, ho perso la mia disfida con Francesca Ordeaschi. Sai che si trasferisce a Roma? E' rimasta incinta del signor Agostino Chigi e questi l'adora al punto, che par lui aver inventato il modo di dir "pazzo d'amore"!", gli narrò Luzia l'ultimo pettegolezzo del giorno ed Hironimo la trovò estremamente distaccata, avendola invece creduta invidiosa verso l'inaspettata fortuna della sua acerrima rivale.
"Sì, la siora Francesca dovrebbe partire verso la primavera."
"A quanto pare, la visita a Veniexia è sta molto proficua, per il signor Agostino! Se ne torna a Roma col banco sistemato, un'amante ufficiale, un figlio in arrivo e il mio Bastian appresso!" ed ecco che la voce della Trivixan cangiò di tono in uno veramente indignato. Il giovane Miani scosse benevolo il capo: Bastian de' Luciani, o del Piombo come si faceva chiamare, oltre ad essere un pittore di qualità era anche un eccellente liutista, nonché dolce e piacevole nel conversare e poco gli era bastato per conquistarsi le grazie della cantante. Luzia l'aveva infatti accolto con grande entusiasmo e benevolenza nel suo circolo di musicisti e appassionati di musica, introducendolo a molti gentiluomini ed artisti, anche dopo che il ragazzo aveva relegato il liuto a svago per far della pittura la sua vera professione. L'ex-cortigiana perfino era riuscita a strappargli la promessa di un ritratto in segno d'amicizia, sennonché ecco che quel banchiere senese, in una sfacciata terna, glielo sottraeva per portarselo via a Roma. Chissà che non fosse quello il vero suo motivo di cruccio ...
"Cercate di capirlo: dopo la morte del magister Zorzon, ormai si va dicendo che l'unico suo vero erede sia il giovane Tician. Il magister Carpaccio, perfino il nostro pittore ufficiale il magister Zuan Belini appartengono oramai al vecchio gusto, alla gente piacciono i quadri alla moderna. E Bastian dil Piombo questo l'ha capito, così com'ha capito che fra poco non ci sarà più spazio a Veniexia sia per lui sia per Tician. O uno o l'altro. A Roma avrà più fortuna, ché gli altri pittori dipingono con stili diversi dal suo e, nella varietà, potrà ricavarsi il suo spazio."
"In ogni modo, mi dispiacerà congedarmi da lui ... Suonava così tanto bene ..."
"Mi sorprende piuttosto che non siate gelosa della siora Francesca. Dite, non vi sarebbe piaciuto divenire l'amante dell'uomo più ricco d'Italia? Insomma, il signor Agostino è pur sempre il banchiere dei Papi ..."
"Bah. Non ci tengo", scrollò le spalle Luzia, incurante.
"Perché?", sprizzava Hironimo di curiosità.
"E me lo domandi? Chigi è un gran porco, fatto e finito. E come tale, non poteva non innamorarsi di quel magnifico troione di Francesca Ordeaschi!", gli spiegò la donna e rise forte, coinvolgendo il giovane Miani, che sghignazzò alla grossa. "Poco tempo fa, dopo un mio concerto, il signor Agostino mi ha offerto una grossa somma di ducati per andarci a letto, pur sapendo ormai quanto casta fossi divenuta" e congiunse le mani in burlesca preghiera, fingendo un'espressione da Maddalena penitente che pareva rubata alle immagini votive in chiesa. "Ti confesso però che un pensierino me l'ero anche fatto: insomma, lui era ricco, non di malaspetto, colto, buon conversatore ... Ci sarei anche stata, sai? Peccato che, al momento di definire i dettagli, il signor Agostino m'avesse anticipato come pianificasse di violarmi il retrobottega. Al che io gli ho detto: "Benissimo, mio signor, però a patto che uno dei miei schiavoni sodomizzi anche voi nel frattanto, perché a tre mi rende assai gaudente!" Ciò, Momolo! Solitamente uno normale scappa via a queste proposte, specialmente quando si tratta del suo, di deretano da violare: t'immagini, invece, che il signor Agostino non solo era entusiasta all'idea, ma pure ha aggiunto: e portatemelo qua, allora, questo vostro schiavone, voglio proprio vedere se davvero è lo stallone che descrivete!" Basta, non ho retto più e me la sono filata via con una scusa. Da quel momento, ogni volta che lo scorgevo tra il pubblico, ero quasi contenta che la siora Francesca fosse in sua compagna. Di sicuro, ho notato che lei camminava un po' a gambe larghe ... Ma come si suol affermare: meglio le tue, che le mie di chiappe!"
Mentre ascoltava il prosaico racconto, Hironimo divenne paonazzo dal tanto ridere, gettando indietro il capo e si pose poi una mano sugli occhi umidi, seguitando a sobbalzare dalle risate. "Cul del cancaro, è proprio vero che più sono ricchi e vecchi e più sono sporcaccioni!", sentenziò ilare, pensando anche alle sue di esperienze. Con la sua ex-amante, al massimo l'avevano fatto vestiti contro il muro e le uniche proposte indecenti a Lena comprendevano molte lance spezzate per quasi l'intera serata, senza però mai deviare dalla "diritta via". Forse costoro erano talmente facoltosi e perciò annoiati, da non trovar gusto nelle cose semplici della vita, tra cui far l'amore ad una donna che lo vuole per davvero.
"Amen! Amen!", replicò solenne Luzia. "E lo fanno perché, contrariamente ai giovani, gli si drizza una volta al dì e pertanto, co' pinciano con una puta, la gh'ha da ser memorabile!"
Una
fantesca venne a sparecchiare la tavola, mentre i due
convitati si ritiravano presso il caminetto. Il volto della Trivixan, dapprima così allegro e piacevole, s'incupì all'improvviso in un'espressione seria e piuttosto grave. “Momolo
… non vorrei giocare
all’ambasciator che porta pena, però volevo
chiederti: hai saputo della recente
scomparsa del conte Querini di Stampalia ed Amorgo?”
Hironimo
s’irrigidì sulla sedia, tamburellando nervoso le
dita sulle
ginocchia e contemplando distratto i ciocchi di legna sfaldarsi,
divorati dal
fuoco. “Purtroppo, visto che ho partecipato al suo
funerale”, asserì a denti
stretti, memore dello straziante spettacolo della povera sua cugina
germana
Maria, incinta e sorretta dal padre sier Batista e dal fratello Carlo,
i cui
strazianti lamenti avevano reso penosissima la Messa funebre del fu
sier
Zuanne. Tutto il contrario di quello di sua cugina Biancha Corner
relicta
Priuli, consolatasi in fretta l’anno addietro con un secondo
marito, sier Zuan
Antonio Malipiero.
“So
bene che sei ancora in lutto per via di tua sorella Crestina,
però dovresti visitare tua cugina Maria più
spesso e tenerle compagnia. Ultimamente
non sei molto socievole, i tuoi parenti incominciano a mormorare male
di te,
che sei cambiato, che non sei più il loro Momolo. Il tuo
Barba mi ha raccontato
di come tu abbia litigato con tuo fratello Carlo e soprattutto con tuo
fratello
Marco, che non vi parlate più e se ne duole moltissimo,
poiché eravate sempre
stati molto uniti.”
Il
giovane Miani arricciò la bocca in una smorfia sarcastica.
“Sparlavano di me anche quando ero il loro
Momolo”, borbottò
mordace, mangiucchiandosi un’unghia.
“Però concordo con voi: avrei dovuto
offrire miglior sostegno alla mia zermana. Non voglio giustificarmi,
tuttavia …
ho avuto altro per la testa” e non si riferiva soltanto alla
guerra e alla sua
futura partenza per Castelnuovo di Quero, men che meno allo stupido
litigio di
quella testa da bigoli dei suoi fratelli Carlo e Marco, che si
credevano
all’apice della sapienza, quando invece Marco aveva negli
ultimi anni
dimostrato d’essere tanto se non più puerile
d’Hironimo.
Se da una
parte il giovane Miani era stanco d’accollarsi i
problemi altrui e di rimanere l’unico saldo in quella
tempesta di casini
personali, dall’altra gli recava piacere quel sentirsi utile,
con uno scopo al
mondo. Quindi per lui era stato un onore sostituire Lucha come
castellano,
perché aveva sbagliato nel ricordarlo ai fratelli maggiori?
“Alla
prossima, dunque?”, ricordò Hironimo a Luzia,
mentre questa,
a visita terminata, lo accompagnava alla porta.
“Alla
prossima”, convenne la donna, allungandogli la mano,
acciocché il giovane gliela baciasse. “Tu e il tuo
Barba siete sempre i
benvenuti in questa casa”, gli ricordò benevola.
Un
sorrisetto poco raccomandabile increspò la bocca
d’Hironimo, il
quale con la scusa del baciamano spinse e attirò a
sé la Trivixan,
avvinghiandola stretta col braccio e prendendo possesso delle sue
labbra. Il
suo desiderio verso di lei non s’era mai propriamente
acquietato, un po’ come
quel giocattolo a lungo negato, che ogni tanto riaffiorava nella mente
del
bambino, rinvigorendone la voglia d’ottenerlo a qualsiasi
costo. E la morte di
Crestina, sommata alla guerra, l’aveva ancor più
reso ingordo nei confronti
della vita, portandolo ad indulgere in ogni suo capriccio.
La
pacatezza del cullante movimento della bocca di lui, il lento
suggere della carne umida, il battito regolare nel petto e la pazienza
dimostrata nel persuaderla a schiudere l’ultima barriera,
quei tenaci denti
dietro cui si rifugiava la nervosa lingua, rivelarono a Luzia che ormai
non la
stringeva più quell’adolescente inesperto e
impetuoso, bensì un giovane uomo di
quasi venticinque anni, sicuro di sé e della sua arte
persuasiva. Si chiese,
non senza una divertita punta di gusto, chi gliel’avesse
svezzato e voleva
complimentarsi per l’eccellente lavoro, se neppure mesi
trascorsi in cavalleria
gli avevano sottratto quella raffinatezza amatoria, che un uomo deve
dimostrare
ad una donna, se non vuol passare per un caprone infoiato, sfottuto
prontamente
alle sue spalle e allontanato poi con qualche scusa.
A lunghe
e languide carezze s’abbandonarono le loro lingue,
spostandosi il giovane sul muro, acciocché lei stesse comoda
e soltanto
prigioniera del suo corpo. Le mani del patrizio vagarono dai fianchi
della
cantante fino al petto, sfiorando e aprendo appena la camicia, per poi
risalire
lungo il morbido collo fino alla nuca. Delicatamente, senza fretta, la
invitò
ad abbandonare il capo sul suo palmo, lasciandosi sorreggere. Le
baciò le
palpebre, una alla volta, e Luzia sorrise al ricordo.
“Monellaccio”,
sbuffò ilare, accarezzandogli la guancia ricoperta
dalla barba del lutto, segno che sì, ormai lei stava
trattando con un adulto.
“Non demordi mai, vero?”, gli chiese, fingendo un
rimprovero di cui invece non
gli faceva alcuna colpa.
“Mai”,
stette al gioco Hironimo, anzi, abbracciando la donna
ancora più forte, intrappolandola completamente.
“Vi avrò seduta sulle mie
ginocchia”, le promise semiserio, soffiandole sopra le labbra
tumide, ogni
formalismo decaduto.
“Uhm”,
schioccò la lingua Luzia. “Dovrai guadagnarti il
privilegio, mi sa”, lo provocò, scorrendo le mani
sulla stoffa della casacca
nera sciallata fino alla camicia plissettata sottostante,
ch’abbassò,
denudandogli la giugulare che punzecchiò alternando delicati
morsetti e
pennellate con la punta della lingua. “Dovrai dimostrarmi in
che sei meglio,
rispetto agli altri miei amanti”, gli sussurrò
all’orecchio, catturandogli il
lobo tra i denti e suggendolo piano. “O sei uno di quegli
insicuri, che vuole
le vergini perché teme il paragone cosicché non
si dica in giro: quel suo cazzo
non val niente?”
Hironimo
chiuse sbattendo la porta e sollevò di peso la cantante,
costringendola a cingergli la vita con le gambe. “Sfida
accettata!”, replicò
ridendo di cuore e roteando in vorticose giravolte, che provocarono il
riso
anche nella Trivixan, aggrappatasi forte al trapezio del nobile,
finché
quest’ultimo inciampò per via delle vertigini,
atterrando prima di schiena
sulla panca, in un tuffo di cuscini, e in seguito scivolando di sedere
per
terra.
I due
risero, risero, risero fino al mal di pancia, rotolandosi
sui fiori stilizzati rosso brillante, blu pallido e verde chiaro del
tappeto
damasceno, facendosi a vicenda un tremendo solletico e Luzia fu la
prima a
dichiarare la resa, scalciando in aria le gambe peggio di un mulo. Al
che
Hironimo, gattonandole incontro, ne
approfittò per sollevarle la
sottana e infilarvi sotto la testa.
“A
varda zò! Indossate ancora le braghesse!”
La
cantante lanciò un gridolino falsamente indignato,
sporgendosi
in avanti in modo da sculacciare quell’impertinente.
“Vien fora, bestia!”, ma
il giovane l’afferrò per le caviglie e si
sistemò comodamente tra le sue gambe.
Le passò una mano sulla nuca e la baciò di nuovo,
scostandole a metà la camicia
e abbassandole le spalline, lo scollo del busto a vita alta che a
malapena le
copriva i capezzoli e da cui si sparsero sopra la donna e sul tappeto,
in una
vivente manifestazione della dea Flora, degli odorosi fiori di
gelsomino.
Luzia si
sciolse i capelli rosso fuoco dal turbante e si distese
sul tappeto, nel centro perfetto del disegno, invitando Hironimo a
raggiungerla.
Come la rosa di Damasco, si schiuse per il patrizio che le si
posò sopra come
l’ape, appoggiandole la fronte sul petto ed inalando piano,
in piacevole
carezza, l’odore floreale emanato in quella morbida valle.
L’ex-cortigiana, a
seconda della stagione, soleva riempirsi la fascia mammellare di viole,
di
fiori d’arancio, di petali di rose o di gelsomino
affinché la sua pelle,
svanito l’effetto del profumo, seguitasse a solleticare
piacevole l’olfatto dei
suoi ospiti. Lo stesso suo seno, adesso accarezzato in intenta
esplorazione da
Hironimo, era stato il frutto d’un accorto lavoro da
scultore, sottoponendolo
per anni a giornalieri bagni nell’acqua gelida, onde
rassodarlo e costì
mantenendolo più duro e tondo di quello di una fanciulla.
Similmente, sul collo
e sul viso Luzia s’applicava dei pezzi di carne appena levati
dalla ghiacciaia
e intinti nel latte e cannella. Si lisciava alla greca e ogni giorno si
faceva
fare massaggi per tonificare il corpo, sopportando ogni agonia e
sacrificio in
nome della bellezza. E a giudicare dagli sguardi vogliosi degli uomini
quando
si recava in Merceria o a Messa a Santa Caterina, i risultati a lungo
termine
l’avevano ripagata di tanto soffrire, vendicandola e
sbugiardando quei cafoni
che, raggiunti e passati i trent’anni, avevano osato
chiamarla vecchia, per poi
cascare bramosi ai piedi, pere cotte a puntino.
“Soltanto
questa volta”, mormorò Hironimo e nei suoi occhi
nerissimi Luzia comprese il significato tra le righe, del
tabù che stavano
infrangendo.
“Soltanto
questa volta”, ripeté lei, scivolando la sua mano
in
basso e con destrezza figlia della pratica gli slacciò la
braghetta,
infilandovi la mano dentro e trovandolo già pronto, il
vantaggio della
gioventù.
Sono
cambiato, pensò
amaramente Hironimo, rigirando tra
le dita le ciocche rosse di Luzia, la quale gli s’era
accoccolata sopra, la
guancia appoggiata sull’addome e i polpastrelli che gli
sfioravano appena la
sottile linea di peluria, la quale dall’ombelico gli scendeva
giù all’inguine.
La donna osservava pigramente i muscoli del giovane contrarsi a quella
languida
carezza, la pelle tesa e calda.
Le ombre
pomeridiane s’allungavano all’interno della camera
da
letto, entrandovi silenziose dalle lunghe e strette finestre, curiose
intruse,
e risalivano fino al soffice letto di sei materassi, avvolgendo in caldi chiaroscuri i corpi ivi
stretti
e semicoperti dalle lenzuola bianchissime.
