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Autore: Bored94    14/02/2021    0 recensioni
Le vite dei jōi4 (o una parte di loro) prima dell'incontro con Yoshida Shōyō
+ un capitolo extra dal punto di vista di Shōyō sensei
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gintoki Sakata, Kotaro Katsura, Takasugi Shinsuke
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Childhood should be carefree, playing in the sun;
not living a nightmare in the darkness of the soul.

- Dave Pelzer

 

Capitolo I: Sakata Gintoki

 

 

Il bambino sgambettò in giro per la stanza, troppo agitato per andare a dormire. Aprì piano piano la porta della sua camera e mise fuori la testolina ricciuta in silenzio, non voleva farsi scoprire: il papà gli aveva detto di andare a dormire già due volte, si sarebbe arrabbiato molto se lo avesse trovato di nuovo in piedi. Avrebbe anche potuto cancellare la gita!

Quel pensiero gli fece richiudere velocemente la porta e correre nel futon. Non voleva perdere il viaggio del giorno dopo. Era il suo compleanno, avrebbe compiuto cinque anni! Era grande ormai! E il suo papà gli aveva detto che avrebbero fatto un viaggio tra uomini! Era la prima volta che lo portava con sé e di solito non passavano tanto tempo insieme, non vedeva l'ora.

La mamma era stata molto triste in quei giorni, forse voleva andare anche lei con loro? Però papà l'aveva convinta che fosse necessario. Succedevano sempre cose molto brutte al villaggio: banditi, Amanto, raccolti perduti... era necessario che lui e Gin facessero quel viaggio, aveva detto. Avrebbe salvato il villaggio.

Chissà dove sarebbero andati? Che cosa avrebbero fatto? Gli avrebbe insegnato a combattere per proteggere la loro casa? Qualcosa lo sapeva fare, glielo aveva insegnato un ragazzo più grande prima di partire per la guerra, ma gli sarebbe piaciuto che il suo papà gli insegnasse qualche tecnica nuova... avrebbe anche potuto farla vedere agli altri bambini del villaggio.

Gintoki si rigirò nel futon. Il suo cervello di bambino lavorava senza posa, troppo eccitato per permettergli di dormire. Quando non ce la fece più si alzò per andare a fare pipì e poi andò a sedersi fuori sotto al portico. Rimase per un po' a guardare le stelle, mentre piano piano l'agitazione cominciava a passare e la stanchezza iniziava a farsi sentire, quando finalmente sentì le palpebre iniziare a farsi pesanti e non riuscì più a trattenere gli sbadigli, si alzò e tornò nella sua stanza, dove si accoccolò nel futon e finalmente si addormentò.

 

«Gintoki. Gintoki, svegliati» il piccolo si svegliò a fatica e si stropicciò gli occhi assonnati.

«Mamma?» chiese ancora mezzo addormentato. La donna cercò di riavviargli i capelli con le mani con scarso successo, avrebbe dovuto sapere ormai che era inutile, facevano ciò che volevano sputando ciuffetti da tutte le parti. Il bambino sembrò svegliarsi di colpo, ricordando ciò che doveva fare quel giorno. «È tardi? È ora di andare? Papà è già pronto?» chiese a raffica mentre saltava fuori dal futon e iniziava a vestirsi in modo frenetico.

«È fuori che ti aspetta» si limitò a rispondere la madre con un sorriso triste, normalmente avrebbe riso davanti a una scena del genere, vedere Gintoki così agitato da faticare a infilarsi i vestiti era una scena davvero divertente, ma non quel giorno. Seguendo un impulso, la donna afferrò il bambino e lo strinse a sé, lui si bloccò, preso alla sprovvista.

«Mamma, dai! Faccio tardi! Ti porterò un regalo, promesso» strillò correndo fuori dopo essersi liberato.

«Sei pronto, Gintoki?» gli chiese suo padre appena lo vide. Gin annuì con entusiasmo e finalmente partirono.

