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Autore: Cassandra caligaria    12/02/2021    3 recensioni
Tutti umani, trentenni. Le vicende narrate saranno ambientate per la maggior parte nella Boston dei giorni nostri.
La narrazione sarà tutta dal punto di vista di Edward, con qualche extra dal punto di vista di Bella.
Dal primo capitolo:
Mi guardai intorno ammirando l’eleganza dell’ambiente quando ad un certo punto rividi la ragazza del parcheggio che parlava con Rosalie vicino all’ascensore.
«Lei lavora qui?» domandai a Jasper.
«Chi?»
La indicai con un dito e proprio in quell’istante i nostri sguardi si incrociarono.
«Oh, lei! È l’amministratrice dell’azienda» rispose Jasper divertito.
«Merda.»
«Non conosce altre parole?» mi domandò divertita lei. Ma quando si era avvicinata a noi?
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Emmett Cullen, Isabella Swan, Jasper Hale, Rosalie Hale | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie, Leah/Sam
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film, Contesto generale/vago
Capitoli:
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Buonasera e bentrovat*, spero stiate tutt* bene.
Come promesso, sono tornata. A questo extra ne seguirà un altro, non so dirvi con precisione quando lo pubblicherò.
Intanto, spero che vi piaccia questo che copre i capitoli IV e V di Espresso dal punto di vista di Bella.






«Hm» cercai di trattenere un lamento, mentre la pressione delle dita di Gloria aumentava sul mio collo rigido.
«Sei troppo tesa, tesoro, rilassati» mi esortò con gentilezza.
Aveva ragione: ero troppo tesa, troppo stanca, troppo nervosa, troppo agitata, troppo, troppo, troppo
Sospirai e cercai di rilassarmi, come mi aveva appena suggerito.
Tutto in quel weekend era stato troppo: troppo lungo, troppo freddo, troppo faticoso, troppo noioso. Ogni volta che mi trovavo a New York mi sembrava che tutto fosse eccessivo: troppo grande, troppo lontano, troppo popolata, l’estate era troppo calda, l’inverno troppo freddo, c’era sempre troppo traffico, troppa sporcizia, troppa confusione… Non mi sarei di certo rilassata, se avessi continuato a pensare ai difetti di New York. Chissà per quale motivo non avevo proprio alcuna voglia di accettare di trasferirmi lì e amministrare la nuova sede che già prima ancora di aprire sembrava troppo complicata da gestire.
Presi un respiro profondo e cercai di allontanare tutta la tensione che avevo accumulato in quei giorni, concentrandomi solo sulla pressione delle dita di Gloria sul mio collo e sul mio viso.
Era domenica pomeriggio, ero finalmente libera dagli impegni lavorativi e avevo deciso di concedermi alcuni trattamenti di bellezza nella Spa dell’hotel in cui alloggiavo.
«Posso portarti qualcosa da bere prima di iniziare il massaggio?» mi domandò.
«Immagino che un caffè sia fuori discussione» mi fece un mezzo sorriso.
«Abbiamo un’ottima tisana depurativa e drenante che si abbina benissimo con il massaggio che faremo» annuii e la ringraziai prima di vederla sparire oltre la porta.
 
