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Autore: Soul of Paper    16/02/2021    4 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 54 - Il Coraggio


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Come non puoi avere figli? Ma che tieni qualche problema di salute?”

 

“Per nostra madre immagino di sì. E pure per parecchie altre persone.”

 

Era confuso e preoccupato: non capiva dove volesse arrivare Modesto ma l’idea che potesse avere qualche malattia, magari di quelle che peggiorano con gli anni, lo spaventava molto.

 

“Lo so da… da tanti anni ormai, ma non ho mai avuto il coraggio di parlarne con nessuno,” spiegò e fu come un pugno allo stomaco, confermando i suoi timori peggiori, “però… forse con te ne posso parlare, se prometti che non lo dirai ad anima viva.”

 

“Modesto, certo che non lo dirò a nessuno ma… ma se sei malato ti devi fare curare, mica ti puoi arrendere così!”

 

“E invece sì, perché per questa malattia, se così si può chiamare, non credo ci sia una cura. Ho… ho scoperto da un po’ di anni di…. di non essere attratto dalle donne, ma dagli uomini. Anche se non ho mai avuto il coraggio di farci niente, eh, perché in paese si saprebbe subito e allora….”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse più forte lo sbalordimento, il sollievo o la voglia di menare Modesto per avergli fatto prendere un colpo e non avergli mai detto niente.

 

“Da… da un po’ di anni? Ma da quanto lo sai?”

 

“Ho… ho avuto i primi dubbi ai tempi… ai tempi degli scout ma non riuscivo ad accettarlo. Poi… poi quando è arrivato Beppe, non so se te lo ricordi, quel lavorante a stagione, l’ho capito definitivamente, ma-”

 

“Ma Beppe me lo ricordo pure io, saranno passati… dieci anni? Cioè ti sei tenuto questo segreto per tutto questo tempo?”

 

“Sì. Se sei arrabbiato con me lo capisco, ma-”

 

“Sì, sono arrabbiato, molto. Ma non perché sei gay, ma perché hai passato tutti questi anni ad essere infelice e perché non ti sei fidato a dirmelo, che sono tuo fratello e dovresti conoscermi e sapere che ti avrei aiutato!”

 

“Lo so, ma… ma la mentalità di famiglia è quella che è. Lo so che non sei come… come mammà, ma sei sempre un carabiniere, che ti piacciano le donne non c’è dubbio - e mo lo sa pure tutta Italia - e… non ero sicuro di come l’avresti presa. Alla fine ci ha cresciuto nostra madre, con certe idee. Ma… ma poi ho sentito di quello che è successo alla figlia di Imma e… e ho letto il tuo commento di sostegno sotto al post dove si baciava con la sua ragazza e… e allora ho capito che forse mi potevo fidare a dirtelo.”


“Ma certo che ti puoi fidare! E ti potresti pure fidare di Rosaria. Ma che credi, che viviamo nel medioevo? E comunque non ci devi nemmeno pensare a questa storia di sposarti per finta: devi vivere la tua vita, liberamente!”

 

“Per te è facile parlare, fratellì, ma… pure tu per vivere la tua vita liberamente te ne sei dovuto andare da Grottaminarda. Addirittura la tua Imma se n'è dovuta andare da Matera e siete comunque un uomo e una donna. Ma a me… a me fare il contadino piace, coltivare i campi… è l’unica cosa che so fare bene e… non mi ci vedo proprio a vivere in città.”

 

“Modè, parliamoci chiaramente: i nostri genitori i soldi per pagare un lavorante per fare tutto quello che fai tu non ce l’hanno. E sei l’unico figlio che è rimasto a casa e che vuole continuare con l’azienda di famiglia. Non conviene manco a loro impedirti di fare il tuo mestiere, poi con papà che è sempre messo peggio con la schiena.”

 

“Lo so ma… mà mi renderebbe la vita impossibile, lo sai, e non solo lei, ma tutto il paese. Te lo ricordi, no, il professore di lettere che avevamo alle medie… che quando si è scoperto che era gay… lo hanno praticamente costretto a trasferirsi, con tutto quello che gli facevano.”

 

“Ma… ma erano pure altri tempi, Modè e poi… e poi una soluzione la dobbiamo trovare per forza, perché non c’è niente di peggio di essere incastrati in una vita che non si vuole, con qualcuno che non si ama. Per me è stato un inferno un mese scarso di fidanzamento con Maria Luisa, figuriamoci se me la fossi sposata!”

 

“E quale sarebbe la soluzione? Per certi problemi non c’è una soluzione, non c’è e basta.”


“Finché c’è vita c’è speranza, me l’hai insegnato tu, no?” gli ricordò, perché Modesto era quello che riusciva a far resuscitare anche piante che sembravano ormai morte.

 

“Ma io non sono una pianta, fratellì.”

 

“Appunto! E comunque… che ne dici se ne parliamo pure con Imma? Insomma… lei che cosa vuol dire avere una figlia che fa coming out lo sa e… magari può darci qualche idea. Che c’ha una testa meglio della tua e della mia messe insieme.”

 

“Non ci vuole molto, Ippà!” lo prese in giro suo fratello, bloccandolo quando provò a dargli un lieve pugno sul braccio.


Come quando erano ragazzini.

 

Solo che era cambiato tutto, o meglio, forse lui suo fratello non l’aveva mai conosciuto davvero.

 

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“E quindi insomma… sono gay. O penso di esserlo perché in realtà… non ho esperienze vere, ma….”

 

Il boccone di pinsa che aveva in bocca per poco non le andò di traverso: non se lo aspettava, per niente, anche se, dal poco che sapeva di Modesto dalle rare volte in cui Calogiuri lo aveva nominato, effettivamente molte cose così avevano più senso.

 

La guardò in apprensione, in un modo che le ricordava tantissimo il Calogiuri dei primi tempi, che pareva sempre attendesse una sentenza da lei. Ma era pure tanto diverso: gli occhi erano uguali, azzurrissimi e buoni, e pure la capacità di diventare color gambero nel giro di cinque secondi. Ma per il resto… dimostrava almeno almeno una decina di anni in più del fratello, anche se dovevano essere al massimo cinque. Probabilmente la vita che faceva, nei campi, che non perdona.

 

Vide Calogiuri che le fece segno come a dire ma non dici niente?! e si rese conto di essere stata fin troppo a lungo in silenzio.

 

“Che dire… mi immagino l’espressione di vostra madre quando glielo dirai,” scherzò, per stemperare l’atmosfera, ma poi specificò, più seria, “perché glielo devi dire, assolutamente.”

 

“Non è possibile, non capirebbe mai e… non avrei più una casa, un lavoro e-”

 

“E io c’ho provato a stare pochi mesi accanto ad un uomo che non amavo più, pure se l’ho amato molto, per tanti anni, ed è stato un inferno. Figuriamoci sposarsi con qualcuno che non conosci. Ma veramente vorresti crescere degli eventuali figli in una bugia? Perché ti garantisco per esperienza che capiscono tutto. E poi cosa capiterebbe se uno di voi due un domani incontra qualcuno di cui si innamora davvero?”


“Lo so, ma… ma non è facile. Dovrei rinunciare a tanto.”


“Ma potresti guadagnarci tanto. E poi… insomma, spero che prima o poi pure l’Italia si aggiorni su affidi o adozioni per coppie gay. E comunque, quando c’è l’amore e si sta bene con una persona, si può essere felici pure senza prole al seguito,” proclamò, lanciando un’occhiata a Calogiuri, che le sorrise ed allungò una mano a stringere la sua.

 

Anche se… l’idea di fargli rinunciare ad essere padre le pesava molto ma… non era quello di sicuro il momento di entrare in certi discorsi.

 

“Imma ha ragione, Modè. La vita è una e… devi darti almeno una possibilità di vivere una vita vera, di essere felice, se no avrai sempre rimpianti.”

 

“E col lavoro come faccio? Rosa almeno c’ha i soldi che le passa Salvo ma io….”


“Se i tuoi genitori ti impedissero di lavorare puoi venire a Roma pure tu, no? Una volta che tre figli su tre si saranno allontanati, se non vostra madre, di certo vostro padre dovrà svegliarsi per forza e capire che qualcosa non va nel rapporto con voi. E un lavoro lo si trova. Che hai studiato?”

 

“Agraria.”

 

“E allora ci stanno tanti negozi di giardinaggio, vigne, gente che ha bisogno di giardinieri. Peccato che stai fuori età per il concorso in forestale, se no te lo avrei proposto. Ma qualcosa si può trovare e poi comunque dovrebbe essere solo una soluzione temporanea. Ti avrei offerto la casa di Matera, visto che tra poco tua sorella se ne va, ma… non è che come luogo sia esattamente l’ideale per chi vuole vivere una vita alla luce del sole.”

 

“Io… ci devo pensare… non lo so.”


“E intanto che ci pensi, perché non te ne rimani qualche giorno qui da noi? Posso chiedere a mia figlia se conosce qualche locale gay, almeno esci, conosci gente.”

 

Percepì persino con la coda dell’occhio lo sguardo sbigottito di Calogiuri.

 

“Che c’è? Ho provato cosa vuol dire perdermi tutta la giovinezza e le esperienze che sono fondamentali e che sto recuperando mo, fuori tempo massimo. Magari tuo fratello può farlo ora e non quando c’avrà la mia età.”

 

“No, è che… è che non so se ne sono capace, se mi sentirei a mio agio… e poi… e poi non so se voglio far sapere a vostra figlia che… insomma….”

 

“Prima di tutto dammi del tu, che se no mi fai sentire vecchia, che io e Calogiuri una figlia purtroppo non la teniamo,” ironizzò, anche se faticò molto a nascondere una punta di vera emozione che aveva sentito a quel vostra figlia, anche se non era riferito a loro due, “e allora… Calogiù, ma se chiedessimo a Bruno, l’istruttore di equitazione? Lui è gay ed è dovuto venire da Matera a Roma per vivere più liberamente, sicuramente ti può capire e probabilmente conosce più l’ambiente gay maschile di quanto possa fare Valentina. E poi è un tipo molto discreto.”

 

“Non lo so… è che… Ippà lo sa… io con gente che non conosco ho sempre fatto molta fatica, da solo poi….”

 

“Guarda, mi offrirei pure di accompagnarti,” esordì, guadagnandosi un altro sguardo tra lo stupito e il commosso di Calogiuri, “ma ci manca che qualche giornalista ci becca e poi finisci sui giornali pure tu, che altro che l’outing pubblico di mia figlia.”

 

“Va… va bene… ci penserò… starei volentieri qualche giorno qua ma… non vorrei dare disturbo e….”

 

“E nessun disturbo! Ormai questo divano letto è abbonato agli ospiti, e poi tra un po’ volendo c’è l’appartamento di Rosa, se ti va bene dormire in un mezzo cantiere, lei sono sicura che non avrebbe niente in contrario. E le devi parlare, fratellì.”

 

“Lo so, ma… una cosa alla volta,” sospirò Modesto, in un modo che le fece comprendere chiaramente quanto fosse timoroso e combattuto su cosa fare.

 

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“Ciao! Sono Bruno! Imma e tuo fratello mi hanno parlato di te, piacere!”

 

“C-ciao…”

 

Era così strano salutare qualcuno che sapeva chi era realmente. Bruno gli fece un gran sorriso e gli strinse la mano.