 

Camminarono per un paio di giorni, fermandosi di tanto in tanto per riposare e mangiare, si accampavano per la notte e a volte, su richiesta di Gintoki, si allenavano con due bastoni fingendo che fossero delle katane. Il bambino dai capelli d'argento si stava divertendo molto durante quella gita da uomini, era la prima volta che passava così tanto tempo con il suo papà e si sentiva un adulto aiutando a raccogliere la legna (rametti per lo più, ma sembravano così grandi) e aiutando a preparare l'accampamento per la notte (stava imparando finalmente a piegare la stuoia e le coperte così da riuscire a farle stare nello zaino al mattino). Di notte però gli sembrava così strano andare a dormire senza la buonanotte della mamma... un paio di volte si era accorto che suo padre si faceva serio e pensieroso... che mancasse anche a lui?

Più di una volta aveva pensato di avvicinare la propria stuoia alla sua, per dormire insieme, ma si era trattenuto: era un uomo adesso, doveva abituarsi a stare senza l'abbraccio prima di andare a dormire... però era così difficile addormentarsi in quel modo...Gintoki si diede dello sciocco da solo: non era in grado di cavarsela nemmeno per qualche giorno? Avrebbe dormito benissimo lo stesso. Si girò e rimase a fissare la parete della tenda finché finalmente non prese sonno.

 

Il giorno dopo si svegliarono molto presto e continuarono la loro marcia ancora per un'oretta prima di fermarsi lungo la sponda del fiume per riposarsi. Gin si avvicinò alla riva per bere e sciacquarsi il viso sudato e non si accorse del rumore di passi alle proprie spalle.

«Mi dispiace, ma è per il villaggio» sentì dire dalla voce di suo padre, non fece in tempo a girarsi che si ritrovò scaraventato nel fiume, con la corrente che lo trascinava verso il fondo. Provò a dimenarsi e urlare per chiamare aiuto, ma ogni volta che apriva bocca entrava dell'acqua. In qualche modo riuscì ad afferrare un ramo incastrato tra due massi e ad usarlo come appiglio per tornare a riva. Una volta fuori dall'acqua si accasciò a terra tossendo e ansimando, tremando per la fatica.

Si guardò attorno sconvolto e quando vide suo padre dirigersi verso di lui cercò di alzarsi, ma l'unica cosa che riuscì a fare fu muovere qualche passo e inciampare più in là di qualche metro, così si girò di nuovo verso suo padre, la schiena appoggiata a un masso e gli occhi sgranati, con le braccia e le gambe ancora indolenzite per lo sforzo di contrastare la corrente e uscire dall'acqua.

«Papà?» chiese il piccolo spaventato. «Cosa fai?»

L'uomo teneva lo sguardo basso e stringeva una katana nella mano destra.

Gin non riusciva a capire. Lo stava punendo per qualcosa? Era stato cattivo?

«Papà, smettila. Mi fai paura» piagnucolò il bambino cercando di farsi più piccolo possibile contro la pietra a cui era appoggiato. Quando vide l'uomo sollevare la spada, si alzò in piedi e gli diede una spinta con tutta la forza che aveva, l'uomo cadde a terra, sbatté la testa sui massi sulla riva del fiume e non si mosse più.

«Gintoki?» la voce di sua madre lo raggiunse inaspettatamente. Il bambino sgranò gli occhi e la guardò terrorizzato.

«Mi dispiace, io non volevo» disse con gli occhi lucidi e il labbro che iniziava a tremare, mentre la donna si avvicinava e si portava una mano alla bocca vedendo la scena. «Io... io non volevo» continuò mentre ricominciava a tremare e le lacrime iniziavano a scorrere. Lei si riscosse e distolse lo sguardo dal marito steso a terra, per poi inginocchiarsi davanti al bambino.

«Lo so, lo so che non volevi» rispose passandogli una mano tra i capelli e accarezzandogli il viso. «Sei tutto bagnato...»

«Papà mi ha buttato nel fiume» spiegò e iniziò a singhiozzare, non più in grado di contenersi. Sua madre lo abbracciò stretto e lo prese in braccio. Si inoltrarono nel bosco fino a raggiungere una grotta in cui si potevano chiaramente vedere le tracce di un fuoco acceso la notte precedente, cibo e qualche coperta. La donna mise a terra Gintoki che continuava a piangere senza riuscire a fermarsi e accese il fuoco, prese una coperta, gliela avvolse attorno e lo fece sedere in braccio a lei, stringendolo forte e dondolando con lui finché non si fu calmato almeno un po'.

