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Autore: A_Typing_Heart    13/02/2021    3 recensioni
«Sto cercando un libro sui vampiri... qualcosa che parli di loro, della loro psicologia... qualcosa che non sia solo letteratura.» disse con una certa delusione interiore: nella sua testa suonava molto meno ridicolo. «Esiste qualcosa del genere?»
«Ovviamente esiste.» rispose lui, con uno sguardo che sembrava brillare di eccitazione. «Posso chiederti come mai ti interessa un argomento così singolare o è una domanda troppo intima per il primo incontro?»
«Mi interessano perché non ne so niente e ne devo prendere uno.»
Qualsiasi altra persona a quella frase avrebbe riso o l'avrebbe preso per matto, ma non quell'uomo, che sorrise se possibile ancora di più.
«Stai cercando quell'assassino, il Vampiro di West End.»
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Crowley Eusford, Ferid Bathory, Krul Tepes, Mikaela Hyakuya, Yūichirō Hyakuya
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'La spada di Dio'
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Ferid stava fermo nel corridoio da più o meno una decina di minuti, con un piccolo vaso di fiori in una mano e una scatola nell’altra, senza riuscire a decidersi a entrare nella stanza. Ogni volta che prendeva il coraggio quello svaniva in un passo o due verso la porta.

Scambiò un sorriso imbarazzato con l’infermiera che gli passò davanti per entrare proprio in quella camera; dopo un attimo di riflessione si accostò allo stipite per ascoltare.

«Non vorrete altro sangue, spero. Non ne ho perso già abbastanza?»

«No, no, tranquilla, signorina Tepes.» disse l’infermiera, con voce così bassa che Ferid dovette ascoltare con attenzione per non perdersi nulla. «Mi chiedevo se volesse una mano a pettinarsi e sistemarsi un po’. C’è una visita per lei che aspetta qui fuori.»

Oh, accidenti.

«Una visita? Per me?» fece lei in tono sorpreso. «Chi è, un poliziotto?»

«Non credo, signorina… è un uomo con i capelli lunghi con dei fiori per lei.»

«Quali fiori?» domandò Krul con voce più dura.

«Non saprei, signorina… è allergica a qualche tipo di fiore?»

«Può chiedergli una cosa per me, prima di farlo entrare?»

Non vi fu replica ma Ferid ipotizzò che avesse annuito.

«Gli dica che la padrona gli chiede quale sia il suo nome.»

L’infermiera doveva aver espresso una certa perplessità almeno con lo sguardo, perché Krul si spiegò, almeno in parte, con un tono più dolce.

«So che è strano, ma se è l’uomo che aspetto saprà cosa rispondere… e sa perché glielo chiedo.»

Ferid, ancora fermo accanto alla porta, sorrise. Quando l’infermiera si affacciò le ricambiò lo sguardo incoraggiandola a fargli quella strana domanda.

«Ecco… la… padrona le chiede quale sia il suo nome, prima di ricevere la sua visita.»

«Dica alla titolare che può chiamarmi Ismaele.»

Ferid prese uno dei fiori del vaso – un giglio rosa – e lo consegnò all’infermiera come messaggio; spiegarle quanto fosse diventato iconico per loro fare battute di spirito su Moby Dick e perché sarebbe stato lungo e inopportuno. Quando lei rientrò a consegnare il fiore e la sua risposta Krul tacque per qualche istante, poi assunse un tono altezzoso che gli fece capire che aveva capito chi ci fosse alla porta.

«Molto bene. Può aiutarmi a sistemarmi un minimo? Avrò comunque un aspetto tremendo, ma immagino di non poterci fare nulla.»

Ferid attese qualche altro minuto nel corridoio mentre l’infermiera aiutava Krul a proteggere la propria vanità, poi la signora uscì e l’invitò a entrare. Senza più traccia del terrore che l’aveva tenuto inchiodato fuori dalla porta la superò.

Krul era appoggiata contro una pila di cuscini per stare quasi dritta, ma era leggermente voltata dal lato della sua gamba sana. A parte l’insano pallore sembrava quasi normale e fu un sollievo vederla così. Le sorrise senza parlare e nemmeno lei lo fece, almeno finché non ebbe sistemato sul comodino il vaso di gigli e gerbere e non si fu seduto sulla sedia per i visitatori con la scatola in grembo.

«Come mai non sei in negozio?»

«Non essere sciocca, Principessa. Il negozio può anche restare chiuso qualche giorno.»

Forse intuendo la minaccia velata nel suo tono di voce Krul non insistette su quel punto.

«… Sono contenta di vedere che tu stai bene… cos’è successo dopo? Il ragazzo biondo che mi ha trovata in casa chi era? Ho un sacco di domande e nessuno che sappia rispondere.»

Ferid aveva sperato che le domande sarebbero arrivare una per volta e lasciandogli uno sportivo tempo di decompressione per il suo nervosismo, ma pareva che dovesse guadagnarselo. Con il cuore già pesante davanti al resoconto che avrebbe dovuto farle sfoggiò il miglior sorriso che riuscisse a produrre e picchiettò la scatola.

«Non vorresti prima chiedermi che cosa c’è in questa bella scatola per te?»

«Spero siano dolci, perché il cibo che mi hanno dato qui è disumano.»

«Non sapevo cosa potessi mangiare… ma domani ti porto qualcosa, se mi dici che cosa vuoi. Sarei venuto ieri, ma durante gli orari di visita ero ancora bloccato a fare strani esami all’ospedale di North End per la scientifica e poi alla centrale per rilasciare cento volte la stessa deposizione. Mi hanno lasciato andare solo verso mezzanotte, mi ha detto Crowley com’era andata la tua operazione.»

Krul annuì rigida e guardò la scatola che lui le mise in grembo.

«Su, adesso aprila, lo so che sei sempre curiosa come una scimmietta.»

«Perché ogni volta che mi rivolgi un aggettivo o un nomignolo devi sempre farlo diventare piccolo?»

«Così ti si adatta meglio~»

«Crepa.»

Krul aprì la scatola e la sua aria seccata passò velocemente allo stupore e all’ilarità mentre sollevava la camicia da notte.

«Questo… è un tantino un cambio di registro rispetto a prima.»

«Beh, quando ti ho regalato quella bianca vivevo ancora nell’illusione che sarei potuto anche diventare tuo marito, ma adesso so che sarò sempre tuo padre~ avanti, non è graziosa?»

Ferid prese la camicetta – con le maniche corte e di colore giallo chiaro con una stampa di piccoli gattini tigrati – e gliela appoggiò addosso come a valutare l’effetto o la misura.

«Ti starà una delizia~ vuoi metterla adesso? Quei fogli di carta che danno qui in ospedale sono una cosa tremenda per la pelle delicata, io ne so qualcosa!»

«Non mi cambierò davanti a te.» sbottò lei irritata. «E poi è difficile mettersi o togliersi qualcosa con una flebo nel braccio.»

Lanciò uno sguardo bellicoso al tubicino infilato nell’incavo del gomito e Ferid seguì lo stesso percorso fino alla sacca appesa. Gli ricordava quel triste, spossante periodo passato in gran parte in quello stesso ospedale a prendersi cura di un uomo amabile che andava spegnendosi.

«Ti cambio io.» le disse perdendo ogni artificio nel tono. «So come si cambia qualcuno senza togliere la flebo.»

«Non ti azzardare!»

«Avanti, Krul, non c’è niente che non abbia già visto… il tuo seno non è certo cresciuto.»

«Te le suono

«Pensi davvero di far paura a qualcuno senza tacchi? Avanti, ci vuole un minuto. Fidati.»

Per cedere così in fretta le armi Krul doveva essere davvero infastidita dal ruvido indumento datole dall’ospedale, ma Ferid fu felice che gli permettesse di aiutarla. Non poteva fare a meno di sentirsi in colpa per quello che Robert le aveva fatto.