 

“Mi hanno detto che… insomma non hai mai detto a nessuno di essere gay, né frequentato locali gay, giusto?”

 

Si sentì avvampare: era come un pesce fuor d’acqua.


“S-sì, s-sì, se non vuoi avermi tra i piedi lo capisco e-”

 

“Ma che! Però ecco… forse un locale gay potrebbe essere un impatto troppo forte per te la prima sera. Ho alcuni amici che fanno un aperitivo, un locale tranquillo, niente di che, e poi ci possiamo andare a mangiare qualcosa in una buona trattoria romana. Che ne dici?”

 

“V- va benissimo!” esclamò, improvvisamente sollevato e felice di aver dato retta a suo fratello e soprattutto ad Imma, che quando si metteva una cosa in testa sapeva essere più insistente di Rosaria e di sua madre messe insieme.

 

Ma dirlo a loro… quello sarebbe stato infinitamente più difficile, forse impossibile.

 

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“Come va? Ti vedo provato!”

 

“Un po’...” ammise, lasciandosi quasi cadere sulla poltroncina di fronte alla sua scrivania, “tra il trasloco di mia sorella… le intercettazioni… poi mo abbiamo pure ospitato mio fratello per un periodo.”

 

“Insomma… Imma ha conosciuto tutta la famiglia,” pronunciò, con un sorrisetto, “e comunque dovevi dirmelo che c’era tuo fratello, che dal poco che mi hai raccontato di lui… ero curiosa di conoscerlo, questo fratello così… misterioso, anche se forse Imma non avrebbe gradito, che so che ce l’ha ancora con me per Milano.”

 

Sospirò - la verità era che pure lui un poco ce l’aveva ancora con lei per Milano - ma poi fu forse qualcosa nello sguardo di Irene, qualcosa nel tono, ma ebbe la nettissima impressione che lei avesse capito perfettamente il mistero di Modesto e da ben prima di lui.

 

“Tu… della figlia di Imma… lo avevi già capito, non è vero?” chiese invece, perché quello almeno era di dominio pubblico.

 

Irene sorrise, scuotendo il capo e sporgendosi in avanti verso di lui.

 

“Calogiuri… Calogiuri… tu a poker non ci potresti proprio giocare. Ma sì, avevo capito di Valentina, da quando l’abbiamo vista con la sua ragazza… Penelope, giusto?” gli domandò e lui annuì, per poi aggiungere, in tono ancora più basso, “e ti rassicuro che avevo pure intuito di tuo fratello, non so se lo avessi già intuito anche tu. Ma pure se non lo avessi fatto… il collegamento mentale ti tradisce, Calogiuri, devi stare più attento, su. A meno che volessi che fossi io a dirlo apertamente e a levarti le castagne dal fuoco.”

 

Sospirò, ma si sentì pure stranamente sollevato.

 

“Tuo fratello è in un bel casino, Calogiuri, vista la mentalità dei tuoi genitori. Ma reprimersi è la cosa peggiore che si possa fare, ti rovina l’esistenza. Quindi… stagli vicino… magari cercando di essere un poco più sottile di così.”

 

Si sentì avvampare, ma gli venne pure da sorridere, “ci… ci proverò. Per… per cosa mi avevi fatto chiamare?”

 

“Sulla sottigliezza ci dobbiamo decisamente lavorare, pure nei cambi d’argomento. Comunque… ci sono delle novità. Ranieri mi ha chiamata e mi ha detto che, dalle intercettazioni che sta spulciando lui, ha scoperto che l’avvocato ha una nuova fiamma qua a Roma. Sai… una fidanzata in ogni porto e in ogni tribunale. Visto che qua a Roma dai sicuramente meno nell’occhio, che mica possono seguirti sempre, vorrei che scoprissi qualcosa in più su di lei. Chi è, cosa fa. Ho un numero di telefono e una foto del suo profilo di messaggistica istantanea.”

 

Gli passò il tablet e per poco non gli cascò di mano.

 

“Ma… ma questa è Melita!” esclamò, incredulo.

 

“Chi? Non dirmi che è una famosa!”


“No, no. L’abbiamo… l’abbiamo conosciuta a Maiorca, io ed Imma. Faceva la ragazza immagine in uno dei locali più grossi dell’isola. Era stata importunata da alcuni tipi poco raccomandabili, insomma… criminali locali. L’abbiamo aiutata a tornare a casa sana e salva e poi era volata subito in Italia. Ma… ma mi sembra strano che possa stare con uno come l’avvocato. Cioè… per come aveva reagito quella sera… mi sembra una che ballare va bene, magari pure un poco… discinta… ma altro no.”

 

“Discinta?” ripetè Irene, alzando gli occhi al soffitto e poi sorridendogli, “Calogiuri, Calogiuri, tu sei troppo ingenuo, anche se sei migliorato un poco ma… troppo ingenuo resti! Magari l’avvocato fa abbastanza gola a Melita, indubbiamente non per le sue doti fisiche. Con due regalini dei suoi… se ti giochi bene le carte… guadagni come una stagione sul cubo, per non dire un anno. Melita potrebbe essersi fatta un calcolo costi - benefici, tra il dover avere a che fare con bavosi tutto l’anno, che allungano le mani se non provano a fare di peggio, e dover aver a che fare con l’avvocato per qualche ora al mese.”

 

“Non… non so… ma… ma non mi sembra proprio il tipo, ecco,” ribadì, convinto, anche se si chiese se stesse prendendo un granchio, come con Lolita, “comunque ho l’amicizia con lei sui social. Ci siamo scritti un paio di volte, mi voleva ringraziare per quello che avevamo fatto per lei.”

 

“E allora non ti devi bruciare questa possibilità, Calogiuri. Per ora… prima di contattarla, cerchiamo magari di capire quanto buoni sono i suoi rapporti con l’avvocato e poi… e poi le puoi scrivere, con discrezione.”

 

“V- va bene,” acconsentì, anche se, come con Lolita, c’era quella sensazione sgradevole di essere un infame.

 

Ma alla fine non stava indagando su Melita e se l’avvocato era pericoloso come sembrava… poteva essere pure un modo per proteggerla, tenerla sott’occhio.

 

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“Lo sai, Calogiuri, Melita non pareva nemmeno a me il tipo da… accompagnarsi ad uomini anziani e ricchi. Ma alla fine l’abbiamo conosciuta per pochi minuti e mi tocca concordare con la cara Irene che non possiamo avere la certezza assoluta di come sia e che cosa sia disposta o meno a fare. Però stai attento e non prendere iniziative senza consultarti prima con Irene e, a seconda delle iniziative, pure con me, va bene?”

 

Lo vide deglutire e capì che aveva compreso benissimo di che tipo di iniziative parlasse.

 

“Va- va bene. Lo sai che non ho segreti con te su questo genere di cose.”


“Sarà meglio!” sospirò, anche se effettivamente dopo il casino successo a Milano sembrava rigare dritto, drittissimo, “a proposito di questo genere di cose… sono un poco preoccupata per tuo fratello, che se n’è tornato a casa senza sbilanciarsi più di tanto. Sì, è uscito un paio di volte con Bruno ma… non so se posso chiedergli qualcosa, di come l’ha trovato, ma forse non è il caso. Non vorrei che facesse finta di niente ed accettasse il matrimonio combinato.”

 

Si sentì abbracciare di lato, si accoccolò meglio sul divano, addosso a lui, dopo poco imitata da Ottavia che, ripreso in pieno il possesso della casa, marcava il territorio peggio di un cane ed era la loro ombra.

 

“Imma… non sai cosa significa per me sapere che ti preoccupi così tanto per mio fratello, veramente, ma non posso invadere così la sua vita privata e non lo posso obbligare. Come mi hai insegnato tu ai tempi di Maria Luisa, la gente ci deve arrivare da sola a capire cosa è giusto o cos’è sbagliato per la sua vita.”

 

“Lo so, ma… contavo sulla tua intelligenza e poi… e poi non potevo certo dirti di mandare a quel paese un matrimonio, che per farlo non ero proprio nessuno. Ma tuo fratello è abituato a dire sempre di sì, ancora più di te quando ti ho conosciuto.”

 

“Lo so… ma… non ci resta che aspettare e sperare che decida per il meglio.”

 

Gli sorrise e gli accarezzò i capelli, “sono orgogliosa di te! Pure se sei il fratello più piccolo, a volte sembri il maggiore, anche se magari è l’effetto di stare con una babbiona come me!”

 

“Sia mio fratello che Rosa sarebbero soltanto che fortunati a stare con dei babbioni come te,” scherzò lui, facendole l’occhiolino.

 

“Ah… quindi lo ammetti che sono vecchia?!” finse di arrabbiarsi, dandogli un colpetto sul braccio.

 

“Ci seppellirai tutti, dottoressa!” ribattè quell’impunito, prima di trascinarla in un bacio.

 

Udì il miagolio scandalizzato di Ottavia che le saltò via dalle ginocchia, giusto in tempo perché Calogiuri la inchiodasse al divano, levandole il fiato come sapeva fare solo lui.

 

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“Sono qui!”

 

“Come stai?”

 

“Dovrei chiederlo io a te,” le rispose, con uno sguardo un poco mortificato.

 

“Abbastanza bene… certo, non so quando potrò tornare a Matera senza che tutti mi guardino come se fossi un’aliena e… i primi giorni ho beccato qualcuno che ha provato a farmi delle foto ma… forse poteva andarmi pure peggio, a parte mia nonna che non mi parla. Ma quello forse non è poi così tanto un male.”

 

“Mi… mi dispiace veramente, per tutto quanto.”

 

“Lo so ma… non è colpa tua e probabilmente prima o poi sarebbe saltato fuori comunque. Allora, che mi racconti di bello? Ci prendiamo qualcosa da bere?”

 

“Certo, certo. E offro io, ovviamente, e non provare a dirmi di no, che dopo tutto quello che è successo è il minimo.”

 

Sorrise: Carlo era proprio un gentiluomo, anzi un gentilragazzo. A tratti in alcune cose le ricordava stranamente Calogiuri. Si chiese che educazione dovessero avergli impartito Vitali e sua madre.

 

Ordinarono due spritz e poi, ammirando il panorama del Pincio d’estate, nonostante il caldo, iniziarono a mangiare qualche tartina.

 

“Sai… non invidio la posizione in cui ti trovi ma… invidio molto il tuo coraggio. Io non so se ce l’avrei, al posto tuo.”

 

“Ma se a capodanno hai rischiato le botte per difendere me e Penelope. Certo che sei coraggioso pure tu! Si vede che hai preso il senso di giustizia di famiglia.”

 

“Forse sì ma… non sono certo di essere all’altezza di mio padre e poi… tutti mi danno sempre del raccomandato, pure all’università, se prendo un buon voto, a prescindere dalle mie capacità. Pensano tutti che sia per via di mio padre.”


“E allora devi solo dimostrare con i fatti che si sbagliano. E poi almeno tu sai cosa vuoi fare nella vita. Io… non sono certa di avere intrapreso il percorso giusto. Vorrei aiutare gli altri ma… non sono sicura di volerlo fare così, ma non so nemmeno come lo vorrei fare.”

 

“Non lo so… però vorrei avere la tua capacità con le parole. Si vede che sei figlia di un PM. Il post che hai fatto era scritto benissimo.”


“Forse sono più brava nello scritto che nel contraddittorio però. Anche perché, col mio carattere, mi scalderei troppo, a volte sono peggio di mia madre. E a differenza sua non ho tutta questa passione per regole e procedure. Vorrei essere più libera.”

