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Autore: Gaia Bessie    14/02/2021    3 recensioni
Albus s’è tappezzato la mente di fotografie di Ariana. Indossano tutte una sciarpa azzurra.
[Albus/Gellert | OS | What if | Seconda classificata al contest "All about Grindeldore" indetto da fantaysytrash sul forum di EFP]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Aberforth Silente, Albus Silente, Ariana Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Attenzione: ampio what if, possibile OOC.

Albus s’è tappezzato la mente di fotografie di Ariana. Indossano tutte una sciarpa azzurra.
 
 
Vite allentate
 
Godric’s Hollow puzza di cornici rotte: s’è allentata una vite, così che adesso tutta l’impalcatura di fotografie nella stanza di Kendra è legno marcio e qualche tarlo, tutto insensato, tutto rosicchiato dal tempo che strenuamente avanza e mai riposa. Lui stesso è tutto una rosicchiatura insensata e ingiustificata, che si ripiega sugli angoli smussati del tempo e lì si sfilaccia in un movimento privo di dolcezza, privo di poesia.
Albus ha sempre pensato che, se la magia possa risiedere in qualcosa che non sia realmente magico, allora, essa troverà amica e amante nella musica – dolce il suono che lentamente s’affanna e scompare d’un respiro ansante, al suo fianco, e la musica forse è perfino quello: rendere dolce un fastidio. Perché amare è fastidioso, lo è sempre stato. Amore non ripaga la debolezza che scatena e, allora, piegarsi sotto il corpo di Gellert e trattenere un sospiro quieto sarà sempre e solo un fastidio.
Ha sempre creduto nella sacralità dei pensieri, Albus, ma mentre Gellert gli affonda dentro con un soffio scontento e gli spalanca le gambe senza alcuna delicatezza, deve ricredersi anche su una certa santità dell’atto. Che, comunque, nessuno di loro due conoscerà mai.
S’amano in silenzio – ché le parole non serviranno mai più – forse persino controvoglia, Gellert, quando fissa la cornice rotta di una foto e vi punta lo sguardo con insofferenza, come se volesse cogliere i pensieri di quella figurina rappresentata lì sopra in bianco e nero. O forse è la ragazza lì ritratta ad essere bianca, nera.
E azzurra.
Perché Gellert potrà mordersi le labbra per soffocare ogni mormorio – sia sacro quel che semplicemente lo è e può continuare a esserlo – ma il suo sguardo puzzerà per sempre di legno marcito. Potrà crollare sul petto di Albus ma, nonostante tutto, l’immagine di Ariana Silente gli rimarrà proiettata davanti agli occhi.
Al suo collo, come un cappio, una sciarpa azzurra.
 
***
 
Gellert sa che Albus cerca una soluzione: che la sera studia per il bene superiore, ma Ariana è bene e, sebbene non superiore, il giovane Silente pensa a un modo per salvarla dal labirinto di ombre e specchi ch’ha nella mente. Ma nella mente ogni specchio s’incrina e, allora, per salvare Ariana Silente non ci sarà mai spazio nella vita che gli appartiene.
Non è amore, si dice silenziosamente Gellert mentre osserva Albus assopito al suo fianco, ma appartenenza. E loro s’appartengono a vicenda – Albus di più, Gellert drammaticamente di meno, e se quello non è l’anteporta dell’eternità, allora, Grindelwald non sa dire cosa altro potrebbe vivere per sempre.
E forse non è la bacchetta, la pietra o il mantello e l’unico vero dono è quello sguardo disincantato che improvvisamente fa capolino nell’oscurità come se la temesse, come se non bastasse un banale Lumos a dissiparla. È tutta dissipata, la figura sottile di Ariana, dissolta nell’aria che la circonda e poco ne rimane.
La ragazzina lo guarda. Capelli biondi sciolti sulle spalle come una colata di sole, si porta con dolcezza un dito sulle labbra.
Ha una sciarpa azzurra al collo, quando l’ha presa?
 