Come promesso, in meno di un minuto le aveva messo la camicia nuova senza alcun danno al braccio o alla flebo. Riappese la sacca sull’asta mentre Krul lo guardava con sorpresa.

«Sei delicato…»

«Con te lo sono sempre, Principessa.»

«Sembra che tu l’abbia fatto cento volte.»

«Anche più di cento volte, di certo.»

«Non è che facevi l’infermiere prima di lavorare per me, vero?»

«Oh, no, ma…»

Ferid tacque. Non aveva mai raccontato a Krul del suo passato, di come e quando era arrivato in America, del fatto che per un breve tempo era stato alle dipendenze di un’agenzia di escort, né di essere stato sposato. Lei non aveva idea che lui fosse già un vedovo quando l’aveva conosciuto.

«Vuoi ascoltare una lunga storia, Krul?»

«Perché no? Qui in ospedale è la noia la prima causa di morte dei pazienti.»

«Anche se fosse molto lunga, strana e triste?»

«Sembra promettente.»

«Anche se fosse la mia?»

Krul guardò i suoi occhi celesti con un vago stupore per qualche secondo, poi annuì.

Nascondere quello che sono non mi ha mai aiutato. Le persone che più tengono a me sono quelle che sanno tutto… le persone a cui ho dato fiducia mi hanno dato la loro.

Ferid prese un profondo respiro, appoggiò la schiena contro la sedia e iniziò a raccontare una storia: iniziava nella lontana Inghilterra, nella villa di una grande tenuta di campagna, con un bambino piccolo destinato a diventare un giorno il ventesimo visconte di Cosworth.

 

*

 

Crowley, intento a sistemare le cose sulla sua scrivania in un paio di scatoloni, non si rese conto di quanto sgomento serpeggiasse tra i suoi colleghi che l’osservavano parlottando. Restarono per parecchio in quello stato di allerta, finché Harry Gillespie non si presentò in ufficio e si fece portabandiera delle loro preoccupazioni puntando dritto alla scrivania dell’irlandese.

«Crowley, che cosa stai facendo? Non te ne starai andando!»

Crowley stava soppesando un taccuino vecchio e una piccola busta con memo di vari colori pensando a dove metterli e guardò Harry con aria spaesata.

«Oh… buongiorno, Harry.»

«Lasci la squadra omicidi?!»

Gli ci volle qualche istante per capire come mai gli stesse facendo quella domanda, poi scoppiò a ridere.

«Ma che ti salta in testa? Ma figurati!»

«E allora, la scrivania…?»

«Non è niente, sto solo decidendo cosa portare a casa e cosa non mi serve più… metto un po’ d’ordine prima di andarmene. In ferie, Harry. Ferie

«Tu, delle ferie?»

«Me le sono meritate, no?» fece lui sorridendo, e ripose gli oggetti nello scatolone più pieno. «È stato un caso impegnativo, sono successe così tante cose… appena il procuratore mi dirà che non gli serve altro salto su un autobus e vado dai miei parenti in West Virginia.»

«Oh! Che bella cosa, Crowley, fai bene a staccare un po’!»

«Ferid lo sa già?»

Crowley si girò verso De Stasio, seduto alla scrivania dietro la sua, fino a quel momento assorto nel suo cappuccino e pastarella, qualsiasi cosa fosse quel dolce che lui chiamava in quel modo.

«Certo che lo sa. In verità aspettiamo un po’ a partire anche per lui, vuole essere sicuro che il suo capo si rimetta prima di andare via.»

«Cosa? Andate via insieme?!» fece Harry, con un gran sorriso. «Andate dai tuoi parenti insieme?!»

«Già.»

Non provò nemmeno a mascherare l’orgoglio concentrato in quella sillaba: non ci sarebbe mai riuscito.

«Mh, porti Ferid dai tuoi parenti… sei quasi pronto per il matrimonio.»

«Ah, chi lo sa… può darsi!»

«Congratulazioni, Crowley!»

«Harry, ho solo vagamente prospettato l’ipotesi, è un po’ presto per le congratulazioni…»

De Stasio produsse un accenno di risata che di norma usava strategicamente per gli interrogatori.

«Manca solo la proposta. In fondo, vivete già insieme, dormite già insieme e lui decide quello che devi bere e mangiare…»

«Cosa? Ma non è vero.»

«Ma guardati, scusa!» intervenne un altro suo collega, Sutter. «Insomma, tu eri una macchina che andava a cibo ipercalorico e caffè, che cosa diamine stai bevendo da un mese a ora?»

Il quarantenne Sutter indicò la tazza sulla scrivania di Crowley con un gesto melodrammatico del braccio. Lui osservò la sua vecchia tazza con l’etichetta della bustina che penzolava dal manico e sinceramente non comprendeva dove volesse andare a parare.

«È una tisana al mirtillo, perché?»

«Che diamine è, sul serio?»

«Fa molto bene… rallenta l’invecchiamento delle cellule, aiuta contro la ritenzione idrica e soprattutto abbassa la glicemia nel sangue. Visto che mio padre ha il diabete è una cosa che devo controllare.»

Per le facce che vide intorno a sé nell’ufficio si chiese se avesse parlato gaelico senza accorgersene.

«Beh? È vero. Non voglio prendere il diabete e passare i prossimi quarant’anni a farmi iniezioni nella pancia.»

«Ferid è una brava moglie.» sentenziò De Stasio con un brindisi a quest’affermazione con la tazza di cappuccino. «Lunga vita e figli maschi.»

«Per quelli la vedo dura… e poi, io vorrei delle femmine.»

«Davvero? Come mai?» gli domandò Harry quasi deluso. «Pensavo che tutti i padri volessero un maschietto, così gli insegnano lo sport, il loro lavoro, o cose del genere…»

«Se avessi una figlia di sicuro non le impedirei di giocare a rugby, di fare arti marziali o di diventare una poliziotta, se lo volesse.» replicò lui scrollando le spalle. «Semplicemente, mia nipote Desirée è una delle creaturine più tenere che abbia mai visto, quindi se potessi scegliere…»

«Beh, io ti auguro di avere tutto quello che desideri dalla vita! Maschi, femmine, cani, galline!»

Crowley rise a quell’assurdo augurio di Harry. Aveva sempre la grande capacità di farlo ridere, in un modo o nell’altro.

«Galline, hai detto?»

«Beh, sei cresciuto nel West Virginia, pensavo che le galline facessero parte del corredo di nozze!»

«Molto divertente, Harry, ma nel West Virginia il corredo di nozze sono stivali di gomma, un trattore e un minimo di dieci mucche da latte.»

«Sul serio?!»

Rise di nuovo davanti a quell’ingenuità così infantile da risultare tenera. Prima che ci si potesse lanciare in una conferenza istruttiva sugli usi e costumi delle cittadine rurali del West Virginia il sergente Naziri entrò e requisì Harry e Sutter per dare loro delle direttive per un nuovo caso.

Sebbene a Crowley la chiusura del caso del Vampiro potesse sembrare la fine della storia un lavoro come il suo non avrebbe mai avuto fine.

«Quanto starete via dai tuoi?»

Crowley guardò De Stasio, che finita la colazione aveva rimasto solo un goccio di schiuma di cappuccino nel fondo della tazza. Appoggiato al bordo della scrivania, la sua espressione aveva un qualcosa di triste.

«Vedremo se riusciremo a partire prima del Ringraziamento, ma comunque non torneremo prima di gennaio. Perché me lo chiedi?»

«È possibile che io sia già tornato alla mia squadra quando rientrerai.»

Si era quasi dimenticato, in tutto quel caos e quei nuovi felici progetti, che De Stasio non era una presenza fissa e che sarebbe tornato alla narcotici non appena chiuso il caso ed educati a sufficienza i nuovi arrivati. Improvvisamente si sentì perso all’idea di rientrare in centrale e non trovarlo lì. Gli sembrò che gli si annodasse la gola e prese un sorso della sua tisana.