Sì,
sono proprio cambiato,
sospirò il patrizio, ingoiandosi le
labbra e mordendole a sangue, conscio d’aver infranto
quell’antico divieto: il
se stesso adolescente non avrebbe mai commesso quello sgarbo nei
confronti
dello zio, anche a costo d’apparire rigido o stupido o
stupidamente rigido,
fregandosene dell’altrui scherno. Invero aveva ben assimilato
l’ipocrisia
comune e lo spirito di rapina e in generale disonesto dei capitani di
ventura,
prendendosi tutto ciò che gli piaceva, senza rimorsi
né timore delle
conseguenze.
Il
discreto e curioso tocco della Trivixan lo destò dal suo
incantamento: la cantante gli stava studiando la mano, tastando delusa
la
ruvida pelle. “Un tempi avevi mani così
belle”, mormorò ella tristemente,
contornando i fantasmi rosati delle croste cadute dalle nocche e il
giallognolo
dei calli sui palmi. “Creavano bellezza, non davano la
morte.”
“A
Padoa aiutavo a costruire le mura e portavo le barelle”,
avvertì inconsciamente il giovane il bisogno di
giustificarsi di quel
mutamento, il riflesso fisico di quello dell’anima.
Luzia
rabbrividì al pensiero dell’inferno scatenatosi in
quelle
tre settimane d’assedio. “Il mio tempo è
finito, Momolo”, sussurrò sibillina,
socchiudendo gli occhi e lasciandosi cullare dal ritmico alzarsi ed
abbassarsi
del petto di lui.
Anche
lei era cambiata,
appurò Hironimo, accarezzandole la
schiena e coprendo ambedue col lenzuolo, raffreddandosi il sudore nel
frattempo
a risultare molesto alla pelle. Alla fine della fiera, la Trivixan
stava
invecchiando, malgrado i suoi momentanei e combattivi sforzi di
rallentamento
del processo. Pur sforzandosi d’apparire stoica dinanzi
all’inesorabile
declino, in realtà ella voleva sentirsi ancora amata e
desiderata come un
tempo, l’oggetto del desiderio di tutta Venezia, la musa
ispiratrice della
comunità musicale. Era impossibile, dopo anni alla ribalta,
abbandonare
l’ebbrezza della notorietà,
l’ammirazione sconfinata della gente, il trovarsi
perennemente
al centro dell’attenzione per poi finire in secondo piano,
scartati alla
stregua di un abito passato di moda, un ricordo lontano e sfuocato,
rimpiangendo giorni gloriosi che non sarebbero mai più
tornati, costretti a
ripiegare in attività di nicchia.
Un
artista muore due volte, si dice: quando non può
più esercitare
la sua arte e quando lo sotterrano. Luzia Trivixan per sua fortuna
ancora non
era giunta a quel livello, tuttavia stava cedendo ad una sottile smania
di
ricerca di conferme. “Grazie a Dio e a
Santa Cecilia ho il mio canto e
la mia musica a consolarmi e sostenermi. Sai, quand’ero
ragazzina, prima del
mio debutto ufficiale, confessai a mia madre che progettavo di
guadagnarmi il
pane, onestamente, da cantante, solo da cantante. Lei mi rise in faccia
e mi
disse: “Vuoi cantare e basta? Fallo in strada per
l’elemosina. Vuoi cantare in
un palazzo? Allora trasformati in una sirena e attira gli uomini nelle
profondità del tuo letto.” Ed
era questa strisciante e persistente
insicurezza che la rendeva sempre più dipendente dai suoi
amici musicisti e dai
suoi allievi, dalla loro ammirazione e approvazione.
Il suo
Alexandro Demophon era morto da dieci anni, così come
alcuni dei suoi protettori storici. Sier Batista, pur rimanendo
generoso e
leale nei suoi confronti, oramai s’era votato alla Signoria,
relegando ogni
altra donna in secondo piano, perfino sua moglie istessa. La Trivixan,
aveva
notato Hironimo, più che amante si stava gradualmente
trasformando in
confidente e amica, una piccola oasi di tranquillità dove
potersi rilassare,
gli amplessi sempre più saltuari e non perché il
sangue e le voglie del
Morexini si fossero raffreddate.
Hironimo
l’aveva capito benissimo, ecco perché aveva fatto
la sua
mossa, approfittandone della malinconia e confusione di Luzia: ella
aveva
chiuso col passato, servendo se stessa e non più gli uomini;
tuttavia, la
solitudine di non possedere un compagno che l’assicurasse col
suo amore,
l’aveva resa vulnerabile nella sua inquieta voglia di sentire
nuovamente la
passione viva d’un amante, la sua forza e il suo calore,
donandole l’ebbrezza
di prendere ed essere presa, regalatale generosamente in
un’altra vita da
Alexandro Demophon.
Lui e la
Trivixan erano simili, concluse il giovane patrizio,
condannati ad anelare ciò che non potevano ottenere
attraverso vie diritte e
alla luce del sole.
***
Guardati
dai ritorni di fiamma, dice il proverbio, ché
t’arrecano
soltanto dispiaceri.
Seguendo
il consiglio di Luzia Trivixan, Hironimo si era risolto a
visitare più spesso sua cugina madona Maria Morexini relicta
Querini, per
quanto lo ferisse profondamente nell’animo: stentava di
riconoscere nella
giovane donna sciupata e nerovestita la sua vivace e amorevole germana,
invecchiata precocemente dei suoi neanche venticinque anni. I suoi
occhi
nerissimi avevano perduto ogni guizzo vitale, fissando smorti davanti a
sé, un
simulacro vuoto e senz’anima.
Maria si
disinteressava di quanto le accadesse attorno,
chiudendosi a riccio su se stessa e bandendo ogni passatempo dei giorni
felici
assieme al marito; non leggeva, né suonava, né
ricamava, né deambulava
nell’odoroso giardino interno, preferendo languire nel buio
della propria
stanza da letto, Ca’ Querini ridotta ad un sepolcro. La
patrizia si rifiutava
perfino d’uscire di casa, neanche per recarsi a Messa,
preferendo chiamare in
casa un prete per confessarsi e comunicarsi. Madre cercava
d’aiutarla a trovare
conforto nella religione, condividendo con la nipote la sua esperienza
e a
codesto trattamento un poco la vedova Querini rispondeva,
più che altro
ricattata dalla salute del bimbo che cresceva nel suo grembo, la cui
morte
sarebbe stata imputabile alla sua noncuranza.
“Come
siete riuscita a sopravvivere? Come siete riuscita a vivere
senza il vostro cuore, senza l’altra metà della
vostra anima? Come?”
“Mi
sono detta che lui è sempre meco, ovunque io mi trovi. E che
veglierà su di me, ovunque egli si trovi.”
Madona
Morexina aveva saggiamente preso in casa i nipotini
Francesco, Crestina, Fantin, Piero, Agustin
e Nicolò Querini, terrorizzata
dall’idea che la figlia potesse, in uno scatto
d’imprevedibili nervi,
svegliarsi dall’abulica sua stasi e compiere qualche gesto
azzardato, avvertita
la nobildonna dagli altrettanti ansiosi e spaventati servitori, in
particolare
dalla fantesca personale della contessa, la quale sosteneva di non
riconoscere
più la sua padrona.
“Abbiate
pazienza, siora Mare. Non posso abbandonare questa
stanza, non subito, non finché potrò ancora
percepire l’odore di Zuanne sul suo
cuscino, sui suoi vestiti.”
Sua madre
non aveva potuto non assecondarla, ordinando tuttavia
alla servitù di riferirle verbatim ogni singolo movimento e
parola a Ca’
Querini, intanto che scriveva una pepata missiva alla consuocera madona
Juliana
Malipiero Querini, invitandola a salpare quanto prima da Stampalia.
“Partirsene
così, il giorno dopo il funerale di suo figlio,
abbandonando a se stessa sua nuora, i suoi nipoti e
quell’infelice che mai
conoscerà il volto di suo padre! Capisco sier
Nicolò, per via
dell’amministrazione dei loro feudi, ma quale scusa aveva
madona Juliana?”
“Cercate
di capirla: ha perso tutti e tre i figli in così poco
tempo, naturale sia sconvolta! In ogni modo, scrivetele pure:
è tempo che si
scuota dal lutto e che s’assuma le sue
responsabilità!”
In attesa
dunque della consuocera, madona Morexina e la figlia
Querina si dividevano in casa i nipotini, quest’ultimi ancora
troppo piccoli
per capire quanto stesse accadendo. Il solo che se ne rimaneva in
disparte e
non giocava né con la cuginetta Biancha Zustignan,
né con gli zii Donatella e
Francesco Morexini era il piccolo Francesco Querini, il primogenito del
defunto
sier Zuanne, che dall’alto dei suoi sette anni possedeva
più ingegno di quanto
non gli si desse credito.
Sollevata
dalla dolorosa presenza dei figlioletti e confortata
dalla compagnia di Marinella, la quale aveva sorpreso tutti offrendosi
volontaria di trasferirsi a casa di Maria e così di
rinunciare all’ultimo anno
d’istruzione al convento, la vedova Querini pareva dar segni
di miglioramento e
anzi, con la scusa di riparare, aveva prontamente assunto un maestro di
danza e
uno di latino per completare l’educazione della sorella
minore, partecipando
anch’ella alle lezioni per ingannare il tempo e distrarsi.
Dall’altra parte
però, in segreto, Maria aveva sviluppato un interesse
morboso per l’Aldilà,
mascherandolo dietro il pietoso culto dei morti, sicché sier
Batista, informato
da Marinella, andò su tutto le furie quando
scoprì come la figlia stesse
consultando negromanti levantini per farsi dire dove il marito si
trovasse
esattamente, se fosse possibile comunicare con lui. L’anziano
consigliere s’era
dovuto frapporsi tra le due sorelle, poiché
un’indignata Maria, giudicandosi
tradita da Marinella, s’era subito avventata contro di lei,
tirandole i capelli
e chiamandola juda scariota, sporca, fumia e ingiandolia, mentre la
povera fanciulla si difendeva in lacrime, descrivendo a lei e al padre
quanto
quei maghi e indovini l’avessero spaventata a morte, specie
l’ultimo che,
irrigidendosi tutto manco uno stoccafisso, aveva aperto la bocca e
senza
muoverla l’avevano udito parlare, sostenendo questi averlo
posseduto l’anima di
sier Zuanne.
“Piaghe
di Cristo!”, era
dunque
esploso sier Batista, abbracciando protettivo Marinella, che
singhiozzava
impaurita contro il suo petto. “Te lo dico io dove
si trova tuo marito:
morto e sepolto nella sua arca, sulla quale dovresti finalmente
deciderti ad
andarci a pregare, così da rinsavire e non impegolarti in
tali negozi da pagani!
Bone Jesu, vuoi farti scomunicare?!”
Hironimo
raramente aveva visto così arrabbiato il suo barba,
tuttavia condivideva in pieno la sua frustrazione e tristezza
nell’assistere al
lento decadimento fisico e morale dell’adorata figlia. Di
conseguenza,
assumendosi volontariamente il ruolo del cattivo, egli aveva rincarato
la dose,
rimproverando aspramente la cugina e spronandola a reagire, per amore
dei suoi
bambini, dell’eredità che Zuanne le aveva
lasciato. Doveva tutelarla mentre i
suoi piccini crescevano, per la legge mai disprezzabile dei
parenti-serpenti.
Braccata
da ogni lato e sbattutale in faccia la necessità di farsi
animo e di vivere, Maria si persuase a darsi una seconda
possibilità. Fece
arieggiare Ca’ Querini, cambiare le lenzuola e, pur vestita
in rigorosissimo
lutto, ad uscire per qualche timida sortita fuori casa, accompagnata
dai
genitori, le zie ed Hironimo. Poi, su iniziativa di
quest’ultimo, la vedova
Querini s’aprì all’idea
d’invitare anche qualche altro parente, specie i
più
giovani, della cui dinamica vitalità Maria necessitava
più della malinconica
saggezza dei vecchi. Su consiglio d’Hironimo, la contessa
approfittò del
Carlevar per invitare regolarmente le sorelle Querina e Marinella (con
cui si
riappacificò e domandò ed ottenne perdono); la
cognata madona Maria da Molin Morexini
moglie di Carlo; la sua nuova cugina madona Malipiera; la cugina di
quest’ultima,
madona Fontana; le cugine Catharina, Fiorenza, Cornelia, Biancha,
Lugrezia e
Violante Corner e la loro nuova cognata, madona Marina Morexini Corner.
“Ed
io che cavolo c’entro?”, arcuò
sospettoso il sopracciglio
Marco Contarini “dai Scrigni”, incrociando le
braccia al petto.
“Tutte
quelle femmine lì riunite m’inquietano, cor mio.
Ho bisogno
di maggior presenza maschile. Sier Daniel e gli altri sior maridi, con
la scusa
della politica, hanno codardamente disertato.”
“Pensavo
possedessi cugini in grand’abbondanza per supplire, senza
giungere a scomodarmi.”
“Anche
loro se la sono data, quelle puinette (ricottine, ndr.),
lasciandomi solo in balia di quelle spettegolanti sottane!”
Il
“dai Scrigni” assottigliò gli occhi, i
medesimi acuti ed
intelligenti di suo zio sier Hironimo Donado, studiando diffidente
l’amico
fraterno.
Hironimo
sospirò, sconfitto: quando Marco gli elargiva quello sguardo,
neppure utilizzando i buoi l’avrebbe schiodato dalla sua
opinione. Guardandosi
furtivamente attorno, il giovane Miani trasse in disparte il Contarini,
approfittando della confusione in calle per via del Carlevar.
“Mi devi guardare
le spalle”, gli rivelò sottovoce, ansioso.
“Eh?”
“Ti
ricordi di Marina Morexini?”
“La
siora tua Amia, la tua zermana o la mojer dil Corner?”
“La
terza. Ecco, quando lei studiava al convento, io mi recavo
spesso lì a trovarla.”
“Non
mi dire che …”
“Bestia!
Così poco mi stimi, da giudicarmi capace
d’infilarmi di
notte nel letto delle educande, in un convento?!”
“No,
no, per carità, non stavo affatto pensando male.”
Hironimo
lo squadrò scettico: eccome, se l’amico aveva
equivocato
maliziosamente, ci scommetteva il mignolo sinistro! In ogni modo,
proseguì
concitatamente: “Dietro la scusa di porger visita a mia
nipote Dionora, ho
avuto modo di riallacciare i rapporti con Marina, mia vicina di
contrada. E ti
assicuro, cor mio, che non ho mai avuto intenzioni disoneste su di lei:
mi
svagavo più che altro a stuzzicarla, divertito dalla sua
innocenza misto al suo
desiderio di giocare alla donna adulta. Si trattava tutto di un grande
scherzo!”
“Di
cattivo gusto”, obiettò severo Marco,
“perché lei ci credeva e
tu l’hai illusa. Anche se non puntavi a concupirla,
ugualmente lei hai promesso
menzogne, pigliandola crudelmente per i fondelli e per che cosa? Per
farti una
risata? Non è stato molto cavalleresco da parte
tua.”
“Avrei
in effetti dovuto scoraggiarla fin dall’inizio”,
convenne
il giovane Miani, non sottraendosi a quella sferzata di biasimo.
Invece, aveva
perduto il giudizio e risposto a quel brevissimo scambio
d’effusioni, nonché
utilizzato tal innocuo amoretto per colpire Jacomo Corner là
dove faceva più
male. “Adesso Marina frequenta la casa della mia zermana e
lei parrebbe
disponibile a …”
“Spero
che tu non la stia corrispondendo!”, spalancò
scandalizzato
la bocca Marco, non concependo il suo miglior amico, per quanto discolo
e
irrequieto, invischiato in turpi intrallazzi adulterini.