***
 
«Fa freddo, oggi» Albus si soffia sulle dita, sfregandole per cercare di racimolare un’inutile briciola di calore. «Non trovi?».
«Fa sempre freddo, in questo posto di merda» commenta Gellert, dando un calcio stizzito a un cumulo di neve. «Non capisco con che voglia t’ostini a rimanere qui».
Non lo dice, ma in realtà sa cos’è quella voglia, quell’esigenza: una figurina con una testa piena di capelli biondi, occhi azzurri come ghiaccio secco e, infine, una sciarpa azzurra al collo. Sa che Albus si piega dove Ariana calpesta la neve, diviso in due: divisoria è l’esigenza di proteggerla quando vorrebbe solamente lasciarla andare. E vedere dove andrà, sua sorella, se finalmente si lascerà scorrer via come acqua di fiume – una sciarpa a segnalare la sua presenza, sul pelo della superficie annacquata dell’esistenza.
«Lo sai» risponde Albus, senza scomporsi. È quieto, nel suo silenzio, composto. «Non posso di certo prendere e andare via».
«Per il bene superiore…» comincia l’altro, alzando una mano. «Potresti».
Ma Silente scuote il capo, e capelli rossicci gli proiettano un’ombra sanguigna sulla fronte, deformandola nell’ennesima ferita aperta. Controluce, pare che quei ricci siano colate di sangue che gli scendono lungo il naso, coprendogli gli occhi.
«Il bene superiore è troppo, a volte» risponde, calmo. «Rispetto al bene relativo. Possiamo pianificare quanto vuoi, Gellert, costruire castelli in aria… ma io, tu, siamo comunque bloccati qui».
«Guardami» Grindelwald è secco, atono, e Albus semplicemente non riesce a fronteggiare quegli occhi. Avrebbe troppo timore di rispecchiarcisi dentro e riscoprirsi cambiato. «Ti ho detto di guardarmi in faccia».
Ma l’altro non riesce a farlo: ha il sentore di un addio, quella richiesta, e lui semplicemente pronto per assumersi quella responsabilità – ma responsabilità si ha solamente quand’amore si restituisce e lui ama, certo che sì, perché bene superiore è anche amore. Anche se Gellert, questo, si rifiuta di comprenderlo. E può fare ricerche, segnare indizi, pensare e pensare: ma niente riuscirà semplicemente a colmare quell’inquietudine che entrambi stanno provando. Fa freddo, a Godric’s Hollow, ma fa freddo anche dentro, tra le costole e in mezzo al cuore.
Qualcuno lo tagliasse a metà, come un pomodoro un po’ aspro, scoprirebbe che l’interno è rimasto congelato.
«Guardami» ripete Gellert, senza alcuna inflessione. «Pensavo fossi abbastanza coraggioso per farlo».
«A che serve, il coraggio?» ribatte Albus, con tono stanco, disincantato. «Alla fine di tutto, cos’è che conta?».
«Il bene superiore» risponde Grindelwald, con ovvietà. «Cos’altro dovrebbe contare, secondo te?».
Ma il rosso ha uno sguardo triste che non perdona, sfregia i loro due volte insieme, insieme li ferisce. Gellert sorride, con ovvietà, perché ovvio era che Albus decidesse di uscirsene con una frase filosofica: che sia esistenzialista, il giovane mago, o semplicemente abbia qualche rotella che non funziona, questo non sa dirlo. Come potrebbe?
Così, lui, che ha i capelli decisamente meno rossi e la testa che gira in un verso che è inequivocabilmente corretto, semplicemente china il capo di fronte a quella risposta che manca (ed Albus, in ogni suo respiro, è tutto una mancanza di qualcosa).
«Comunque sì, oggi fa freddo» risponde, in un sorriso macchiato d’un ironia che è più gelida di quella neve che ha calciato poco prima. «Penso di avere il mal di gola».
Il giovane Silente l’osserva, con un sorriso divertito sul volto, e gl’indica la gola nuda, esposta. Potrebbe depositarvi un bacio, e ritrovarsi le labbra macchiate di sangue e le vene e le arterie incastrate tra i denti come fili di rame. Dissanguarlo lentamente, per riscaldarsi nel freddo stringente, non sarebbe bello?
«Potevi portare una sciarpa» osserva Silente, saggiamente. «Ma, forse…».
È che il freddo l’hai dentro, ma questo a lui non riesce a dirlo. Perché Gellert si sfiora la gola tra le mani, con uno sguardo che è densissimo di significati insignificanti che pur qualcosa però significano, e stringe appena. Forse, vuol sentire l’aria che raschia la gola dall’interno, forse vuol semplicemente farla smettere.
«Ne avevo una, ma non ricordo dove l’ho lasciata» risponde, atono. «Spunterà fuori, prima o poi».
Albus alza un sopracciglio. Gellert è un genio ma non per questo ha dentro il disordine ch’ha dentro ogni poeta, perché metodico e ordinato è sempre in ogni sua parte, razionalmente asettico in ogni sua singola parte.
Lui no. Albus è poesia, perché la magia è anche quello: musica, poesia, note sbagliate che s’affannano su un pentagramma per trovare un senso che nella realtà non possono avere. È incantesimo in una nota stonata, Albus, una sciarpa sfilacciata come un pentagramma tratteggiato storto.
«Di che colore è?» gli domanda, con tono casuale. «Magari l’hai lasciata da qualche parte a casa mia».
Strano, che la chiami casa – pensa Gellert, in un accenno di sorpresa che gli tinge di rosa i pensieri – quando l’ha sempre definita prigione. Strano che abbia insistito che Aberforth tornasse a Hogwarts, quando avrebbe semplicemente voluto cedergli armi e bagagli e fuggire via.
Eppure, Albus è rimasto. E in un brandello di un secondo involontario pensiero, Gellert si rende conto che semplicemente sa. Perché in uno sguardo che ha significato tutto, gliel’ha detto, sfiorandosi la gola coperta da una sciarpa rossa.
Musica stonata, quella consapevolezza, poesia mal rimata: ma Albus lo sa, l’ha sempre saputo e sciocco lui che ha pensato di poterglielo occultare, di poterglielo celare e semplicemente nascondere alla vista.
«Verde» risponde, calmo. «A righe nere».
Continuare a mentire, perché? Perché Albus potrà anche sapere, ma incerto è lo sguardo che si posa sulle mani, accarezzandole con le ciglia e soffiandovi sopra.
Gellert ha mentito, se lo sente, ma non riesce nemmeno a dirlo a lui: tutti abbiamo i nostri punti deboli, pensa. Il suo è quello sguardo cupo e tempestoso che s’è perso in una tempesta di pensieri. Potrebbe scommetterci che, n’è dolorosamente certo, riguardano tutti quella sciarpa ormai perduta.
Che forse sarà stata a righe nere, ma non è verde. Albus lo sa, perché l’ha vista.
È azzurra e sta nel suo armadio.
 