«Io non volevo.»

«Lo so, piccolo.»

«Mi ha buttato nell'acqua e poi mi ha inseguito con una spada, mi faceva paura. Volevo solo che smettesse» cercò di giustificarsi ricominciando a singhiozzare.

Sua madre gli accarezzò i capelli e la schiena, cercando di tranquillizzarlo.

«Va tutto bene, non hai fatto niente di male. È stato un incidente. Solo un incidente. Papà ha sbagliato. Anche io ho sbagliato. Sono io a doverti chiedere scusa, non avrei dovuto lasciarti venire fin qua. Avrei dovuto...» la voce le morì in gola, mentre cercava di non mettersi a piangere a sua volta.

Forse per il calore del fuoco o perché poteva sentire il profumo della sua mamma così vicino, piano piano Gin smise di piangere e si addormentò sfinito.

 

Quando si svegliò, si ritrovò ancora nella stessa posizione, ma le fiamme si erano ormai estinte. Sbadigliò e si guardò attorno confuso, poi poco alla volta gli tornò alla mente ciò che era successo qualche ora prima e venne scosso da un brivido, si accoccolò ancora di più contro sua madre, nascondendo il viso contro il suo petto.

«Mamma... perché papà ha fatto quelle cose?» chiese a bruciapelo. «È perché dicono che porto sfortuna? Alcuni bambini al villaggio hanno smesso di giocare con me perché i loro genitori dicono che sono un demone, perché il colore dei miei capelli e dei miei occhi è strano. È per questo che papà non mi voleva bene?» la disperazione nella voce del bambino spezzò il cuore della donna, era così piccolo... certi pensieri non avrebbero mai nemmeno dovuto sfiorare la sua mente... e invece adesso era lì, a farsi tutte quelle domande. Lo aveva trovato tre anni prima insieme a un biglietto, poco lontano dalla loro casa, a quanto sembrava i genitori biologici non erano più in grado di occuparsi di lui. Era così piccolo e spaventato che aveva deciso di portarlo con sé e aveva fatto di tutto per convincere il marito a tenerlo. Che male avrebbe mai potuto fare un bambino solo e indifeso? In quei tre anni non si era mai pentita della sua scelta, il piccolo Gintoki, come avevano deciso di chiamarlo per via del colore dei suoi capelli, aveva portato solo allegria nella loro casa, ma il marito era sempre rimasto freddo e distaccato nei suoi confronti. Sapeva che l'uomo non aveva mai accettato del tutto il figlio acquisito, ma non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato a tanto...

«Non sei un demone e non porti sfortuna» gli disse allontanandolo leggermente da sé e sollevandogli il viso con un dito perché la guardasse. «Sei gentile e hai tanti amici, infatti pochi bambini al villaggio hanno smesso di giocare con te, vero?» Gin annuì poco convinto. «Il papà ha ascoltato persone cattive che gli hanno fatto pensare cose brutte. Ho provato a convincerlo che erano bugie, ma non ci sono riuscita... l'unico modo per fermarlo era-» si bloccò, non poteva dire al bambino che li aveva seguiti perché aveva deciso di fermare il marito a costo di ucciderlo, aveva già subito abbastanza traumi, non poteva mettere sulle sue piccole spalle anche il peso di qualcos'altro che non sarebbe stato in grado di capire «era aspettare che foste in un posto con poche persone, così tu saresti potuto scappare e io avrei potuto provare a parlare di nuovo con papà, lontano dalle persone del villaggio, per questo ero lì oggi. Scusa se non sono arriva prima» gli spiegò quindi accarezzandogli il viso.

«Papà è morto per colpa mia, però, non ci hai potuto parlare» rispose il bambino, gli occhi di nuovo lucidi al pensiero di ciò che era successo solo poche ore prima.

