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Autore: Melanto    15/02/2021    4 recensioni
A un passo dall'alba del giorno più atteso dagli innamorati, si muovono mostri che non hanno artigli, ma le cui mani si allungano sulla città addormentata.
Il vento era una lama di balisong che gli entrava nel collo della giacca e strisciava attorno alla gola, prima di andarsene via. Espirò una nuvola di fumo assieme al fiato caldo e a uno sbuffo. Tre al prezzo di uno, che nella vita si andava sempre a sparagno.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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I mostri di San Valentino

I mostri di San Valentino

 

 

 

 

 

«Nadiù, ne devi esse certa, però. Guardalo bene e dimme se avemo seguito quello giusto, daje.»

Due passi sul lastrico un po’ sdruccioloso per l'acqua che era gelata nella notte e tale era rimasta. Non era ancora l’alba.

La Capitale era tutta un silenzio spezzato da qualche nottambulo di ritorno dal lavoro o che lo stava raggiungendo.

Scricchiolio di gomme sull’asfalto alla ricerca di un parcheggio. Lo trovarono senza difficoltà e si fermarono. Aprire e chiudere di una portiera, il blip di un antifurto e poi più niente. L’ennesimo che si faceva inghiottire dai grossi palazzoni di Cinecittà Est, tutti ritti e vicini, dalle persiane chiuse.

Melo accese una paglia.

Si steva puzzann ‘e friddo.

Il vento era una lama di balisong che gli entrava nel collo della giacca e strisciava attorno alla gola, prima di andarsene via. Espirò una nuvola di fumo assieme al fiato caldo e a uno sbuffo. Tre al prezzo di uno, che nella vita si andava sempre a sparagno.

Guardò Nadia con la coda dell’occhio mentre veniva avanti sul suo trampolo da Cugina di Campagna che le regalava venti centimetri aggratis.

Come cazzo faceva a stare tutta notte a cosce scoperte e con solo una pelliccia sintetica e spelacchiata addosso non lo aveva mai capito, ma erano i prezzi da pagare. Li avevano tutti, anche quando il debito non l’avevi contratto tu.

«Sì, lui.»

Disse con quell’italiano dall’inflessione slava che rendeva il ‘lui’ più un ‘loi’.

Tornò indietro, il taglio di luce di uno dei lampioni dello skate park lì accanto illuminò il livido che le prendeva mezza faccia: una papagna violacea che copriva per intero l’occhio e lo zigomo almeno fino a metà guancia.

Il cazzone gliene aveva mollato uno con tutti i crismi e a mano chiusa.

«Sicura, Nadiù?»

«So riconoscere maiale che pichia e no paga, Micio.»

«Per carità. Chi dice er contrario.» Er Micione lo guardò, alzò le spalle. «Che famo co’ sto cojone.»

Melo rispose con un’alzata di spalle uguale.

«‘O ‘mbarammo.»

La cicca passata da una parte all’altra della bocca. La infilò tra la base dell’indice e del medio, dopo averci tirato una lunga boccata, e si staccò dalla colonna cui era rimasto appoggiato fino a quel momento, impegnato a interpretare gli sbaffi di spray rosso dei graffittari che erano passati di là.

Tirò forte col naso, che il freddo faceva colare di continuo, e mosse due passi avanti.

Il ciccione stretto nel piumino ne mosse due indietro, fino a sbattere con le ginocchia sulla seduta di marmo che costeggiava il muretto d’ingresso al circolo dei vecchi della zona. Si sedette di schianto, con un sobbalzo. Guardò indietro, poi avanti; alzò la testa fino a dove c’era la sua faccia. Troppo in alto.

Melo ne fissò gli occhi piccoli, ma spalancati: stava stretto con le mani tra le ginocchia e il desiderio di farsi minuscolo come una formichina; peccato tenesse quel trippone da birra e salsicce. Il piumino gli stava talmente schiattato addosso, che pareva dovesse strapparsi da un momento all’altro. Tremava come una foglia.

«Tu si’ strunzo. Ma strunzo, eh. Strunzo ca’ nocca. Pecché sulo nu’ strunzo, vatte ‘e femmn.»

«L’ha capito che è no’ stronzo.»

«Statt zitt, Miciò.»

«Scusalo,» Er Micione si rivolse a Nadia, «se prima non je fa na’ lezione de filosofia, non li mena.»

«Ene, vuò abbuscà pure tu?»

Lo sentì ridacchiare senza aggiungere altro.