“Mi
pigli per scemo? Con mio fratello Lucha, poi, che conosce
mezza Quarantia Criminal e di cui pure è stato
parte?”, strillò indignato
Hironimo, nauseato all’idea di sottoporre la sua famiglia a
tale umiliazione,
anche perché Lucha lo avrebbe sottoposto lui stesso ai
tratti di corda, semmai
egli fosse comparso in tribunale, imputato con l’accusa
d’adulterio e
fornicazione. E dopo aver rifiutato ogni rapporto civile e
riconciliazione con
Carlo e Marco, gli risultava insopportabile la prospettiva di perdere
anche
Lucha, l’ultimo fratello rimastogli accanto. “Per
anni non le ho più rivolto
un’ombra di parola; allo sponsalicio l’ho ignorata
completamente … Ostrega d’on
ostrega! Tre volte - tre! - che
ci siamo incontrati a
casa della mia zermana, dove abbiamo conversato superficialmente di
tutto e di
niente, e invece sembra quasi che ci siamo congedati dal convento
l’alter dì!”
Marco
increspò le labbra, pensoso, analizzando e soppesando ogni
parola dell’amico, onde delineare la situazione e trovare una
soluzione. Si
sistemò una ciocca di capelli ramati dietro
l’orecchio, cacciando fuori un
grosso sospiro: per ficcarsi in situazioni assurde, il cor suo
possedeva invero
un’abilità preternaturale! “Se tu le
intimassi chiaro e tondo di badare a suo
marito, quella là, per ripicca, minimo ti rifila un tiro
alla moglie di
Putifarre e tu certo non sei un Giuseppe[3]”,
ragionò il Contarini ad alta
voce, soppesando i pro e i contro. “La tattica migliore
rimarrebbe fare il
morto: non guardarla, non parlarle, non rispondere alle sue lettere,
evitala
teatralmente e magari diserta qualche visita a casa della tua zermana.
Se
madona Marina non è stupida, capirà che sta
abbaiando all’albero sbagliato e si
stuferà!”
Il
giovane Miani s’appoggiò al muro, contemplando
scocciato la
sagoma di Ca’ Nani a San Trovaso, neanche le rimproverasse la
nascita di quella
piattola di Marina.
In
verità, non era stato completamente sincero con Marco, nel
senso che sì, non aveva mai concluso nulla di concreto con
la giovane donna;
tuttavia allo stesso tempo, accortosi dell’interesse mai
sopito di lei, il
malevole desiderio di vendicarsi di Jacomo Corner gli aveva sussurrato
tentatore all’orecchio, trovando terreno fertile per
progettare un’epica
punizione ai danni dell’arrogante patrizio e quale complice
migliore, se non la
cara mogliettina di lui infatuata?
Per notti
intere, davanti al caminetto, ridacchiando perversamente
Hironimo aveva sognato ad occhi aperti l’intero scenario,
traendovi un diletto
pressoché fisico: sedurre Marina, tenerla come amante (tanto
lei non avrebbe
cantato comunque, anche per non perdere eredità e dote),
rispedire ogni sera a
Jacomo la moglie ben riempita del suo seme, vederle il ventre crescere
d’un
figlio suo … e quel somaro l’avrebbe cresciuto,
tutto orgoglioso nella sua
ignoranza, designando come erede il frutto d’un amore
illecito, proveniente per
di più da una famiglia dal Corner tanto disprezzata
…
Di
conseguenza, verso Marina egli aveva adoperato ogni carineria a
lui conosciuta, sempre disponibile e cortese: al suo cenno, le suonava
al liuto
frivole e maliziose frottole; le sussurrava
all’orecchio poesiole
d’amore (imparate a memoria) e le disegnava su bigliettini
lusinghiere
allegorie da innamorati. Hironimo l’elargiva vivaci sorrisi
pieni di fossette e
conversava con lei galante e con tono di voce morbido e caldo; apriva
sempre le
danze con lei e davanti al caminetto le si sedeva accanto,
appoggiandole
“casualmente” il braccio attorno alla spalla,
mentre Marina leggeva, commossa,
di un qualche infelice amore letterario. O, acquistando dei fiori di
stoffa, il
patrizio glieli appuntava ai capelli o sulla spallina, accarezzando
allusivamente i petali e godendo del rossore di lei,
dell’alzarsi ed abbassarsi
inquieto del suo petto. Al momento di salire in gondola, egli indugiava
in
furtive carezze sulla manina della nobildonna e si passava le dita
sulla
labbra, conscio di come madona Corner lo stesse osservando rapita. Le recitava con teatrale trasporto gli “Asolani” del magnifico messer (e si vociferava futuro domino) Piero Bembo di sier Bernardo, anche se l’avevano fin dalla loro pubblicazione annoiato a morte, reputandoli un ammasso di luoghi comuni da minestra riscaldata. L’unico forse con cui Hironimo andava d’accordo era Perottino, l’amante infelice, più che altro perché le femmine sempre gli avevano puntualmente portato null’altro che un gran mal di stomaco, grazie ai loro capricci e false modestie. A nulla valevano le argomentazioni di Gismondo, l’amante ricambiato, su come dovesse difendere Amore dalle “false calunnie” di Perottino. Quello stronzetto alato meritava ogni spennatura, altroché. E aveva buon gioco, sier Piero, a far dire a Gismondo come l’essere si identificasse in amore e fosse in vita in quanto amore, poiché senza d’esso non esisterebbero né l’uno né l’altra. Tanto, pensava un poco invidiosetto Hironimo, al Bembo nessuna donna, zitella o matrona, gli aveva negato il suo affetto, il Miani era praticamente cresciuto ascoltando i suoi parenti spettegolare degli amori di sier Piero, da Maria Savorgnan alla medesima duchessa di Ferrara, Lucrezia Borgia d’Este. Quindi, fortunato e appagato in ogni sua avventura, ovvio che il Bembo concepisse amore come forza cosmica, unificante, presente in ogni uomo, la fonte stessa della civiltà; invece, per Hironimo amore era divenuto un sentimento divisorio, bestiale, ingordo, ch’abbassava l’uomo alle azioni più indegne pur di soddisfarlo.
In ogni modo, mentre così la dilettava, Hironimo leggeva negli occhi di madona Corner
la fiamma dell’antica passione,
rinfocolata
dalla legna dei sottili e indiretti incoraggiamenti
del giovane Miani, il quale li
ammantava d’accorta ambiguità per friggerla ben
bene nell’olio del desiderio e
per farli passare inosservati, innocenti agli sguardi di terzi. Ormai
Marina
era una donna a tutti gli effetti: scavalcato lo scoglio ingombrante
della
verginità, ella adesso sapeva cosa aspettarsi da un uomo
sotto le coperte e il
patrizio gongolava nel sapere Jacomo talmente incapace, da neppure
soddisfare
appropriatamente sua moglie, se questa era disposta ad aprire le gambe
al suo
primo amoretto adolescenziale, frutto perlopiù di una
fantasia d’educanda
sessualmente frustrata.
Hironimo
si scoprì dunque a desiderare ardentemente Marina e non
per la dolcezza umida della sua femminilità o per
affinità di carattere e
pensiero, bensì per immaginarsi sul suo volto quello del
Corner, quando gli
avrebbe fottuto la bella sposina.
Ah! Lui e
tutti gli altri stronzi avrebbero ben presto pagato per
le loro cialtronerie, per gli anni di crudeli sfottò, per
aver appellato
insensibili Hironimo “figlio del suicida”,
“mammoletta”, “femminuccia”,
“patiens”, etc.! Incauti, l’avevano
creduto una sorta di cappone, un
inoffensivo eunuco cui affidare le loro donne. Oh, sì! Per
meglio agire
indisturbato e godersele tutte, alla facciaccia loro, li avrebbe
cornificati
dal primo all’ultimo e sì ripetutamente, che
neanche sarebbero riusciti ad
entrare per il portone di casa senza grattarle!
“Becchi
fottuti, vi meritate ogni corno!”, aveva gridato euforico
ad un certo punto al fuoco, vuotando il bicchiere, l’ultimo
di una lunga e
indefinita serie.
“Momolo,
che diamine stai facendo?”, gli giunse alle spalle la
voce impastata di suo fratello Lucha, sceso in camicia da notte e
scalzo a
controllare da dove provenisse tutta quella caciara. “Non
dormi?”, sbadigliò,
stropicciandosi stanco gli occhi arrossati. “Dai, che solo i
ladri e gli
adulteri a quest’ora rimangono svegli!”,
scherzò il maggiore, sollevando per il
braccio un impietrito Hironimo, la battuta cascatagli addosso
più dolorosa di
un secchio d’acqua gelida.
Momolo,
che diamine stai facendo?
Siccome
Marco Contarini era un amore – anzi, l’unico vero
amore
della sua vita e gli avrebbe scolpito un monumento per ringraziarlo
– egli
aveva accettato, soltanto per quell’occasione,
d’accompagnare Hironimo a Ca’
Querini e come previsto dal Miani, madona Marina non osò
avvicinarlo,
intimidita dalla presenza di quell’estraneo, il quale, in
aggiunta, suscitò
nelle giovani matrone e zitelle un civettuolo interesse, contente
d’ammirare un
po’ di carne fresca, mentre un sospiro di sollievo usciva dai
petti dei
fratelli minori di Maria, commossi di poter parlare con un altro
maschio fuori
dalla cerchia famigliare.
Il
vociante gruppetto si chetò all’improvviso alla
vista di
un’anziana donna, dalla pelle rugosa ed olivastra, vestita di
larghe e vaporose
sottane e d’uno scialle dai colori sgargianti, ricoperta di
bracciali e collane
d’oro al collo, ai polsi, alle orecchie e caviglie, perfino
sul naso. Una
gitana, forse, proveniente dal Levante se non addirittura
dall’India,
viaggiando raminga per la terra, il cielo l’unica sua dimora
fissa.
“Mariuccia,
avevi promesso!”, l’apostrofò aspramente
Hironimo,
afferrando la cugina per il braccio e pizzicandoglielo leggermente a
mo’ di rimprovero.
Sciogliendosi
piccata dalla presa, la vedova Querini sbottò
snervata: “Rilassati, non si tratta di alcunché di
disdicevole; l’ho chiamata
soltanto per leggerci il futuro! Gli astrologi lo fanno, che male
c’è? Non sei
curioso?”, lo sfidò beffarda. Ed esibendo un
sorrisone di circostanza: “Mo’
via, non restatevene lì impalati: che temete? Che lei vi
mangi?”, scherzò
allegra, sedendosi lei per prima onde dare l’esempio al resto
della piccola
comitiva.
“Pensi
che voglia sapere se sopravvivrà al parto?”,
domandò
sottovoce Marco ad Hironimo, nel frattanto che gli ospiti si
sistemavano
attorno alla gitana, la quale s’inginocchiava misteriosa e
ieratica davanti a
loro, leggendo a ciascuno il palmo della mano e sussurrando, come in
trance, il
sibillino responso, suscitando esclamazioni ora divertite, ora stupite,
ora
ansiose. Perfino Marinella, ancora scossa dall’esperienza col
negromante, aveva
ascoltato rapita la profezia dell’anziana donna, di come il
suo nome avrebbe
influito sul destino del suo primogenito. [4]
“Spero
soltanto che le profetizzi come ritornerà sana di
mente”,
scosse il capo il giovane Miani, esasperato dalla melodrammatica
cocciutaggine
di Maria. Se suo padre sier Batista avesse appreso di quel nuovo
passatempo,
magia bianca, nera o verde, avrebbe scudisciato personalmente la
figlia,
aborrendo tali pratiche più per superstizione che per fede
cristiana,
sentimento condiviso anche dal cognato, il fu sier Anzolo Miani. Il
quale, Hironimo
ben se lo ricordava, soleva ripetere mentre sfregava l’indice
rinsecchito di
una mummia, acquistato al Cairo: “Chi
è vivo, sta coi vivi. Chi è
morto, sta con Dio. Chi è morto e sta coi vivi, non
è un’anima defunta bensì un
demone venuto a dar tormento. Similmente, chi afferma di poter predire
il
futuro o è un ciarlatano o posseduto da un demone
ingannatore, perché Dio solo
conosce a quale destino ci ha designati. Fino a prova contraria, omo
morto no
fa guerra. Ricordatelo sempre, Momolo.”
“O
forse”, proseguì malizioso Hironimo, “le
rivelerà come, fra un
paio d’anni, si ritroverà sposata di nuovo e
più innamorata che mai!” e alla
battuta i due patrizi si coprirono la bocca, sganasciandosi di grasse
risate.
Quand’ecco,
che la gitana si piazzò davanti al Contarini, il quale
trasalì dalla sorpresa e un pelino intimorito, specie quando
la donna, senza
tante cerimonie, gli afferrò il polso e disegnò
col dito colorato di rosso ogni
linea del suo palmo.
“Nati
diversi, morirete uguali; tu ombra, l’altro luce; attraverso
il tuo anonimato lo renderai famoso e questi ti renderà
immortale.”
Marco la
fissò inebetito, manco gli avesse tartagliato di fronte
uno dei suoi balbettanti ed incoerenti nipotini. “Ma che
diamine …?”, si voltò
disorientato verso Hironimo, che fece spallucce, confuso quanto lui.
“Insomma,
caro el mio Marcolin”, lo consolò però
subito dopo
l’amico, appoggiandogli beffardo la mano sulla spalla,
“sei destinato a
rimanere l’eterno secondo dietro al tuo sior barba
Hironimo!”, e se la rise,
pure quando il Contarini, stizzito, gli schiaffeggiò il
braccio. “Dai, baba,
tocca a me”, le presentò arrogante il palmo,
pregustando la sciarada che gli
avrebbe rifilato, tipica di quegli imbroglioni levantini,
acciocché il grullo
di turno s’impressionasse senza capire al contempo un
accidente.
Il suo
sorriso gli morì sulle labbra, quando il viso da tartaruga
della gitana impallidì, stupito e al contempo commosso,
mentre i grandi occhi
neri all’orientale si velavano di lacrime. “Tu, che
hai l’anima di Lazzaro,
supererai chiunque dei tuoi pari a Venezia e fuori d’essa.
Nulla di vivo dei
re, degli imperatori, del Papa a loro sopravvivrà, ma il tuo
operato viaggerà
nel tempo e lo sconfiggerà e il tuo nome sarà
conosciuto fino agli ultimi
angoli della Terra e tutti lo ameranno, tale è la sua
grandezza” e gli baciò la
mano, imprigionandogliela quando Hironimo, imbarazzato, aveva tentato
di
sottrarla da quelle dita ossute. “E sarà
l’amore di una donna a salvarti”,
terminò la vecchia, baciandogli di nuovo il palmo.
“Aspetta!
Cosa vuol …?”, esigette il Miani un chiarimento,
il
cuore in subbuglio e lusingato dall’incoraggiante profezia,
la quale coincideva
perfettamente con le sue ambizioni, sennonché la gitana lo
ignorò, intenta a
scrutare il destino di Marina, il naso aquilino a qualche spanna dalla
mano
offertole.
“Sei
desiderata, ma non amata; l’odio lega chi ti vuole, ma
sarà
la pietà mascherata da crudeltà a preservare la
tua pudicizia”, proferì la
gitana, aggiungendo poi: “Due bimbi da un unico nome e
spirito, uno verrà dopo
che l’altro se ne andrà.”
Avvertendo
una montante sensazione di claustrofobia, il giovane
Miani s’alzò in fretta e si ritirò in
giardino, inspirando a pieni polmoni la
fredda aria invernale.
“Hironimo?”
L’interpellato
in questione sobbalzò dalla panchina, scattando in
piedi e indietreggiando di riflesso di fronte al nuovo arrivato.
Accidenti,
quanto tempo s’era trattenuto lì? A giudicare
dalle lunghe ombre, parecchio
tempo …
Marina
Morexini Corner si stagliava in controluce, avvolta da un
alone arancione che la rendeva un’apparizione
pressoché sovrannaturale,
sinistra, la luce vespertina riflettente sul vaporoso abito di seta
rossa e la
cuffia di broccato, la collana di perle e quella d’oro due
tizzoni ardenti al
collo, così come i bottoni d’oro della vesta. I
medesimi occhi rassomigliavano
alla brace nei caminetti, immobili eppure vivi di scintille.
Hironimo
esaminò velocemente la situazione, realizzando di
trovarsi proprio nell’opposto contesto prefissatosi.
Maledizione! Dov’era
finito Marco? Come aveva fatto quella furbastra a seminarlo?
“E’
tardi, ormai. Ritorno a casa”, gli annunciò
Marina, annuendo
incoraggiante col capo.
“Va
bene. S-ciavo, patrona”, giocò al gnorri il Miani,
cogliendo
al volo l’allusione e si schiaffeggiò mentalmente
per la sua smemoratezza.