«Immagino che non abbia senso chiederti di restare.»

«No, non ne ha, infatti.»

Il suo tono non era affatto duro, sembrava piuttosto dispiaciuto.

«Qui ti hanno preso tutti in simpatia… Gabe ti ammira molto, e ieri mi ha detto che vuole restare nella omicidi ancora un po’.»

«Lo so. Farò del mio meglio per lasciargli buoni insegnamenti nel tempo in cui rimarrò qui, ma non posso lasciare la narcotici… non finché quel capitolo non sarà finito. Non riesco a cominciare un libro senza finire quello prima, sai.»

«Mi mancherai, De Stasio.»

Lui si sorprese di tanta schiettezza, anche perché Crowley era sempre stato in un certo modo intimidito dal suo mentore. Troppo per mostrargli tanto platealmente le sue emozioni, specie al suo riguardo.

«Sei diventato parecchio diretto, eh?»

«Gli ultimi mesi mi hanno insegnato duramente che non sappiamo mai quante occasioni avremo di dire quello che sentiamo alle persone che ci sono care.»

De Stasio abbassò gli occhi verdi sul fondo di schiuma della sua tazza per poi annuire.

«È vero. È assolutamente vero.»

«Perciò, se davvero te ne andassi mentre sono via, tanto vale che te lo dica adesso… grazie per il tuo aiuto. Averti al mio fianco in questo periodo così difficile è stato di grande conforto e ti sono ancora più grato perché so quanto seriamente prendi il tuo lavoro alla narcotici. Grazie di aver pensato che aiutarmi fosse più importante.»

«Cielo. Mi stai quasi mettendo in imbarazzo.» borbottò lui. «Che cosa credevi che io fossi, scusa? Un automa? Sei pur sempre l’insubordinato moccioso che ho trasformato in un detective… in un ottimo detective. È naturale che tu sia importante.»

Era la prima volta che De Stasio si dimostrava orgoglioso di essere stato il suo primo insegnante sul campo e di certo era la prima volta che Crowley si sentiva elogiare: quando aveva lasciato la narcotici per la omicidi cavalcando l’onda di gloria di un’operazione difficile dall’esito oltremodo positivo De Stasio si era ben guardato dal dirgli qualcosa di personale o dal fargli capire che dopo due anni gomito a gomito avrebbe sentito la sua mancanza. Si era limitato a stringergli la mano e intimargli un “fatti onore” come volesse minacciarlo di non azzardarsi a fare una figuraccia.

«Anche se non partiremo subito, le mie ferie iniziano comunque domani… possiamo salutarci adesso?»

Crowley fissò gli occhi verdi di De Stasio, allungando la mano verso di lui. Lui sembrò sollevato di avviare quella discussione alla fine e fece un sorriso mentre gli dava una vigorosa stretta.

«Beh, stammi bene, Cro…»

Crowley passò il braccio sinistro dietro la sua schiena con la stessa determinazione che ci avrebbe messo se fosse stato un incontro di arti marziali miste e l’obiettivo fosse stata una presa fatale, ma non fece altro che stringere il suo collega un tempo maestro in un abbraccio che sentiva il bisogno di dargli a ogni costo.

Dopo un momento di disagio e un accenno di protesta, De Stasio sospirò e gli diede qualche pacca sulla spalla con la mano libera.

«Sei veramente un bambinone, Crowley. È incredibile che tu sia irlandese, affettuoso come sei.»

«Sono del North End.» disse lui a mo’ di scusa, alludendo alla forte percentuale di etnie italiana e spagnola di quel distretto.

«Okay, okay… adesso basta.» fece poi, liberandosi dall’abbraccio con un certo impaccio. «Io ho da fare, e anche tu… porta via le tue cianfrusaglie, riordina questo porcile di scrivania!»

«Oh, andiamo, porcile è una parola grossa… è solo disordinata, non è sporca.»

«Ci sono aloni di caffè su tutto il tavolo.»

Crowley guardò i due aloni appena accennati sullo spigolo della scrivania, accigliandosi.

«Ce ne sono solo un paio, e poi non sono stato io. Non bevo più il caffè.»

«Pulisci tutto prima di andartene in ferie!»

De Stasio si abbottonò la giacca e prese la tazza vuota prima di infilare la porta per riportare al bar di fronte la preziosa tazza in vetro temperato.

«Sei un burbero, Dante De Stasio!»

Lui non fece cenno d’averlo sentito mentre usciva. Crowley sorrise mentre chiudeva uno dei cartoncini per portarlo via e si premurò di pulire la scrivania con cura prima di salutare tutti i colleghi e il capitano; per ultimo salutò Manny che come sempre era al suo centralino all’ingresso.

Aveva le chiavi in mano, la scatola sul sedile del passeggero e stava per chiudere la portiera quando vide che De Stasio era fermo accanto alla porta del bar di fronte. Non aveva la tazza, quindi l’aveva già riconsegnata, ma continuava ad aspettare lì fuori. Dopo averlo visto salire in macchina si avvicinò lentamente al passaggio pedonale e in un momento favorevole attraversò a passo svelto. Appena prima di entrare Crowley lo vide guardare dalla sua parte attraverso lo specchietto laterale.

Aveva aspettato che lui uscisse prima di rientrare in ufficio, a riprova che trovava detestabili i saluti struggenti… e che avrebbe trovato quel saluto troppo toccante per poter celare del tutto le sue emozioni.

Sì… mi mancherai davvero, Dante De Stasio.

 

*

 

Nelle successive due settimane, nonostante le ferie di Crowley, lui e Ferid si videro molto poco durante il giorno. Il Magick aveva riaperto, anche se solo per tre giorni la settimana, e Ferid passava in ospedale con Krul tutto il tempo che l’orario di lavoro e quello delle visite gli consentissero.

Anche se Crowley non aveva osato accennare neanche una volta un lamento perché comprendeva il senso di colpa del suo fidanzato, fu felice quando il lunedì di due settimane dopo rientrò a casa dal supermercato e lo trovò sul divano con la gatta in braccio.

«Ferid, già a casa?»

«Sì… Krul è stata dimessa stamattina.»

«Oh, una bella notizia! Ora può cavarsela da sola?»

«Camminare le riesce ancora difficile, dovrà usare le stampelle finché non finisce la fisioterapia… ma a casa con lei c’è suo fratello adesso. Starà con lei finché non si riprenderà del tutto, ma starà bene presto, ora che può rimettersi a trafficare con le pozioni e i suoi cristalli.»

«Ha intenzione di curarsi con quelle sue cose da strega?» domandò Crowley incuriosito, posando la spesa sul tavolo. «Ma davvero funzionano?»

«Io non ci credo, ma lei sì, quindi per lei funzioneranno.»

Scrollò le spalle e sistemò rapidamente ciò che andava nel frigorifero.

«Questo significa che possiamo decidere quando partire? La nonna avrebbe avuto piacere di averci a casa per il Ringraziamento, se riuscissimo a trovare un paio di posti sull’autobus di domani faremmo ancora in tempo…»

Ferid non rispose, ma ultimamente succedeva spesso che evitasse di discutere di quel viaggio. Lui aveva attribuito questi silenzi al suo nervosismo e finora non aveva insistito, ma era pronto ad attingere a una lunga serie di argomenti e tattiche che si era minuziosamente preparato per sciogliere tutti i suoi timori.

Solo quando Crowley si avviò verso la camera per prendere la tabella delle corse notò la presenza di una grossa valigia viola vicino alla libreria.

«Oh… hai già fatto la valigia, Ferid? Pensavo fossi nervoso all’idea di andare dai miei e che ti avrei dovuto quasi costringere!»

Purtroppo però l’espressione di Ferid restava piuttosto cupa e intuì che qualcosa non andava. Tornò al divano con una tremenda sensazione addosso.

«Ferid… mi dici che cosa succede?»

«In effetti sto per partire… ma non verrò in West Virginia con te, Crowley. Mi dispiace dirtelo all’ultimo momento.»