 
Il primo sorso di quella tisana per poco non mi andò di traverso.
«Non ti piace? Sei per caso allergica alla menta o alla liquirizia? Perdonami, ho dimenticato di chiedertelo prima…» mi disse dispiaciuta.
«No, no, non sono allergica» mi affrettai a rassicurarla, mentre tentavo di far tornare il mio tono di voce normale, schiarendomi la gola.
Terminai in poche sorsate di bere la tisana – quasi mi ustionai per la fretta – e mi sdraiai sul lettino.
«Chiudi gli occhi e rilassati» mi suggerì, mentre iniziava a massaggiarmi le spalle.
Facile a dirsi, avrei voluto risponderle. Il retrogusto della liquirizia, che percepivo ancora in bocca, aveva portato la mia mente proprio dove non volevo che andasse e con gli occhi chiusi mi ritrovai a rivedere e rivivere immagini e fantasie recenti che sarebbe stato meglio dimenticare.
Si materializzò immediatamente nella mia mente Edward Cullen, croce e delizia delle mie giornate, che masticava un bastoncino di liquirizia.
Oh, Dio, quanto avrei voluto essere quel bastoncino…
Deglutii a vuoto e sentii un familiare calore pervadermi tutto il corpo, come succedeva ogni qual volta lo incontravo o semplicemente pensavo a lui.
Era troppo, troppo, troppo… perfetto.
Era bello, troppo bello.
Dentro e fuori.
La sua bellezza esteriore altro non era che lo specchio di un animo altrettanto gentile.
Era dolce, affabile ed emanava un’infinita bontà da quegli occhi così belli.
Era bello e buono, proprio come gli eroi della Grecia antica a cui tanto sembrava somigliare.
Aveva sempre un accenno di sorriso nascosto tra le labbra, un piccolo sorriso soddisfatto, come se stesse ripensando a una sua battuta personale ben riuscita – magari appena condivisa con qualche confidente –, che gli conferiva un’aria quasi enigmatica e decisamente attraente.
Mi attirava come non mi ero mai sentita attratta nella mia vita da un uomo; ma non potevo assolutamente neanche solo pensare a lui in quel senso. Lui era un mio dipendente.
Avevo cercato di evitarlo il più possibile, consapevole del fascino che esercitava su di me, ed ero grata del fatto che i miei impegni nell’ultimo mese fossero aumentati, costringendomi spesso a rimanere in ufficio durante la pausa pranzo.
Mi faceva stare male anche il solo pensare di dovermi sentire sollevata quando riuscivo ad evitarlo; mi sembrava di fargli un torto, sebbene fosse solo e unicamente per il suo bene.
Avevo sperato di trovare qualche falla nel suo rendimento lavorativo, per farlo apparire meno perfetto ai miei occhi, ma ovviamente si era rivelato impeccabile.
Era stato assunto da poco più di un mese e già era il contabile più produttivo del reparto intero. Era risultato il migliore del suo reparto già nella sua prima settimana di lavoro e in ogni report che mi era stato inviato continuava a essere in cima alla lista dei dipendenti più virtuosi.
Aveva una bassissima percentuale di errori, praticamente nulla; non si era mai assentato, neanche per un’ora, non aveva ancora chiesto ferie o permessi, sebbene li avesse già maturati, non aveva cattive abitudini improduttive a differenza di altri suoi colleghi di reparto.
Era serio, puntuale, preciso e solerte nel suo lavoro. Mi sembrava anche molto ben voluto e ben integrato con i colleghi.
Era il dipendente perfetto.
Ormai era più di un mese che cercavo disperatamente di trovargli dei difetti per farmi passare la pericolosa sbandata che avevo per lui, ma più mi concentravo su di lui e lo studiavo nei minimi dettagli per scorgere delle macchie in tutta quella perfezione, più scoprivo che mi attraeva qualsiasi aspetto che riuscivo a cogliere. Anche quelli che all'apparenza potevano sembrare dei difetti, ai miei occhi non apparivano tali e non facevano altro che accrescere il suo fascino: come la sua apparente timidezza, che scatenava in me una grande tenerezza; o come il suo modo di pronunciare certe parole, con il tipico accento dolce e delicato di Chicago, che sebbene controllato, emergeva di tanto in tanto. Avevo notato che allungava le vocali, la a in particolar modo, ma anziché infastidirmi, ne restavo ammaliata. Sarei potuta rimanere per ore ad ascoltarlo parlare di qualsiasi cosa: era un abile oratore, come avevo avuto modo di scoprire nelle ultime sere passate insieme nel mio ufficio.
Siccome non mi piaceva perdere il controllo di me e dei miei pensieri e ancor meno mi piaceva sentirmi una codarda, avevo deciso che non avrei più cercato di mettere in atto strategie per evitarlo. Cercargli dei difetti o cercare di evitarlo non stava funzionando, perché continuavo inevitabilmente a concentrarmi su di lui ed era proprio quello che non dovevo fare.
Io non dovevo pensare a lui.
Così, avevo deciso che questa attrazione così come mi era arrivata, mi sarebbe passata.
Come un raffreddore.
Ecco, la mia sbandata per Edward Cullen era come un raffreddore.
E come per il raffreddore non esistono rimedi efficaci e l’organismo guarisce spontaneamente dopo un po’ di tempo, così sarei guarita io dopo un ragionevole lasso di tempo.
Edward Cullen non avrebbe più sortito strani effetti su di me, non lo avrei permesso, dovevo imparare a conviverci, così come si convive con il raffreddore per qualche tempo, finché non passa.
E ci ero riuscita a disintossicarmi da lui.
Per qualche tempo.
Poi era precipitato tutto negli ultimi giorni e si sa che le ricadute sono sempre peggiori del primo contagio.