***
 
La mente di Albus è una soffitta disordinata e Gellert non ha francamente idea di come fare per raccapezzarvisi. Vi sono libri, biglietti, qualche lettera e perfino delle foto strappate a decorarne il pavimento. E, quando finalmente Silente si deciderà a riordinarla, sarà troppo tardi e lui avrà già compreso ogni cosa.
Comprendere il comprensibile, e anche oltre: il bene superiore non perdona il buio pesto della mancanza di comprensione, e questo Gellert lo sa fin troppo bene. Il bene superiore restituisce quel che la comprensione toglie ma, purtroppo, anch’esso si rivela un concetto comprensibile più che tangibile.
La mente di Albus è dominata da conigli di polvere impastati con lunghi capelli biondissimi, bottiglie vuote lasciate da Kendra accanto ai letti, cornici rotte e odorose di legno marcito. E, quando si deciderà a raccogliere tutto questo disordine che domina la sua vita, sarà sempre e solo troppo tardi.
Gellert non s’è mai addentrato in quella stanza buia – segretamente in una parte della sua, di mente, che non riconosce nemmeno con sé stesso, lo sa: ha paura anche lui – ma sa che vi troverebbe un fantasmino in abito bianco e occhi azzurrissimi su capelli biondi come una spiga di grano. Ariana è in ogni pensiero dei suoi fratelli e questo, a lui, non potrà mai andare bene. A volte, il desiderio di mettersi a urlare è tanto, ma non vi cede mai.
Quieta, la sua rabbia, quiete le sue grida che s’infrangono nella sua soffitta (ordinatissima) di pensieri. Lì non vi sono conigli di polvere, bottiglie vuote, cornici rotte. Ma, analogamente a quella di Albus, forse c’è un posto per Ariana Silente.
Nelle sue fantasie, cui Gellert cerca sempre di non cullarsi più del dovuto, l’incontra e le parla: e lei, sorprendentemente, risponde.
«Si può sapere perché non parli mai?» ringhia, mostrando i denti innaturalmente affilati. «Sarebbe tutto più semplice se lo facessi».
Ariana sillaba la sua risposta: è l’unico modo in cui riesce a immaginarsene la voce. Dolce, non dolce, aspra, amara: forse, è costretto a dirsi, non la sentirà parlare mai nemmeno nelle proprie sciocche fantasie.
Inutili, quelle fantasie, superflue. Eppure ci sono e iniziano tutte allo stesso modo: con Ariana che sillaba delle parole e gli tende le mani, come per invitarlo. Vieni con me.
Lui le sfiora la mano, ma non la prende mai: persino nelle sue fantasie, a prendere Ariana non ci riesce mai. Implicitamente, ciò è consapevolezza che non riuscirà mai a saggiarne la pelle, a indovinarne la consistenza sotto le mani – si scioglierà come polvere o rimarrà in piedi?
«Si può sapere cosa ti turba così tanto?» gli domanda Albus, tossicchiando. «Lo vedo, che non stai leggendo».
«Non leggo il latino velocemente come te» risponde l’altro, atono. «Ma se vuoi possiamo sfidarci con maggiore onore sul greco antico».
Silente sorride, senza distogliere lo sguardo dal proprio testo: è Bathilda Bath a procurargli, per motivi di interesse personale, quei volumi di Storia della Magia. Cercano tracce dei doni della morte, della bacchetta lui, della pietra Albus. Ma, questo, la povera signora Bath non lo saprà mai.