La sensazione era quella di sentirsi cadere le viscere per terra e fu così vivida che Crowley si portò la mano sull’addome.

«Spiegati.»

«Non voglio che tu fraintenda, mio caro… tu sei un uomo meraviglioso, nemmeno nei miei sogni più sfrontati avrei mai potuto immaginare di incontrare un uomo con così tante virtù… però, proprio perché tu sei così, io non posso restare lo stesso che sono stato finora.»

La bocca si era fatta asciutta come non bevesse da giorni. Tutti gli spettri della sua mente, tutte le paure che aveva avuto su quanto sarebbe successo quando il caso si fosse chiuso si stavano concretizzando proprio nel momento in cui si era creduto al sicuro.

«Perché non puoi? Io ti amo così come sei.»

«Lo so bene.»

«E allora perché? Ferid, se osi rifilarmi un altro dei tuoi piagnistei su quanto sei indegno di me ti prendo a schiaffi, lo giuro su Dio.»

«Beh, non è un piagnisteo, e non è questo il punto… quello che intendo dire è che non sono degno di me.»

Certo quella risposta lo sorprese. Non seppe che cosa replicare.

«Se un uomo come te mi ama tanto… se così tante persone dai doni meravigliosi, compresa la piccola Samara, vedono in me tanto buono significa che c’è… ma non vivo la vita di un uomo che vale tanto da ricevere tutte le vostre premure e i vostri sentimenti.»

«Che… diavolo vorrebbe dire?»

«Ascoltami senza arrabbiarti, mio caro, e cerca di capirmi, anche soltanto un po’.»

Ferid lasciò scendere la gatta e si alzò in piedi, avvicinandosi a lui. I suoi occhi celesti erano tristi, ma anche insolitamente risoluti.

«Partirò, perché ci sono cose che devo fare… per me. Per sistemare i miei affari, chiudere dei conti, e liberarmi dai pesi che mi sto portando dietro da molto tempo. È una cosa che andava fatta da tempo, e che va fatta ora.»

Crowley temeva il giorno in cui Ferid si sarebbe reso conto di questo. Lui stesso si era reso conto di avere molte questioni da regolare, con i suoi genitori, con Sean, con i suoi parenti O’Brian… ma le sue questioni erano di poco conto, con persone vicine a lui, e con cicatrici molto meno vistose. Temeva che un giorno Ferid avrebbe avuto il coraggio di affrontare i suoi fantasmi e che sarebbe stato abbastanza forte da volerlo fare da solo, ma non si aspettava che sarebbe successo così in fretta.

«Non è giusto… proprio adesso che ci capiamo veramente, che ci rispettiamo… che ci… amiamo… è… proprio necessario che tu vada ora, subito? I tuoi sono morti, non è che tu possa parlarci…»

Ferid gli strinse la mano, ma scosse la testa.

«So che è difficile, Crowley… è difficile anche per me, lo sai? Non ho mai avuto un posto in cui mi sentissi veramente al sicuro, un posto in cui essere me stesso senza condizioni… e quel posto sei tu. Non è tanto facile ora lasciarlo.»

«Non farlo, allora… tuo marito non c’è più, i tuoi genitori nemmeno, e adesso anche Bobby è scomparso… qualsiasi altra cosa non è che polvere, non c’è bisogno che tu vada…»

In realtà Crowley aveva ben poche idee di quali potessero essere le questioni ancora sospese di Ferid, ma in quel momento avrebbe detto qualsiasi sciocchezza pur di non vederlo partire.

«Devo farlo. Non vorrei, ma io devo… non si inizia un nuovo libro senza aver finito quello precedente, per quanto possa essere deludente…» disse Ferid, e gli diede una carezza sul viso. «Mi dispiace, Crowley. Quel mio vecchio libro sta ancora aspettando e nessuno può chiuderlo al posto mio.»

«Invece lascialo lì… non è vero che un libro va sempre finito. Se non ci piace non dovremmo sprecare il tempo.»

«Non vale lo stesso per i libri della vita.»

Purtroppo Crowley lo sapeva. De Stasio era della sua stessa opinione.

E anche lui, preso dal suo vecchio libro, mi vuole abbandonare… non è giusto!

«Tu stai solo scappando… stai di nuovo scappando, perché hai paura di essere felice!»

Ferid sussultò a quello scatto d’ira del quale Crowley si pentì immediatamente. Era disperato, era frustrato, ma non voleva urlargli addosso. Un’immagine irascibile di lui era l’ultima cosa che avrebbe voluto lasciare a Ferid prima di una partenza che ormai sembrava inevitabile.

«Oh, sì… essere felice è qualcosa che non conosco che in minima parte. Ho paura di essere felice per molto tempo, dimenticare cosa significhi provare dolore, e poi vederlo tornare.» ammise Ferid, con l’espressione seria. «Sì, ho paura, ma non è per questo che me ne vado. Devo imparare a vivere da solo.»

«Ancora con queste assurdità?»

«No, intendo dire che devo davvero imparare a vivere da solo… a incoraggiarmi da solo. A sostenermi da solo. Non posso contare soltanto su di te… so che ti prenderesti questo incarico per tutta la vita, ma non è giusto affidarti questa responsabilità.»

Tutta la vita? Oh, sì. Sì che la prenderei per tutta la vita.

Avrebbe voluto dirglielo, ma si trattenne con tanto sforzo da stringere i pugni. Non avrebbe fatto che renderlo più determinato a partire, inseguendo un miraggio di indipendenza. Crowley si rendeva conto che era esattamente ciò di cui quell’uomo speciale aveva bisogno, ma era tremendamente difficile da accettare.

«So che è difficile, e che soffrirai… ma so che capirai… quel giorno sarai felice di avermi lasciato andare.»

Nel silenzio che seguì Ferid gli diede un bacio molto delicato sulle labbra.

«Ho il volo fra poche ore… mi dispiace di avertelo detto così, ma passare altri giorni insieme dopo questa discussione sarebbe stato ancora peggiore…»

Ferid gli strinse la mano con entrambe le sue, poi la lasciò e prese la sua gatta. Anche il suo trasportino era pronto accanto al divano, segno che aveva pensato a tutto. Con la sensazione di essere un sacco svuotato si sedette scomposto sul bracciolo del divano.

Ferid andò alla porta per infilarsi il cappotto. La cascata di capelli argentati che liberò sulla schiena gli riportarono alla mente i ricordi della notte passata, una fantastica notte, che però ora assumeva tutto un altro gusto. Era stato il regalo di commiato, l’ultima bella memoria da lasciare a qualcuno prima di andarsene…

Si portò la mano al petto.

«Hai salvato il mio cuore quel giorno solo per essere tu a farlo a pezzi?»

Ferid si voltò a guardarlo, ma dalla sua espressione dolce e sofferente insieme capì che si aspettava da lui dei commenti aspri, forse anche crudeli, come reazione alle sue decisioni. Questo se possibile fece sentire ancora peggio l’irlandese.

«Perdonami, Crowley… avrei dovuto capire che cosa mi mancava e cosa dovevo fare prima che tu ti innamorassi di me. Ora è più difficile per tutti e due, ma non toglie il fatto che non posso evitarlo. Nessuno di noi due può.»

Si avvicinò a lui e tese le mani, ma Crowley non gliele prese.

«È una prova di fede. Di fede in noi. Di fede in me. Hai fede in me?»

Davanti alla colossale ingiustizia di quella decisione avrebbe voluto sfogarsi dicendogli quanto di peggio gli poteva passare per la mente, per fargli capire anche solo una decima parte del dolore che gli stava arrecando, ma sapeva bene che era sciocco, infantile e crudele.

Fede in quello che c’era tra loro? Fede nelle possibilità di Ferid di scoprirsi l’uomo straordinario che era? Aveva creduto in concetti molto più astratti e in colpi di fortuna assai più improbabili di questi.