Infatti,
non comprendendo il motivo per il quale il patrizio non
rispondesse al loro linguaggio in codice, la nobildonna
ripeté, confusa:
“Ritorno a casa.”
“D’accordo”,
fu altrettanto testardo Hironimo. “S-ciavo,
patrona.”
“Vado
a Ca’ Nani, non m’accompagnate?”,
tentò ella un approccio
allora più diretto.
Momolo,
che diamine stai facendo?
Lo
scombussolamento interiore aveva fatto dimenticare al patrizio,
che quando Marina gli avrebbe chiesto d’accompagnarla alla
casa materna, quello
sarebbe stato il segnale convenuto che gli garantiva libero accesso al
suo
letto, poiché sua madre madona Pellegrina Nani relicta
Morexini dormiva alla grossa
e pesantemente, coricandosi in aggiunta assai presto. La serva
personale di
Marina avrebbe poi vigilato accorta davanti alla porta e nessuno
avrebbe
sospettato di niente. Jacomo Corner non aveva inquisito eccessivamente
sul
perché la moglie avesse insistito tanto di dormire a
Ca’ Nani, credendola
semplicemente attaccatissima alla genitrice. Era il piano perfetto.
Momolo,
che diamine stai facendo?
“Marina
…”, s’inumidì Hironimo le
labbra d’un tratto divenute
secche, scandagliando le varie opzioni per meglio intavolare quella
spinosissima conversazione. “Marina, forse è
meglio se rincasate da sola
stasera.”
“Oh”,
schioccò delusa la giovane donna la lingua, imporporandosi
lievemente le guance. “Avete … avete da fare? Sta
bene, un’altra volta …”,
mormorò, tormentando a disagio la lucente stoffa rossa della
gonna.
“No,
Marina. Dovrete rincasare sempre da sola e non a Ca’ Nani
bensì a Ca’ Corner”, tagliò
corto il patrizio, il cui gelido tono di definitiva
chiusura istigò un feroce sussulto in Marina, che si
portò di riflesso una mano
al collo, stringendo la collana di perle.
“Ma
… ma voi … ma noi …”,
balbettò scombussolata, il colore
svanitole dalle guance per poi riaffiorare e stavolta d’ira e
vergogna per
quell’improvviso voltafaccia. “Pensavo che
m’amaste!”, lo accusò infine, il
viso distorto in una maschera d’angoscia e stizza ed Hironimo
rivisse quella
sgradevole sensazione di déjà vu, ai tempi del
convento, quando la Morexini e
lui amoreggiavano a parole e bigliettini, colpevolizzandolo lei di non
provare
alcun sentimento onde ricattarlo con comodo, ogni suo desiderio
esaudito.
All’epoca, però, stavano giocando e inoltre
c’era una pesante grata di ferro a
separarli; adesso, invece, soltanto l’anellino
d’oro all’anulare di Marina, che
senza una granitica volontà da parte di ambedue non poteva
di certo fermarli.
“Pensavo
che aveste finalmente capito … io … io vi ho
aspettato
dopo quel giorno, vi ho atteso per anni nella speranza che voi mi
chiedeste in
moglie, che mi rapiste durante il banchetto nuziale … Dio mi
perdoni! … Perché
mi avete fatto credere d’amarmi ancora, se non è
così?”, singhiozzò Marina,
coprendosi disperata il volto tra le mani, artigliando i capelli dalla
cuffietta, spettinandosi. “V’amo e mi sono
fidata!”
Momolo,
che diamine stai facendo?
E
va bene, giochiamo al cattivo.
“Svegliatevi,
Marina! Svegliatevi! Sono i finiti i tempi dei
giochi, delle dame e dei cavalieri, svegliatevi e benvenuta nella
realtà!”,
ingoiò Hironimo ogni minuscola parte di pietà in
lui, sopprimendola dietro una
maschera d’inflessibile cinismo. Chiunque in famiglia lo
considerava un
egoista, un violento litigioso approfittatore, benissimo, poteva
recitare quel
ruolo, se significava districare lui e Marina da una situazione
destinata a
finire per ambedue nella pubblica vergogna. Non gl’importava
della virtù,
quella non esisteva e se esisteva l’aveva da tempo perduta.
Ci teneva invece ad
evitare l’infamia ch’avrebbe gettato su
Ca’ Miani, una prospettiva che non
valeva neanche mille vendette contro Jacomo Corner. Padre aveva
faticato e sofferto
per restaurare il loro nome, compromesso da Nonno e Bisnonno, ed
Hironimo non
avrebbe vanificato stoltamente i suoi sforzi. Ben venissero i vizi,
purché
rimanessero privati e segreti. E i Corner, così ricchi ed
influenti, erano
figure più pubbliche di una meretrice.
“Volevate
che vi sposassi? E come?”, la sbeffeggiò Hironimo,
avanzando minaccioso verso di lei. “Voi eravate una ricca
ereditiera, figlia
unica di un’antica famiglia apostolica, bisnipote del Doxe
Agustin Barbarigo,
ed io? Ultimogenito di una famiglia di Ca’ Nove, il figlio
del suicida, senza
alcun incarico né posizione, credevate davvero che vostra
madre avrebbe
accettato il nostro matrimonio? I soldi sposano i soldi!”,
ringhiò a denti
stretti, costringendo la giovane donna ad indietreggiare, spaventata da
quell’atteggiamento subitaneamente aggressivo, a lei nuovo e
sconosciuto.
“Se
avessimo giaciuto insieme, vostra madre m’avrebbe accusato di
stupro e fatto condannare alle Orbe o all’esilio, magari
perfino a morte se si
fosse messa a piangere abbastanza forte dinanzi alla Quarantia! Se ci
fossimo
sposati in segreto, c’avrebbe atteso analogo destino
più il dettaglio che vostra
madre avrebbe richiesto al tribunale del Patriarca
l’annullamento delle nozze.
Pur di preservare voi ed il vostro brillante futuro, vostra madre
avrebbe
trascinato me e la mia famiglia nella rovina!”, le
rivelò inclemente, aspirando
feroce l’aria. Dopodiché, calmatosi un poco,
s’allontanò da Marina,
acquattatasi nel frattanto contro il muro del giardinetto.
“Inoltre”,
infierì Hironimo, soppesando bene le parole e
scegliendo le più insolenti, “perché
mai avrebbe dovuto interessarmi una
sciocca ragazzina, viziata e infarcita di sogni e di chimere, al di
là dei suoi
danari e di una mona stretta e vergine da rompere?”
“Io
v’ho amato tanto”, mormorò frastornata
la giovane patrizia, le
gote rigate di lacrime e il labbro inferiore che le tremava
violentemente.
“Ed
io no”, l’infilzò senza misericordia
Hironimo, il viso più
duro del marmo. “Non v’ho mai amato, né
allora né adesso. Eravate un divertente
intermezzo per spezzare la monotonia, ecco tutto” e
sogghignò cinico. “E
naturalmente non potevo non sentirmi assai lusingato, nel vedermi da
voi
preferito rispetto a vostro marito. L’ho sempre saputo, che
il Corner non fosse
altro che un pene-moscio, se neppure a due anni dalle nozze la sua
sposina già
si premura di cornificarlo per bene!”
“Quel
giorno però … io v’ho visto, eravate
davvero preso!”, gli
mostrò i denti Marina, incapace di rassegnarsi alla perdita
di quel dolce
idillio amoroso, che l’aveva consolata dalla solitudine
immensa della sua
adolescenza, trattata costantemente alla stregua d’un
prezioso gioiello,
sì, ma da rinchiudere in cassaforte.
“Non potete mentirmi, voi avete
risposto alla mia passione con altrettanta passione!”, gli
ricordò malevola. “Potete
mentirmi a parole, ma la vostra faccia affermava la verità:
vi è piaciuto, mi
desideravate e m’avreste posseduta, se non ci fosse stata
quella grata a
separarci!”
Hironimo
s’esibì in una risata crudele, tormentandola.
“Donca?”,
la canzonò falsamente pietoso. “Sul serio pensate
che ad uomo basti l’amore,
per rispondere al richiamo di una femmina in calore?”,
scivolò appositamente
nel triviale, onde imbarazzare le raffinate orecchie della gentildonna,
che di
fatti trasalì vereconda. “Eravate un gran bel toco
de mona, ingenua e disponibile
e sì, m’avete eccitato, lo ammetto”,
mormorò sornione, asciugandole una lacrima
col dorso dell’indice e stavolta, al posto
d’assecondare languida il movimento,
Marina si ritrasse disgustata da quel tocco, neanche
l’avessero ustionato la guancia.
“Ma credetemi se vi confido, che come avrei fottuto il vostro
buco, avrei
fottuto tranquillamente quello di una qualsiasi puttana di campo e
manco mi
sarei accorto della differenza!”
Un sonoro
ceffone, tutto palmo ed unghie, gli martoriò la guancia.
E per la regola di porgere l’altra, puntualmente ne
arrivò un secondo.
“Miserabile! Viscida serpe! Porco schifoso!”, lo
insultò furibonda la giovane
donna, colpendolo al viso, al petto, all’addome, Hironimo che
si difendeva
svogliatamente, alzando di tanto in tanto il braccio per deviare gli
strali
dell’umiliata ed offesa nobildonna. “Meritereste
mille forche, mille tenaglie!
Hanno ragione su di voi: siete una carogna, una troia, un senzadio, un
barbaro,
un giannizzero, una creatura del diavolo! V’auguro di morire
in battaglia, di
soffrire peggio d’un cane!”, lo tempestava di
pugni, alternandoli ai
singhiozzi. “Spero che i franco-imperiali
v’impicchino, vi squartino, vi sbudellino,
vi cavino gli occhi, che vi brucino vivo ed ogni tortura che vi
meritate!” e in
un ultimo sconquassante singulto, Marina lo spintonò via,
per poi accasciarsi
sfinita sulla panchina. “Vorrei non avervi mai incontrato!
Vorrei che quel
giorno avessero trovato voi impiccato e non il vostro sior Pare! Vorrei
… che non
foste mai nato!”
Bene,
Hironimo aveva ottenuto esattamente ciò che voleva: tanto
lei l’aveva amato intensamente, tanto ora lo odiava
d’altrettanta passione.
Forse i suoi amici e compagni non avevano torto, quando affermavano
quanto
fosse nato sfortunato. Era vero. Nessun suo desiderio né
progetto s’era mai
avverato, per quanto egli lottasse tenacemente. Anch’egli,
per un brevissimo
istante lungo un sogno, s’era illuso di poter sposare Marina
e di creare una
famiglia con lei, medesimo errore ch’aveva poi ripetuto con
la sua domina e
amante.
Per
questo Hironimo non temeva d’esporsi in prima fila al fuoco
nemico; in fin dei conti, non aveva nessuno da cui ritornare a casa,
non aveva
niente da perdere, perché la sua vita era stata un unico,
grande niente. Eh sì,
Ca’ Miani avrebbe subito una perdita minore, se fosse morto
lui al posto di
Padre, che decisamente non era una barzelletta vivente come il figlio.
Se la
sua esistenza doveva riassumersi in una serie infinita di fallimenti e
speranze
infrante, forse sarebbe stato meglio non essere mai nato o morire in
fasce come
la piccola Emilia, quella sua sorellina volata in Cielo felice e ignara
della
penosa esistenza destinatale in terra.
“Tornate
da vostro marito”, le suggerì atono Hironimo,
scostando
il volto in direzione opposta onde celarle le sue, di lacrime.
“Corner sarà uno
smargiasso arrogante, però vi vuole bene. Siategli tenera e
fedele,
rallegratelo di bei fantolini e godetevi quella poca
felicità concessaci in
questa vita.”
Adesso
Marina piangeva e si disperava, giustamente; in seguito
avrebbe dimenticato il suo amore per lui, le sue illusioni, la
vergogna, la
delusione e l’umiliazione del rifiuto. Ciascuno di questo
sentimento le sarebbe
scivolato via di dosso, poiché tutto passa, tutto scorre e
finisce
nell’indifferenza dell’oblio.
“Bestia!
Me la ripaghi tu, quella camicia?”
Ad
Hironimo era sfuggita la dinamica esatta, mediante la quale dal
giardino interno di Ca’ Querini s’era trasferito
sul morbido letto di Luzia
Trivixan, così come la sua insolita irruenza e mancanza di
autocontrollo nei
confronti di una donna.
La voglia
disperata di conforto fisico e al contempo di un tramite
per sfogare la rabbia montante l’aveva condotto in uno stato
pressoché
sonnambolico dalla cantante, irrompendo in casa sua e gettandosi su di
lei alla
stregua d’un assetato nel deserto. L’aveva
pizzicata in camicia, pronta per il
suo rilassante bagno tardo-pomeridiano, e gliel’aveva
strappata di dosso, sotto
lo sguardo terrorizzato delle fantesche. “Aspettatemi
fuori, ho tutto
sotto controllo.” Invero la
donna a quell’impetuoso slancio
s’era adattata in fretta, flessibile e versatile, rispondendo
misura per
misura, in un misto d’abbracci vigorosi e di lotta libera,
graffiandolo e
mordendolo a sangue quanto lui la stringeva fin quasi a spaccarle le
ossa,
possedendola senza finezza alcuna.
Luzia gli
assecondò i movimenti a scatti, collerici, prepotenti
finché, approfittando di un attimo di distrazione,
cambiò ella il ritmo,
costringendo il patrizio seduto e sistemandosi meglio sulle sue cosce,
l’ampio
petto di lui contro la schiena delicata di lei. La donna gli
ghermì il braccio
sanguinante di strisce rosse e pulsanti e se lo passò alla
vita, intrecciando
le dita, per poi iniziare a muovere sinuosa i fianchi, stringendo e
allentando
i muscoli, portando lo scontro alla pari e allo spasimo
l’amante: voleva la
guerra? Avrebbe trovato il suo degno avversario! Famelico fu il bacio
che Luzia
rubò ad Hironimo: afferratogli una pingue ciocca di capelli,
lo costrinse in
una dolorosa torsione a piegarsi in avanti su di lei, in un battagliero
cozzare
di denti e lingue. Il patrizio si ribellò, stringendole
vendicativamente il
capezzolo sinistro e lei allora di rimando gli morse il lobo
dell’orecchio, lui
la spalla e lei gli piantò le unghie nel fianco.
I due
duellanti seguitarono a scontrarsi come onde furiose l’uno
contro l’altro per un tempo indefinito di tempo, nessuno
propenso a cedere in
quella furiosa lotta camuffata d’amplesso. Si guardavano
dritti negli occhi, le
pupille dilatate in selvaggia frenesia, sfidandosi a vicenda in un
silente
dialogo fatto di rabbia, disperazione, rammarico, lussuria, tenerezza,
d’insulti e carezze.
Quand’ecco
che, inaspettatamente, Hironimo socchiuse le palpebre e
la baciò profondamente, languido e placido, senza urgenza
né violenza. Da
dietro la schiena e sulle braccia, Luzia avvertì i nervosi
spasimi nei muscoli
del giovane, i medesimi di uno stallone imbizzarrito finalmente
calmatosi e
docile al suo cavaliere. All’aggressività di lui,
ella aveva replicato con
altrettanta aggressività; simile trattamento gli avrebbe
riservato ora che il
patrizio era passato ad una focosa dolcezza, massaggiando e coccolando
amoroso
la sua compagna.
“Uffa,
era davvero la mia preferita”, bofonchiò Luzia,
esaminando
la camiciola mezza stracciata. Fece spallucce.
“Vorrà dire che la utilizzerò per
spolverare i mobili.”
“Te
ne comprerò una nuova, te lo prometto”, si
puntellò sui gomiti
Hironimo, riprendendosi gradualmente dalle vertigini della petite mort.
“Ci
puoi scommettere le tue mutande, che a proposito dove le hai
gettate?”, sdrammatizzò la donna, alludendo ai
vestiti sparsi alla rinfusa sul
pavimento, sui cassoni e sulle careghe. Offrendogli la mano, la
Trivixan aiutò
il giovane a scendere dai sei materassi, conducendolo verso una bassa tinozza,
pregandolo d’entrare. “Uhm, per fortuna
è ancora bella calda … Anche se te la
meriteresti gelida per raffreddare quei tuoi bollenti spiriti, razza di
giannizzero …”
Intinta
la spugna in una seconda bacinella d’acqua calda e sapone,
Luzia la strizzò e in movimenti lenti e circolari la
passò sulla pelle sudata
di Hironimo, nettandola e profumandola, per poi risciacquare con la
brocca e
ripetere l’operazione. Iniziò con le braccia,
cospargendo di piccoli baci
picchiettati sulle ferite, placando gli impercettibili sobbalzi non
appena
l’acqua insaponata o la spugna veniva a contatto con la
tenera carne aperta.