La storia è tempestata di tracce, ha detto Albus prima di iniziare quella ricerca, basta saperle cogliere: l’ultimo proprietario dei doni è lì, da qualche parte, bisogna solamente trovarlo.
«Con te è tutta una sfida» osserva il rosso, con aria divertita. «Ma attento a non sfidare la persona sbagliata, Gellert, o ti si ritorcerà contro».
Grindelwald alza un sopracciglio, con aria ironica. «Un consiglio, Albus?» domanda. «O una minaccia?».
Albus Silente sorride nuovamente, scuotendo il capo: ha i capelli davvero troppo lunghi, gli proiettano addosso le ombre che ha dentro.
«Decidilo tu» gli risponde, chino sul proprio tomo. «D’altronde, l’interpretazione è una cosa effimera: ognuno legge quel che vuole, nelle cose».
Gellert non la sopporta, quella mancanza di senso pratico che vive in Albus, non tollera quel suo dispensare perle di saggezza che, nella realtà, non  contano mai niente. È divenuto intollerante nei suoi confronti: non subito, ma giorno dopo giorno, quand’ha visto che non potrà mai dominarlo come aveva pensato – e lo spirito di Albus preserva una vena di ribellione, una vena disgustosamente Grifondoro, che lui non comprenderà mai.
Gellert vorrebbe rispondere ma, come ogni volta che si ritrova a parlare con Albus Silente, per una frazione di secondo di troppo gli mancano le parole.
«Ora torna a studiare» lo interrompe questi, con tono sbrigativo. «O non ce ne andremo mai di qui».
Questa volta, Gellert ha la risposta già pronta, l’ha lì da quel che pare ormai mezzo secolo o poco più.
«Come se tu potessi andartene da questo schifo di posto» lo accusa. «Come se lo volessi, poi».
«Quando Aberforth avrà preso i M.A.G.O.» commenta Albus, incerto. «Potrò andare via».
Ma a Grindelwald quella risposta non basterà mai, così che ride in quel suono raschiato che ama poter sperimentare nel suo dolore. Duole la gola, duole di meno il cuore: Gellert ride, e vorrebbe solamente sputare sangue.
«Non ho tutto questo tempo, sai?» risponde, calmo. «Tu sei troppo legato a cose effimere, come hai detto tu. A cosa ti serve, poi, una famiglia?».
Albus si alza in piedi con uno scatto, pronto a replicare, ma viene interrotto da un suono che non capita mai in quella casa: una risata squarcia il silenzio, sfilacciandolo in parti diseguali e tutto ciò che Gellert riesce a pensare è che il suono è semplicemente quello.
Il suono della voce di Ariana che corre verso il fratello mediano e gli salta al collo, finalmente felice, e finalmente semplicemente parla.
«Sei tornato!».
Ed è una voce che non è nemmeno dolce, non dolce, aspra o amara: è semplicemente quella che aveva sempre immaginato nelle sue fantasie. Un po’ rauca, forse in disuso, ma che gli squarcia la mente in un sussurro.
«Cosa ci fai qui?» domanda Albus, rivolto a suo fratello. «Pensavo tornassi domani».
«Il Preside mi ha permesso di tornare prima» risponde Aberforth, burbero. «Per poterti aiutare».
Gellert soffoca una risata, perché i suoi occhi sono puntati su di lui: di un azzurro imbarazzante e lui non lo sa dire, semplicemente non lo sa, che dovrebbero andare via e lasciare quella ragazzina con Aberforth.
Ha occhi azzurri, un cappio stretto al collo. Ma quello sguardo, che ormai Gellert conosce, è un cappio al suo, di collo.
 