«Sì.» rispose allora, in un soffio.

«Allora devi lasciarmi andare. Io tornerò quando sarò pronto… tu puoi aspettarmi, oppure no.»

Questa volta fu la voce di Ferid a mancare per un attimo. Crowley sapeva che cosa stava per dire e gli fu di conforto che lo trovasse così difficile.

«Se… troverai un’altra persona che può riempire il vuoto che ti lascerò con la mia partenza tienila stretta, e lascia che sia così… vuol dire che i nostri destini si dovevano toccare e poi lasciare per proseguire separati.»

«È orribile anche solo che tu lo pensi.»

«Lo hai detto tu, no? Dio voleva che tu mi guarissi e hai fatto la tua parte… il resto, è mia responsabilità. Era inevitabile che se avessi avuto successo nella tua missione io avrei iniziato la mia, ma nessuno di noi due può sapere dove mi porterà.»

Incapace di articolare anche soltanto un altro fonema né di guardarlo, con gli occhi pieni di lacrime che gli offuscavano la vista, Crowley restò silenzioso e immobile.

«Non ti ringrazierò mai a sufficienza per quello che hai fatto per me, Crowley… oh, non piangere, mio caro.»

Quando non poté più evitare di sbattere le palpebre le lacrime scesero e le asciugò subito con il dorso della mano. Prima di allora non gli era mai successo di piangere per la fine di una relazione, ma era anche vero che nessuna relazione era mai diventata tanto importante in così poco tempo.

«Non ho mai detto che questo fosse un addio… anche se dovesse esserci qualcun altro, se non potremo più essere una coppia, resteremo comunque amici, vero? L’hai detto tu che era una bella combinazione. È difficile smettere di essere entrambe le cose.»

Crowley non replicò ma lo strinse tanto forte e improvvisamente da farlo barcollare. Dopo quell’attimo di smarrimento lui lo ricambiò con il suo stesso trasporto e così a lungo che Crowley si convinse che in verità partire per trovare se stesso fosse l’ultima idea che avrebbe voluto assecondare.

Fu quello il momento in cui decise davvero di lasciarlo andare. Fu l’assoluta certezza che Ferid soffrisse della sua decisione, che dentro di sé potesse maledire quella presa di coscienza e che fosse assolutamente certo che quel viaggio fosse un bene per entrambi loro, come coppia, che lo persuase a lasciarlo partire.

«Vuoi che ti accompagni in aeroporto?» gli sussurrò all’orecchio.

Ferid si liberò con delicatezza da quel confortante abbraccio e sorrise. Anche i suoi occhi erano diventati lucidi.

«Prenderò un taxi… devo passare a casa a West End prima di andare in aeroporto.»

«Capisco…»

«Avevo accennato a Mikaela della mia decisione di partire, ma non gli ho detto quando… saluta tu i ragazzi per me.»

Ferid si voltò, prese la sua valigia e la gatta e uscì dall’appartamento. Era evidente che avesse altre mille parole da dirgli, ma se avesse cominciato non sarebbe stato possibile prevedere come sarebbe andata. Richiuse la porta senza che si scambiassero un vero saluto, ma Crowley preferiva il silenzio che l’illusione di un “a presto” e l’orrore di un “addio”.

Si lasciò cadere indietro sul suo divano scomodo con un sospiro gravido di sensazioni, tutte sgradevoli; si passò il braccio sugli occhi e lasciò uscire tutte le lacrime che aveva a stento trattenuto in presenza di un uomo che, allo stato dei fatti, era diventato molto più forte di lui.

 

*

 

«Pensavo di trovarti in negozio.»

«Magari. A casa mi annoio a morte e sono tornata da due ore.»

Ferid tenne aperta la porta mentre Krul ne usciva, ancora goffa nell’uso delle stampelle. A complicare l’operazione ci provò Pandora, che facendo fusa da fuoribordo si strisciò contro la gamba offesa della sua comare umana.

«Dora, togliti di torno, stupida gatta.»

«Non preoccuparti, non mi dà fastidio. Con questi cosi infernali vado talmente piano che non potrei inciampare anche a farlo apposta.»

«Davvero non ti disturba tenerla?»

«No, Pandora è una gatta tranquilla… mi terrà un po’ compagnia, immagino che quello schiavista di Ash mi chiuderà in casa per settimane.»

Ferid non aveva mai visto il giardino sul retro della casa di Krul, ma davvero non era niente di speciale: coltivava anche lì qualche pianta in vaso, c’era un giovane albero di prugno selvatico dalle foglie rossastre e delle pietre di fiume segnavano il cerchio che la ragazza usava per le sue pratiche magiche all’aperto. La vista non era granché, dato che lo steccato era alto e si intravedeva a malapena la casa che dava sulla strada parallela.

«Come mai mi hai portato qui, Krul? In un altro momento avrei creduto volessi farmi secco e seppellirmi in questo minimale fazzoletto di prato, ma non sei nelle condizioni di scavare…»

Fu allora che vide la ragazza avvicinarsi all’albero e notò che alla base del suo tronco c’era una curiosa pietra stretta e alta, piantata nel terreno. La piccola stele non riportava iscrizioni.

«Che cos’è, Principessa?» domandò con la sensazione di saperlo già.

«Una tomba, per così dire. Un ricordo. E una chiusura.»

«Caspita, quanto sei ermetica oggi, piccola.»

Krul non si lamentò del nomignolo e prese un sospiro. Era visibilmente a disagio e Ferid seppe che era arrivato il momento, quello che aveva cercato di cogliere per tutto il tempo in cui erano stati soli in ospedale. Avrebbe preferito evitarle l’imbarazzo e la sofferenza, ma sembrava che non potesse più tenersi quel segreto; ormai già da quando le sue conchiglie le avevano predetto l’infausto accadimento con Robert.

«L’anno scorso… in ottobre, quando…»

«Krul.»

«Lasciami finire, Ferid! Quando mi sono sentita male per quei due giorni, io…»

«Lo so già.»

Ferid non la guardò, puntando gli occhi dritti sulla piccola tomba. Si sentiva il suo sguardo carico di stupore addosso ma non voleva aumentare il suo disagio. Aveva cercato di dirglielo già nella sua cucina, mentre lei si scusava con la disperazione di chi sa di essere agli ultimi istanti, ma non avevano avuto modo di chiarirsi a sufficienza.

«Lo so… so perché sei stata male.»

Lei si morse il labbro nervosamente.

«Mi dispiace, Ferid.»

«Non essere ridicola, non è certo colpa tua se è successo.»

«Volevo dirtelo, alla fine. Era scaduto il tempo, non potevo più farci niente… volevo dirtelo il giorno prima, ma…»

«È stato quando abbiamo litigato… per che cosa, poi?»

«Non me lo ricordo.»

«Già, neanche io… assurdo aver litigato tanto per qualcosa che dopo appena un anno nemmeno ricordiamo, vero?»

Ferid si chinò sulla piccola lapide, osservandola con tanto presunto interesse da sembrare un bambino affascinato da un acquario. Preferiva evitare di guardare Krul; avrebbe fatto qualsiasi idiozia pur di non incrociarle lo sguardo durante quella discussione e darle modo di cogliere anche solo una vaga delusione.

«Ero sconvolta quando l’ho scoperto. I medici da cui sono stata mi hanno sempre detto che sarebbe stato così difficile per me concepire che avrei fatto meglio a non sperarci.» gli confessò lei, che ancora sembrava sorpresa che quella circostanza si fosse verificata. «Non ci volevo nemmeno credere, sono stata in sei diversi consultori prima di convincermene… e poi, tra tanti uomini che potevo anche non rivedere mai più, proprio tu.»

«Perdonami la schiettezza, ma mi sono sempre chiesto come fossi sicura che fossi io.»