«Ehi» disse lei per richiamare la sua attenzione. «È stato un incidente, va bene? Hai avuto paura e ti sei difeso, ma papà era più grosso e più forte. Tu sei ancora piccolo, non eri più forte di lui, non è stata la tua spinta a farlo cadere. Papà è inciampato e caduto. Io l'ho visto, ero lì quando è successo, no? C'erano tanti sassi in quel punto. Non è stata colpa tua. Hai capito?» pregò che gli eventi di quel giorno fossero abbastanza confusi nella mente del bambino perché le credesse.

Gin annuì e si asciugò gli occhi con una manica, in parte più tranquillo: se la mamma diceva che non era stata colpa sua, doveva essere vero.

La donna sorrise e gli diede un bacio sulla fronte. «Bravo il mio piccolo samurai, così coraggioso.»

 

Ci misero molto meno a percorrere la strada per il ritorno, o così almeno sembrò a Gintoki, occupato a fare alla mamma il resoconto dei giorni precedenti e a mostrarle ciò che il papà gli aveva insegnato sulle piante lì attorno.

Quando arrivarono nei pressi del villaggio però, Gin vide sua madre irrigidirsi e farsi più prudente. Il bambino si ricordò quello che lei gli aveva raccontato nella grotta: nel villaggio c'erano le persone cattive che avevano fatto pensare le cose brutte al papà. E se avessero cercato di prenderlo e portarlo via dalla mamma? Strinse un lembo del kimono della madre con tutte le forze che aveva, mentre il cuore gli batteva sempre più forte.

«Gintoki» disse la donna all'improvviso, lo sguardo fisso davanti a sé «scappa.»

Il piccolo la guardò confuso: dall'altezza a cui si trovava, i cespugli e le piante gli impedivano di vedere i soldati che stavano mettendo a ferro e fuoco il villaggio e che avevano già individuato sua madre tra gli alberi.

«Gintoki» ripeté la donna senza rivolgere lo sguardo verso di lui, per evitare che i soldati capissero che c'era qualcun altro con lei. «Gintoki, ci sono degli uomini molto cattivi al villaggio, devi scappare subito.»

«E tu?»

«Ti raggiungerò, promesso. Ma tu adesso devi correre più veloce che puoi fino a quando non sarai arrivato al prossimo villaggio oltre il fiume. Hai capito?» Il bambino annuì spaventato. «Vai!» lo esortò lei spingendolo e Gin iniziò a correre tra le piante del sottobosco.

 

Il bambino si strinse ancora di più le ginocchia al petto per non sentire lo stomaco brontolare. La mamma aveva detto che lo avrebbe raggiunto presto, erano passate ore ma ancora non si era vista. Gin si era intrufolato in una stalla poco dopo essere arrivato al villaggio, voleva sfuggire al freddo e il buio che stava sopraggiungendo con la notte lo spaventava, lì dentro almeno ci sarebbe stato caldo e un po' di luce; era anche molto affamato, ma non sapeva dove trovare da mangiare, in quel villaggio non conosceva nessuno. Mentre era assorto in quei pensieri, sentì dei passi avvicinarsi al punto in cui si trovava, ma dopo quella giornata era così stanco che non aveva nemmeno la forza di nascondersi.

«Ehi e tu da dove sbuchi?» chiese una voce gentile inginocchiandosi davanti a lui. «Come ti chiami?»

Non vedendolo reagire e notando lo sguardo vacuo del bambino, la donna tirò fuori un pezzo di pane da una delle tasche del grembiule e glielo mise davanti al viso. «Hai fame?»

In qualche modo, questo scosse Gintoki dal suo torpore, dischiuse leggermente le labbra per rispondere e distolse lo sguardo imbarazzato quando il suo stomaco protestò rumorosamente. La donna rise piano. «Temo che un pezzo di pane non sarà sufficiente, vieni con me.»

Il bambino le rivolse uno sguardo sospettoso, ma lei continuò a sorridere e gli porse una mano, in attesa. Le era capitato di vedere altri orfani vagabondare per i dintorni del villaggio ed era sicura che quello fosse uno dei tanti. Gintoki alla fine si convinse e afferrò la mano della sconosciuta che lo portò in casa con sé, dove poté mangiare e dormire.