***
 
Albus e suo fratello hanno cambiato stanza, lasciando a Gellert l’ingrato compito di ignorare lo sguardo curioso della sorella dimenticata.
Ariana siede sul pavimento, dondolando leggermente, e ogni tanto gli lancia uno sguardo incuriosito.
«Pensavo non parlassi» osserva Gellert, atono. «Non che fosse solamente il tuo ennesimo capriccio».
Lei sorride, si alza di scatto: non è più una bambina, pensa lui, è cresciuta e nessuno dei suoi fratelli pare rendersene conto.
«Potresti cominciare dicendomi perché hai preso la mia sciarpa» commenta, senza distogliere lo sguardo da quel viso. «Pensavi non me ne fossi accorto?».
Ariana scuote il capo, indicandola con fare curioso: l’ha ancora al collo. «L’ho presa dall’armadio di Albus» tossisce, a fatica. «Ma sapevo che era tua».
Gellert alza un sopracciglio, perplesso. «E la indossi anche in casa per quale motivo?» domanda. «C’è qualcosa di strano, in te, piccola Silente».
«La paura fa sentire sempre freddo» risponde lei, sopprimendo un brivido. «E il freddo fa sempre sentire la paura».
Gellert la guarda e il lui inizia a maturare un pensiero: deve andare via da Godric’s Hollow, prima che sia troppo tardi.
«Di cosa hai paura?» le domanda, conoscendo già la risposta.
Lei non risponde. Si scioglie la sciarpa dalla gola e la lascia semplicemente cadere ai suoi piedi.
«Cosa state facendo?» Aberforth è sospettoso, nel vedere Gellert con le mani perse nel tessuto morbido della sciarpa che non gl’appartiene più. «Ariana?».
Lei guarda il fratello e sorride, scuotendo il capo dolcemente.
 