Tornò a rivolgersi al ciccione.

«Ti pensavi che non t’avremmo trovato?»

«Sì... cioè... no... Può capitare, su. Ragazzi, dai... è solo na’ mignotta...»

«E allora ovviri che si’ strunzo? Quella nun è na’ zoccola.» Il fuoco ardente della paglia tracciò scie da spada laser, mentre agitava la mano. «Quella è a nostra zoccola. He capito a differenza? Cu chella faccia, ‘a vagliotta ci lavora. E tu non solo hai fatto nu’ torto a issa, ma hai fatto nu torto a nui, perché ci amm a perdere. Che hai capito?»

«Che... che so no’ stronzo.»

«Brav, frà.»

Melo gli mollò una vigorosa pacca sulla spalla e poi si girò verso Er Micione.

«Così s’è ‘mbarato la lezione e non lo farà più.»

Micione alzò le mani, ammiccò. Nadia stava sempre più stretta nella pelliccia e passava da un piede all’altro.

Melo portò la sigaretta alla bocca e ravanò dentro la giacca che fuori era di jeans, ma teneva l’imbottitura del pecoriello, come diceva lui. Mise mano alla tasca interna. Ne cavò un tirapugni.

«Oddio... oddio, no, te prego... te prego c’ho i figli, te prego!»

Alzò una mano, l’altro smise di blaterare ma non di piagnucolare.

«Mo’, però, he capì n’ata cosa, frà. Che hai vattuto na’ zoccola che fa capo ai 7Re, che sonc ‘e quatt ‘a notte e io a quest’ora putevo sta dint’o liett a dorme e invece stongo a chiatrarmi pure il cazzo pe’ ti fa na’ ramanzina a te e che se ti sento alluccà può sta sicuro che te le darò ancora più forte.»

Con un gesto secco gli strappò il passamontagna da testa e glielo infilò in bocca fin quasi a metà, mentre l’altro cercava di dimenarsi e divincolarsi senza sapere che la sua era la presa dei rapaci: la mano destra ad arpionare il retro del giaccone, già stretto fin quasi a strozzarlo, e con la sinistra impegnata a infilargli il cappello in bocca.

Una ginocchiata nelle palle aiutò a smorzare le velleità del ciccione almeno di un cinquanta per cento.

«Miciò, ma tu si’ venuto pe’ bello paré?»

«Che c’hai bisogno de na’ mano?»

«Vafammocca.»

Lanciò via la paglia fumata a metà e tirò indietro la testa del ciccione.

Il primo pugno piovve dall’alto verso il basso. Il naso spaccato di netto pisciò sangue come una fontanella. Il secondo arrivò dritto da davanti, tra pancia e petto, ma non fu sicuro che facesse altrettanto male considerando il piumino e il lardo; così, giusto per, gliene diede pure un altro, più forte. Trascinò a terra quella massa di ciccia e piume d’oca, tra le pozze delle piogge del pomeriggio e il piscio dei cani, dove si rannicchiò su sé stesso. Allora lo prese a calci nella schiena, ché tanto lì non si sarebbe potuto riparare. Due, tre, per scaricare un po’ di frustrazione e per essere sicuro che gli si facessero lividi grossi come la cartina di Roma su Tuttocittà.

Quando pensò fosse sufficiente, si abbassò sulle ginocchia e gli tolse il cappello dalla bocca, diventato un rimpasto di sangue e bava. L’altro tossì, ebbe un paio di conati ma non vomitò niente. Rantolava con la faccia nel lastrico pisciato, e infine si mise a piangere come i bambini.

Melo tolse il tirapugni, lo rimise a posto e gli diede un colpetto alla spalla per avere la sua attenzione.

Il ciccione cercò di proteggersi, ma non sarebbe arrivato un secondo giro: a lui bastava essergli vicino affinché lo sentisse bene.

Gli bastava che fosse alla distanza del fiato.

«E mo’ stamm a sente, strunzo. Si poco poco provi a dire qualcosa alla pula o ai caramba o al prevete ra’ chiesa, io prima ti vengo a dare il resto e poi vaco a fa’ visita a mugliereta. Lo so dove abiti. Stai al quarto piano di quel palazzone là, dico bene?» Con l’indice puntò l’unico edificio che si vedeva meglio dalla loro posizione. «Io mi presento davanti alla porta e dico a mugliereta che vai a zoccole, quando lei è convinta che vai a farti il turno di notte. E le dico pure che te le sei chiavate proprio sotto casa, dinto a sto parchetto ‘e merda.» Abbozzò un sogghigno tutto storto sul lato sinistro. «Sai come sarà contento Marcellino di sapere che suo padre se le chiava proprio dove lui viene a giocare con lo skate? In piedi, ‘mpietto o muro.»