Il giorno dopo appena sveglio si vestì e si preparò a uscire, la signora che lo aveva accolto il giorno prima gli chiese cosa avesse intenzione di fare.

«Devo trovare la mia mamma. Forse ieri non mi ha trovato perché ero qui dentro» rispose lui convinto.

La donna sospirò, non voleva davvero essere lei a dire certe cose a un bambino di cinque anni, ma doveva evitare che si cacciasse nei guai. «Hai detto di venire dal villaggio dall'altra parte del fiume, vero?» Gin annuì in silenzio, concentrato sulla colazione. «Mi dispiace, piccolo, ma quel villaggio ormai non c'è più. È arrivata la notizia stamattina, poco prima che ti svegliassi. Temo che la tua mamma sia stata presa dai soldati o... che non possa più raggiungerti.»

«No, lei ha promesso che mi avrebbe raggiunto qui.»

«Nessuno oltre a te è arrivato al villaggio ieri notte, lo saprei e-»

«Me l'ha promesso!» urlò il bambino prima di lanciare il cucchiaio sul tavolo e correre fuori da quella casa sbattendo la porta. La padrona di casa cercò di rincorrerlo, ma quando arrivò all'esterno Gin era già scappato di nuovo nei boschi.

 

Erano passati mesi ormai dalla sua fuga dal villaggio e stava imparando a sopravvivere: si spostava da un posto all'altro, continuando a cercare sua madre, si infilava nei fienili per la notte, rubava il cibo dagli orti dei contadini e a volte riusciva anche a rimediare un pasto caldo quando le donne del villaggio di turno si lasciavano impietosire nel vedere un bambino solo vagare in quelle zone di guerra.

Non si era ancora arreso, la mamma gli aveva promesso che l'avrebbe raggiunto, doveva solo continuare a cercarla.

In più di un'occasione era andato a dormire a stomaco vuoto e in più di un'occasione aveva sognato il giorno in cui suo padre lo aveva attaccato e l'ultima volta in cui aveva visto sua madre. Anche addormentarsi era davvero difficile a volte: in alcuni casi era così stanco a causa del suo vagabondare che crollava esausto sul primo cumulo di paglia che riusciva a trovare; in altri passava ore a piangere prima di riuscire a prendere sonno, chiedendosi per quanto sarebbe rimasto solo ancora e quando sarebbe riuscito a rivedere la sua mamma.

 

Non avrebbe saputo dire quando si arrese, forse dopo un anno, forse prima, forse più tardi. A un certo punto la necessità di trovare del cibo e di sopravvivere aveva preso la meglio, così come l'idea di ritrovare sua madre si era fatta sempre più un miraggio. Con il passare del tempo, Gintoki aveva iniziato a credere alle parole delle poche persone che avevano avuto compassione di lui e avevano cercato di spiegargli che sua madre, con ogni probabilità, non era più nel mondo dei vivi.

Ormai aveva sette anni e la guerra era una piaga estesa a tutto il Giappone. Lo stesso Gin si era abituato a vedere i morti lungo le strade e altri bambini come lui vagare nei boschi e nei villaggi, sperando che qualcuno desse loro da mangiare e un letto in cui dormire. Per il bambino dai capelli d'argento le cose andavano diversamente: data la sua particolarità e il suo continuo peregrinare da un villaggio all'altro, tutti erano in grado di riconoscerlo. Purtroppo però questo aveva riportato a galla le superstizioni dei contadini e degli altri abitanti, poiché avevano iniziato a girare storie secondo le quali il piccolo fosse un demone che preannunciava l'arrivo di disgrazie e morte. Il fatto che fossero in tempo di guerra e che disgrazie e morte piombassero continuamente nelle vite delle persone comuni che Gintoki fosse nei paraggi o meno, sembrava non importare. Volevano un capro espiatorio.

Fu allora che iniziarono ad attaccarlo ed insultarlo.

Per sua fortuna, Gin aveva imparato i rudimenti della spada dai ragazzi più grandi al villaggio e spesso erano sufficienti per lasciare sorpresi i suoi aggressori quel tanto che bastava per scappare via. Con il tempo, il bambino divenne sempre più abile, fino ad essere in grado di difendersi.