 

“Ti capisco ma… non dirlo a nessuno, se no non mi fanno laureare,” scherzò, facendole l’occhiolino.

 

Le venne da ridere.

 

Carlo le era veramente simpatico: forse almeno una cosa buona da tutto il delirio degli ultimi mesi era uscita.

 

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“Ti ricordo che stavolta le ore di volo sono tredici e che vorrei ancora avere una mano all’atterraggio.”

 

“Scemo!” gli sussurrò, ma non poteva farci niente: l’idea del volo la metteva in agitazione. Poi tutte quelle ore di fila!

 

“Sono un poco preoccupata pure per Ottavia. Chissà se starà bene… non siamo mai stati lontani da lei per così tanti giorni.”

 

“Ottavia con mia sorella e con la peste si divertirà tantissimo. Forse mia sorella un poco meno, ma Ottavia e la peste di sicuro.”

 

In effetti… per certi versi non invidiava affatto Rosaria, che era stata veramente gentilissima ad offrirsi di stare a casa loro a Roma per quelle due settimane e a curare la micia, con l’occasione di andare avanti con i preparativi per il trasloco.

 

“Concentrati sul fatto che tra poco arriveremo, dopo un anno e mezzo che progettiamo questo viaggio,” le sussurrò e le venne una specie di nodo in gola.


Se pensava che stavano insieme da pochissimo quando lui le aveva fatto quel regalo. E mo invece….

 

“Che ne dici di guardarci un film, per distrarci? Che ultimamente a casa non c’abbiamo mai tempo. E poi c’è pure la coperta….”

 

Il modo sornione con il quale aveva enunciato quelle parole la portò a mordersi il labbro, mentre le veniva anche una botta di nostalgia.

 

“Che c’è?”

 

“Niente… sto pensando al nostro primo viaggio insieme… anche se qua ci sta un poco più di tecnologia che su Lucania Bus.”

 

“I vantaggi della coperta però sono gli stessi,” le sussurrò all’orecchio, facendole il solletico con il fiato.


“Dai, scegli il primo film, maresciallo, te lo concedo.”

 

Lui parve stupito ma si mise al lavoro alacremente e lei ne approfittò per fare una cosa che era da troppo tempo che voleva fare.

 

“Che ne dici di Hachiko? Parla di un cane che viveva a Tokyo. C’è pure la statua non troppo distante dal nostro hotel.”

 

“Va bene…” sospirò lei, temendo già la noia di un film sugli animali, ma l’importante era altro.

 

E infatti di lì a poco sentì il braccio di Calogiuri cingerle le spalle e gli si appoggiò contro, godendosi il calore, in contrasto con l’aria condizionata fin troppo forte.

 

Lo sentì cercare la sua mano, ricambiò la stretta e percepì la vibrazione di stupore nel petto ancora prima che lui pronunciasse “ma…”

 

“Sì, ho messo l’anello,” confermò, soddisfatta dal modo in cui lui si illuminò, “almeno in Giappone voglio sperare di poterlo indossare senza che nessuno ci faccia caso e senza fotografi. E poi così le giapponesi non si mettono strane idee in testa!”

 

Fu quasi stritolata in un abbraccio, mentre all’orecchio un “no, perché stavolta pure quando finirà il viaggio e scenderemo dall’aereo sarai soltanto mia!” la fece commuovere, tanto che gli prese il viso e se lo baciò.

 

Si costrinse a staccarsi solo perché erano comunque in un luogo pubblico e notò immediatamente gli sguardi tra l’incuriosito ed il disapprovante di una coppia giapponese nei sedili dall’altra parte del corridoio.

 

“Ho letto che nella cultura giapponese non ci si tocca quasi mai in pubblico, neanche tra fidanzati. Noi essendo stranieri... dovrebbero essere più tolleranti nei confronti delle nostre strane abitudini ma….”

 

“Insomma… peggio che a Matera.”

 

“Più o meno….”

 

“Ma qua siamo ancora in territorio internazionale, Calogiù, quindi posso abbracciarti tutto il tempo che voglio. Dai, fai partire questo film!”

 

“Non chiedo di meglio, dottoressa.”

 

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“Mannaggia a te, Calogiuri, che dopo il tuo film quello della dogana avrà pensato che mi ero fatta di tutte le sostanze che abbiamo beccato all’ultimo raid antidroga. Quasi non sento gli occhi!”

 

Hachiko doveva essere vietato per proiezione in pubblico, con quanto faceva piangere. Poi avevano guardato cose più leggere, ma ormai la frittata era fatta.

 

Per tutta risposta, quell’impunito le diede un rapido bacio.

 

“E le tradizioni giapponesi da rispettare, Calogiù?” gli chiese, nonostante fosse più che soddisfatta, spingendo la valigia verso la zona del treno che doveva portarli a Tokyo.

 

“E va beh…. Fuori dall’aeroporto magari possiamo rispettarle meglio. Qua è ancora pieno di turisti.”

 

“Meglio ma non troppo, Calogiuri!”

 

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“Dio mio, Calogiù, sono tutta lavata che sembra che mi sono fatta una doccia! Non mi lamenterò mai più del caldo in Italia!”

 

C’erano 30 gradi ma con un’umidità da far spavento. Pareva che l’aria stessa fosse bagnata.

 

“Preparati perché Kyoto sarà pure peggio, dottoressa.”

 

E poi la colpirono i rumori e i colori.

 

Gente, gente ovunque, più che alla festa della Bruna, anzi, a dieci feste della Bruna messe insieme. Ma tutti che procedevano ordinati e precisi, in fila perfino per il semaforo. File che sembravano tracciate col righello, per quanto erano dritte.

 

Proprio come in Italia.

 

E poi i colori dei grattacieli, pieni di led, ed i rumori delle pubblicità, che sovrastavano quelli della folla, stranamente silenziosa, tanto che tutto era come un brusio, che le ricordò un immenso alveare.

 

“Questo è l’incrocio più affollato del Giappone, dottoressa.”

 

Si guardò intorno e vide un’altra fila di gente, ma in mezzo alla piazzetta dove stavano, appena usciti dalla stazione di Shibuya.


E lo vide: Hachiko e la fila di gente era in attesa ordinata di poter fare una foto con la sua statua.

 

“Mannaggia a te!” sospirò, anche se una parte di lei una foto con un simile esempio di fedeltà, in fondo in fondo, l’avrebbe voluta.

 

“Che ne dici se mo ce ne andiamo in albergo, lasciamo le valigie, ci riposiamo un po’ e poi torniamo a fare foto e non solo qua?”

 

Sorrise a Calogiuri, che ormai le leggeva nel pensiero, annuì e, attenta a non perderlo tra la folla - anche se sovrastava tutti tranne i turisti di un venti centimetri buoni - si avviarono verso l’hotel.

 

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“Questo dovrebbe essere il quartiere dell’elettronica, per i patiti di tecnologia, videogiochi e cose del genere.”

 

“Insomma, ideale per me, proprio!” ironizzò, bloccandosi di colpo quando venne travolta da uno strano mix di vocine all’elio - ma come facevano le giapponesi a parlare così? - luci ed un odore di dolciumi che proveniva da uno stand di quelle che sembravano delle grosse frittelle a forma di pesce.

 

“Ne vuoi assaggiare una?”

 

“E perché no! Ma prima facciamoci un giro, Calogiuri, che qua non si può camminare mangiando, e poi trovare un cestino è più difficile che trovare un politico onesto in Italia.”

 

SI sentì prendere a braccetto - alla fine almeno quello i giapponesi potevano concederglielo! - e procedere a fatica nella folla. Superarono negozi di videogiochi che le sembrarono vecchissimi, quasi dei suoi tempi, di elettronica più svariata, e poi notò delle ragazze vestite da camerierine sexy o da quelli che presumeva essere personaggi di qualche cartone animato, con gonne che coprivano a malapena ciò che c’era da coprire, che distribuivano volantini.

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri e gli disse, “occhio a dove guardi, maresciallo!”

 

“Ma dai, dottoressa,” le sorrise, scuotendo il capo, “e poi sembrano delle ragazzine!”

 

“Giusto, che tanto a te vecchie piacciono!”


“Scema!” si sentì sussurrare e poi stringere più forte in quello che era un mezzo abbraccio, “a me piaci tu e basta, mi saresti piaciuta a vent’anni come a sessanta.”

 

“Magari non dirlo troppo forte, Calogiuri, che ti prendono per un gerontofilo, ma tanto qua ti va bene che nessuno ti capisce.”

 

Nonostante ciò, notò presto un paio di ragazzini occhialuti che li fissavano.

 

Pure in Giappone. Probabilmente era ancora più evidente la differenza d’età, perché aveva imparato in quei pochi giorni che le donne giapponesi dimostravano quasi tutte molto ma molto meno dei loro anni.

 

E poi uno dei due si avvicinò.

 

“Pikucha, pikucha?” le chiese, giungendo le mani in una specie di preghiera e lei si guardò con Calogiuri, non capendo.


“Io l’unico che conosco è pikachu ma non credo che c’entri qualcosa!”

 

E poi il ragazzo fece un gesto come di scattare una foto e lei ci capì ancora meno.

 

“Do you want to take a picture of us?” provò a chiedere Calogiuri.

 

“Serufi!” rispose il ragazzo facendo segno a lei e lui.

 

“Ho come l’impressione che voglia un selfie con te. Mi sa che per capire l’inglese qua bisogna aggiungere vocali dappertutto.”

 

“Meglio dei vecchietti di Matera quando lo pronunciano, insomma. Tutto il mondo è paese, bene. Ma perché vuole una foto con me?”

 

“Kosupure!” rispose il ragazzo con un sorriso.

 

“Eh? Che c’entra il purè mo?”

 

Calogiuri scoppiò a ridere e, dopo che lei lo fulminò, cercò di mettersi serio e le rispose, “credo intenda cosplay, cioè pensa che tu sia travestita come un personaggio di qualche cartone giapponese, quindi vuole una foto con te.”

 

“Bene… non so se preferire essere vista come un cartone animato, o i commenti che mi becco in Italia.”

 

Ma poi vide il ragazzo, che pareva intimidito e la guardava con occhi mezzi adoranti e decise che, in fondo, almeno qua era considerata esotica in modo positivo.

 

“Serufi ok,” gli rispose, sperando che capisse e lui si illuminò ed estratte un cellulare, Calogiuri che gli fece pure segno se voleva che la prendesse lui la foto.

 

E poi, alla faccia del distanziamento dei giapponesi, si trovò stretta in un abbraccio laterale, fin troppo, tanto che gli sibilò un “lukku ueru yu puttu yuru hendsu!” sperando che la pronuncia maccheronica dell’inglese, le u aggiuntive, oltre che allo sguardo omicida, bastassero a farsi capire.

 

Per fortuna il ragazzetto levò la mano, prima che gliela tagliasse.

 

Pure Calogiuri lo squadrò un po’ male e lui, dopo un paio di inchini, corse via.

 

“Mo mi chiedo a che personaggio dovrei somigliare però!”

 

“Tu sei tu e basta.”

 

“Sì, pure tu sei tu e basta: un ruffiano e basta!” ribattè, proseguendo con la passeggiata, finché giunsero di fronte a un negozio che aveva insegne che occupavano un intero palazzo ma che sembrava diverso dagli altri, non c’era merce esposta.