Gli occhi del ciccione si fecero ancora più grandi, liquidi di lacrime e paura.

Melo non smise di sorridere.

«Sine. So il nome dei tuoi figli e quanti ne hai. Sappi che si’ no padre ‘e merda.»

Si tirò su. Il ginocchio destro ebbe uno schiocco. Melo sfregò le mani, calde solo perché aveva preso a pugni qualcuno, e se le infilò nelle tasche dei jeans.

«Mi sa che forse bastava questo, ma che t’aggia di’? Mi piace vatte ‘e strunzi come a te. ‘Iammuncenne, Miciò.»

Melo s’accese un’altra sigaretta. Alle sue spalle veniva il rumore sordo delle zeppe spropositate di Nadia e il passo pesante del Micione. Le chiavi ce le aveva quest’ultimo e lui si sarebbe fatto una pennichella sul seggiolino accanto, perché stava morto di sonno.

Si girò solo un’ultima volta.

«Ah, strunzo. Na vota fore ro’ pronto soccorso, accattancello no’ fiore a mugliereta. Essa non ‘o ssape che ti devi far perdonare, ma tu sì. Spendici na’ bella cifra.»

 

La macchina era stata lasciata lungo Via Leonardi, non troppo lontano dal parchetto.

Appena ci entrò, Melo sfregò le mani così forte, nemmeno avesse voluto far prendere fuoco ai palmi.

Il freddo era un suo nemico naturale, e di sicuro nella top-tre dei più odiati.

«Appiccia sto cazz ‘e riscaldamento, prima che mi si chiatrino pure i peli del culo,» disse al Micione.

«Je devi dà tempo, però.»

«Sine, sì.»

Gli faceva un po’ male la mano sinistra, anche se aveva usato un tirapugni, ma era una dolenza cui era abituato e che in parte sentiva cronica per le volte che aveva tirato a mazzate.

Nadia prese posto dietro. L’avrebbero portata a casa di Lola, ai Parioli; avrebbe lavorato al chiuso per quella sera.

Il cellulare squillò mentre si stavano immettendo su Viale Ciamarra per andare verso la tangenziale.

«Uè, Mimì?» Melo salutò il capo con la solita confidenza. Guardò accanto a sé. «Stongo co ‘o Micione. Abbiamo appena finito quel servizio per Leoluca. Che ti manca?»

La risposta gli fece spalmare una mano in faccia.

«Uà, stai pazziann?» Non trattenne l’indolenza. «E quatt ‘a nott? Stongo scetat da ieri matina ‘e sei. Se tengo due ore di sonno sulle spalle è tutto ‘o blocc. Che tene ‘o Russo che non si può aspettare quelle quattro, cinque ore?»

Le iridi guizzavano lungo la strada vuota. Le ruote macinavano asfalto umido e lui rimase ad ascoltare con le labbra strette per lo scazzo.

«Questo perché tu si’ o solito stordo e le cose te le ricordi aroppo ‘o sparo... Ene, sì. Sì, ci ammo. Però te lo porto domani quando mi sceto, altrimenti ci mandi qualcun altro.» Annuì anche se il suo interlocutore non poteva vederlo. «Vabbuono. Ai fiori penso io, che tu non sai distingue na’ rosa da no’ gladiolo. Finisce che le porti no’ mazzo ‘e crisantemi a quella povera santa. Ci sentiamo domani. Se mi chiami e non ti rispondo, significa che sto ancora in coma. Vieni da Ikea, starò là. Cià.»

«Che je s’è sciolto?»

«Aroppo che abbiamo lasciato Nadia, amma ‘i a piglià no’ regalo dal Russo. Quillato s’è ricordato che oggi è la festa di ogni cretino.» Smanettò con il cellulare e recuperò un altro numero dalla rubrica. «Ohé, Peppù? Scusa l’ora, ma avrei bisogno di una bella confezione floreale.» Guardò sul cruscotto l’orologio digitale. «Ah, perfetto. Visto che stai andando proprio al mercato, ti dico che cosa voglio. Allora: mettimi quelle cinque o sette rose sfumate. No, niente rosse, che mi fanno cacà e so inflazionate. Poi dell’Alstroemeria, se la trovi, e dei fiori di curcuma. Mettici del verde a foglia larga e non farmi no’ mazzo lungo: voglio qualcosa di tondo, stile bouquet. Per i colori apparati tu, vabbuono? Non ti preoccupare per il prezzo, tanto paga Tascione. Anzi, fallo spende! Ti mando l’indirizzo via uazzappo. Grazie, Peppuccio.»