Aveva anche guadagnato l'appellativo di Demone Divora Cadaveri poiché, non riuscendo sempre a rubare cibo dagli orti o a elemosinare da persone che avevano pietà di lui, aveva iniziato ad aggirarsi sui campi di battaglia, rubando dai cadaveri e dagli accampamenti tutto ciò che gli serviva, che fossero cibo o armi.

 

Fu su un campo di battaglia, a otto anni, che Yoshida Shōyō lo trovò.

Era seduto sul cadavere di un soldato, mangiando un onigiri che aveva trovato e tenendo una katana accanto a sé per ogni evenienza, quando improvvisamente sentì una mano posarsi sulla sua testa. Sollevò lo sguardo e vide un uomo dai capelli lunghi in piedi di fianco a lui. Non portava un'armatura e non sembrava vestito come un contadino.

«Sono venuto qui perché ho sentito che in questa zona appare spesso un demone che divora cadaveri, ma... saresti tu? Mi meraviglio che esista un demone così grazioso.»

Gin spostò la mano dell'uomo con uno schiaffo e scattò in piedi, portò immediatamente la mano destra sull'elsa della katana e la sguainò davanti a sé, rivelando una lama rovinata e ricoperta di sangue.

«Anche quella spada l'hai strappata a un cadavere?» il bambino non rispose e continuò a tenere lo sguardo inchiodato sull'uomo. «Un moccioso come te si è difeso da solo, spogliando i loro corpi in questo modo?» Gin era confuso, quel tizio non sembrava volerlo attaccare e il suo tono era gentile, ma non si fidava. «Sei straordinario. Però non ti serve più quella.» Che stava dicendo? Voleva portarlo ad abbassare la guardia prima di attaccarlo? Beh non ci sarebbe cascato, non era uno stupido bambino ingenuo. «Butta via la spada che brandisci per difenderti perché hai paura degli altri» Gin era pronto, ma l'uomo sfilò la katana dal fianco e gliela lanciò con tutto il fodero. Il bambino, sorpreso, l'afferrò al volo e fece qualche passo all'indietro, cercando di non perdere l'equilibrio. «Ti do la mia. E se vuoi imparare il vero modo di usarla, seguimi» disse l'uomo misterioso dandogli le spalle e incamminandosi tra i cadaveri. Chi era quel tizio? Perché non lo aveva attaccato? Gli aveva addirittura regalato la sua katana. Perché gli importava di lui? Dopotutto non era nessuno di importante, solo un bambino sporco che gli abitanti dei villaggi avevano deciso di prendere di mira. «D'ora in avanti utilizzala non per trafiggere i nemici, ma la parte più debole di te stesso; non per difenderti, ma per proteggere la tua anima.»

 

Gin si rigirò sotto la coperta nel dormiveglia, sapeva che si sarebbe dovuto svegliare, ma si stava così bene al caldo... un momento... al caldo?

Il bambino scattò a sedere e si guardò attorno confuso, prima di svegliarsi del tutto e ricordare: da qualche tempo viveva insieme a Yoshida Shōyō, l'uomo che lo aveva trovato tra i cadaveri e che adesso per lui era semplicemente “il sensei”. A volte appena sveglio faticava ancora a ricordare che non viveva più per strada o che non doveva inventarsi qualche stratagemma per mangiare. Era passato quasi un mese, ma ancora non aveva capito cosa ci trovasse il maestro Shōyō in lui o perché avesse deciso di prenderlo con sé, sapeva solo che era felice di non essere più solo e che ci fosse qualcuno ad occuparsi di lui, anche se all'inizio non era stato troppo convinto di andare con quell'uomo. Lo aveva seguito a distanza e con circospezione, nient'affatto convinto che non fosse un trucco degli abitanti del villaggio per catturarlo, non rendendosi conto che il samurai si era accorto che lo stava seguendo e stava facendo il possibile per non lasciarlo indietro senza insospettirlo. Una volta arrivati davanti alla casa dell'uomo, Gin era rimasto nascosto tra i cespugli del giardino, ad osservare in silenzio. Dopo qualche ora al freddo, Shōyō aveva deciso che era il momento di fargli sapere che si era accorto della sua presenza e lo aveva invitato a entrare. Il sopraggiungere del buio e della fame fecero finalmente capitolare il bambino.