Afferratogli una caviglia, se l’appoggiò sulla
coscia e prese a sfregargli lo
stinco e il ginocchio, fino a risalire all’interno coscia,
invitando il
patrizio a flettere la gamba e a schiuderla un poco. La donna si
sciolse in un
basso risolino alla vista d’Hironimo levare al soffitto gli
occhi, le orecchie
rosse quando la spugna gli inumidì, tamponando, le parti
intime.
“Se
ti vedessero coloro che ti davano della femminuccia”,
commentò
maliziosetta Luzia, disegnandovi sopra una rapida e serpentina S con la
punta
della lingua, fingendo poi un morso all’aria, provocando sia
un nervosa risata
nel giovane sia un inconscio balzo all’indietro.
“Sul
serio non vuoi che ti ripulisca? Non m’incomoda
affatto”,
s’offrì cavallerescamente Hironimo, la voce mezza
ovattata dal panno in cui la
cantante l’aveva avvolto, istruendolo poi di sedersi sullo
sgabello accanto al
caminetto. Aveva azzardato a darle del “tu” e gli
suonava alieno alla lingua,
non avvezzo a quell’intimità di registro neppure
con la sua antica e un tempo
adorata amante, la sua domina. Né mai aveva dato del
“tu” a Marina Morexini
Corner. Soltanto a Lena, ma per motivi di superiorità
sociale che d’affetto.
“Un’altra
volta”, declinò ambigua la Trivixan, aprendo la
porta e
battendo le mani chiamò le sue fantesche, rimaste fuori
pronte ai cenni della
padrona. In silenzio e ignorando completamente il patrizio, due di loro
disfarono e cambiarono veloci le lenzuola, mentre una terza portava
sulla testa
una nuova brocca d’acqua e una ciotola di fiori di lavanda
secca.
“Gnese”,
fece Luzia cenno ad una di quelle ch’aveva terminato di
preparare il letto. “Porta a missiere una camicia pulita da
notte e un
caffettano di velluto - quello indaco per favore.
Dopodiché vai dal
cuoco e riferiscigli di preparare una cena leggera per stasera, ma
domani
mattina vorrei al contrario una colazione abbandonate: missiere
cenerà e
dormirà meco. Infine, chiudi col catenaccio, ché
per oggi non m’aspetto né
accetto ulteriori visite.”
“A
ve servo, patrona”, s’inchinò la
massera, attivandosi subito a
compiere le istruzioni datele, portando seco anche la sua collega
rimasta
inattiva.
“Polina,
piglia quei tre miei profumi nuovi”, ordinò Luzia
alla terza
e all’ultima serva, dopo che questa aveva finito di cambiare
l’acqua e di
raccogliere gli abiti sparpagliati per terra. La ragazza
s’inchinò obbediente e
si diresse verso il mobiletto della toeletta, armeggiando abile coi
fragilissimi flaconi.
La
cantante s’insaponò per bene, massaggiandosi il
corpo in
sinuosi ancheggi e piegamenti, non lasciando nulla
all’immaginazione.
Lentamente si versò addosso la brocca, sospirando a voce
alta la soddisfazione
del caldo abbraccio dell’acqua, la quale scese rapida dalla
spalla lungo la
schiena, insinuandosi tra le fossette di Venere fino al sedere e da
lì
diramandosi in rivoletti sulle gambe e ricoprendola come di una seconda
pelle,
il corpo ancora sodo e formoso modellato da quella liquida
carezza. Pur di spalle, ella percepiva lo sguardo
insistente
d’Hironimo su di sé, il fruscio inquieto del panno
e, dallo scricchiolio dello
sgabello, del continuo suo accavallamento di gambe, cambiando
irrequieto
posizione.
Sorridendo
tra sé e sé vittoriosa, Luzia si voltò
verso Hironimo.
“Mi devo asciugare”, gli annunciò
solenne, allungando il braccio in direzione
del panno attorno alle spalle del patrizio, il quale
s’alzò e, all’ultimo,
avvolse entrambi, issandola fuori dalla tinozza.
L’accomodò sulle sue
ginocchia, seduti sullo sgabello pieghevole e riscaldandosi accanto
allo
scoppiettante fuoco nel caminetto.
Polina
s’avvicinò in punta dei piedi alla coppia, recando
seco su
di un vassoio delle piccole e pasciute ampolle di vetro di Murano dai
diversi
colori e forme.
“Dunque”,
esordì Luzia, cingendo il collo d’Hironimo con un
braccio e con una mano afferrando un’ampolla trasparente e
dalla polvere d’oro,
sulla quale s’avvinghiava un fragile roseto di vetro, i
petali vermigli e verdi
i gambi, le foglie, perfino il minuscolo dettaglio delle spine. La
cantante
levò il cappuccio finemente decorato e sfilò il
sottile tubo di vetro,
portandolo sotto le nari del patrizio, tacito invito ad annusare.
“Questa
fragranza è una miscela di rosa e lavanda con un pizzico di
gelsomino. Che ne
dici? Molto tradizionale eppure raffinato ed avvolgente.”
La
Trivixan chiuse e appoggiò il profumo. Selezionò
una seconda
boccetta, più alta e snella, rossa fuoco dalle spesse
spirali dorate e un
pampino d’uva in vetro fungeva da tappo. “Fiori
d’arancio, sandalo e mughetto …
ultimamente questo va piuttosto di moda …” e
infine gli propose l’ultimo
flacone, più basso e panciuto, blu scuro avvolto da una rete
di costellazioni
dorate e il tappo un sole e una luna fusi in un volto solo.
“Oppure un qualcosa
di più stimolante e intenso?”, aprì la
fiala, sprigionando un forte odore di
zenzero e legno di cedro.
Dopo
settimane trascorse al fronte, qualsiasi profumo sarebbe
risultato gradito ad Hironimo, purché gli scacciasse dal
naso il tanfo di
polvere da sparo, di sangue, di carne putrefatta o bruciata, di fango,
di fumo,
di sudore vecchio, di vomito e feci, odori nauseabondi che non riusciva
a
scacciare via neppure a distanza d’anni, neppure annusando
per ore e ore i
sacchetti di fiori secchi di lavanda provenienti da Spalato, come se
gli si
fossero insinuati nella pelle, nel cervello, nelle vene.
“Mi
piace lo zenzero … e il cedro”, sottrasse il
giovane uomo la
boccetta dalle mani della cantante. Levò dalla punta del
tubetto di vetro
l’eccesso di profumo, disegnando piccoli cerchi sul polso
sinistro e poi destro
di Luzia. Ripeté tale azione sul collo, in seguito dietro le
orecchie,
ammirando la cascata fiammeggiante di capelli rossi cozzare contro il
biancore
del panno. “Mi ricorda il mare irrequieto, le agili galee che
spezzano le sue
onde schiumose. I porti lontani di Tripoli, Beirut, di Acri, Tiro e
Sidone …
Carovane attraversanti deserti infuocati, le antiche rovine di Palmira
e di
Petra, sotto lo sguardo centenario dei tre colossi di Bamiyan
…”, [5] scorse la
punta del naso dal gomito di lei lungo la morbida spalla, inalando a
pieni
polmoni la fragranza pungente della spezia, ricercando sotto quello
più caldo e
avvolgente del legno di cedro. Dove annusava, poi accarezzava in lenti
baci
aperti, confondendosi quegli umidi schiocchi alla legna sul
fuoco. “Viaggiare lontano, via da
Veniexia, dall’Italia, dalla
guerra … l’universo la mia terra, la mia
volontà per legge … libero, libero
dalle catene …”
“Quali
catene?”
“Ogni
catena.”
Luzia
sollevò il panno, coprendo le spalle del patrizio, la cui
testa s’era accoccolata sul suo petto in pensosa
contemplazione delle ragnatele
d’acqua sulle finestre, create, distrutte e rimodellate
dall’acquazzone
scatenatosi qualche ora addietro.
“Va
bene così, Polina. Puoi ritirarti”,
congedò ella la sua
fantesca, la quale ripose i profumi nel mobiletto e scivolò
discreta fuori
dalla stanza. “Permettimi allora di portarti
lontano”, si scostò la Trivixan,
in modo da sedersi a cavalcioni su Hironimo. Strinse le caviglie alla
base
della schiena di lui e da lì partì, scorrendo le
unghie sui muscoli tesi e
guizzanti verso l’alto fino a raggiungergli le spalle. Coi
polpastrelli Luzia
percorse e massaggiò ogni curva del viso del giovane,
soffiando appena sulla
pelle ancora umida. “Anche se per qualche istante
…”, gli circondò lo zigomo
con la mano e congiunse le labbra alle sue, tirando delicatamente
quello
inferiore, “… permettimi di farti dimenticare
ciò che ti affligge …”,
mormorò
tra i piccoli morsetti lungo la gola, la giugulare fino al centro del
petto.
Ritornarono a baciarsi, lungamente e pigliandosi tutto il tempo del
mondo,
intrecciati in un tremulo groviglio di carne e tessuto.
L’odore
dello zenzero e del legno di cedro avviluppò
l’intera
camera, provocando una lieve ma gradita vertigine in Hironimo. Non era
stato
totalmente sincero quando aveva detto a Luzia, quanto gradisse alla
follia
quella spezia. Alla fine, avrebbe apprezzato un qualsiasi profumo, che
non
appartenesse a quelli già a lui noti.
Fiori
d’arancio … la sua previa amante, la sua domina,
sceglieva
sempre quella soave fragranza, quasi a sberleffo di quel matrimonio
tanto
desiderato e che avrebbe sì avuto luogo, ma non con lui
… Lavanda … Lena gli
sistemava dei sacchetti sotto il cuscino, per contrastare il tanfo di
polvere
da sparo e di fumo, tuttavia Hironimo sapeva quanto alla contadina
piacesse
sfregare quei fiori secchi tra le mani, le medesime che lo stringevano
la
notte, nelle lunghe ore dell’attesa … Mughetto
… sua cugina Maria si cospargeva
d’esso, evocando dolci immagini di fresca primavera
… Gelsomino … la pelle di
Marina e le sue lacrime sapevano d’esso … Rosa
… Madre eguagliava quel piccolo
roseto che cresceva nel pingue vaso su in altana, lei stessa una rosa
di
maggio, un profumo intenso e inebriante che Padre si divertiva ad
applicarle ai
polsi, sul collo e dietro le orecchie … e di rose di ogni
sfumatura profumava
sempre l’altare della Vergine, nella piccola cappella votiva
…
“Questo
pomeriggio …”, si risolse infine Hironimo a
confessare a
Luzia il suo cruccio interiore, che l’aveva portato ad
assediarle la casa. Un
improvviso lampo riempì di bianco la sala, scomparendo
furtivo per cedere il
passo al fragoroso tuono. Un piccolo tavolo ovale di pino, coperto da una
finissima
tovaglia, era stato posizionato accanto al caminetto, preferendo la
coppia
cenare nella coccola intimità della camera da letto. D’altronde i commensali
stessi vestivano molto informale, ambedue già in camicia da
notte e con indosso
soltanto un largo e comodo caffettano. Ogni tanto la tortorella ricordava, sbattendo stizzita le ali, la sua presenza nella gabbia argentata, mentre la luce arancio del fuoco, ravvivato, avvolgeva i drappi bergamaschi e bresciani, infondeva viva alle figure degli arazzi e donava brillantezza agli intricati intarsi dei cassoni dorati e degli scrigni. Una cornice di rara dolcezza, se Hironimo non fosse stato impestato di fiele. “Questo pomeriggio ho
spezzato il cuore
ad una donna.”
Staccando
col piron la polpa dalla conchiglia della cappasanta e
tociandola nel suo sughetto, la cantante arcuò il
sopracciglio, cedendo la
forchetta al giovane. “Soltanto ad una?”, lo
stuzzicò, riempiendogli il
bicchiere di vin bianco. Seduta in fondo alla stanza, Polina
strimpellava un
allegro motivetto al liuto, accompagnato da una canzoncina da convito.
Gnese
ondeggiava nell’aria il bruciaincensi di bronzo, prima
d’appoggiarlo, un po’
per scacciar via l’odore di pesce e un po’ per
scacciar via la malinconia.
“Mi
sono comportato esattamente come lei”,
sputò bile
il patrizio, addentando veemente la polpa e masticando in rapidi
bocconi.
Luzia, silente, gli sottrasse la forchetta e gli preparò
un’altra cappasanta.
“Prima m’ha nutrito d’illusioni e dopo me
le ha calpestate senza alcuna
pietà!”, si sfogò per la prima volta ad
alta voce. Accortosi improvvisamente
del soggetto di quel monologo e di chi lo stesse ascoltando, Hironimo
arrossì
imbarazzato. “La perdonança, io … non
è molto educato parlare di altre amanti
davanti … ecco …”
Mentre
una terza fantesca appoggiava il vassoio d’argento ricolmo
di mazzancolle e Gnese toglieva quello pieno di cappesante vuote, la
Trivixan
roteò il piron quasi sotto al naso del giovane, in giocoso
ammonimento. “E di
che ti dovresti scusare? Non immagini quante confidenze io abbia dovuto
ascoltare, quante infinite ed insulse lagne da parte dei miei
protettori ,
clienti ed amici sulle loro mogli e, ovviamente, sulle loro altre
amanti e
cortigiane. Ergo, ho le spalle larghe, io!”,
dichiarò allegra, sfilando la
polpa carnosa dei crostacei dalla loro corazza in poche precise mosse.
“Inoltre, credi che non me ne fossi all’epoca
accorta? Avevi gli occhi
brillanti d’amore e non per me”,
cinguettò, ponendo la codina di mazzancolla
sulle labbra del giovane, invitando a schiuderle.
“Nondimeno,
ho mancato ugualmente di tatto”, ribatté testardo
Hironimo, addentando un pezzo del crostaceo.
“Donca,
debbo a questa donna del mistero il tuo imprevisto arrivo?
La tua sfrenata irruenza?”, inquisì enfatica la
cantante, nettando col pollice
l’angolo della bocca del patrizio e suggendoselo birbante.
“Immaginavi lei
mentre ci congiungevamo? Oppure quest’altra infelice, cui hai
spezzato il
cuore?”, lo pungolò scherzosa, reclinando
all’indietro il capo ed infilandosi
in bocca una mazzancolla, dall’inizio fino alla fine della
codina in un unico
goloso boccone.
Il
giovane Miani aprì la bocca, per poi chiuderla,
mordicchiandosi
incerto il labbro inferiore. Alla fine si risolse di sorseggiare un
poco di
vino, sorridendo vezzoso a Luzia. “A dire il vero, ero
totalmente affascinato
dalle tue chiappotte alte e pastose!”, le rispose per le
rime, pigliando una
lunga sorsata senza ingoiarla. Si sporse in avanti per baciare la
donna,
schiudendole le labbra e spillandole dentro il vino,
dopodiché s’assaporarono a
vicenda il gusto fruttato sulle lingue.
“Oh,
sfacciato!”, lo rimproverò giocosa la Trivixan a
bacio
terminato, fustigandolo col fazzoletto. “Stai certo, che ti
farò pentire
stanotte!”, gli promise sensualmente minacciosa, infilando il
piedino tra le
pieghe del caffettano, in mezzo alle gambe del patrizio.
La
verità era che, dopo aver crudelmente rifiutato Marina,
Hironimo s’era sentito talmente soffocare da quel suo
atteggiamento da verme
infame, d’annaspare in disperata ricerca di un palliativo che
scacciasse
quell’orrida sensazione di viscido marciume, che simili alle
piaghe gli
incancrenivano l’animo, percependole quasi fisicamente
addosso. In quei
nauseabondi istanti aveva desiderato purgarsi di quel malessere e
ritrovare la
calma, nonché di bearsi del lenitivo contatto di pelle
contro pelle, scacciando
il calore di un abbraccio quella gelida morsa di vergogna di rimorso.