Staccò la chiamata, crollò con il capo contro il poggiatesta e affondò la fronte e gli occhi nella mano.

«Sei ‘n tajo quanno te metti a parlà de piante. L’Astromerda...»

«Fatt ‘e cazzi tuoi, Miciò.»

Sbadigliò in maniera sonora e poi si disinteressò del resto.

Melo si lasciò cullare solo dagli scossoni delle buche, dall’asfalto che a volte pareva fosse rimasto butterato dalla guerra del ‘15-’18 e dai semafori che venivano bruciati di continuo, perché l’auto rallentò poco o niente.

Aprì gli occhi quando lasciarono Nadia e poi ripartirono, senza aver neppure spento il motore. Un nuovo giro di buche e un’altra sosta, ma a scendere fu il Micione. Questione di un paio di minuti e tornò con un pacchetto che gli fece eclissare nella tasca della giacca.

«‘Ndo te mollo? Stasera ho fatto d’autista a mezza Roma.»

«Andiamo da Ikea.»

Oltre il parabrezza si intravvedeva lo schiarirsi accennato della notte. Avrebbe finito col coricarsi all’alba, alzarsi all’ora di pranzo. Gli girava il cazzo quando aveva orari tanto sballati: era come perdere la giornata e aveva sempre troppo da fare, che avrebbe finito col recuperare di sera e poi di notte. Di nuovo, avrebbe rivisto il letto solo con l’alba successiva.

«Semo arrivati. Se vedemo domani.»

«Statt buono, Miciò.»

Un gesto scambiato con la mano e poi tornò nel freddo di febbraio, con una mano infossata nella tasca e l’altra che sbatteva la portiera.

La Leòn del Micione si allontanò in fretta. In quella macchina c’erano passate più zoccole e cocaina che nemmeno ai bunga bunga.

Melo stropicciò la faccia e sbadigliò nelle mani a coppa davanti alla bocca. Uno sbadiglio così lungo e profondo che temette di slogarsi la mascella.

Alle spalle, un palazzone di case popolari che erano state riscattate da chi ci viveva. Davanti, la Palmiro Togliatti che aveva già un occhio mezzo sveglio sulle macchine che, sporadiche ma non isolate, sfilavano oltre il marciapiede.

Non si prese il disturbo di citofonare, ma scavalcò il cancelletto e poi forzò la serratura del portone senza troppa difficoltà. Se la fece a piedi fino al quarto piano, perché temeva che si sarebbe addormentato dentro l’ascensore.

Davanti alla porta, attaccò il dito al campanello quei trenta secondi che avrebbero svegliato chiunque, e aspettò di sentire i passi affrettati che arrivarono ad aprire di corsa.

Sulla soglia, stropicciato dal sonno tanto quanto lui, Ikea aveva due occhi pesti e i capelli che erano un groviglio di onde biondicce. La barba sfatta che velava le guance e il labbro infastidito. Addosso aveva una maglietta di cotone e un pantalone che a momenti gli cascava dal culo.

«‘Nse pò continuà così, però. Fatte na’ copia de le chiavi, te l’ho detto ‘n milione de vorte.»

«No, che altrimenti pare che campiamo assieme. E io non campo con nisciuno.»

L’altro alzò gli occhi al cielo e agitò una mano, scostandosi dalla porta. Sarebbe tornato a crollare nel letto, ma lui teneva quella che a Napoli aveva imparato a chiamare ‘cazzimma’ e allora lo agguantò per un polso e se lo tirò addosso, mentre entrava in casa.

Ikea aspirò una ‘i’ tra i denti.

«Diocrì, Samuè, sei ‘n ghiaccio! Fermete!»

Melo non lo mollò, chiuse l’uscio con un colpo di tacco facendo un casino sul pianerottolo che sarebbe costato, da lì a qualche ora, delle lamentele dal vicinato. A lui fotteva niente, era impegnato a far sparire le dita sotto la maglietta, dove la carne era caldissima e accogliente. Il naso nel collo, sotto ai capelli aggrovigliati.

Ikea era molto più basso e lui ci si poteva piegare sopra come una canna di bambù, ravanare ovunque avesse campo libero, fin dentro ai pantaloni.