 

Intravide però dei costumi, dalle parti trasparenti dell’entrata scorrevole.

 

“Chissà che vendono qua? Forse costumi per il purè? Vuoi entrare?” chiese a Calogiuri e lui assentì.

 

Ed in effetti sì, vendevano costumi ma… altro che purè.

 

Al massimo per la ricotta.

 

Riconobbe ben presto gli oggetti esposti come vestitini e giochi destinati ad un pubblico più che adulto. Erano finiti in un sexy shop immenso, un cartello che annunciava anche in inglese l’oggettistica presente su ogni piano.

 

Si voltò verso Calogiuri che teneva la bocca spalancata e pareva più rosso dei gamberi in tempura che si erano mangiati la sera prima.

 

Le venne da ridere.

 

“Se vuoi sperimentare, maresciallo, magari potremmo comprarci qualcosa,” lo punzecchio, adorando il modo in cui il rossore gli giunse fino alle mani.

 

“Calogiuri, è bello vedere che gli anni passano ma certe cose non cambiano mai, ma proprio mai…” sospirò, prendendolo a braccetto e trascinandolo fuori, prima che gli venisse un coccolone.

 

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“Certo che questi sacerdoti devono essere alcolisti! Ma è incredibile la pace ed il silenzio che c’è qua, rispetto al traffico di fuori.”

 

Erano andati a vedere il santuario più grosso di Tokyo, in un parco enorme, tanto quanto i barili di sakè, birra e pure vino che c’erano come da tradizione impilati all’entrata del santuario. Doni per i sacerdoti, a quanto dicevano le poche scritte in inglese.

 

L’unico rumore era il brusio dei turisti e della natura, e pensare che a pochi minuti a piedi c’erano la folla ed il traffico ad attenderli.

 

Tornarono a piedi per il sentiero, incrociando gente vestita in modo normale o con abiti tipici, e poi arrivarono di fronte alla stazione, dove da un lato c’era un vecchietto che si esibiva in quelli che presumeva essere canti tradizionali - e che facevano invidia ai neomelodici - dall’altro un ragazzino con una pettinatura improbabile che saltellava e cantava una roba pseudo rap, sparando ogni tanto qualche parola in inglese.

 

“Qua ci dovrebbe stare una via dello shopping molto famosa tra i più giovani, vuoi dare un’occhiata?”

 

“Allora giusto tu ci potresti comprare qualcosa, anche se pure io ormai con la regressione adolescenziale sto a posto.”

 

Percorsero a fatica la strada, perché c’era una folla che in confronto veramente la Bruna era un deserto. Incrociarono gente che si mangiava crepes talmente ripiene di qualsiasi ingrediente da farti venire il diabete solo a vederle ed enormi nuvole di zucchero filato arcobaleno che pure lì, manco a parlarne.

 

Ma poi, in mezzo ai negozi più strani, si illuminò quando vide una vetrina.

 

C’erano alcuni abiti che sembravano usciti dai concerti rock degli anni Ottanta, ma anche un kimono rosso e tigrato ed un vestito lungo zebrato che trovava bellissimi.

 

“Dai, entriamo!” la precedette Calogiuri con un sorriso.

 

La commessa si produsse nei soliti suoni ad elio di benvenuto, ma poi chiese, come se fosse la cosa più naturale del mondo, in un inglese semplice ma comprensibile, “for you or for him?”

 

Imma lanciò un’occhiata intorno e gli abiti erano tutti da donna, Calogiuri divenne più fucsia dell’abito con maniche a sbuffo giganti in vetrina, che pareva uscito da un video di Madonna, e la commessa precisò, “costume for performer. Old tradition, men play women.”

 

Insomma, a quanto pareva la vecchia tradizione del teatro inglese di far fare tutti i ruoli agli uomini c’era pure qua. Anche se con questi vestiti… la drag di Maiorca ci sarebbe andata a nozze.

 

Fece segno verso se stessa e verso l’abito zebrato e la commessa annuì e ne prese uno uguale da dentro il negozio, mentre Calogiuri continuava a sembrare imbarazzatissimo.

 

“Comunque secondo me saresti bello pure vestito da donna, mannaggia a te!” gli disse, solo in parte per sfotterlo, perché, considerando la somiglianza con Rosa….

 

“Su questo preferisco mantenere un poco di mistero, dottoressa, prima che decidi che non mi vuoi sposare più.”

 

“Ti garantisco che nessun vestito in questo negozio potrebbe farmi cambiare idea in proposito, Calogiuri. I risvoltini invece….”

 

Si beccò un pizzicotto sul fianco, prima di seguire la commessa verso i camerini.

 

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“And here Onsen, public bath.”

 

Erano finiti in una locanda di quelle tradizionali, con le acque termali. Imma aveva i piedi distrutti dopo una camminata per il Monte Fuji. Ma ne era valsa la pena: non aveva mai molto amato la natura o le scampagnate, ma tutto quel silenzio dopo tanti giorni di caos, nonostante fosse pieno di turisti pure lì, era stato quasi commovente.

 

La donna della locanda, vestita in abiti tradizionali, fece loro un inchino e li fece entrare nella stanza.

 

Seguì tutta una cerimonia per estrarre dall’armadio quelli che le sembrarono dei piumini giusto un poco più imbottiti e preparare i loro letti.

 

Per terra.

 

“Qua addio schiena, Calogiù, altro che la tenda!” gli sussurrò, per fortuna era solo per una notte.

 

Poi mostrò loro delle specie di accappatoi e ciabatte tradizionali e delle istruzioni scritte in inglese e si dileguò.

 

Imma lesse e rilesse, comprendendo che nel bagno termale bisognava entrarci completamente nudi e che gli accappatoi servivano appunto per arrivare fin lì, con tanto di spiegazione su come allacciarli correttamente e non in un modo che portava sfortuna.

 

Guardò alle sue spalle e Calogiuri era di nuovo di un colorito tra il gambero e la carpa koi.

 

“Va beh… Calogiù… a quanto dice qui uomini e donne sono separati, a differenza che coi naturisti. Vuoi provare?”

 

“Cioè… tu lo faresti veramente?” le chiese, in un modo così scioccato da essere comicissimo.

 

“E perché no? Tutte donne io, tutti uomini tu… e poi qua nessuno ci può fotografare. E tu sei giovane, ma le mie ossa di un bagno caldo ne avrebbero proprio bisogno, visto il… giaciglio che ci aspetta.”

 

Si trovò trascinata in un bacio.

 

“Che c’è?” gli mormorò sulle labbra, non più del tutto così convinta di non voler testare se nonostante il giaciglio… certe cose non potessero metterle in pratica lo stesso, in modo soddisfacente.

 

“Che… che mi sorprendi sempre. Sei… sei… ti amo!”

 

Gli e si concesse un altro bacio, il cuore che le scoppiava di gioia, prima di decidersi a malincuore di staccarsi e prepararsi per il bagno.

 

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Levare la vestaglia fu imbarazzante e liberatorio insieme. Entrò in una stanza molto grande, dove alcune donne, tutte giapponesi, tutte nude come lei, stavano lavandosi ad una delle docce alle pareti.

 

Si sentì osservata, tanto per cambiare, ma poi si avviò verso una doccia libera, cercando di capire cosa dovesse fare.

 

Sentì un “gomen…” sussurrato, che aveva capito essere il loro modo di chiedere scusa e attirare l’attenzione. La ragazza vicino a lei - o forse era una signora, difficile dirlo - le mostrò a gesti dov’era il sapone e come fare tutta la procedura.

 

Stranamente, fu come se l’essere nude in un certo senso sparisse e le sembrò tutto assurdamente naturale.

 

E poi, accompagnata da due delle signore, entrò nella zona del bagno e si immerse nell’acqua caldissima, piazzandosi, come facevano loro, un asciugamano imbevuto di acqua fredda piegato sopra la testa.

 

All’inizio ci fu solo silenzio e relax, ma poi vide che la donna di prima la guardava e le fece cenno come a chiederle se volesse dire qualcosa.

 

In quei giorni aveva avuto conferma definitiva di quanto funzionasse bene la comunicazione non verbale, se la conoscenza con Calogiuri non gliene avesse già dato prova.

 

“Ueru aru yu frommu?” le chiese, di nuovo ricordandole straordinariamente la buonanima di sua madre quando provava a dire qualche cosa in inglese.

 

“Italia,” spiegò, perché aveva pure imparato in quei giorni che era più chiaro di Italy.

 

“Sugoku! Ueru?”

 

“Matera,” si trovò a dire spontaneamente, per poi aggiungere, di fronte allo sguardo spaesato, “I live in Roma.”

 

Tutte le giapponesi si produssero in un “ah! Sugoi!” estasiato e lei voleva dire loro di provare a vedere Matera che Roma sì, era la città più bella del mondo… ma Matera era tutta un’altra cosa.

 

“Ueru go?” chiese facendole segno di dopo.

 

“Kyoto?” rispose, sperando di aver capito, e quando la donna si illuminò ne ebbe la conferma.

 

Era incredibile come le fossero più comprensibili questi gesti e poche parole che quello che le dicevano certi agenti, tipo quel fenomeno di La Macchia o Carminati mo.

 

“My…” provò a dire la donna e dopo consultazione con le altre saltò su con “dotaaaa, gaido in Kyoto. Itariago gaido.”

 

Di nuovo ci mise un attimo a capire, avendo la conferma che la ragazza una ragazza non poteva essere, se aveva una figlia che faceva la guida turistica per italiani a Kyoto.

 

La Moliterni in Giappone sarebbe morta di invidia, chissà qual era il segreto di questa eterna giovinezza.

 

Poi la donna le fece segno di chiamare e capì che voleva darle il numero della figlia.

 

Sperò che i prezzi amici in Giappone fossero meglio di quelli in Italia.

 

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Rientrò in stanza, rilassata e divertita dalle chiacchiere stentate tra donne e si trovò davanti Calogiuri, ancora in vestaglia, talmente rosso da essere bollito, e con un’aria un po’ abbacchiata.

 

“Com’è andata?”


“Bene, Calogiù, bene: forse ho trovato una guida turistica per Kyoto che parla italiano, se non costa troppo. Le signore sono state molto gentili. Tu?”

 

“Penso di avere trovato soltanto insulti in giapponese: mi guardavano tutti malissimo e parlottavano tra loro, fissandomi.”

 

“In caso, Calogiù, è tutta invidia, fidati!” gli sorrise, non dubitando che gli altri uomini fossero stati gelosissimi di lui, “se ti vedevano le signore altro che guida turistica: ti ci accompagnavano direttamente loro a Kyoto!”

 

E poi, per consolarlo, visto che aveva il muso peggio di Ottavia quando faceva la finta disperata, gli diede una carezza sul collo ma lui si produsse in uno strano mugolio.

 

“Mi sa che con l’acqua calda… ho la pelle sensibilissima,” spiegò, toccandosi la nuca ed emettendo un altro pigolio.

 

“Questo potrebbe avere risvolti MOLTO interessanti, maresciallo…” sussurrò, mordendosi il labbro, mentre parecchie idee le scorrevano in testa.

 

“Imma…” provò a obiettare lui, anche se si vedeva che gli scappava da ridere.

 

Lei gli poggiò le mani sul petto, godendosi l’ennesimo suono gutturale, e gli aprì la vestaglia, prima di spingerlo sul famoso futon ed iniziare a torturarlo il più lentamente possibile.