Dopo
essersi sentito sbattere in faccia per l’ennesima volta la
sua inutilità al
mondo, esigeva una qualsiasi prova tangibile ch’era voluto,
apprezzato e magari
a qualcuno necessario.
Luzia gli
prestava gentilmente ascolto, però anche quello
apparteneva ad un obbligo del suo previo mestiere: chissà
fino a che punto lei
l’ascoltasse sul serio o fingesse, fin dove
l’avrebbe capito senza giudicarlo
uno sciocco frignone.
Né
Hironimo le avrebbe potuto confessare, quella notte, che cosa
egli avesse sognato da costringerlo a svegliarsi di soprassalto,
urlando, la
mano corsa al collo. Ogni notte, dall’inizio della guerra, lo
perseguitava quel
medesimo angosciante incubo, nel quale, al posto di Padre,
l’impiccato era lui
e scendeva, scendeva, scendeva in basso, sotto il pavimento di Rialto,
sotto le
fondamenta, sottacqua, sotto il fondale e le viscere stesse della terra
…
Zefiro
spira e il bel tempo rimena,
Amor promette gaudio agli animali …
Hironimo
si svegliò non senza qualche difficoltà, la testa
pesante
e riempita di cotone eppure non aveva bevuto un granché la
sera precedente.
Ciononostante, la luce livida del mattino gli feriva gli occhi e i
capelli
sulla nuca gli s’erano rizzati, come per avvertirlo di una
situazione
d’imminente pericolo. Si guardò cauto attorno, non
riconoscendo dapprincipio l’ambiente
circostante, sovvenendosi grazie all’odore di zenzero ancora
nell’aria dei
come, quando e perché fosse finito a rotolare sul materasso
assieme a Luzia
Trivixan.
Si
scoprì non essere molto orgoglioso di se stesso.
A fatica
il giovane scese dal letto, liquidando in fretta le
abluzioni mattutine e relegando al barbiere la sua toeletta;
trovò i vestiti
ben piegati e pronti per l’uso, che subito
indossò, dirigendosi in seguito
verso la sala principale, attirato dal
profumo invitante della colazione.
…
Ognun vive contento, io me lamento
Ch’amor m’ha fatto albergo di tormento.
“Oh,
bondì a vossioria! Hai fatto la grassa mattinata, eh?
Almanco
ti sei divertito ieri sera?”
Hironimo
gelò sul posto, l’intera colonna vertebrale
percossa da
un unico gigantesco tremito. Gli si seccò
la saliva in gola e dalla
bocca uscì un mezzo verso di saluto; tuttavia non si
sottrasse all’incontro,
avanzò invece lentamente verso il tavolo al centro, laddove
sedeva Luzia
intenta a suonare e cantare una frottola del Tromboncino, mentre sier
Batista
Morexini suo zio sorseggiava imperturbabile una bevanda al limone e
zenzero.
“Siediti
e mangia: non farai mica come gli inglesi, che lasciano
raffreddare fino all’immangiabile il cibo prima di riempirsi
il piatto?”, gli
intimò spiccio l’uomo, addentando una frittella.
Suo
nipote prese meccanicamente posto sulla carega davanti a lui,
sedendosi in uno sgraziato tonfo e seguitando a contemplare il
“da Lisbona”
come ipnotizzato. Il giovane Miani tentò nuovamente di
comunicargli almeno che
non aveva fame, lo stomaco chiuso in una morsa dolorosa, ma ancora una
volta la
sua gola non produsse alcun suono, neanche avesse la lingua appiccicata
al
palato.
L’intero
scenario appariva totalmente assurdo e grottesco: il suo
barba lì quasi stravaccato dinanzi a sé, intento
a colazionare come se nulla
fosse, di tanto in tanto scambiando qualche parolina con la cantante,
anch’ella
serafica e imperscrutabile. Non lo ignoravano, però si
comportavano come se
tutto ciò fosse normale, condividere la medesima tavola
assieme all’amante
della donna con cui, la sera precedente, Hironimo aveva giaciuto
più volte.
“Come
facevate a sapere che mi trovavo qui?”, vinse infine il
giovane patrizio l’iniziale stordimento, ponendo
all’avunculus quella giusta
domanda, fonte di quell’inaspettata giravolta
d’eventi.
Al che
cadde la maschera d’atmosfera in apparenza rilassata e lo
sguardo del Morexini divenne improvvisamente gelido e sferzante,
sebbene il suo
sorriso rimanesse amabile e disinvolto. “Luzietta, dolcezza
mia, potreste per
cortesia lasciarci soli un attimo?”, fu il velato ordine
dietro quella cortese
domanda.
Coltolo
al volo, la Trivixan annuì e appoggiò
delicatamente il
liuto sulla gamba del tavolo. Al cenno di sier Batista ella lo
raggiunse:
l’uomo le baciò la mano, poi la guancia ed infine
la bocca, sempre fissando di
sbieco il nipote, che non abbassò mai il suo, ingoiando
silente il lampante
messaggio ossia che, giovane o non giovane, amato o meno amato, in
famiglia
l’alfa rimaneva lo zio, sotto la cui autorità, gli
piacesse o meno, Hironimo
doveva sottostare.
“Andateci
piano con lui”, sussurrò all’orecchio la
cantante
all’anziano patrizio, schioccandogli un secondo bacio. Il
Morexini bofonchiò di
rimando qualcosa d’inintelligibile, congedandola tramite un
terzo bacio. “Vi
prego di ritirarvi, patrona”, l’incalzò
teneramente, sottraendo dispettoso
dalla treccia una lunga ciocca rossa.
“Restate
servido, mio signor”, obbedì affettata la
donna.
E girandosi verso Hironimo: “Patron”,
s’inchinò e in un frusciante sgonnellare,
Luzia scivolò fuori dalla sala, chiudendo la porta dietro di
sé e un incomodo
silenzio s’impose tra i due uomini, i quali gareggiavano a
chi avrebbe
abbassato per primo gli occhi.
“Sappi
che mi hai deluso profondamente”, ruppe gli indugi sier
Batista, intrecciando le dita sul tavolo, svanita in lui ogni aria
sorniona o
sarcastica per sostituirsi ad una di duro e inappellabile pragmatismo,
la
medesima che indossava in Consiglio e in Collegio. Hironimo
capì non trovarsi
dinanzi a suo zio, bensì ad un giudice e un senatore della
Serenissima
Signoria.
“Sior
Barba, se si tratta della Luzietta …”
“La
tua povera siora Mare”, lo interruppe di malagrazia il
Morexini, mostrandogli ferino i denti, “è venuta
in lacrime a casa mia,
raccontandomi come ti abbia atteso per tutta la notte, in piedi,
insonne,
domandandosi dove tu fossi finito, che fine avessi fatto! Ti rendi
conto,
cancaro desgrassià, quale agitazione, quale immeritato
dispiacere le hai
arrecato? Come se mia sorella non avesse pianto abbastanza in vita sua,
ti ci
dovevi mettere di mezzo anche tu?!”, batté il
pugno sul tavolo, rovesciando
qualche bicchiere e facendo tintinnare piatti e posate.
“Perché ti sovverrai,
spero, di chi fu
l’ultimo che non rincasò più a
Ca’ Miani? O
debbo rinfrescarti la memoria, testa da bigoli, sul modo in
cui questi ritornò
dalla siora tua Mare?!”, ringhiò il “da
Lisbona” ed Hironimo strinse la bocca,
colpevole, memore delle tragiche circostanze della morte di Padre e
dell’ansia
che aveva provocato in Madre, ogniqualvolta i suoi figlioli uscivano la
sera e
rientravano nel cuore della notte, incapace la donna
d’addormentarsi fintanto
che non li sapeva al sicuro nei loro letti. Questo mentre ancora
vivevano a
Venezia, poi al fronte ...
Le guance
gli bruciarono dalla vergogna al pensiero di come avesse
egoisticamente pensato unicamente a se stesso, senza penarsi di mandare
qualcuno ad avvertire Madre, almeno per rifilarle una panzana che si
fermava a
cena da un amico o da Maria, la quale certamente gli avrebbe retto il
gioco.
Tanto s’era crogiolato nelle sue sofferenze, da non
accorgersi di come ne
stesse provocando a terzi.
“Ti
paiono cose da fare? Uh? Con la guerra in corso; con tuo
fratello Lucha storpiato d’un braccio; con te che non rivolgi
più la parola a Carlo
e Marco? La vuoi uccidere, quella povera donna di tua Mare? Non hai un
minimo
di rispetto ed empatia verso il tuo prossimo? E soprattutto verso la
siora tua
Mare, cui devi la medesima devozione che riservi alla Virgo Maria Mater
Dei?
Sempre che tu ne abbia, poi, bruciacristi pagano che non sei
altro!”
“Sior
Barba … io … ieri pomeriggio
…”, farfugliò Hironimo un
tentativo di spiegazione, perlomeno sul motivo per il quale non aveva
mandato
ad avvertire Madre, tanto l’aveva sconvolto da non ragionare
più lucidamente.
“Taci!
Chi t’ha dato il permesso di parlare?”, lo
zittì in un
secco gesto sier Batista. E puntandogli contro l’indice:
“Come se non bastasse,
hai messo in imbarazzo anche i Contarini “dai
Scrigni”, ché quando la tua siora
Mare si recò a San Trovaxo a domandare al Marcolin dei tuoi
vagabondaggi,
quegli per poco non si sentiva male, avendoti fermamente creduto
rincasato ed
in letto da che mo’! Quanto amore per una carogna ingrata
come te! E
sopraffatto dai sensi di colpa, quel povero ragazzo
- di gran lunga
più sensibile e responsabile di te! – non ha mai
lasciato sola per un istante
la tua siora Mare, accompagnandola ovunque e confortandola! Pensava
quell’infelice essere colpa sua, perché non
t’aveva sufficientemente tenuto
sott’occhio! Ma tu dimmi se a quasi venticinque anni, ti si
deve ancora far da
balia, porco … porco juda scariota maladet’elo et
quei cancari d’i soi
parenti!”, sbraitò furioso l’uomo,
stringendo convulsamente i pugni. “Se ti
abbiamo permesso d’arruolarti nei cavalleggeri, era con la
speranza che
t’inculcassero un po’ di disciplina, non che ti
trasformassero definitivamente
in un turco mammalucco!”
Hironimo
era abituato da anni ad ingerire insulti e rimproveri da
chicchessia, amici, parenti e serpenti, sicché neanche la
paternale del “da
Lisbona” l’avrebbe in teoria scosso, se questi non
avesse giocato subdolamente
la carta di Madre, scuotendolo così nel più
intimo, ognora vulnerabile quando
si tirava in ballo la genitrice e saperla ferita e tormentata per
l’ennesima
sua vigliaccata, equivalse al Miani ad una pugnalata al cuore. Quanto
al resto,
suo zio aveva ragione: per l’ennesima volta aveva dimostrato
una cecità
mostruosa, badando unicamente alle sue magagne e coinvolgendo chi non
se lo
meritava nei suoi casini, confermando le comuni dicerie sul suo
caratteraccio
ed indisciplina e sputtanando di conseguenza l’operato dei
suoi genitori, i
quali s’erano prodigati con ogni mezzo di fornirgli
un’educazione da cristiano.
La
piacevole serata trascorsa assieme a Luzia non era stata altro
se non un effimero palliativo, sufficiente per esorcizzare per qualche
oretta i
sensi di colpa e scacciare la realtà fuori dalla porta del
suo cervello. Ma,
similmente alla sbornia, il giorno dopo tutto ritornava e si pagava
cogli
interessi, poiché in nome della distrazione, di sicuro
qualche altro male s’era
nel frattanto combinato.
“Chi
vi ha detto ch’ero qui?”, mormorò
Hironimo, strappandosi via
nervosamente le cuticole da sotto il tavolo.
Sier
Batista grugnì malevolo, scoccandogli
un’occhiataccia di
sufficienza. “Appartengo al Consiglio dei Dieci, furbastro.
Sarei davvero un
pessimo membro, se non sapessi neppure ciò
ch’accade sotto il mio stesso tetto,
noi che abbiamo l’incarico di sapere cosa succede in ogni
angolo della
Signoria”, e finita di sorseggiare la bevanda, si
nettò gli angoli della bocca.
“Inoltre”,
proseguì egli, piegando accuratamente il fazzoletto,
“la mia Luzietta a suo modo s’è sempre
dimostrata leale e continua ad esserlo.
Anche in questo mi hai deluso, nezzo mio: tra voi due colombelle in
amore,
speravo che fossi tu quello a pigliar coraggio e a chiedermi da uomo a
uomo di
frequentare la Luzietta e non viceversa, com’è
invece accaduto. Sì”, reiterò il
Morexini, dinanzi all’espressione sconvolta del nipote,
“lei non mi ha mai
tenuto nascosto alcunché: pacta sunt
servanda, nezzo mio, con
Luzietta avevamo stilato un preciso accordo e lei ha diligentemente
adempiuto
ad ogni suo dovere. Adesso che siamo amanti
“informali” e il contratto è stato
rescisso, Luzietta, per rispetto, ugualmente continua a chiedermi il
permesso.
Se non è vera devozione, questa!”
Ironico
come le persone tra le più vituperate si fossero, invece,
rivelate tra le più
oneste. “L’avete detto, sior
Barba: lei non è
più vostra per contratto, può fare ciò
che più le aggrada”, non si trattenne
Hironimo dallo sfidare ugualmente sier Batista, ricordandogli che,
stando così
le cose, la sua parte di colpa rimaneva, certo, ma assai
ridimensionata. Sì,
avrebbe forse dovuto discuterne almeno con Luzia, per capire come
funzionasse
la faccenda esattamente tra lei e suo zio, invece d’imporsi
prepotentemente,
manco un cervo in calore. Su quel punto aveva senz’ombra di
dubbio sbagliato.
“Perché
non ti sei mai fatto avanti con me?”, volle invece sapere
il Morexini, scrutandolo attentissimo. “Suvvia, non insultare
la mia
intelligenza. Credevi sul serio, che prima o poi non me
n’accorgessi? Non sei
il primo né sarai l’ultimo ad aver desiderato la
donna altrui. Chiunque a
Veniexia, almeno una volta nella vita, o s’è
dovuto nascondere sotto il letto o
scappare fuori dalla finestra, per evitare di farsi beccare dal terzo
incomodo”, e in questa pratica sier Batista in
gioventù aveva posseduto abilità
al limite dell’acrobatico. “Tra criminali
ci si riconosce , ti
ricordi? Se m’è bastata una sola occhiata per
capire come Marchetto avesse
la ganza – lui ch’è molto più
scaltro e dissimulatore di te – figurati quanto
poco ci ho messo per pigliare te in
castagna!”
Incrociando
le braccia al petto, il giovane Miani replicò altero:
“Avete sbagliato carriera, sior Barba: intuitivo ed
infallibile come siete,
avreste dovuto farvi frate domenicano e inquisitore!”
“Non
mi provocare, putelo, ché ancora
non m’è del
tutto passata la voglia di sottoporti alla strappata!”,
replicò acido il “da
Lisbona”, non accennando ad un benché minimo
sorriso, ergo il prurito
d’appioppare qualche ceffone al nipote discolo gli era
rimasto eccome. “Da
ragazzo, questo te l’abbono, perlomeno avevi la buona creanza
di rispettare le
regole e di stare al tuo posto: ti giuro, mi hai positivamente
impressionato
vedendoti lottare contro la tentazione, ammirandoti per la tua forza di
volontà. Ora, al contrario … guarda: non so se
arrabbiarmi con te o compatirti
… Insomma, Momolo,
cos’è cambiato? Temevi forse che ti rifiutassi la
Luzia? E perché mai avrei dovuto? Anzi, ti avrei saputo in
buone mani, piuttosto
che nel letto di una qualche bagascia poco raccomandabile.”
Oggettivamente,
Hironimo non riusciva più a formulare un pensiero
coerente, la situazione completamente sfuggitagli di mano. Aveva
creduto aver
compreso l’animo della cantante e invece lei gli si era
concessa anche per via
di una crisi di mezz’età (da lui correttamente
azzeccata) ma soprattutto perché
aveva ottenuto la benedizione del suo amante. Il quale era sempre stato
al
corrente della verità, mettendolo sornionamente alla prova e
lui, il buffone di
casa, lo aveva magari divertito nel processo.
Ma
vaffanculo.