***
 
«Dobbiamo andare via».
Lo dice ad Albus quella sera, sul portico di casa sua. «Andare via, trovare i doni» continua, concitato. «Ma non possiamo rimanere qui, Albus. Io prendo e me ne vado, faresti meglio a scegliere e scegliere me».
Silente china il capo. Dilaniato è da quella prospettiva, dilaniante il silenzio, dilaniante i fatti: Gellert glieli ha semplicemente messi davanti, così come sono fatti, e gli ha domandato di scegliere. Albus sospira, dolcemente, e sta per ripetere che non può.
Ma suo fratello esce dalla porta, con uno sguardo torvo (che dilania). «Devi rientrare» borbotta. «Ormai è ora di cena».
Albus sorride, lieto che Aberforth gli abbia fornito una scusa per troncare quella conversazione, ma Gellert non si lascia fermare.
«Dobbiamo andare via» sibila, prendendolo per un braccio. «Non ti farai fermare da un abominio come tua sorella, spero».
Non capisce chi abbia fatto partire per primo l’incantesimo, e nemmeno l’ultimo: ma sente Ariana tirargli un braccio, ha ancora la sua sciarpa al collo, l’ha anche quando esanime crolla sul pavimento.
È silenzio, dilaniato solamente dai singhiozzi furiosi di Aberforth. Albus lo guarda, ha il terrore negli occhi.
«Dobbiamo andare via» sussurra, ha gli occhi pieni di lacrime, anche lui. «Avevi ragione».
 
***
 
San Pietroburgo odora di cornici spezzate: s’è allentata una vita, quella di Ariana, ed è crollata sul pavimento in un turbine di frammenti. È tutta rotta, questa vita, queste vite, queste viti – è tutta rotta anche Ariana, che è crollata al suolo e non s’è alzata più.
Dobbiamo andare via, ha detto Albus, un posto dove possiamo scappare ci deve pur essere: e per questo Gellert ha proposto l’unico posto dove fa abbastanza freddo per la dimenticanza, che è più fredda d’ogni pensiero e meno tangibile di ogni riflessione.
Ha proposto la Russia per questo: culla di un mondo senza pensieri, Gellert ha deciso di nascondersi lì, tra un mucchio di neve.
«Deve averla un fabbricante di bacchette» sussurra Grindelwald, sfregando le mani tra di loro. «Dobbiamo cercare tra di loro, tra i più famosi: c’è Gregorovitch, Smirnov, e come si chiamava il belga? Merlino, ce ne sono troppi!».
Albus scuote il capo, continua a toccarsi il naso: al funerale di Ariana, quando insieme a Gellert si sono Smaterializzati a casa sua in Russia, Aberforth gliel’ha rotto con un pugno. Lo guarda e ha una paura negli occhi che Gellert non gli ha mai visto.
«Cos’hai?» gli domanda, senza cortesia, senza dolcezza. «Ormai siamo qui, Albus, quindi tanto vale ragionare».
«Il belga» tossisce finalmente Silente, infine. «Peeters».
Gellert sorride, ha al collo una sciarpa azzurra a righe nere.
 