 

Forse si sarebbe trovata con le ossa rotte, ma ne sarebbe decisamente valsa la pena.

 

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“Buoni sti sottaceti, o pikurusu come li chiamano loro. Che questo c’ha qualcosa dei lampascioni sottaceto. Come si chiamava?”


“Daikon mi pare.”

 

“Certo… mangiarsi riso e pesce di mattina presto non è che sia il massimo ma temevo peggio, sinceramente. Invece a te fa bene, tutte proteine, e c’è pure questa frittata soffice, che devono avere capito che ti serviva l’equivalente locale dello zabaione.”

 

“E per forza! A sapere che dormire sul pavimento ti faceva questo effetto, prenotavo solo in posti così.”

 

“Mi fa questo effetto perché dormirci è difficile, Calogiuri. Meglio dedicarsi a… altre attività.”

 

“Non chiedo di meglio… anche se questo ritmo tutte le notti potrei non reggerlo, dottoressa.”

 

“Mangia il tamagotchi o come cavolo si chiamava quel coso con l’uovo e stasera ne riparliamo,” gli ordinò, e lo vide deglutire l’omelette con un misto tra apprensione ed anticipazione.

 

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“Il bus è in ritardo. Mi pare incredibile, fino a qua tutto puntualissimo.”

 

“Eh va beh, dottoressa… con gli autobus dipende dal traffico. Però purtroppo qua a Kyoto la metro non c’è ovunque. E poi la guida dovrebbe aiutarci.”

 

Scesero. Imma si sentiva già completamente fradicia: in confronto Tokyo era gelida.

 

Dovevano incontrare la guida davanti alla stazione centrale e alla Kyoto Tower, una roba che le sembrava un misto tra una torre di controllo ed un birillo per il traffico gigante.

 

“Imma-sama?”

 

Guardò verso la fonte della voce e ci trovò una ragazza giovane, in jeans, maglietta e quelle specie di lunghissimi manicotti che le giapponesi indossavano per non abbronzarsi.

 

“Yukari?” chiese, sperando di ricordarsi correttamente il nome della ragazza.

 

“Hai! Benvenuti a Kyoto. Spero vi piace città. Se seguire me, fare tour.”

 

La seguirono su e giù da un altro bus, fino ad un tempio buddhista, che dava sull’intera città, pieno di fontane d’acqua, che parevano una cascata, con file enormi di gente per berla o bagnarsi.

 

“Kiyomizudera. Da mizu, acqua, acqua pura,” spiegava la guida e, a parte il panorama incantato e la bellezza del luogo, Imma fu molto incuriosita da alcune giovani che camminavano ad occhi chiusi da una pietra verso un’altra pietra, rischiando pure di farsi male.

 

“Se… arrivano senza vedere, grande amore in loro vita.”

 

“Io credo di essere già stata abbastanza fortunata così,” rispose Imma, prima di sdrammatizzare, di fronte alla commozione di Calogiuri, “se tu invece vuoi provare, maresciallo!”

 

“Potrei arrivarci a occhi chiusi, ma perché ho già un grande amore nella mia vita.”

 

Lo guardò come a sfidarlo a provarci e lui, come se fosse la cosa più normale del mondo, aspettò che l’ultima ragazzetta si levasse, si tappò gli occhi con una mano ed iniziò a camminare, sotto i risolini delle giapponesine che gli facevano foto.

 

Calogiuri era lento, e a volte imbranato, ma forse proprio per quello era preciso. Fece un passo dopo l’altro e, piano piano, arrivò a toccare la seconda pietra, che per poco non ci si schiantava contro.

 

“Hai barato, dì la verità!” lo redarguì ma lui mise una mano sul cuore e rispose con un “no, te lo giuro!” che era terribilmente sincero.

 

“Spero che sia per me e non per qualcun’altra che attende nel tuo futuro!” scherzò, e lui la spiazzò con un, “perché non lo fai pure tu? Così abbiamo la riprova!” che sapeva di sfida.

 

Dopo aver lasciato ad altre tre ragazze l’onore di provare a farlo, una che tra poco finiva addosso a Calogiuri, altro che roccia - sempre se non l’aveva fatto apposta! - ci provò pure lei, ringraziando il cielo almeno di avere addosso le sue amate scarpe da ginnastica di Maiorca e non i tacchi.

 

Chiuse gli occhi, coprendoli come aveva fatto Calogiuri per non avere la tentazione di barare e cercò di andare più dritta possibile, una gamba davanti all’altra, ma veloce, che lei ad andare piano proprio non ce la faceva.

 

Toccò presto qualcosa di caldo e morbido ed un “ferma!” le fece aprire gli occhi.

 

Era arrivata pure lei davanti alla pietra e Calogiuri l’aveva stoppata prima che ci inciampasse.

 

“Voi grande amore, grande!” proclamò felice Yukari, “come Volo!”

 

Annamo bene! - pensò Imma, per il paragone, stringendosi però felice a Calogiuri, tra sguardi di invidia delle ragazzette.

 

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Avevano appena finito di vedere il Kinkaku-ji, un tempio buddhista dorato dal parco bellissimo, dopo aver visitato il palazzo imperiale, quando uno di quei portali di legno rosso che annunciavano i santuari, anche se piccola, le si parò davanti. C’era una processione di gente che, ordinatissima, ci camminava sotto: alla testa quelli che presumeva essere sacerdoti, poi una tipa vestita di bianco con un buffo copricapo che le pareva un fungo, ed un uomo in quella che pareva una specie di gonna pantalone enorme più kimono.

 

“Matrimonio,” spiegò Yukari, con un sorriso.

 

“Questo… è un santuario shinto, giusto?” chiese, perché ormai aveva capito che la differenza, oltre alle figure del buddha, la facevano la presenza o assenza delle porte rosse.

 

“Sì, sì. Shinto per matrimoni. Buddha per funerali. Shinto non crede in vita dopo morte.”

 

La capacità di taglia e cuci religioso dei giapponesi era paradossale, anche se in un certo senso ammirevole.

 

Però era davvero affascinante vedere quella fila di gente, che ora stava purificandosi all’acqua del santuario - altra cosa che quasi tutte le religioni stranamente avevano in comune.

 

“Non si può assistere, immagino?” chiese, sorprendendosi da un lato, ma era curiosa di tutte quelle usanze.

 

“No, privato.”

 

“Anche noi stiamo organizzando il nostro matrimonio, cioè lo organizzeremo. Ci sposeremo tra un anno o due, credo,” spiegò Calogiuri, guardandola come a sondare il terreno su una data.

 

Gli sorrise intenerita, ma il peggio fu che lo fece anche la guida.

 

In Giappone Calogiuri sarebbe andato via come il pane, anzi, il riso, pure più che in Italia.

 

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“Noto che andare al mercato comporta l’assordamento pure in Giappone.”

 

Erano al mercato di Nishiki, che stava per chiudere, una serie di vie con degli sgabbiotti fissi da cui i negozianti proponevano soprattutto cibo - pesce fresco in prevalenza, visto l’odore. Tanto erano silenziosi i cittadini, quanto urlavano i negozianti. La differenza la facevano le massaie, ordinatissime, tanto che riuscirono a passare senza troppi problemi tra una fila e l’altra.

 

“Cerchiamo un posto dove cenare, dottoressa? Qua vicino c’è Gion, uno dei quartieri più antichi, dove ci sono ancora molte geishe.”

 

“Allora non sono del tutto sicura di volerci andare, Calogiù,” scherzò, ma poi si avviò insieme a lui nella folla.


Ad un certo punto notò un ristorantino davanti al quale c’era una bella coda, cosa che di solito era un buon segno, ma che sembrava comunque scorrere.

 

Si avvicinò e sentì un profumino invitantissimo di cose alla piastra, e vide che sembravano delle specie di frittelle cosparse di pesce, carne o qualsiasi altra cosa.


“Okonomiyaki!” annunciava la ragazza che prendeva l’ordine d’arrivo delle persone ed il numero del gruppo.

 

Un ricordo di gioventù l’assalì: la prima televisione che avevano avuto a casa ed un cartone animato, con protagonista una stordita di nome Licia, a cui piacevano molto uomini dalle pettinature improbabili che suonavano musica che definire rock era come definire Gigi D’Alessio metal.

 

Eppure a lei era piaciuto, anche se non lo poteva guardare spesso, che doveva fare i compiti. Non solo a lei, visto che poi ne avevano tratto una serie televisiva recitata in un modo che faceva sembrare Garko Robert De Niro.


Ma il padre di quella Licia faceva delle frittelle, che le parevano proprio queste.

 

Chissà come si chiamavano in realtà quegli assurdi  personaggi.

 

“Vuoi provare questi?” le chiese Calogiuri, con aria tutt’altro che dispiaciuta: il profumino era da denuncia.

 

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Dopo essersi divisi una frittella col maiale, una coi gamberi, ed una con gli spaghetti, tutte eccellenti, si avviarono, puzzando tremendamente di piastra, verso sto famoso quartiere.

 

Era bellissimo, molto tranquillo, al di là dei vari localini aperti, poche luci, un altro mondo rispetto ai grattacieli.

 

E poi le vide, come da copione, tre geishe, vestite di tutto punto e truccate di bianco, che uscivano in gruppo da uno dei ristoranti.

 

Erano stranissime e bellissime allo stesso tempo.

 

La prima si fermò un attimo e lo fecero anche le altre, e le vide chiaramente lanciare uno sguardo a Calogiuri, una gli sorrise pure, prima di ripararsi in maniera civettuola dietro un ventaglio.

 

Ma poi ricominciarono a camminare, sui loro sandali rumorosissimi, entrando in un altro stabile lì vicino.


Guardò in tralice Calogiuri, che sembrava un poco imbambolato.

 

“Calogiù, se stai con me la donna geisha te la scordi proprio, lo sai, vero?”

 

“Ma con le vestaglie giapponesi stai benissimo, anzi, con le vestaglie in generale,” si salvò subito lui, sussurrandole, “e poi lo sai che il tuo carattere mi fa impazzire, oltre a… tante altre cose. Dove la trovo un’altra come te?”

 

“Ecco, appunto! Tienilo bene a mente! E se farai il bravo… magari ora della fine di questa vacanza potrei aggiungere qualche altra vestaglia al mio guardaroba.”

 

Si guardò intorno, accertandosi che non ci fosse nessuno e gli pinzò per un attimo il sedere, prima di proseguire in avanti, soddisfattissima dal modo in cui venne pronunciato quel “Imma!” che la raggiunse.

 

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“Ma questo non è un santuario: è una montagna! Per carità, forse il più bello che abbiamo visto fino a mo, che è tutto dire, ma con 38 gradi… faremo fuori tutte le macchinette automatiche.”

 

“Lo so, dottoressa, ma abbiamo molte ore, possiamo prendercela con calma. E poi… ormai quasi tutti i turisti ci hanno rinunciato, è come se ci fossimo solo io e te.”

 

Era vero: il santuario shintoista Fushimi Inari era enorme e gettonatissimo, anche per via della quantità spropositata di portali rossi - che aveva scoperto chiamarsi torii - uno in fila all’altro a delineare tutto un percorso per la montagna.


All’inizio era pieno di turisti impegnati a farsi i selfie, ma ormai pareva realmente di essere in un mondo tutto loro, fatto di verde, arancio, campanelli che suonavano in lontananza e piccoli tempietti sparsi ovunque.