“Luzia,
sior Barba, era la mantenuta vostra e dei vostri amici. Io
ero l’estraneo e se non avessi fatto torto a voi, lo avrei
arrecato ai vostri
amici. Non vi volevo né biasimato né
ridicolizzato per la mia sgradita
intromissione”, gli spiegò infine il giovane
Miani, optando per la sincerità in
quella situazione assai confusa e ambigua. “Adesso che Luzia
è la vostra amante
e basta … tutt’ora vi appartiene, è voi
che lei sotto-sotto anela, anche se lo
nega apertamente. Avete visto come poc’anzi v’ha
obbedito?”, ammise il giovane
a malincuore, realizzando l’amara verità.
“In me lei vede soltanto un
sostituto, una versione più giovane di vossioria.
Poiché oramai la considerate
sempre di meno un’amante, Luzietta per sentirsi ancora utile
e desiderata ha
scelto me ed io l’ho scelta, perché se lei ha
accettato, concedetemelo, un
tanghero donnaiolo come voi, può ben sopportare uno come
me” e sfogatosi ben
bene Hironimo sospirò, pizzicandosi la radice del naso e
avvertendo una grossa
spossatezza.
Uno dei
benefici acquisiti dalla carriera politica, oltre al
prestigio sociale, era stata la pazienza d’ascoltare un
discorso fino alla fine
e di non scaldarsi mai, qualsiasi fosse stato il contenuto. Anche se
l’aveva
rimproverato a guisa di scolaretto e l’aveva sminuito
attraverso appellativi
infantili, sier Batista aveva udito in concentrato e rispettoso
silenzio le
giustificazioni del nipote, il quale sarà pur stato un
pirata saraceno, ma
quando si decideva a vuotare il sacco era disarmante nella sua
sincerità. In
aggiunta, possedeva i medesimi tic di Anzolo quando
quest’ultimo gli confidava
i suoi schietti pensieri, per quanto ostici e cupi essi fossero.
“Luzia
è la mia amante, sicuro, e neppure l’unica
s’è per quello,
sebbene io le sia molto affezionato”, dichiarò il
Morexini, addolcendo il tono
e servendosi di un bicchiere d’acqua. “Confiteor:
tra tutte è stata la mia
preferita, per questo ho redatto quel contratto in comune coi miei
amici, per
tenercela più stretta e sfruttare la sua ben nutrita rete di
conoscenze. Una
mano lava l’altra. Ti sorprenderà
l’ammontare d’informazioni, che le cortigiane
riescono a carpire e, non a caso, noi Dieci le consultiamo spesso, a
titolo
d’informatrici.”
“Ecco
perché vi siete raffreddato nei suoi confronti: quando
venite da lei è per discutere degli affari della Signoria,
non per …”, concluse
Hironimo, capendo infine come mai, per non compromettersi, ambedue
avevano
dovuto mantenere un certo distacco. E rabbrividì dinanzi al
freddo cinismo
dell’avunculus, lui che tanto appariva amorevole e caloroso,
ma che al comando
della Signoria non esitava a mettere da parte o a sfruttare
l’antica amante.
“Malgrado fosse la vostra preferita, malgrado
l’abbiate vincolata in un
contratto … non vi è mai importato saperla in
letto con qualcun altro, dopo che
aveva finito con voi? Anche adesso, non vi dà fastidio che
io …?”
“No”,
fu la lapidaria risposta del Morexini. “Perché
Luzietta
è una donna,
non la donna. Soltanto su di una
non transigo e si tratta della tua siora Amia, mia mojer. Lei
è mia e di nessun
altro. Il resto delle pollastrelle? Facciano quel che li pare, la cosa
mi è
totalmente indifferente. Se loro mi cornificano per dispetto, io lo
faccio
perché m’annoiano e così siamo alla
pari e amici come prima. La moglie è la
moglie e le altre un piacevole passatempo, senza impegni e senza
futuro. Detto
ciò”, terminò l’anziano
patrizio, passando al nipote il cesto ricolmo di
frittelle, “ora finisci di colazionare ed
assicurati d’inventarti una
scusa convincente per la tua siora Mare.”
“Non
siete mai stato geloso?”, non riusciva a capacitarsi Hironimo
di tanta flemma. O menefreghismo.
“Contrariamente
a te”, spezzò a metà sier Batista una
frittella,
“io non ho mai avuto problemi a condividere i miei giocattoli
tra fratelli e
amici.”
“Dunque
la Luzietta corrisponde a questo per voi? Ad un
giocattolo?”
“Tu
ti sei comportato forse meglio?”, gli inflisse lo zio il
colpo
di grazia e al giovane patrizio non rimase altra opzione, se non
incassare
docilmente e in silenzio. Per motivi diversi eppure uguali, tutti e due
avevano
sfruttato i favori offerti da Luzia Trivixan, nessuno cercandola per
amore
sincero.
“Ascoltami
bene, nezzo mio, perché non amo ripetermi”,
aggiunse
l’ultima chiosa sier Batista, riassumendo in parte la sua
previa
perentorietà. “Io sono sempre
stato di manica larga con
tutti, molto più liberale di certa gente
che sembra uscita da un
monastero ortodosso di frati eunuchi, flagellanti eremiti e stilobati.
Ma su di
una cosa non accetto compromessi: la fiducia. Mai più
- capito?
- mai più ti devi azzardare ad
agire alle mie spalle!”, ribadì
egli intransigente il concetto, picchiettando sul tavolo a ciascuna
parola. “Ti ho mai negato qualcosa? Ti ho
mai maltrattato? La
risposta è: mai, sior Barba.
Ergo, niente giustifica quel tuo
giocare al nascondino con me, visto che mai ti ho dato un valido motivo
per
temermi!”
Di nuovo
il Morexini aveva ragione: in molti si sarebbero leccati
le dita ad avere dei parenti così generosi e tolleranti. Al
posto di farne
tesoro, Hironimo s’era comportato da ingordo, pretendendo
sempre di più,
insaziabile. Realizzò che se da una parte mirava ad emulare
Padre, dall’altra
gli piaceva la vita gaudente dello zio, due figure però alla
fine troppo
inconciliabili tra di loro, destinante a fare a pugni.
“Non
tutti, sior Barba, ragionano come voi!”
“Da
uno a dieci, sai quanto me ne cale? Io sono me stesso e tu
oramai dovresti conoscermi assai bene!”
Appoggiando
i gomiti sul tavolo e nascondendosi sfinito il viso tra
le mani, il giovane Miani borbottò sincero: “Mi
dispiace, sior Barba. Avrei
dovuto dimostrarvi maggior rispetto e riconoscenza.”
“Fai
bene a dispiacerti, però non cambia ciò
ch’hai fatto”, s’alzò
in piedi l’anziano patrizio, sgranchendosi una gamba
intorpidita. “Non ti
chiederò d’indossare cilici o il digiuno di mona
per penitenza; mi basta che tu
mi sia leale e di fidarci a vicenda. In questi tempi tremendi di
guerra, pregni
del male italico di pugnalarsi alla schiena, l’unica nostra
speranza è rimanere
uniti e quisquiglie quali rivendicare il possesso di una donna,
lasciamole ai
perdigiorno. An, Luzietta!”, cambiò sier Batista
repentinamente tono, alla
timida comparsa della cantante, venuta a controllare che i due uomini
non si
fossero scannati l’un l’altro.
“Avverto
il vostro pope, che state per scendere?”
“Dopo,
mia cara, prima finiamo la colazione. Sedetevi piuttosto,
fateci compagnia”, la invitò il Morexini e Luzia
prese posto proprio in mezzo a
zio e nipote. Notando l’irrigidimento d’Hironimo,
che non sapeva dove guardare,
e un certo disagio anche nella donna, il “da
Lisbona” esclamò: “Non vi
preoccupate, Luzietta: il mio nezzo adesso sguazza nella confusione
dell’imbarazzo.
Ma imparerà a purgarsi d’inutili gelosie, per
focalizzarle dove invece
meritano.”
Perché
Hironimo si sorprendeva di quella loro noncuranza? Perché
provava una fitta di dispetto nel cuore? Sapeva chi fosse la Trivixan,
del suo
passato, dei suoi amanti, clienti e protettori. E allora
cos’era quella
sgradevole sensazione di soffocamento?
Forse
perché, per l’ennesima volta, gli era stato
sbattuto in
faccia, quanto lui non avrebbe mai primeggiato in alcunché?
Eppure
… supererai chiunque dei tuoi pari a
Venezia e
fuori d’essa. Il subitaneo ricordo della profezia
della gitana rincuorò il
giovane patrizio, il quale piegò la bocca in un sorriso
quasi sulfureo,
massacrando la povera frittella fino a ridurla in patetiche briciole
sul
piatto.
Adesso
pativa umiliazione dopo umiliazione, l’eterno secondo,
sottomesso e impotente dinanzi ai suoi maggiori. Ma poi, oh! Sarebbe
infine
giunta l’ora del riscatto ed egli avrebbe con la sua
brillantezza oscurato
tutti. La gitana, le stelle, il Fato gliel’avevano promesso:
un grande avvenire
l’attendeva, destinandolo a grandiose imprese ed egli
finalmente non sarebbe
mai più stato il solito Momolo da sbeffeggiare o compatire.
Esatto,
esatto, segui il tuo istinto e vedrai come t’eleverai
rispetto agli altri! Non dipenderai né risponderai mai
più a chicchessia;
finiti i giorni della cieca obbedienza! La tua volontà
sarà l’unica tua legge,
libero, libero di seguire il tuo glorioso destino, senza
imposizioni! -
gli sussurrò all’orecchie quella strana e
familiare vocina – Hanno
paura di te, del tuo potenziale, per questo ti frenano,
t’ostacolano! Sono loro
gli invidiosi e presto, oh sì, avrai tu la tua personale
Luzietta, rango,
danari, finalmente chi ti disprezzava imparerà a temerti.
Non sarebbe bello,
vederli adoranti ai tuoi piedi?
“Perché
sei ancora in tempo, sai?”
Completamente
paralizzato sul pavimento di quella mefitica cella
dell’Abbazia, incerto se stesse sognando o meno, Hironimo
tentò d’urlare
e di divincolarsi dalla presa di quel …
quell’essere dalla faccia
vagamente umana, sebbene sfigurato da zanne e i bulbi oculari
completamente
neri. Ma i suoi denti rimanevano caparbiamente serrati tra di loro e
nessun
muscolo gli obbediva, mentre la creatura, aggrappandosi alle sue
caviglie,
s’issava dalla nuda terra e s’arrampicava su di
lui, famelica e trionfante.
“Mi
ci sono voluti ben quindici anni …”, si
vantò, la lingua
biforcuta che vibrava nervosa a guisa di lucertola, creando lunghe
ombre sulla
faccia color del gesso da lebbroso e petecchiale del
sifilitico.“E adesso sono
così vicino da godermi il mio premio … scusami,
il nostro premio … Io so cosa
vuoi, cosa noi vogliamo … Basta che ti abbandoni a me
… Non vuoi che la
profezia s’avveri? Non desideri più quella gloria
che fin da ragazzino sognavi?
La vendetta? L’umiliazione dei tuoi nemici? Te la posso dare
e molto di più …
Ma tu, poi, mi devi ripagare …”, e quella bocca
storta si piegò in un sorriso
orribile, tutto zanne e saliva e nel suo buio si muovevano
convulsamente
strette delle figure indefinite, come i vermi in un cadavere.
Più
l’essere avanzava sul suo corpo e più perdeva le
sue sembianze
umane, reggendosi su braccia nodose dagli arti disgiunti e riattaccati
all’inverso, le dita aguzzi artigli picconanti la carne
indifesa del giovane
immobile sotto di sé. Il collo della
creatura si piegava
gradualmente all’interno della cassa toracica, aprendosi
nella pelle altri
occhi su cui Hironimo osservava il suo terrorizzato riflesso. Braccia
sottili
fuoriuscivano dal naso mancante, dalle orecchie e dagli angoli di
quelle fauci
vermiglie, quasi quell’essere fosse composto da altre
creature al suo interno.
Quasi … quasi s’alimentasse di loro …
Il
patrizio serrò le palpebre, percependo salati rivoli di
lacrime
bagnargli le tempie. Non voglio! … Non
voglio! … , ripeteva
ossessionatamente, imponendosi d’aprire quella maledetta
bocca serrata e di
gridare soccorso. A chi poi? Chi sarebbe mai accorso?
“Non
mi vuoi? Ma come? Mi parevi ben disposto in passato! Le mie
catene sono forti! Nessuno può spezzarle! Tu stesso le hai
mostrate pieno
d’orgoglio!”
E
Hironimo d’un tratto se le vide addosso, catene di spine che
gli
martoriavano il corpo, traendo sangue, stritolandolo pian pianino
… soffocava …
non … non … Premevano verso il basso, spingendolo
contro il pavimento, tirate
esse da sotto da mani invisibili … Mancava poco e forse la
terra sottostante si
sarebbe spaccata da tanta pressione ed egli sarebbe precipitato
giù,
perennemente prigioniero …
“Non
t’attende null’altro destino, se non questo.
Perché dunque
non goderne i vantaggi in terra?”, s’ingigantiva la
creatura, quasi si nutrisse
del terrore d’Hironimo e il suo peso, aggiunto alle catene,
pesava sul torace
del giovane fin quasi a spezzargli le ossa. “Sei un
peccatore, quale speranza
ti resta? Il perdono?”, lo canzonò, imitando la
vocina bonaria dei curati di
campagna. “Ma dove? Ma quando? Sei sporco e resterai sporco!
Marchiato! Non ti
si vuole più! Verrai giudicato, condannato ugualmente e
allora manda tutto alla
malora e divertiti! Non c’è perdono, non
c’è misericordia lassù per te! Nessuno
ti vuole, nessuno ti ama, nessuno ti verrà mai in soccorso,
nessuno ti
ascolterà, hai schifato tutti con le tue iniquità
e non hai alcuna via di
scampo! Tu. Sei. Mio.!” e rise talmente
forte, da scuotere
l’ambiente attorno a sé, provocando un generale
fuggi-fuggi dei topi, che
terminarono puntualmente nelle fauci della creatura in acuti e
terrorizzati
squittii, dilaniati da quelle figure all’interno
d’essa, sprizzando sangue e
budella, macchiando inesorabilmente Hironimo, il quale
realizzò essere quella
la sua inevitabile fine.
Quegli
occhi lo puntavano fiammeggianti, bramosi quanto la lingua
biforcuta che si nettava dalle labbra da pesce i rimasugli dei topi. La
creatura si sporse golosa in avanti e gli occupò
l’intera visuale, ogni angolo
invaso senza possibilità di distogliere altrove lo sguardo.
Ogni tanto delle
squame si sollevavano e compariva un bulbo oculare che roteava in cerca
di
chissacché, oppure lingue o braccia mulinanti
all’aria.
Non
poteva fuggire. Non poteva rifugiarsi nella pietà di
nessuno.
Era sempre stato solo, giudicato, abbandonato e … per cosa,
poi? A confronto di
certa gente, le sue erano quisquiglie d’infante!
“Giusto,
giusto …”, convenne la sibilante creatura,
ridacchiando
gutturalmente, accarezzandosi la molle pancia deforme, da cui
s’intravedevano
la sagoma di mani e facce premere su di essa, similmente ai calci di un
nascituro sul ventre materno. Ma quelle spinte erano spasimate,
grattando,
scavando alla ricerca di una via d’uscita, una qualsiasi via
d’uscita, anche a
costo di squarciare quella carne squamosa e al contempo pelosa.
“La colpa non è
tua … no, no, sono gli altri che ti hanno fatto sbagliare
… tu ti sei soltanto
difeso … era il tuo diritto! … ”,
cinguettò falsamente amorevole, allungando
quelle mani-artigli verso il cuore d’Hironimo, pronto
all’estrazione.
No.
“Che?”,
si bloccò l’arto a mezz’aria, mentre la
creatura reclinava
il capo, perplessa.
No.
La colpa è mia. Soltanto mia. Io ho fatto quelle scelte.
Potevo agire diversamente, ne avevo la libertà, ma ho
preferito agire
d’impulso, d’orgoglio, credendomi chissà
chi quando in realtà non sono niente.