Da quel giorno, Gin era rimasto con Shōyō e aveva iniziato ad imparare a leggere, scrivere e combattere.

Gintoki si cambiò il pigiama e iniziò a vagare per la casa alla ricerca della colazione. Rimase perplesso non trovando il maestro da nessuna parte, ma non se ne preoccupò: probabilmente era uscito mentre ancora dormiva e sarebbe tornato presto.

Passò la mattina facendo qualche esercizio con il bokken, ma verso l'ora di pranzo iniziò a sentirsi inquieto. Quanto sarebbe stato via ancora il sensei?

Dopo aver mangiato uscì in giardino e rimase in attesa, ogni tanto sbirciava fuori dal cancello, aspettando di vederlo comparire in fondo alla strada. Con l'arrivo della sera, tornò in casa e si sedette ad aspettare con la schiena contro la parete. Più il tempo passava però, più il bambino si sentiva a disagio: il maestro aveva così tante commissioni da sbrigare? E se fosse successo qualcosa? Dopotutto c'era una guerra in corso, che qualcuno lo avesse attaccato?

No. Il maestro Shōyō era forte. Sarebbe stato più che in grado di cavarsela contro degli aggressori.

E se non fosse stato quello il motivo?

Gin si strinse le ginocchia al petto.

Se avesse cambiato idea su di lui e lo avesse semplicemente abbandonato lì? Dopotutto sia i suoi amici al villaggio che suo padre credevano che lui portasse sfortuna, suo padre lo aveva anche attaccato per quello. Sua madre gli aveva promesso che lo avrebbe raggiunto, ma non l'aveva più rivista, ormai era sicuro anche lui che fosse morta. Gli altri adulti che aveva incontrato lo avevano cacciato o attaccato... perché questa volta avrebbe dovuto essere diverso?

Probabilmente anche il maestro Shōyō si era stancato di lui e aveva deciso che non lo voleva più tra i piedi. Dopotutto non lo voleva nessuno. Gintoki appoggiò la testa sulle ginocchia, mentre le lacrime iniziavano a scorrere. Era di nuovo solo.

«Gintoki?» il bambino sussultò ma non sollevò la testa. Era stupito di trovarlo ancora lì? «Gintoki, cos'è successo?» gli chiese mettendogli una mano su una spalla e accorgendosi che stava piangendo.

«Quando mi sono svegliato non c'eri» iniziò a spiegare Gin asciugandosi il viso. «Ho pensato che fossi uscito e così ho mangiato e fatto gli esercizi che mi ha insegnato ieri. Quando ho finito però non eri ancora tornato. Dopo pranzo sono stato fuori ad aspettarti ma non arrivavi, così ho pensato che forse fosse successo qualcosa. Solo che tu sei forte. Quindi ho pensato...» si bloccò e distolse lo sguardo, mentre gli occhi gli si riempivano di nuovo di lacrime.

Shōyō sospirò e lo tirò a sé, sentendosi uno stupido. «Mi dispiace» disse abbracciando il bambino e accarezzandogli la schiena. «Non ti volevo spaventare, avrei dovuto avvertirti, ma pensavo che sarei tornato presto» fece una smorfia ripensando ai Corvi che aveva rischiato di incontrare qualche ora prima e ai quali era sfuggito per miracolo. Gin nascose il viso nel suo kimono. «Ho pensato che non mi volessi più, come il mio papà e le persone dei villaggi» confessò con un filo di voce, ricominciando a piangere e iniziando a raccontare tutto ciò che era successo con suo padre, sua madre, le persone che aveva incontrato... le parole del bambino scorrevano come un fiume in piena tra i singhiozzi, per tutto il tempo Shōyō rimase in silenzio, tenendolo stretto e lasciando che si sfogasse. Era stato veramente un irresponsabile, avrebbe dovuto parlare con Gintoki molto tempo prima.

«È tutto a posto» gli disse passandogli una mano tra i capelli argentati. «È tutto a posto, ci sono io con te adesso. Non sarai più solo.»

  
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