 

Piano piano, mano nella mano, allontanandosi ogni tanto dalla salita per esplorare qualche altro angolo bellissimo, arrivarono in cima, tutta Kyoto davanti ai loro occhi. Le venne da piangere per la bellezza di tutto quello che stava vivendo e vedendo.

 

“Non mi scorderò mai di questo viaggio, Calogiù: è stato il regalo più bello che potessi farmi. A parte l’anello, ovviamente,” gli sussurrò, fregandosene dell’etichetta e che in fondo fosse un luogo sacro e dandogli un bacio.

 

Del resto lo spirito di una volpe dalle molte code e che veniva rappresentata come una donna, peraltro vestita di rosso, al massimo massimo poteva approvare, ne era sicura.

 

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“C’è un chioschetto qua, vuoi prendere qualcosa?”

 

“E me lo chiedi, Calogiù? Mi sto sciogliendo!”

 

Si erano appena fatti a piedi la bellissima foresta di bambù, dopo aver visto le scimmie nel vicino parco, che le erano parse assai più intelligenti della maggior parte dei suoi sottoposti.

 

“Che vendono qua?”

 

Calogiuri fotografò la scritta con google translate e venne fuori “kakigori”. Il che non diceva molto, a parte che il nome prometteva malissimo sugli effetti collaterali della consumazione.

 

Ma poi intravide cosa c’era oltre la folla: una donna che grattava via ghiaccio da un blocco e ci metteva su sciroppo.

 

“Na grattachecca, Calogiù!” esclamò, e le venne da ridere: il mondo era proprio piccolo, in fondo.

 

E poi provò come una fitta allo stomaco, che non distinse subito, ed un’altra ancora.

 

E fu allora che se lo ricordò, preciso, come se ce lo avesse davanti agli occhi mo: le mani di un uomo con una lama in mano che correvano su una lastra di ghiaccio, raccogliendo quello grattato via in un bicchiere e mettendoci su uno sciroppo verde. Menta probabilmente.

 

La voce di sua madre che ringraziava e lei che la prendeva e la mangiava avidamente.

 

Ma quell’uomo… quell’uomo non era suo padre.

 

O per certi versi lo era, perché il volto che le apparve, offuscato dai ricordi, era quello di Cenzino Latronico.

 

Le girò la testa, tanto che Calogiuri la prese per un braccio e le chiese se andava tutto bene, seguito da diverse donne giapponesi che esclamavano cose tipo “genki?” o “byouki?” che doveva essere qualcosa sui generis di “ti senti male?”

 

La fecero accomodare su una panchina lì vicino e, dopo un poco, il mondo tornò a farsi chiaro ai suoi occhi.


“Ok, ok. Too hot!” cercò di spiegare, indicando il sole e guadagnandosi dalla negoziante, uscita in mezzo alla folla, una bottiglietta del loro equivalente del gatorade, più una granita gigante per lei e una per Calogiuri, con su litri di sciroppo.

 

Pure mentre mangiavano, piano piano, per evitare una congestione, Calogiuri continuava a fissarla, preoccupato, ma lei cercò di rassicurarlo. La verità era che non aveva idea se quello che aveva scatenato il capogiro fosse un ricordo o solo una suggestione della sua mente, ma non se la sentiva di affrontare quell’argomento lì ed in quel momento.


Se mai se la sarebbe sentita.

 

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“Oggi è l’ultimo giorno qua a Kyoto.”

 

Già… era l’ultimo giorno e… la verità era che quella città le sarebbe mancata tantissimo, più di Tokyo con tutte le sue luci e tecnologia.

 

I templi, la pace, la tranquillità, il cibo che era inaspettatamente buono…. Tutto tranne il clima.

 

“Che vuoi fare oggi, maresciallo? Mi sono persa quale fosse il programma.”

 

Calogiuri, al di là del giorno con la guida, aveva pianificato tutto in maniera certosina, ma per quel giorno non le aveva detto niente.

 

“C’è un posto in cui ti voglio portare. Una sorpresa. Ti conviene metterti vestiti leggeri e comodi.”

 

“Un’altra scarpinata, Calogiù?” domandò, preoccupata, perché, anche se le avrebbe rifatte tutte mille volte, ancora un po’ e non sentiva più i piedi.

 

“Non proprio, dottoressa, anche perché ieri col colpo di calore lo hai fatto venire a me un colpo. Ti fidi di me o no?”

 

“Quando fai questa domanda sei particolarmente pericoloso, Calogiuri. Ma va bene, mi fido!”

 

Si infilò un vestitino leggero, le scarpe da ginnastica, e si preparò a spalmarsi e spalmarlo di crema solare, che già lui aveva un paio di zone rosse sul collo che non volevano saperne di andarsene.

 

E, per una volta, non per colpa sua.

 

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Scesero dal bus già accaldati, Calogiuri la condusse per un pezzetto a piedi e si trovò davanti ad un santuario shinto abbastanza grande, ma molto più semplice e meno scenografico di altri dove erano stati.

 

“Che c’è in questo santuario, Calogiù?” gli domandò, presumendo che magari avesse un giardino bellissimo - anche se quelli erano di solito i templi buddhisti - o qualcos’altro di particolare ma nascosto.

 

“Imma-sama, Karojuuri-san!”

 

“Yukari?” le chiese, sorpresa di vederla lì, non provando nemmeno a ricordare che suffisso avrebbe dovuto usare con lei - aveva scoperto che i giapponesi erano più fissati con le gerarchie dei carabinieri - per poi lanciare un’occhiata interrogativa a Karojuuri-san.

 

Che aveva combinato con la guida, alle sue spalle peraltro?

 

“Tu non detto niente a lei?” chiese Yukari, dandole manforte.


“No, no, volevo fosse una sorpresa,” spiegò lui, bordeaux, ma tanto ormai con il caldo e il sole lo era quasi perennemente, “Imma… se… se vuoi… possiamo… possiamo fare un rito di matrimonio shinto, come quello che abbiamo visto qualche giorno fa.”

 

Sentì la mascella schioccare, tanto che fu un miracolo se non se la slogò.

 

“Non… non ha alcun valore legale in Italia, non ti preoccupare,” si affrettò a precisare, “però… sarebbe una promessa tra noi due, una cosa soltanto nostra. Se… se ti va. Se non te la senti, lo capisco e-”

 

Gli prese il viso e gli stampò un bacio, perché, da sempre, era l’unica risposta possibile quando Calogiuri era… era Calogiuri.

 

Sentiva già il nodo in gola e il bruciore agli occhi che annunciavano lacrime imminenti ma si trattenne, mentre si staccava prima di dare troppo scandalo.

 

“Va bene… ma… sono struccata, tutta sudata… come…”

 

“Se tu seguire me, io spiegare tutto,” rispose Yukari, battendo le mani e facendo un saltello dalla contentezza, come aveva notato facevano molte ragazze giapponesi.


Le ricordavano Noemi.

 

E, su quel pensiero assurdo, si lasciò trascinare verso una delle porte laterali del santuario.

 

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“Kimono bianco o colori?”

 

Come vide l’altro kimono, rosso e pieno di decorazioni a fiori, non ebbe dubbi: che, poteva fare un matrimonio vestita così, e non ne approfittava?

 

“Colorato.”

 

“Questo cappello tradizione,” spiegò poi Yukari, mostrandole il cupolone che già aveva visto indosso all’altra sposa, “significa calma e… e…. obbedienza! Vuoi?”

 

Le venne da ridere.


“Grazie, ma sarei molto poco credibile,” rispose e, allo sguardo confuso della ragazza chiarì, “no, grazie.”

 

E poi dopo un po’ di inchini e salamelecchi, due ragazze che presumibilmente lavoravano nel santuario le presero i capelli e li acconciarono in un raccolto con fiori ed altre decorazioni che le sembrarono magnifiche.

 

Nel frattempo Yukari le spiegava come funzionava la cerimonia.

 

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Sentì un rumore di passi e la vide, davanti a Yukari e a due vestali del santuario, vestite con la gonna pantalone rossa ed il kimono bianco che aveva visto spesso nei cartoni giapponesi.

 

Rimase senza fiato: era bellissima.

 

I colori del kimono, la pettinatura, sembravano essere stati creati apposta per lei, era luminosa come non l’aveva mai vista.

 

Gli si appannavano già gli occhi ed erano solo all’inizio.

 

E finalmente lei sollevò lo sguardo, ormai a pochi metri da lui, incrociò il suo, e vide benissimo che si tratteneva dal ridere.

 

“L’abito tradizionale è così…” le sussurrò, appena fu abbastanza vicina, avendo capito benissimo perché lo trovasse buffo: del resto aveva su una specie di gonna pantalone grigia, che però sembrava una gonna, a parte la vestaglia nera sopra, che non era niente male.

 

“Non ci posso credere che ti sei vestito così per me,” gli rispose, sorridendogli in un modo che lo rese orgogliosissimo, “ma sei bellissimo pure così, sei bellissimo sempre, mannaggia a te!”

 

Sentirono un colpo di tosse e si voltarono verso il sacerdote. Si zittirono prima di rischiare di essere cacciati dal loro stesso matrimonio.

 

Procedettero in fila con il sacerdote, le vestali, Yukari e alcuni presenti, quasi tutti giapponesi, che presumeva dai gesti il sacerdote avesse invitato ad unirsi a loro, verso la fontana del santuario per il rito di purificazione.

 

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Le sembrò tutto velocissimo, surreale e bellissimo allo stesso tempo.

 

Ma ogni volta che incrociava gli occhi di Calogiuri, talmente lucidi che pareva uno con una rinite allergica, sapeva che stava succedendo davvero.

 

Come da istruzioni, bevvero tre sorsi di sakè - che, con tutto il bene, a lei sembrava liquore annacquato - da tre tazze di dimensioni diverse, poste sull’altare insieme a frutta, sale e riso.

 

E poi arrivò il momento del giuramento e toccò prima a Calogiuri, a cui venne dato, come a lei, un foglio con la traslitterazione in alfabeto occidentale. Ma saper pronunciare tutta quella roba era un altro discorso.

 

Il sacerdote disse la prima frase e Calogiuri la ripetè, “watakushi wa kono josei to kekkonshi.”

 

Fu un poco un parto, tra Calogiuri che era emozionato, balbettava e si interrompeva ogni due per tre e le frasi in giapponese. E poi Calogiuri chiese con un “Itariago?” se poteva ripeterlo in italiano e il sacerdote assentì.

 

“Sposo questa donna e d’ora in poi saremo una coppia. Qualunque sia il nostro stato di salute, l’amerò, la rispetterò, la consolerò, l’aiuterò, fino alla fine della mia vita, essendole sempre fedele. Lo giuro.”

 

Sul lo giuro finale le venne da ridere e da piangere al tempo stesso.

 

Tanto che mormorò un “fedele nei secoli!” per sdrammatizzare.

 

E poi fu il suo turno di ripetere il tutto, Calogiuri che ormai aveva gli occhioni enormi, rossi ed il volto tutto bagnato - e non solo per il sudore con addosso tutta quella roba - lei che probabilmente ormai doveva sembrare un panda, la voce che se le si spezzava in continuazione e le mani che tenevano il foglio che tremavano… come foglie.