I tentativi di venire allontanato si rivelarono infruttuosi, perché per quanto non fosse spesso come Er Micione o Big Jim, lui teneva una resistenza e una forza che potevano essere apparentati con l’edera. Quell’erbaccia stronza e infame, che sale ovunque e non riesci a strappare né a estirpare del tutto.

Lui s’arrampicava sulle persone, allo stesso modo; le acchiappava con presa da rapace e le costringeva sempre a fare ciò che voleva, quando lo voleva.

La Malerba era questo: era la persistenza di qualcosa che poteva arrivare anche a soffocarti, se non stavi attento.

«Fermete, cazzo! Levete!»

Ikea, purtroppo, non era un’erbaccia alla stessa maniera, non era capace di strapparselo di dosso e alla fine avrebbe ceduto come tutti.

Per Melo fu addirittura uno scherzo da ragazzi, perché gli bastò agguantargli l’uccello e dare un morso al collo per far morire ogni protesta. Sentire il corpo che si irrigidiva come gli avesse iniettato del veleno.

Ikea prese un respiro profondo, lo inquadrò dal basso con la coda dell’occhio e l’aria rassegnata. Scivolò la mano dietro la nuca e si aggrappò a quel taglio di capelli che non aveva più né capo né coda e univa un’accozzaglia di colori fluorescenti ormai sbiaditi.

Sarebbe dovuto passare da Guenda a decidere il suo nuovo ‘periodo’, come ogni buon artista pazzo, ma ci avrebbe pensato tra qualche giorno.

Adesso era occupato a lasciarsi trascinare in basso per incontrare la bocca di uno dei loro pusher, esplorarla a fondo, farsi esplorare. Scambiare ogni sapore della notte che sfumava, con retrogusto di tabacco e birra. Per un attimo fu quasi tentato, mentre sentiva il cazzo di Ikea svegliarsi sotto la sua mano, di strappare quell’ora di sesso alla veglia, ma era troppo stanco e non era andato lì con quelle intenzioni.

Allontanò le mani, allontanò la bocca.

«Stavo pazziando,» abbozzò un sorriso storto.

Ikea lo guardò male.

«Allora dillo che sei stronzo. Domattina c’avrò voglia de scopà pure er tavolo.»

«E domani ci pensiamo. A che ora ti devi alzare?»

«Alle nove. Uscire per le dieci.»

Melo guardò l’ora: le cinque e mezza.

«Allora svegliami, tanto devo tornare da Mimì. Ti farò cominciare bene la giornata,» aggiunse in una strizzata d’occhio. «Ora sto veramente acciso. Mi devo sdraià.»

«T’aspetto a letto. Perché hai fatto le ore piccole, stavorta? T’acchitto na’ fionda?»

Melo tolse la giacca, tastò che il regalo per Nina fosse ancora nella tasca e l’appese all’attaccapanni.

Casa di Ikea era un buco popolare, appartenuto alla nonna: cucina, camera da letto, cesso e ripostiglio micro. L’odore di ganja era un’essenza che impregnava anche le pareti, ormai.

«Era arrivato un carico, dovevo concludere e fare un po’ di smercio. Poi ho dovuto sistemare una cazzata per Leoluca. Vulesse capì perché non c’hanno mannato qualcun’altro a pestà quillo chiattone.»

Dal cesso riusciva a vedere la camera da letto e Ikea che era in ginocchio sopra le coperte ammonticchiate.

«E infine Mimì s’è arricordato che dovevo andare a prendere un regalo per Nina. Lascia stare il cannone, crollerò in dieci secondi.»

«Daje, allora. Viettene a dormì.»

«Arrivo.»

Scalciò le scarpe fuori dal bagno e si liberò dei pantaloni e della maglia. Camminò scalzo e in boxer fino al letto. Vi cadde sopra di schianto con un sospiro che veniva dal fondo dei polmoni. Ikea gli lanciò una t-shirt e lui la indossò in fretta, poi si rintanò sotto al piumone.

Il freddo dell’ennesima notte in giro si allontanava poco alla volta e lasciava quel sentore di vuoto e calore in cui trovava rifugio, ma vuoto non sarebbe mai stato davvero, perché la sua testa avrebbe rivissuto le intere ventiquattro ore da capo, per sussurrargli che era sopravvissuto anche quel giorno.

Sbadigliò, si girò di lato.