«Un dubbio legittimo, non mi offende.» fece lei, tornando al suo tono sbrigativo. «Senza scendere in imbarazzanti dettagli, ti basti sapere che i miei due ragazzi precedenti non avrebbero potuto essere candidati, e dopo… beh… ti avevo scaricato in modo crudele, e non te lo meritavi… il mio modo di chiederti scusa è stato non uscire con nessun altro per un po’ di tempo e darti modo di… guarire, per metterla così.»

«Sai, Principessa… in qualche maniera non avere più questo dubbio mi dà un po’ di sollievo.»

Ma aveva usato le parole sbagliate.

«Ti pesa così tanto?»

«Ah… no, non era quello che intendevo… non c’è niente che non va, davvero… semplicemente è andata così, non c’è motivo di sentirti in colpa. Non è una tua scelta che il tuo corpo non sia ancora capace di procreare… ma se proprio devo recriminare qualcosa…» aggiunse Ferid, decidendosi a guardarla. «Avresti dovuto dirmelo, anche se l’avevi appena perso. Almeno non avresti dovuto rimuginarci su tutta da sola.»

Lei non sembrava affatto convinta e pensò di capire perché avesse messo su quell’aria da bambina capricciosa.

«Krul… non devi fare tutto da sola per forza… tu non sei come me, tu hai forza e testardaggine abbastanza per conquistare il mondo anche da sola, ma lo hai visto che cosa succede a provarci. A tenere il negozio da sola per un lungo periodo, a sopportare i pesi da sola… non è stato terribile?»

«Ah, sì. Lo è stato.» ammise lei mestamente.

«Quindi non farlo più… hai tuo fratello qui con te per un po’. Comincia a condividere con lui i tuoi bisogni. Sono sicuro che gli farà piacere. Ai fratelli fa sempre piacere sentirsi in grado di sostenere e proteggere le sorelle.»

Krul prese a rimuginare su chissà che cosa, ma la sua faccina passò da incerta a irritata fino all’imbarazzo in pochi secondi. Ferid non poté non sorridere, ma all’improvviso ricordò il suo volo e controllò l’orario: era in ritardo sui tempi che aveva stabilito e se avesse trovato traffico sarebbe potuto arrivare troppo tardi per imbarcarsi.

Facendole presente l’orario del suo volo si congedò da Krul e dalla sua affezionata Pandora. Krul gli promise di fargli sapere quando si fosse ristabilita abbastanza da tornare al lavoro e come stesse la gatta; le due erano già insieme sul divano quando lui lasciò la casa.

Non avevo dubbi che si sarebbero trovate bene insieme… sono due piccole, pigre, viziate, adorabili creaturine.

Ora, valigia al seguito, non avrebbe dovuto fare altro – chiamarla impresa facile sarebbe stata ingenuità – che trovare un taxi per raggiungere l’aeroporto a South River. La sua fortuna pregressa in questa specifica operazione tuttavia lo scoraggiava non poco.

Si piazzò sul ciglio della strada e lasciò scorrere lo sguardo sulle automobili per strada, non molte invero, ma il primo taxi che cercò di fermare aveva già un passeggero. Aveva appena sospirato alla sua sfortuna proverbiale che una bella macchina sportiva rossa accostò davanti a lui con un stridio di gomme e il finestrino fumé dal lato del passeggero si abbassò.

«Serve un passaggio, Pepper?»

Basito a rasentare lo shock si chinò appena e incrociò gli occhi verdi di Connor, mentre lui abbassava gli occhiali da sole con le lenti rosse esibendogli il solito conturbante sorriso.

«Connor Maguire, che diavolo ci fai qui?»

«A quanto vedo, il salvatore della provvidenza.» fece lui accennando alla valigia. «Buttala dentro e salta su.»

«Non serve, stavo cercando un taxi.»

«L’hai trovato, ed è anche gratis, meglio di così che altro vorresti?»

Connor gli lanciò un’occhiata maliziosa, sfilando gli occhiali e mordicchiando la stanghetta.

«Potrei avere anche un extra, se dovessi volerlo…»

«Il taxi basterà.»

Ferid spalancò lo sportello posteriore e caricò la valigia, avendo cura che le rotelle non sporcassero i lussuosi interni, e poi salì al posto del passeggero. Connor parve soddisfatto di aver concluso l’affare e si rimise in strada al primo spiraglio nel traffico.

«Dove la porto, signore?»

«Devo andare all’aeroporto Chambers, ma lo riterrò già un grande favore se mi accompagnerai a una stazione di taxi.»

«Non essere ridicolo, ti porto io fino al Chambers.»

«Ti ringrazio molto, Connor, ma è parecchio distante da qui… e tu non abiti a Satbury vicino al porto?»

Approfittando di un incrocio al quale dovettero fermarsi lui posò la mano sul suo ginocchio per un attimo, pur senza guardarlo.

«Per niente al mondo mi perderei un viaggio da solo con te, Pepper… specie se tu lo considererai un favore da restituirmi prima o poi~»

Ferid si preoccupò un po’ per quel favore che gli avrebbe chiesto indietro, ma concluse che quello potesse essere più un tentativo di stuzzicarlo che un monito a tenere a mente un debito.

«Al Chambers, uh…? Stai andando dalla famiglia di Ginger in Carolina?»

«Stanno in West Virginia… ma no.»

«No? E dove te ne vai solo soletto?»

Non ha molto senso nasconderglielo… e poi, lui forse potrebbe aiutarlo…

Ferid fissò il profilo di Connor con intensità inedita.

È l’unico che potrebbe aiutare Crowley in questo distacco doloroso.

«Vedi, Connor, in realtà io e Crowley abbiamo appena preso una… pausa di riflessione, in un certo senso.»

«Oh? Questo mi sorprende. È per il tuo ex, quello che è passato alla pagina più bassa e triste della storia come Vampiro di West End?»

«No, Bobby non c’entra… sono stato io a prendere questa pausa. Che tu mi creda o no, l’ho fatto perché mi serve del tempo e dello spazio per crescere… senza che lui sia sempre dietro di me a proteggermi.»

Con suo stupore Connor annuì con espressione seria.

«Certo che ti credo. Molto ammirevole da parte tua riconoscere la tua immaturità emotiva, trovo davvero commovente che tu voglia crescere invece di aggrapparti a Ginger come l’edera.»

I complimenti e la comprensione di Connor avevano sempre lo strano effetto di rinforzare le convinzioni di Ferid, e lui non sapeva spiegarsi perché la sua opinione gli risultasse tanto importante.

«Quindi dove stai andando a crescere, Pepper?»

«Ah… ecco… sto tornando in Inghilterra… ci sono delle questioni che devo chiudere… cosa farò e dove andrò dopo non lo so ancora. Non ho deciso, ma penso dipenderà dal finale del libro della mia storia inglese.»

«Che metafora soave~ per questo mi piace uscire con gli amanti della letteratura, tirano fuori certe perle che arricchiscono davvero i miei ricordi di loro!» commentò lui con un’aria nostalgica, come se fosse perso nei ricordi di lontane relazioni romantiche. «Beh, ti serve un compagno di viaggio?»

«Ti ho appena detto che vado in Inghilterra, non è proprio dietro l’angolo.»

«Sono un tipo avventuroso… e poi si accompagnano sempre gli amici quando serve.»

«Se la pensi così, occupati di Crowley mentre sono via… ha bisogno di qualcuno come te, adesso. Qualcuno che lo sappia curare con le parole giuste.»

Connor frenò repentinamente, tanto da far bloccare le cinture di sicurezza. Ferid si guardò intorno col cuore in gola per lo spavento, chiedendosi se avesse visto qualche animale in mezzo alla strada, ma non vide nulla. Si accorse che Connor guardava lui con aria sgomenta.

«Da dove ti viene una così alta considerazione della mia persona?»

«Che stai dicendo? Si vede lontano un miglio che sei una persona gentile, nonostante i tuoi orrendi modi di presentarti, di porgere un invito e di toccare le persone.» ribatté Ferid, vagamente seccato. «E di guidare, aggiungerei.»