 

“Sposo quest’uomo e d’ora in poi saremo una coppia. Qualunque sia il nostro stato di salute, l’amerò, lo rispetterò, lo consolerò, lo aiuterò, fino alla fine della mia vita, essendogli sempre fedele. Te lo giuro, Calogiù!” non resistette ad aggiungere, godendosi la risata di lui.

 

E poi il prete fece qualche proclamazione e si voltò verso la piccola folla che ormai assisteva alla cerimonia. Imma notò che Yukari pareva commossa e pure alcuni dei solitamente impassibili giapponesi, soprattutto i più anziani.

 

E fu il turno dei presenti di avvicinarsi per bere il sakè - in un momento stranamente familiare - e poi si avviarono verso il santuario più interno, dove diedero loro un ramoscello sempreverde a testa, e, cercando di ricordare le prove, si inchinarono due volte, batterono due volte le mani, si inchinarono un’ultima volta per poggiare il ramo, donandolo alla divinità del santuario.

 

Il sacerdote pronunciò altre parole con cui li proclamava marito e moglie ed Imma non sapeva bene cosa fare, visto che in teoria ci si poteva toccare pochissimo.

 

Ma poi sentì un “kissu! kissu!” venire dal pubblico - chissà chi era stato - seguito da altri ed il sacerdote fece segno che potevano farlo.

 

Afferrò le guance di Calogiuri, umide e bollenti, e fu ben felice, per una volta, di accontentare qualcuno.

 

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Un fotografo, ingaggiato da Yukari, aveva appena finito di tormentarli con un servizio fotografico degno di quei cretini degli influencer. Si stava letteralmente sciogliendo ma doveva ringraziare qualsiasi cosa ci fosse dentro al trucco che le avevano applicato, perché non solo non sembrava un panda, ma era ancora quasi perfetto.

 

Ogni tanto, tra una foto e l’altra, qualche giapponese si avvicinava con inchini, a chiedere una “pikucha!” con loro.

 

La più bella era stata quella con alcune bambine, vestite in un modo assolutamente adorabile, perfino per lei che non aveva esattamente un istinto materno strabordante.

 

E poi c’erano state alcune ragazzette che si erano strette un po’ troppo a Calogiuri… mica sceme!

 

Avevano appena salutato il fotografo che Imma, con tutto il bene, sperava di non rivedere mai più, ma da cui avrebbe dovuto prendere lezioni su come dare ordini e torturare i sottoposti, quando si fece avanti una signora anziana ed un poco curva - il che significava che doveva essere molto anziana - e disse qualcosa a Yukari, mentre sorrideva loro.

 

“Signora dice che vuole fare regalo a voi, souvenir di santuario. Scegliere voi ciò che preferire.”

 

Provò in qualche modo ad esprimere la sua gratitudine tra inchini e “arigatou!” e guardò cosa offriva il negozietto.

 

La colpirono delle piccole frecce di legno, con attaccato un foglietto di carta con un disegno di quella che presumeva essere una divinità.

 

Ne afferrò una e l’anziana sorrise e le fece segno verso la pancia.

 

“Quello amuleto per proteggere donne che aspettano bimbo o che vogliono bimbo,” spiegò Yukari ed Imma si sentì ancora più accaldata, se possibile, “principessa, divinità di santuario vicino, quasi la prende freccia. Lei raccoglie freccia e dorme con freccia e così nasce figlio, dio di questo santuario.”

 

“Magari bastasse una freccia…” mormorò Imma, sentendo una fitta di malinconia.

 

Incrociò lo sguardo di Calogiuri, altrettanto malinconico, ma anche pieno di una felicità e di un desiderio inespressi, ma che gli si leggevano chiaramente in faccia.

 

“La prendo.”

 

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Si erano tolti gli abiti matrimoniali, più pesanti ed assai più costosi, ma avevano fornito loro degli yukata molto simili ma estremamente più leggeri, di cotone.

 

Erano quindi usciti dal santuario, dove li attendeva un taxi e mo erano scesi vicino al fiume e a quello che riconosceva come l’antico quartiere delle geisha.

 

“Calogiù, dove mi staresti portando? Ti ricordo che hai promesso di essermi sempre ma proprio sempre fedele, quindi le tue care geisha….”

 

“Tu sei la più bella di tutte. Con le vestaglie sei illegale da che ti conosco, dottoressa,” le fece solletico al collo col fiato, abbracciandola, “e comunque… dovremo pur farci una bella cena per festeggiare questo... matrimonio, no?”

 

Sentì chiaramente come la voce gli si rompeva sulla parola matrimonio. Anche per lei era ancora surreale anche solo pensarci: erano sposati.


Certo, non legalmente, ed era un qualcosa che si sarebbero tenuti solo tra loro ma… la promessa c’era stata e lei non faceva mai promesse che non aveva intenzione di mantenere. E sapeva che lo stesso valeva per lui, quindi… da quel momento in avanti sarebbe stato suo marito, almeno nel suo cuore, in attesa che lo fosse anche per tutto il resto del mondo.

 

Arrivarono in uno di quei ristoranti antichi, con tanto di tendina bianca davanti. Una cameriera, pure lei in abiti tradizionali, li accolse, e Calogiuri le disse, “Tanaka Yukari.”

 

La cameriera si illuminò ed esclamò un “kekkon! Omedetou gozaimasu!”

 

A furia di sentirselo ripetere quel pomeriggio, avevano capito che kekkon fosse il matrimonio e il resto una specie di congratulazioni.

 

Ringraziarono pure loro e vennero portati in un angolo un poco riparato di un bancone, dove li attendeva lo chef.

 

“Qua lo chef ti prepara il sushi su richiesta e in base alla sua fantasia. Dovrebbe parlare inglese.”

 

“Calogiù… ma quanto hai speso? Cioè, non solo per lo chef, ma per tutta questa giornata?”

 

“Yukari mi ha fatto un buon prezzo e comunque molto ma molto meno di quanto ci costerà il matrimonio in Italia, dottoressa.”


“Tu mi sottovaluti, maresciallo!” ribatte, facendogli però l’occhiolino.

 

“E poi… e poi almeno provi che cos’è il vero sushi!”

 

Il modo in cui aveva pronunciato quella frase la fece sorridere, “maresciallo… maresciallo… sbaglio o ci noto una frecciatina un po’ poco velata?”

 

Lui, ovviamente, fece la faccia da impunito e poi l’aiutò ad accomodarsi.

 

Se il sushi mangiato in Italia non le era dispiaciuto, questo era proprio delizioso, una cosa completamente diversa, che neanche la ricotta di Matera rispetto a quella che si trovava al nord.

 

Di nuovo, le venne da ridere.

 

“Che c’è, dottoressa?”

 

“C’è che… non solo il sushi non tiene proprio paragoni, ma neanche tu… anche se mo c’hai gli occhi peggio del gambero che hanno appena lessato.”

 

Si sentì stringere la mano sotto al tavolo, il massimo che potevano fare in un locale pubblico, ma poi arrivò la cameriera, portando loro del sakè freddo.

 

“We did not order this…” provò a spiegare Imma, ma cameriera scosse il capo e sorrise.

 

“Foru weddingu. Omedetou!”

 

“Free from the house,” spiegò lo chef con un sorriso e poi, spiegò ai presenti, “kono hitotachi-wa kyo kekkonshimashita-yo!”

 

In quel momento capì due cose: che l’alcol aveva il potere di trasformare anche il popolo più riservato e che fornire alla gente una scusa buona per berne altro rendeva molto più simpatici agli occhi della gente suddetta.

 

Gli astanti - altri due turisti, un gruppetto di quelli che sembravano businessmen ed una coppia più anziana - si prodigarono in una serie di congratulazioni e brindisi tra birra e saké da far invidia a chiunque.

 

Per fortuna il loro di sakè era meno annacquato dei precedenti, forse di qualità migliore.

 

Ma, mentre portavano a lei e Calogiuri una minitorta nuziale da dividere - tanto piccola quanto da diabete immediato, con tanto di sposini finti sulla cima - pensò che, stranamente, festeggiare con dei perfetti sconosciuti, di cui capiva sì o no a stento due parole, un matrimonio che nessuno tranne loro avrebbe mai conosciuto o riconosciuto, era assai più bello del ricevimento infinito e noiosissimo del suo primo matrimonio con Pietro ed i parenti e gli amici di lui - anzi di sua suocera.

 

Per essere perfetto mancavano solo Valentina, Diana ed i fratelli di Calogiuri, anche se con loro avrebbero potuto festeggiare per bene al matrimonio ufficiale.

 

Quel pensiero però inevitabilmente la portò a Valentina, alla quale non aveva ancora detto nemmeno del fidanzamento con Calogiuri.

 

E, forse, al suo ritorno, era proprio giunto il momento di farlo.

 

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“E mo dove mi porti, maresciallo?”

 

Si sentiva piacevolmente sazia, felice in un modo inimmaginabile. E quasi sicuramente il sakè che si erano scolati c’entrava solo in minima parte.


Finalmente la temperatura - il sole ormai calato da un po’ - era leggermente meno afosa ed era quasi piacevole passeggiare.

 

“Yukari ci ha prenotato una suite matrimoniale in un hotel specializzato. Dovrebbe già averci portato in stanza i nostri vestiti di stamattina, così poi le lasciamo lì questi.”

 

“Sempre se sopravvivono, conoscendoti….”

 

“Veramente l’attentatrice sei tu, c’è di buono che qua non c’è neanche un bottone da far saltare.”

 

“Com’è girare in gonna, Calogiù?”

 

“Come girare in accappatoio. Fresco e qua non c’è da sentirsi in imbarazzo. Certo… forse a Roma non lo indosserei per venire al lavoro, ecco!”

 

“Ci mancherebbe altro! Se no la gattamorta torna alla carica e non ti molla più!” esclamò, perché Calogiuri, conciato in quel modo, era adorabilmente tenero ma allo stesso tempo stranamente sexy.

 

La combinazione più letale per lei e per il resto del genere femminile dotato di vista funzionante.

 

E infatti, manco a chiamarle, vide alcune ragazze, pure loro in yukata, camminare dall’altro lato della strada, lanciando occhiate e risolini a Calogiuri.

 

Il lieve ruggito che ancora ogni tanto le si affacciava in petto, però, fu bloccato dal rendersi conto che le ragazze erano solo le prime di una fila di persone che si stavano recando ad un santuario lì vicino.

 

Piccolino, a giudicare dal torii, ma sembrava che ci fosse in corso come un mercatino, una specie di sagra.

 

“Dovrebbe essere un matsuri. Sono tipici dell’estate.”

 

“Insomma… una sagra in un luogo religioso. Certo che i nostri antenati in tutto il mondo dovevano avere molta poca fantasia,” ironizzò, però la folla di gente e i profumi la incuriosirono.

 

“Che ne dici se ci facciamo un giro? Tanto poi abbiamo tutta la notte!” propose, con uno sguardo che avrebbe mandato ai matti chiunque.

 

Gli prese la mano e se lo trascinò verso la calca di gente, che ormai non la turbava più.

 

C’erano cibi fritti ed alla piastra di ogni tipo, dolci, frutta - che in Giappone costava come un rene - e pure dei giochini per catturare i pesciolini rossi o vincere dei pupazzetti.

 

E poi notò una fila di gente davanti ad una specie di cassetta piazzata al lato del santuario. Estraevano un foglietto da un contenitore che shakeravano e poi o lo tenevano o lo appendevano.