***
 
Casa Grindelwald, a San Pietroburgo, profuma di nuovo: intonsa, inusata, s’apre di fronte al suo legittimo proprietario. Dentro, i quadri sono tutti sul pavimento: i chiodi hanno ceduto, si sono allentati e tutto è crollato a terra, facendo una strage di cornici. O forse è la vita che semplicemente s’è allentata e, allora, crolla ogni cosa e tutto il resto è una strage dove i caduti sono solamente oppositori. Gellert ha detto così.
Che Ariana era una vita sprecata, perché lo distraeva dal Bene Superiore e, allora, meglio che sia morta. Ha detto così e ad Albus s’è incrinato il cuore, allentati i bulloni che lo tengono insieme e, allora, è semplicemente rimasto insieme per la pressione delle costole. Sprecata, sua sorella, non lo è mai stata – così pensa Albus, in un momento di cieca ribellione, ma a lui semplicemente non lo dice mai.
«Domani mattina» commenta Gellert, facendogli strada verso le camere da letto. «Partiremo per il Belgio. Mi toccherà creare una Passaporta».
Albus annuisce. Sembra divenuto sua sorella, perché faticoso è cavargli anche solamente un brandello di discorso, e le poche parole che pronuncia hanno la sonorità raschiata che era di Ariana. La pensa, questo Gellert lo sa ma, d’altronde, la pensa anche lui: anche se questo, ad Albus, non potrà mai confessarlo.
Che la pensa, che forse la vuole persino, ma è silenzioso quel pensiero che lo macchia di una colpa che mai s’è assunto. E colpevole lo bacia, lo spoglia, senza spiegazioni.
Albus non dice di no, come potrebbe? Ha abbandonato ogni cosa per seguirlo, quindi inclina la testa per assecondarlo, lo stringe a sé: l’ama davvero, gli sussurra sulle labbra, come potrebbe essere altrimenti?
Gellert vorrebbe non rispondere e tacere, ma l’altro un ti amo se lo aspetta e lui non fatica a farselo scivolare via dalle labbra come un’elemosina schifata. Ma per davvero, sussurra Albus, dici sul serio?
Come potrei mentire, è la risposta. Ma Gellert lo sa come potrebbe mentire e la maniera è esattamente quella: con dolcezza, mordendogli il labbro, io ti amo. Come potrebbe essere altrimenti, si dice Albus, d’altronde gli ha chiesto di andar via con lui.
D’altronde lo sfiora, lo tocca, lo stringe come se tutta la vita dipendesse da quel semplice contatto tra pelli. Inutile, sporco, squallido.
D’altronde gli fa scivolare via i vestiti e lo riscalda con quel che gli rimane – il proprio corpo – e allora va di nuovo tutto bene e Aberforth non lo odia e Ariana non l’ha uccisa lui direttamente o con il disinteresse. O, almeno, di questo vorrebbe convincersi.
Ma è inutile far cadere ogni indumento a terra, e sporco chinarsi sul pavimento (d’altronde, pensa Albus, ormai il suo posto solo quello può essere) e semplicemente squallido tutto il resto. Squallido lui che ne elemosina l’amore come se gli fosse dovuto, squallido Gellert che non esita a concederlo.
L’ama davvero, si dice.
Eppure, nel fondo della sua mente contorta e spanata, un’immagine non gli lascia tregua: Ariana che sorride, il collo al riparo in una sciarpa morbidissima.
Gellert gli s’accascia sopra, ansimando.
Azzurra.
 
***
 
«Je ne sais pas! Non ho idea di cosa sia la cosa che state cercando» Peeters guarda i suoi due interlocutori, con aria perplessa. «Io vendo bacchette, signori, non capisco».
Lo sguardo di Gellert è d’acciaio.
Albus sa già a cosa sta pensando, ancor prima che alzi il braccio e mormori quelle parole maledette, maledicendoli entrambi per tutta la vita.
Inutile, cercare di impedirglielo, sporco il sangue che smette di fluire e squallido quello sguardo annacquato che il venditore di bacchette rivolge loro come ultimo lascito.
Avada Kedavra, ha detto Gellert con un urlo.
Oblivion, gli ha risposto Albus in un sussurro.
 
***
 
Sulla Manica c’è nebbia. Nebbiosa è la mente di Albus, ma ferma la sua decisione: forse sarà allentata e spanata la vita, ma a lui il compito ingrato di rinsaldarla. Aberforth non lo perdonerà mai e, forse, nemmeno lui potrà perdonarsi mai. Ma negli incantesimi di memoria è sempre stato bravo e, allora, anche in suo fratello riuscirà a cancellare la traccia di quella sua fuga.
L’ha amato abbastanza, si dice, dal perdonargli la mancanza d’amore – ma con una sciarpa azzurra (a righe nere) Albus s’incammina verso il canale, pronto a Smaterializzarsi a Godric’s Hollow.
Per un momento soltanto, il pensiero (squallido, sporco e infine inutile) di Gellert lo frena, ma è un momento che s’allenta e crolla giù come le cornici di sua madre: ha la mente tappezzata di foto di Ariana, Albus, e questo non potrà mai distoglierlo da quella che è la sua verità – noncuranza o premeditazione, in qualche modo l’ha uccisa lui.
Muove un passo.
Si figura già il fratello, casa, le vacanze di Natale che terminano domani.
La nebbia se lo inghiotte in un sussurro.

 
Io non so che sto facendo.
Cioé, davvero: ho sempre avuto una certezza, nella vita, cioé che a me la Grindeldore non piace. E invece,  grazie a un contest (e alla violenza psicologica), ho deciso di lanciarmi in questo esperimento molto mal riuscito. Spero comunque che possa piacere a qualcuno, nonostante il what if così ampio.
Un bacio a tutti,
Gaia

 
   
 
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