“Bene,
bene, altre giustificazioni?”, si batté ilare
l’essere la
zampa sulla coscia tra il mammifero e il rettile. “E a chi,
sentiamo? Chi vuoi
che le ascolti? Uh? Chi? I tuoi fratelli? Bah, li hai sempre
osteggiati!” e
nell’aria la creatura creò figure di fumo
rassomiglianti Lucha, Carlo e Marco
che lo fissavano crudeli, impietosi, colmi di rancore.
“I
tuoi parenti? Peggio ancora, ad ogni occasione li fregavi alle
spalle!” e di nuovo quelle larve si stagliarono sinistre e
minacciose dal buio,
guardandolo senza pietà alcuna e anzi gli puntavano
accusatori il dito, gli
occhi bianchissimi privi di pupille e la bocca un’unica fila
di denti.
“Tua
madre?” ed Hironimo guaì agonizzante nel vedere
Madre tra
quei fantocci, severa ed inavvicinabile, gelida nel suo rifiuto. Fece
male,
male, male, gli bruciò fino in fondo all’anima.
Eppure, gli infuse per
contrappasso una piccola speranza: perché, tra le mille
incertezze della vita,
di una cosa egli era stato costantemente sicuro, ed era
l’amore incondizionato
di Madre nei suoi confronti.
“Dopo
quello che le hai fatto? Che se ne fa di un figlio ribelle,
disobbediente, che non le ha mai dato alcuna soddisfazione? Un figlio
che forse
sarebbe stato meglio se fosse nato morto?”
Le
insinuazioni della creatura cascavano però nel vuoto,
inascoltate. A parole ed opere Madre gli aveva dimostrato per anni il
suo
affetto, mai Hironimo n’era rimasto digiuno. E
nessun’illusione, nessun
manichino col suo volto avrebbe potuto ingannarlo
dell’incontrario. Sì, egli
era stato tutt’altro che un figlio modello, ma era amato,
Madre lo amava e
quindi quell’essere almeno su quel punto stava mentendo.
Hironimo
artigliò una manciata di terra.
“Oh,
se tu fossi morto senza battesimo, mi sarei
risparmiato un sacco di lavoro, non immagini quanto quelli
là ti
vogliano a tutti i costi … quanto continuassero a mettermi i
bastoni tra le
ruote …”
Quelli
là?
La
creatura s’irrigidì, il suo corpo deforme
scricchiolando come
l’eco di una frustata. “Nessuno si cura di
te”, ribadì minacciosa, accortasi di
quel lapsus. Si chinò nuovamente su Hironimo e gli
alitò bellicosa sopra uno
scirocco di zolfo e carne putrefatta. “Nessuno
t’ascolta …”
Stavolta
il giovane non temette di sostenere quegli occhi
infernali: la fiammella dell’amore di Madre gli aveva
ricordato un piccolo
stralcio di conversazione udito anni addietro, una promessa preziosa,
un
consiglio all’epoca ignorato, ma mai obliato. Lei
m’ascolta.
“Uh?”
Madre
me l’ha assicurato. Quando nessuno mi vuole ascoltare, Lei
m’ascolta.
Un altro
schiocco fece tremare la creatura, le cui squame
s’alzarono e fremettero irrequiete di paura e di rabbia,
roteando imbizzarriti
gli occhi e le lingue farfuglianti maledizioni.
“Menti!”, berciò, reclinando
quella faccia sfregiata dalla lebbra e malfrancese fin quasi a rotearla
da
spostare il mento aguzzo
all’insù. “Hai offeso
troppo quelli là, per
sperare nella loro
mercé. Figurarsi se ti prestano
pure orecchio!”
Sì,
io ho mentito e mi sono comportata da indegna carogna. Madre
però mai con me. E se Madre ha detto che Lei
m’ascolta, Lei m’ascolta.
Suo zio
lo aveva ammonito come la fiducia fosse l’unico scudo nei
momenti di periglio e adesso Hironimo nutriva l’assoluta
fiducia nelle parole
di Madre, nella disponibilità di Mater. Aveva dubitato di
tutto e di tutti, perfino
di Pater, lontano e distante, giudice inflessibile. Aveva temuto il suo
giogo,
in realtà lieve se paragonato alle catene che per anni
l’avevano stritolato
vigliaccamente sotto pretesa di libertà, aggiungendo egli
stesso di sua mano
ciascun anello, anno dopo anno.
Forse
sarebbe stato condannato, forse il giudice non gli avrebbe
riservato alcuna misericordia, però ogni imputato aveva il
diritto ad un
avvocato ed ora Hironimo nutriva un’assoluta fiducia in
Mater, nella sua
intercessione, per quanto poca cosa potesse offrire in cambio di
clemenza.
Ma aveva
fiducia, l’aveva.
“Che
ne sai tu? Che ne sa quella becera di tua madre? Sei un
ignorantaccio, un miscredente, un lurido peccatore, un … un
…”
Lei
m’ascolta.
“No,
ti sbagli!”
Lei
m’ascolta!
“No,
maledetto! Ti ho detto di no! Quella
… la mia rivale
non vanificherà i miei sforzi! … Non ti
avrà! Non ti avrà …!”,
tremava la
creatura da capo a piedi, contorcendosi in spasimi dolorosi al sol
guardare, al
punto che Hironimo avvertì quelle torture
auto-inflittesi sulla sua
medesima pelle.
Ciononostante,
tenne duro. Lei m’ascolta e tu …
tu starai
zitto! , si ribellò dopo anni di
acquiescenza a quella voce
tentatrice, a quell’io-assassino che l’aveva spinto
alle peggiori decisioni,
portandolo poi a giustificarsi tramite arzigogolati sillogismi e a
considerarsi
candido agnellino, vittima innocente. Tendendo i muscoli del collo,
storcendo
quelli della faccia e piegando le labbra, Hironimo simile ai fantolini
concentrò ogni sua energia nel rompere la barriera di denti
e finalmente
parlare con la sua vera voce, non quella dell’orgoglio o
della maschera a lungo
indossata.
“A
me zitto? A me zitto?!?”
“M-mmmm
…”
“Tu,
ingrato, tu dovresti invece ringraziarmi! Io ti ho reso ciò
che sei! Sei la mia creazione! E pertanto mi devi obbedienza!”
“Mmm-a-aa-
…”
“Potresti
essere grande, te lo giuro! Perché rivolgersi a quegli
inutili di lassù, eh? Sempre ad ostacolarti coi loro
moralismi, mai una parola
di conforto … Sempre lì in alto a giudicarti dal
quel bel trono d’oro! A farti
sentire perennemente in colpa! Io invece t’ho sempre
sostenuto, t’ho guidato e
t’offrirò molto di più, se
t’inginocchierai ad adorarmi! Non chiedo molto, mi
pare!”
“Maa-add-o-on
...”
“PERCHE’
DEVI NOMINARLA?!? Perché vuoi rovinare tutto?! Saresti
stato il mio trionfo contro quelli!
Non credere di liberati facilmente di me! Io non ti cedo! Non ti
cedo!”
“Ma
… don … na … Ma … donna
… Madonna!”
La
creatura cacciò fuori allora un urlo ingolato e al contempo
acutissimo, che neppure un esercito di unghie graffianti il vetro
avrebbero
potuto eguagliare in stridore; né il rimbombo del cannone
dal calibro più
grosso avrebbe trovato un facile paragone. L’essere
spalancò la bocca, gridò
assieme alle altre figure dentro d’esso, si
divincolò esagitato, coprendosi
stizzito e vergognoso il volto deforme e rimpicciolendosi
sprofondò nell’abisso
sottoterra.
Hironimo
spalancò gli occhi, ululando terrorizzato e annaspando in
cerca d’aria: si guardò forsennatamente attorno,
riconoscendo il buio
inflessibile della cella e il pavimento di nuda terra sulla quale
giaceva
supino. Avvertì il peso delle catene, ma la morsa del ferro
lo rincuorò,
conferendo un aspetto reale alla sua situazione e strappandolo dalla
tremenda
prigione onirica, in cui la sua mente sconvolta l’aveva
gettato.
Ma era
sul serio stata una visione? Un incubo? O l’aveva vissuto
per davvero?
Con calma
e tremando violentemente, il patrizio s’accarezzò
le braccia
e le gambe madide di sudore, scovando i polpastrelli le famigliari
ferite
inflittegli da Mercurio Bua e null’altro. Eppure, ancora
percepiva quegli
artigli sulla carne indifesa, l’alito umido e nauseabondo
della creatura, i
suoi occhi da mosca, la pelle marcia, le sue ora lusinghiere ora
minacciose
parole sibilargli alle orecchie.
Non
ti cedo! Non ti cedo!
Battendo
i denti dal nervosismo e dalla paura, Hironimo si portò
lentamente sul fianco dolorante, strisciando le gambe intorpidite
all’altezza
del petto, chiudendosi in posizione fetale. Un’enorme
stanchezza e la
disidratazione lo stavano gradualmente indebolendo, cullandolo verso un
sonno
profondo, cui però egli resisteva tenace, lo sguardo puntato
contro il buio.
Allucinazione
o sogno … quelle figure le vedeva distintamente, le
udiva bisbigliare, indicarlo, acquattate predatrici nelle tenebre, in
attesa
che lui abbassasse la guardia per balzargli addosso e trascinarlo nella
loro
tana.
Non
ti libererai tanto facilmente di me!
“Madonna
… Santa Maria Vergine … Oh, Madonna …
Oh, Madonna … Santa
Maria … Santa Maria …”, balbettava in
lacrime Hironimo, ogniqualvolta quei
puntini brillanti s’avvicinavano troppo a lui, circondandolo,
tendendo le loro
filiforme mani ossute. Vieni con noi! ,
parevano invitarlo,
acuendo invece il terrore che paralizzava l’inerme patrizio,
il quale per
impedire d’addormentarsi aveva preso a mordersi le mani e le
dita.
“Madonna
… Santa Madonna … Oh, Madonna
…” e puntualmente, come le
bestie notturne rifuggivano il fuoco, quelle larve antropomorfe si
rannicchiavano, retrocedevano, posticipavano l’assalto
all’udire quelle
singhiozzanti invocazioni.
Che
cos’erano? Spiriti? Demoni? O i ricordi delle sue passate
colpe?
Cosa
volevano da lui? Si trovava all’inferno? Nella sua tomba? Era
vivo? Era morto?
No! No!
No! Non era morto, non era ancora morto!
Dilaniato
da tali dubbi, Hironimo trascorse l’intera notte in
sì
angosciosa veglia, il nome della Madonna costantemente sulle sue
labbra,
l’ultimo appiglio per non affogare tra i flutti
dell’eterna disperazione.
Confesso,
confesso, confesso che …
…
peccavi per
superbiam in multa mea mala iniqua et
pessima cogitatione, locutione, pollutione,
sugestione, delectatione,
consensu, verbo et opere, in periurio, in
adulterio, in sacrilegio,
omicidio, furtu, falso testimonio, peccavi visu,
auditu, gustu, odoratu
et tactu, et moribus, vitiis meis malis …
Continua
…
**************************************************************************************************************
E dunque
un finale col botto – anche per le mie coronarie,
perché
quest’ultima scena in piena notte l’ho scritta e
giustamente al minimo rumore
sobbalzavo, infilandomi sotto le coperte.
Questa
versione del “Confiteor”, per quanto possa suonare
grammaticalmente discutibile, appartiene però al IX secolo,
quindi una tra le
più antiche, e mi piaceva come ha riassunto tutti, o quasi,
i dieci
comandamenti violati.
Abbiamo
ufficialmente terminato qui le digressioni del Nostro:
ancora pochi capitoli e arriveremo alla fine della seconda parte del
racconto. Ci saranno sicuro altre riflessioni, ma
veleggiamo verso
vicende più dinamiche.
Mi sono
divertita a scrivere questi “Confiteor”, pur
soffrendo per
il talora impietoso svisceramento dei personaggi, ma hé, il
le faut bien! D’altronde,
abbiamo parlato di trascorsi poco “onorevoli” e
quindi era inevitabile mostrare
i lati più turpi del protagonista e degli altri personaggi.
Ma li amo lo
stesso!
Piccolo angolo del pettegolezzo: Francesca Ordeaschi effettivamente fu l'amante di Agostino Chigi, quando questi si recò a Venezia nel 1511 e tanto lo ammaliò, che lui se la portò a Roma. Dopo ben cinque figli, nel 1519 i due si sposarono, la cerimonia celebrata dallo stesso papa Leone X. Chigi commissionerà a Raffaello Sanzio "Il trionfo di Galatea" e "Banchetto di Amore e Psiche" ed altri affreschi per il suo palazzo, onde celebrare l'evento. Purtroppo, Agostino morirà l'anno seguente e poco dopo la stessa Francesca lo seguirà, secondo alcuni avvelenata. Quindi sì, fortunata fino ad un certo punto XD
Quanto a Sebastiano del Piombo, andrà a Roma e si distinguerà come pittore e la sua "Dorotea" è stata identificata come il ritratto dell'Ordeaschi. Ed in effetti, ha la faccia un po' da furbetta. Come mai, poi, abbiamo detto che Chigi era libertino? Beh, suo amico fu niente di meno che Pietro Aretino e chi l'ha letto, conosce il suo pensiero sulle relazioni intime ...
In ogni
modo, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Sempre il nostro Sanudo riporta
(25.03.1509): In questo zorno fu fato le noze di sier
Jacomo Corner, di
sier Zorzi, cavalier, procurator, in la fia quondam sier Orsato
Morexini,
quondam sier Francesco, in cha’ Nanni a San Trovaxo; heriede,
dà di dotta
ducati ... e più, et era da tutti desiderata.
[2] Malgrado la flotta più veloce e adatta a
viaggiare direttamente sugli oceani, invece d’affidarsi alle
carovane, i
Portoghesi non riusciranno a capitalizzare le nuove rotte verso
l’India,
appunto per i problemi tecnici riportati nel capitolo. Nel 1550 ormai
il
monopolio del pepe era ritornato definitivamente a Venezia, grazie al
sostegno
degli Arabi che fornirono più spezie di quanto potessero
fare i viaggi di Vasco
de Gama. Fra’ Agostino d’Azevedo, nel suo rapporto
al re di Spagna Filippo II,
scrisse: “Il meglio delle Indie procede verso
Venezia.” Nel 1596, malgrado lo
sfruttamento delle Americhe, i commerci in Siria frutteranno alla
Serenissima
ben due milioni di ducati annuali, sbaragliando completamente la
concorrenza
portoghese, la cui sconfitta nei trasporti navali potrà
dirsi
completa.
[3] Celebre episodio biblico di #metoo alla
rovescia. La moglie di Putifarre, l’egiziano cui Giuseppe era
stato venduto dai
fratelli, s’era invaghita dell’avvenente ragazzo,
insidiandolo di continuo e
proponendogli di andare a letto con lei. Giuseppe, invece, non voleva
assolutamente far torto al suo padrone che tanta fiducia aveva riposto
in lui,
al punto da conferirgli in casa un’autorità
seconda soltanto alla sua. Umiliata
e stizzita dal secco rifiuto da parte del giovane, la donna, durante
una
colluttazione, afferrò la sopravveste di Giuseppe mentre
egli scappava via, che
usò per accusarlo davanti al marito di tentato stupro.
Ovviamente, Putifarre
credette alla moglie, facendo sbattere Giuseppe in carcere.
[4] Dal
matrimonio
di Marina Morosini in Marco Antonio Foscarini (1515) nascerà
Andrea Foscarini (1519-1590),
distintosi prevalentemente nell’ambito navale, sia come
capitano di galee che
come governatore nel
Collegio della
Milizia da mar, provvedendo alla formazione della ciurma e
all’armamento della
flotta.
[5]
tre colossi di Bamiyan = sono le
tre statue di Gautama Buddha, nella valle di Bamiyan nel centro
dell’Afghanistan, risalenti al VI – VIII secolo
d.C. Queste tre gigantesche
statue erano considerate la summa dell’arte buddista e gupta
dall’India, con
influenze degli imperi sasanide e bizantino e del
Tokharistan.
All’interno dei colossi c’erano delle stanze
affrescate. I tre Buddha vennero
distrutti nel marzo del 2001 dai talebani per ordine del mullah
Mohammed Omar
che li aveva dichiarati degli idoli. Dal 2002 sono incominciati e,
tuttora
proseguono con enormi difficoltà, i tentativi di costruzione
e di restauro,
soprattutto dopo la scoperta di un’altra statua nel 2008, di
un Buddha
dormiente.