Connor sembrava aver perso le parole per la prima volta da che lo conosceva. Ripartì con l’aria più austera che gli potesse immaginare.

«Devo fare qualcosa per rimediare a questo tragico malinteso.»

 

*

 

Crowley si era addormentato sul divano e dopo ore era circa nella stessa posizione in cui vi si era sdraiato. La prima serie di colpi sulla porta non la udì, ma la seconda gli fece spalancare gli occhi come un urlo nell’orecchio.

Si issò seduto, trovandosi spaesato nel buio della casa; si alzò a tentoni e aprì la porta senza nemmeno pensare allo spioncino. Era così convinto che si trattasse di Mikaela o di Yuu che non spiccicò una parola quando la luce del pianerottolo gli rivelò la figura di Connor.

«Ehi, Ginger, stavi dormendo?»

«Uhm… in realtà, sì…»

«Saggia mossa, amico mio! Allora, le tue valigie?»

Connor entrò in casa e accese la luce. Crowley, ancora intontito, lo guardò senza neanche rimproverarlo e chiuse la porta.

«Di che valigie parli, Connor…? Cosa fai qui, comunque?»

«Quali valigie, dice! I tuoi parenti ti volevano a casa per il Ringraziamento, vero? Allora partiamo subito, arriveremo comodi comodi domani mattina, così posso conoscere i tuoi familiari prima e fare amicizia.» sentenziò lui, e arrivato in camera aprì la valigia sul letto come fosse casa sua. «Tu prenditi mutande, calzini e spazzolino, i vestiti te li prendo io.»

«Connor. Resettati e spiegami cosa diamine fai qui.»

Connor si piantò le mani sui fianchi con così tanta ostentazione che non gli passò neanche per l’anticamera del cervello che non stesse cercando di fargli notare anche nelle nebbie del risveglio il corpo che gli suscitava sempre tanto desiderio.

«Non è ovvio? Pepper mi ha detto che partiva, quindi ora sei da solo… e a te non fa bene. Io non ho niente da fare e i tuoi aspettavano te e un altro, no? Mi autoinvito.»

Crowley, confuso, scosse la testa e lo bloccò mentre cercava di infilare un paio delle sue scarpe nella valigia.

«Aspetta, aspetta… come fai a saperlo?»

«Te lo racconto strada facendo!»

«E vuoi venire fino in West Virginia con me in macchina solo perché non hai niente da fare?»

«Sai che io preferisco persino dolore e morte alla noia. Nulla mi fa soffrire più della noia.»

Con un sospiro iniziò a raccontare di come i suoi progetti per il Ringraziamento e una settimana bianca in Colorado fossero andati a rotoli improvvisamente, ma Crowley non era né così ingenuo né tanto addormentato da non capire che erano tutte bugie.

Tuttavia dopo la partenza di Ferid e con un lungo periodo di ferie davanti avrebbe di certo sentito la solitudine, specie dopo quell’ultimo periodo di convivenza. Inoltre il suo macinino difficilmente sarebbe arrivato tanto lontano ed era improbabile trovare un posto last-minute proprio alle soglie del Ringraziamento, e se voleva essere con la sua famiglia e i suoi nipotini per le festività non aveva molte opzioni…

Bloccò il polso di Connor mentre riponeva alcuni suoi vestiti.

«Connor, possiamo andarci, ma tu devi promettermi di comportarti nel modo più noioso ti venga in mente quando sei in presenza dei miei parenti.»

Connor lo guardò con quegli occhi verdi così birbanti che temette molto le conseguenze di avergli imposto quella condizione. Lui fece un sorrisetto e gli stampò un bacio sulla bocca.

«Tranquillo, non gli dirò che scopiamo~»

«Quello è il primo dei segreti che devi tenere!»

«Uhm? Pensavo che il primo dei segreti fosse quanto ti piace il nodo scorsoio~»

«Devi tenerli tutti e due!»

«Davvero?» fece lui, con aria preoccupata. «Oh, spero di ricordarmi di mantenere tutti questi segreti…»

«Non raccontare niente che non possa venir detto in un programma televisivo per bambini.»

«Ma io non ho bambini, non so cosa guardano…»

«Se non me lo prometti non vado da nessuna parte.»

Connor fece una risatina e sospirò: lo faceva sempre quando cedeva su qualcosa, e difatti alzò le mani.

«D’accordo, d’accordo. Mi arrendo. Te lo prometto, sarò un noiosissimo bellissimo uomo tuo amico che non ha neanche abbastanza confidenza da entrare in bagno insieme a te.»

«Perfetto. Ricordati bene questo ruolo e non ci scapperà il morto.»

«È chiaro, è chiaro. Farò finta di essere te prima che qualcuno ti svezzasse~»

Crowley gli lanciò un’occhiataccia mentre sceglieva la biancheria da portare.

«Oh, sì, ridi pure… prima o poi troverò chi ha svezzato te e gli farò raccontare tutto, e allora vedremo chi riderà.»

«Sprechi tempo, li ho uccisi apposta perché non potessero mai parlare.»

Scosse la testa e si dedicò a radunare i suoi effetti personali nella valigia, ma non poteva fare a meno di sentirsi malinconico.

A fare le valigie con lui per quel viaggio doveva essere Ferid, era lui quello che a casa sua stavano aspettando. L’idea della loro delusione offuscava la sua felicità di essere a circa nove ore da casa.

 

*

 

Era la prima neve dicembrina quella che cadeva sulla strada mentre Ferid guardava dal finestrino. L’automobile si fermò davanti a un piccolo cottage con il cancello di legno lasciato aperto sul giardino e un gazebo, coperto di neve, grande appena per fare ombra in estate a un tavolino per due.

«È questo, signor Bertrand?»

«Sì, signore.» gli rispose l’uomo sulla sessantina al volante. «Questo è il Marigold Cottage.»

«È sicuro?»

«Lo sono, signore, certamente.»

«Bene.» rispose Ferid, nervosamente. «Allora la ringrazio.»

Ferid prese un profondo respiro di incoraggiamento e aprì lo sportello.

«Signore, volete che vi aspetti?»

«Ah…»

Guardò il cottage con una certa apprensione, ma poi scosse la testa e scese.

«Grazie, non serve… prenda una stanza in paese, alla locanda che abbiamo visto arrivando… la chiamerò lì per aggiornarvi sul da farsi.»

«Farò come volete voi. Buona fortuna, signore.»

Il maggiordomo di casa Cosworth si allontanò a velocità moderata sulla strada imbiancata di neve e Ferid si strinse di più nel cappotto foderato di pelliccia grigia, indugiando sulla casetta.

Aveva un unico piano e una finestrella sul tetto lasciava immaginare l’esistenza di una soffitta. Le tendine ricamate alle finestre, la neve sui bordi dei davanzali e della tettoia e gli scuri marroni contro le pareti giallo crema coronavano l’impressione generale che quella casa fosse un enorme diorama di marzapane e glassa, impreziosito da decorazioni natalizie come la ghirlanda dorata sulla porta.

Le luci dentro la stanza di sinistra erano accese e dal vetro intuì una sagoma nera muoversi.

Indugiare proprio ora non ha alcun senso.

Risalì il corto vialetto e bussò tre volte sulla porta usando il battente, con il cuore che sembrava palpitargli direttamente in gola.

«Mi perdoni, signora…»

«Non fa nulla, Meg, sono già qui.»

La porta gli venne aperta da una signora dall’aria venerabile, con i capelli bianchi raccolti in uno chignon impeccabile, un velo di trucco rosato sulle gote e orecchini di topazio giallo ai lobi. Avvolgendosi il braccio nello scialle di lana trapunto di perle lo guardò con profondi occhi grigi.

«Posso aiutarvi, giovanotto?»

«Buonasera… io… ho l’onore di parlare con la signora Cosworth?»

La signora parve sorpresa, ma si raddrizzò quasi volesse mostrare ancora orgoglio nell’appartenere a una casata ormai decaduta.