Poco dopo mani calde gli scivolarono attorno al fianco, sulla pancia, e altro calore arrivò alle sue spalle dove Ikea s’era stretto. Una mezza erezione gli sfiorò il culo.

«E dire che pe’ n’attimo m’ero creduto fossi venuto a famme na’ sorpresa de San Valentino.»

La risata uscì in uno sputo.

«‘O cazz! Ma come ti viene?»

«Già. Scemo io.»

Melo si volse al tono ferito del ragazzo. Lo guardò da sopra la spalla, mentre l’altro si ritirava nell’altra metà di letto.

«Ikè, lo sai come stanno le cose e sai come la penso. ‘Ste strunzate non fanno per me.»

«E allora perché non te ne sei tornato a casa tua, invece de venì a rompe er cazzo a me nel cuore de la notte?»

Forse perché era uno stronzo pure lui come il ciccione di quella sera, ma in maniera diversa, però non lo disse.

«Se, vabbè, e quando mai rispondi.»

Anche Mattia scelse di dargli le spalle.

Mattia, che lui non chiamava mai per nome, ma solo per nomignolo.

Mentre Mattia il suo nome lo ripeteva spesso: lo chiamava Samuele più di quanto lo chiamasse Malerba.

Melo sapeva di passare per ingrato, perché lo usava a suo comodo, ma non voleva nient’altro che quello. Non avrebbe dato nient’altro.

A nessuno però veniva in mente che in realtà gli stesse facendo un favore, visto che uno come lui era meglio tenerlo di comodo, che come affetto. Non ci si guadagnava un cazzo, a parte le rogne, e suo fratello avrebbe potuto confermarlo a chiunque.

Allora, per tutti e due, sceglieva quel rapporto basato sulla prepotenza (la sua), sull’intimidazione (sempre la sua) e sulla rassegnazione (di Mattia), così non si dava adito a fraintendimenti.

 

“La devi finire di fare lo stronzo con lui. Sei meglio di così. E ogni tanto sarebbe carino se, non so, ti ricordassi di quelle feste sceme come San Valentino, per esempio. Se il mio ragazzo se lo ricordasse, io sarei contento, ma tu si’ proprio na’ capa ‘e chioppa, fratè.”

 

Melo sorrise nel cuscino, ci affondò la faccia.

Come poteva essere il compagno modello se lui, di San Valentino, ne era il mostro?

Poi però si ricordò che quella festa gli faceva schifo, che lui era troppo stanco e che tra meno di cinque ore ci sarebbe stata una bella scopata consolatoria per tutti e due, e addio al broncio di Mattia.

Pure per quell’anno si sarebbe parato il culo in qualche modo.

Adesso sì, poteva concedersi un po’ di riposo. E crollò nel sonno.

 

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: Allora. Avrei voluto fare una premessa, ma poi ho pensato che fosse meglio lasciare una ‘postfazione’ per spiegare cos’è questa storia.

Non volevo rovinare la lettura con dei preamboli e lasciare a tutti il piacere della scoperta.

Di sicuro, chi sarà approdato in questa storia per caso non avrà capito, per questo lascio questa nota: questa storia nasce da una mia fanfiction nel fandom di Captain Tsubasa.

I personaggi di cui parlo qui, sono OC che avevo creato per quella fic e ai quali mi sono affezionata così tanto, da pensare che da soli potessero funzionare più che bene. Talmente bene, da voler trasformare l’intera fanfiction in una storia originale al 100%.

Considerando che l’idea sarebbe quella di ambientare tutto in Italia, mi sono sempre sentita frenata, quasi impotente di fronte a un lavoro che so sarà molto grande, molto lungo e molto complesso. Così ho provato a dare vita a una storia singola, che si può inserire come ‘episodio random’ nell’economia del tutto.

Volevo vedere cosa sarei stata capace di fare, come sarei stata capace di muoverli: se fossero o meno efficaci, se rendessero o meno, se sapessi gestirli.

So che una oneshot non è sufficiente a fronte di un lavoro di 1200pagg, però ci ho voluto provare, per capire ‘chi potrebbero essere’.

Malerba, quindi, è nato ‘di là’, in quella fanfiction che ha un’ambientazione lontana anni luce da questa (Giappone vs Italia), e ho provato, per la prima volta, a farlo camminare da solo.

Fatemi sapere, secondo voi, come se l’è cavata :3

 

A chi invece sa benissimo di che parlo: vagliù, marò che sponzata! XD siate sinceri, mi raccomando!

 

 

   
 
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