Non era la prima sera che uscivamo insieme dall’ufficio, dal momento che faceva spesso degli straordinari; ma era la prima volta che lo sentivo canticchiare.
Aveva anche una bella voce, accidenti.
Quando si era girato e lo avevo visto con quel bastoncino tra le labbra, tutto il mio grande piano strategico di considerarlo alla stregua di un raffreddore aveva iniziato a mostrare la sua pietosa inconsistenza. Da quel momento non avevo fatto altro che immaginare quanto sarebbe stato piacevole sentire le sue labbra sulle mie e sentire quel sapore di liquirizia nella sua bocca. Avrei voluto baciarlo, ma non potevo, così mi ero allontanata velocemente da lui e mi ero ricomposta.
La sua determinazione nel volermi accompagnare a casa, ribattendo con ostinazione al mio rifiuto, mi aveva colpito. Quella sera avevo scoperto un nuovo lato della sua personalità: era testardo e mi piaceva. Come mi piaceva il suo profumo. Un’altra cosa a cui non dovevo pensare, specialmente quando eravamo così vicini.
Il viaggio in macchina aveva dimostrato ancora una volta che quando eravamo da soli riusciva a farmi perdere il controllo sulle mie parole e sui miei pensieri: ero troppo sincera e spontanea con lui.
E, d’altronde, lui per me non era un dipendente qualsiasi.
L’elettricità che c’era tra di noi nell’abitacolo della sua auto era palpabile e temevo davvero che potesse succedere qualcosa. Forse volevo che succedesse qualcosa, quando si era sporto verso di me per recuperare l’ombrello dietro al sedile e i nostri visi si erano ritrovati così vicini.
Quella sera, a casa, mi resi conto che misto al sollievo per il fatto che non fosse successo niente si stava iniziando a fare strada dentro di me la delusione derivante da quel bacio mancato.
Forse lui non mi voleva e io avevo interpretato male i suoi segnali. La delusione bruciava, anche se razionalmente mi rendevo conto che non era un rifiuto vero e proprio, non c’erano i presupposti perché lo fosse, ma era comunque doloroso.
E questo era pericoloso.
Perché tra tutte le persone che potevo desiderare e avere, io volevo l’unico che non potevo e ‒ soprattutto ‒ non dovevo desiderare?
La sera seguente, quando si era fatto strada nel mio ufficio oltrepassandomi e dichiarando apertamente che era venuto a cercarmi perché era preoccupato per me, aveva iniziato a smantellare tutte le mie certezze.
Nessuno si preoccupava più per me da tanto tempo.
E poi mi aveva fatto quella domanda. La domanda più semplice del mondo.
«Hai mangiato?»
E avevo sentito qualcosa spezzarsi dentro di me.
Non feci che altro pensarci per tutta la notte e anche nei giorni a seguire.
Quando ero all’università in Italia, avevo seguito un corso di letteratura italiana e mi aveva colpito molto un aneddoto su Elsa Morante: negli ultimi anni della sua vita non faceva che chiedere a tutti i suoi amici quale fosse secondo loro la frase d’amore più vera, quella che esprime al massimo il sentimento.
Tutti dicevano grandi cose, lei rispondeva: «No. La frase d’amore, l’unica, è: hai mangiato?»



Ero sempre stata brava a controllarmi e a mostrarmi distaccata, ma lui era in grado di minare pericolosamente il mio autocontrollo, e – come avevo avuto modo di scoprire appena lo avevo conosciuto – con lui cadevano tutte le mie barriere.
Quella sera mi ero mostrata per quello che ero: stressata, stanca, arrabbiata per quello che era successo con Jessica. Con lui ero un essere umano. Ero io, Bella.
E mi piaceva essere me stessa con lui.
Mi piaceva parlare con lui e ascoltarlo parlare. Mi aveva raccontato qualcosa della sua infanzia e dentro di me si era creata l’immagine di questo bimbetto con i capelli rossicci e gli occhi verdi, con il sorriso dolce e la linea perfetta degli zigomi che ogni tanto si colorava di rosa sulla quale avrei tanto voluto far scorrere le mie dita.
Era troppo facile stare con lui.
Dopo quella sera avevo deciso che in fondo, forse, poteva diventare un collaboratore. Lavoravamo bene insieme e io non riuscivo a lavorare praticamente con nessuno. Lui era un’eccezione.
Potevamo essere amici, magari.
«Abbiamo finito, tesoro» la voce di Gloria mi ridestò e mi riportò con i piedi per terra, letteralmente.
«Grazie mille, Gloria. Ne avevo davvero bisogno» le sorrisi.
«Di nulla. Quando riparti?» mi domandò.
«Questa sera» le risposi mentre mi rivestivo.
«Hai ancora qualche ora da trascorrere in città, allora. Hai qualcosa in programma?»
«Mi hanno consigliato di provare i rugelach di Breads bakery» sorrisi tra me e me.
 
 
Non avevo mai fatto niente del genere per nessuno. Io pagavo i miei collaboratori per il loro lavoro con il denaro, non di certo in dolcetti. Sarebbe stato molto più corretto fargli retribuire lo straordinario, ne ero ben consapevole, ma non volevo offenderlo. Era stato molto chiaro a riguardo.
Ci tenevo, però, a ringraziarlo in qualche modo per il suo aiuto e l’espressione estasiata del suo viso, quando mi aveva parlato della bontà di quei dolcetti, mi aveva fatto presagire che avrebbe apprezzato il dono.
Quello che non avrei mai potuto prevedere era la sua reazione.
Mi aveva abbracciata e ci erano voluti pochi secondi per rendermi conto che ci stavo troppo bene tra le sue braccia.
Mi ero dovuta staccare da lui prima che fosse troppo tardi. Sentire il mio corpo contro il suo, le sue braccia avvolgermi e il calore del suo respiro nel mio orecchio era troppo… Non sarei riuscita a controllarmi, se fossi rimasta un secondo di più tra le sue braccia.
Ormai era chiaro che anche la teoria-strategia dell’amicizia, come quella del raffreddore, avevano fallito.
Era inutile continuare a mentire a me stessa: volevo stare con lui e avrei trovato un modo per ottenere quello che volevo.





Aspetto le vostre opinioni e alla prossima!
Un bacione

 

  
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