«Sì.»

«Lady Nancy Kingston Cosworth?»

«Sì, giovanotto, ma come mai mi cercate?»

L’emozione tolse la voce a Ferid, ma tra quella anche il nervosismo: non era facile come pensava apparire un giorno davanti a un’anziana signora e rivelarle che era quel nipote che non vedeva da quando appena gattonava.

Tuttavia Nancy cambiò espressione, studiando il suo volto con stupore; arrivò addirittura ad accarezzarglielo.

«Santo cielo… sei Ferid, vero? Ferid Bathory…»

«Sì» fu la sola cosa che riuscì a replicare.

«Oh… oh, caro… non posso credere che proprio tu sia qui alla mia porta! Meg, Meg! Svelta, fai il tè e prendi gli scones!» ordinò la signora con urgenza. «Svelta!»

«Sì, signora, sì!»

La signora Meg era una cameriera o governante con tanto di grembiulone, di bassa statura e rotonda, che però zampettò in cucina con un’agilità insospettabile. Nancy afferrò le mani di Ferid come avesse ritrovato il più tenero amore della sua giovinezza e lo invitò a entrare per non indugiare al freddo.

«Eri un bambino che aveva appena imparato a correre l’ultima volta che ti ho visto, mio caro nipote… eri scomparso dal giorno alla notte un giugno di tanto tempo fa e in verità tutti pensavamo fossi morto.»

«No, nonna…»

Che effetto strano gli fece pronunciare quel nome, ma finché fosse vissuto non avrebbe mai dimenticato lo sguardo pieno di amore che quella signora, per lui come sconosciuta, gli rivolse nel sentirsi chiamare in quel modo.

«Siediti vicino alla stufa, Ferid, hai le mani gelate…» disse, e prese a strofinargliele con delicatezza. «Vederti qui, dopo tutto questo tempo… dopo aver perso mio marito, mio fratello, e mio figlio con sua moglie, credevo di essere ormai sola al mondo. Sia ringraziato Iddio per questo miracolo!»

«Nonna… mi dispiace di essere scappato di casa e di non essere mai tornato… di non aver mai provato a scriverti, anche se tu mi scrivevi ogni anno.»

«Avrai avuto le tue ragioni, caro… so bene che la situazione in casa tua era tremenda, e di certo ti sarai arrabbiato perché ti scrivevo un biglietto ma non facevo nulla per te. Avrei io da scusarmi per aver dato retta a mio marito così testardo… ma l’importante è che tu sia vivo, e, cielo, quanto bello sei diventato!»

Ferid sorrise e le fece presente che a parte il differente colore degli occhi si somigliavano. La sua ultima parente in vita passò i venti minuti seguenti a ringraziare il cielo e a bearsi di ogni singolo centimetro del viso che aveva davanti.

Pur pensando che dopo pochi giorni Crowley già gli mancava terribilmente, Ferid non rimpianse la sua scelta e quel viaggio davanti alla felicità di quella donna, e godette senza alcuna remora di ogni goccia di quel profondo e avvolgente amore familiare come una pianta dopo una lunga, lunghissima siccità.

 

*

 

Anche a Eanverness, West Virginia, il primo dicembre nevicava. Crowley risalì le scale di legno cigolanti con una coperta aggiuntiva sotto il braccio, e accennò un saluto con la mano mentre sua cognata Florence – la moglie di suo cugino Nathaniel – lasciava la casa di Gideon e Susan per tornare alla sua fattoria, cinquecento metri più avanti, dopo essere rimasta a parlare con lui per ore dopo la cena. Lei sorrise senza parlare per non rischiare di svegliare qualcuno e uscì richiudendosi la porta alle spalle.

Crowley percorse il corridoio in punta di piedi e raggiunse la stanza in fondo, quella che era sempre stata sua quando viveva dai suoi nonni, e a memoria trovò la lampada sul comodino per accenderla. La camera era rimasta esattamente identica, con le medesime tendine e il letto di ferro che per fortuna era già allora di una misura per adulti. L’unica modifica era stata fatta un giorno prima del Ringraziamento, infilando in un angolo un altro letto.

Crowley sorrise nel vedere Connor che dormiva come un sasso, raggomitolato come un bambino. Aveva voglia di scattargli qualche foto compromettente da usare come arma nel caso gli fosse servito un favore, ma si sforzò di essere superiore a questi bassi mezzi e si limitò a stendere sul suo compagno di viaggio la coperta aggiuntiva. Lui non si mosse né fece alcun verso.

Raggiunto il suo letto si tolse gli scarponi e si cambiò per mettersi a dormire, dato che erano quasi le due di notte, ma quando vide la neve cadere lentamente contro il vetro esitò. Invece di infilarsi subito sotto le coperte recuperò qualcosa da una tasca frontale della valigia e solo dopo si infagottò sotto molteplici strati di coperte fatte a uncinetto da nonna Susan.

Si trattava di un libriccino di poesie che aveva scovato quando era andato a ripescare il rasoio e lo spazzolino da denti che aveva frettolosamente ficcato in quella tasca. Lo aveva trovato la sera dopo il loro arrivo a Eanverness e da allora lo aveva tirato fuori almeno una volta al giorno.

Era l’ultimo messaggio di Ferid lasciatogli evidenziando le due strofe, con una fotografia di un certo professor Trobiano a segnare la pagina, in una tasca che avrebbe controllato solo al momento di partire per il West Virginia. Per farglielo leggere solo quando lui sarebbe già stato lontano.

Ancora una volta trovò le strofe sottolineate di rosso e le rilesse con la medesima emozione della prima volta.

 

“Il vero amore è come una finestra illuminata in una notte buia.

Il vero amore è una quiete accesa

 

Ancora una volta sorrise e la rilesse, mormorando così piano che quasi non la udì lui stesso, e sentì un po’ meno la mancanza di Ferid. Era quasi come averlo vicino quando mormorava piano piano nel sonno.

Ripose il libro nel cassetto del comodino e fece per spegnere la lampada, ma non lo fece. Sorrise, questa volta con una certa malinconia, mentre si girava sul fianco e chiudeva gli occhi.

Non dubitava che un giorno sarebbe successo, ma avrebbe tanto voluto sapere esattamente quando lui e Ferid avrebbero potuto tenere la loro quiete di nuovo accesa.

 

*
*
*

E così, un altro viaggio finisce.
Sì, è vero che Il Vampiro di West End è una storia pensata per essere la prima di tre parti, tutte di per sé autoconclusive, ma al momento solo un primo capitolo della seconda parte è finito. Ci vorrà tempo per il seguito.

Quello che posso dire è che questa storia non sarebbe finita e non sarebbe neanche a metà, probabilmente, se non fosse stato per il lockdown dovuto al Covid: buttai giù il primo capitolo e una traccia della trama nell'agosto 2019, poi ho preso a lavorarci a febbraio 2020. L'ultimo punto è stato scritto il nove agosto dello stesso anno. Senza lockdown non avrei mai avuto tanto tempo per finire tanto in fretta. Che dire? Non tutto il male viene per nuocere, e pare sia vero sebbene ritrito.

Non ho ricevuto molti commenti come un tempo, ma le visualizzazioni sono tante e so che siete un gruppetto nutrito a seguirla, e ringrazio profondamente te che fai parte di questo gruppetto e che hai continuato fino alla fine.
Come ogni volta spero di aver lasciato qualcosa, anche una sola frase, che possa accompagnarti nel tempo.

Come ultima perla, vorrei dirvi che dove vivo io la neve è una rarità che non si vede che per pochi giorni e neanche tutti gli inverni... eppure, proprio oggi che pubblico quest'ultimo capitolo nevica.
Un degno finale.

Arrivederci al prossimo viaggio.

I contatti:
Blog:  notturnoofnovel.wordpress.com
Twitter: @LadyBluette
Wattpad: @A_typing_heart
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