 

“L’ho visto in qualche cartone. Penso siano tipo predizioni sulla fortuna futura.”

 

“Dubito di poter essere più fortunata di così, Calogiù, ma proviamo, al massimo lo teniamo come ricordo.”

 

Fecero tutta la fila - ormai avevano fatto più file in quei giorni che in una vita tra banca e posta - ed insieme estrassero il foglietto.

 

Lo aprì, curiosa, ma era scritto in caratteri giapponesi e non c’era alcuna traduzione in inglese.

 

Dovevano aspettarselo, in fondo: il santuario era piccolo e non turistico.

 

“Possiamo farcelo tradurre, dottoressa,” la rincuorò lui e, intascato il foglietto, diedero i loro omaggi a qualunque fosse lo spirito lì venerato e si incamminarono verso l’entrata.

 

Fu allora che lo vide: accanto al banchetto dei pesci rossi, talmente piccolo che non arrivava al bancone, un bambino in yukata che piangeva disperatamente.

 

All’inizio pensò che magari avesse perso il pescetto: sapeva per esperienza con Valentina che i bimbi sapevano fare tragedie per delle piccolissime delusioni.

 

Ma, mentre stavano ancora andando avanti a passo da lumaca, nessuno si avvicinò al bambino, né per consolarlo né per portarlo via di lì. In effetti era in una zona d’ombra e gli altri non sembravano nemmeno accorgersi della sua presenza.

 

D’accordo la disciplina delle mamme giapponesi, che magari non assecondavano i capricci, ma c’era qualcosa che non andava.

 

Bloccò Calogiuri con una sola mano davanti al petto, come faceva ai vecchi tempi, e al suo sguardo interrogativo, fece cenno verso il bambino e poi lo trascinò verso di lui.

 

Il problema era come avvicinarsi ed accertarsi che stesse bene senza spaventarlo o, peggio, finire in galera per molestie a un bimbo.

 

“Come si dice tutto ok in giapponese e dov’è sua mamma? Cerca un po’ su quel coso, Calogiù,” ordinò, perché il traduttore, seppur imperfetto, li aveva salvati in molte occasioni.

 

Il bambino li notò ed Imma temette per un attimo che volesse scappare, quindi si inginocchiò ed esclamò “matte!” una delle poche parole che aveva imparato e che voleva dire aspetta.

 

Poi prese il cellulare dalla mano di Calogiuri e fece partire le frasi impostate dallo schermo.

 

“Daijoubu desuka? Anata no haha-wa, doko desuka?” disse la vocetta ad elio, seppur metallica.

 

“Okaasan-ga mistukaranai, mitsukaranai!” pianse il bambino e per fortuna Calogiuri riuscì in qualche modo a registrare e a tradurre con un “non riesco a trovare mia mamma.”

 

“Calogiù… qua è difficile farsi capire. Non siamo passati davanti ad uno dei chioschi della polizia poco fa? Potremmo portarlo lì, loro sapranno trovare sua madre, spero.”

 

“Eh, ma come lo convinciamo a venire con noi senza che si spaventi?”

 

“Puoi usare il distintivo, Calogiuri? Magari capisce?”

 

“Menomale che mi sono portato dietro il portafoglio!” sospirò lui, aprendo la borsa di stoffa nera che gli avevano dato - del resto dove altro avrebbe potuto infilare telefono e portafoglio? - e ne tirò infine fuori il distintivo.

 

Il bambino lo guardò, confuso.

 

“Cerca come si dice poliziotto in giapponese.”

 

“Keikan,” lesse, cercando di spiegarsi al bambino, che però pareva sempre confuso e poi così dal nulla, gli si illuminò il viso e disse “Zenigata.”

 

“Rupan Sansei?” chiese il bambino e Calogiuri annuì e disse.


“Watashi, Zenigata. Keikan. Police.”

 

Il bambino sorrise e chiese, “kanojo-wa keikan desuka?” indicando lei.

 

Calogiuri scosse il capo ma cercò altro sul cellulare e mostro al bambino l’immagine di un tipo dai capelli grigi e vestito con un mantello viola che perfino lei trovava ridicolo e specificò, dopo un’altra ricerca su translate, “kensatsukan.”


“Chiedigli di venire con noi alla stazione di polizia,” tagliò corto Imma e Calogiuri di nuovo cercò la frase.

 

“Watashitachi-to issho-ni, kouban-ni, kite kudasai,” pronunciò la signorina che si era ingoiata un palloncino.

 

Il bimbo sembrò un attimo incerto ma poi prese con una mano lei e con una lui e si lasciò accompagnare.


“Muoviamoci, Calogiù, prima che qua ci fermano e ci arrestano!” esclamò, anche se nella folla era difficilissimo procedere rapidamente e non era il caso di attirare di più l’attenzione su di loro.

 

Finalmente uscirono dal giardino del santuario e la folla si diradò. Ma Imma sapeva che così era ancora più pericoloso, perché potevano dare nell’occhio ed erano due stranieri con un bimbo palesemente giapponese.

 

Camminarono più in fretta che potevano, ma il bimbo ad un certo punto si fermò e fece una lamentela, con una faccia degna di Ottavia, Noemi e zio messi insieme, alzando le braccina nel segno universale per farsi prendere in braccio.

 

Pure peggio.

 

Calogiuri, dopo un’occhiata, se lo sollevò e se lo mise in spalla, ed il bambino rise, urlando “takai, takai!” qualsiasi cosa significasse.

 

Stavano già attirando qualche occhiata, ma per fortuna il chiosco della polizia apparve, come un miraggio, si avvicinarono rapidamente allo sgabbiotto e videro uno degli agenti uscire.

 

“This child lost,” cercò di spiegare all’agente - che aveva un’aria sveglia degna quasi di Capozza - ma il tipo si riaffacciò e ne uscirono altri due agenti, che non li guardarono bene, anzi, tutt’altro.

 

“This child got lost, can’t find mother. Can you help?” chiese, cercando di tenere l’inglese semplice, mentre Calogiuri provava a fare scendere il bimbo dalle spalle, che però gli rimase aggrappato.

 

Prese la borsa di Calogiuri e stavolta ne estrasse lei il distintivo, “Italian police, carabinieri!” provò di nuovo a spiegare, non essendo affatto certa che capissero.

 

Uno degli agenti fece qualche domanda al bambino, che però rimase aggrappatissimo al collo di Calogiuri. Un baby koala con un koala, praticamente. Per fortuna, dopo le parole del bimbo, i poliziotti sembrarono distendersi visibilmente, anche se fecero segno loro di entrare nello sgabbiotto. Che per fortuna aveva l’aria condizionata.


Seguirono minuti nei quali, mentre un poliziotto prendeva un giochino per il bimbo, che però restava ostinatamente in braccio a Calogiuri, assisterono a delle telefonate incomprensibili, lasciarono i loro documenti e alla fine, quando ormai temeva di passare la prima notte di nozze in compagnia dei Capozza giapponesi, la porta del chioschetto si aprì ed entrò una donna in yukata e completamente in lacrime, che esclamò, “Hiroshi!”

 

“Okaa-chan!” urlò il bimbo, staccandosi finalmente da Calogiuri e correndole incontro, abbracciandosela forte.

 

Un uomo, il padre presumibilmente, fece anche lui capolino dalla porta.

 

E poi, dopo gli abbracci, Hiroshi si prese una reprimenda che non necessitava di alcuna traduzione, sicuramente sul non allontanarsi da solo nei luoghi affollati, ma alla fine pure un altro abbraccio.


E poi la madre guardò verso di loro.

 

Imma temette per un attimo una denuncia ma i poliziotti dissero qualcosa e la donna senza neanche alzarsi, si avvicinò a loro e fece un inchino che praticamente toccava a terra, ringraziandoli in un modo imbarazzante.

 

Il padre si limitò ad un inchino più lieve, restando in piedi.

 

Uomini… pure in gonna dovevano tenere alta la loro virilità.

 

La donna si alzò e prese per mano il piccoletto e fece per accompagnarlo fuori, ma lui si staccò e corse verso loro due, facendo un inchino tenerissimo e poi abbracciando forte prima Calogiuri e poi lei.

 

“Sayonara, Zenigata-San,” disse il bimbo e, in mezzo alle risate di tutti i presenti, uscì con i genitori.


“Ma cos’è sto Zenigata?”

 

“Un poliziotto un po’ imbecille, che dà la caccia a Lupin III, un cartone giapponese, dottoressa.”


“Non potevi sceglierti almeno un poliziotto intelligente, Calogiù?”

 

“Di tutti i cartoni che ho visto quando eravamo bambini io e i miei fratelli… i poliziotti erano sempre tutti scemi.”

 

“Comincio a capire il perché…” commentò, lanciando un’occhiata ai tre volponi che ridiedero loro i documenti e li salutarono con aria ancora divertita.

 

L’adrenalina ancora in circolo, si riavviarono verso l’hotel ed erano appena passati davanti al santuario quando un botto esplose nell’aria e si scatenarono i fuochi artificiali.

 

“A noi i fuochi artificiali portano bene, dottoressa,” lo sentì sussurrare, mentre la abbracciava da dietro.


“Sì, anche se… quello che stavamo facendo l’ultima volta coi fuochi, mo non lo possiamo fare qua, Calogiù, ma tra poco recupereremo”, mormorò di rimando, voltandosi per dargli un bacio, approfittando, come sempre, di tutto il mondo distratto con il naso all’insù.

 

“Certo che con i bambini sei bravissimo!” gli sussurrò poi, mentre ammiravano i fuochi, “l’idea dei paragoni con i cartoni animati è stata geniale!”

 

“Almeno averli visti, a differenza di quanto sosteneva mia madre, è servito a qualcosa,” si schernì lui, toccandosi il collo come al suo solito.

 

Non seppe dire se fosse lo sguardo di Calogiuri, la tenerezza del piccolo Hiroshi e delle bambine che avevano incontrato quel giorno, il sakè che abbassava leggermente i freni inibitori o quella freccia, e soprattutto lo sguardo di Calogiuri di fronte a quella freccia, ma le parole le uscirono da sole, prima che potesse fermarle.

 

“Saresti un papà meraviglioso ed io-”

 

Lo vide andare in panico, totalmente.

 

“Imma, no, cioè… lo sai che ti amo e sono felice con te, felicissimo, pure se non avremo figli non-”

 

Le fece tenerezza: certo, dopo avergli detto che sarebbe stato un padre meraviglioso, una volta lo aveva lasciato.

 

Anche se le e gli aveva fatto male quasi da impazzire.

 

Gli posò un dito sulle labbra, prima che andasse in iperventilazione.

 

“Calogiù, respira! Volevo dire che… che se tu lo vuoi io… io ho visto la tua espressione oggi pomeriggio, con la freccia e….”

 

“Sì, ma non mi importa niente di una freccia, non ti devi sentire in obbligo di niente.”

 

Gli prese il viso tra le mani e gli stampò un bacio.

 

“Lo so, maresciallo, e neanche tu, ma… se vuoi… visto che ormai siamo sposati… pure se non ufficialmente… dopo il matrimonio legale, se vuoi, possiamo pensare all’adozione, che intanto stiamo accumulando abbastanza anni di convivenza e poi… nel frattempo… potremmo… potremmo informarci se… se posso ancora avere figli biologicamente e provarci. Che con i tempi che ci vorranno… meglio informarsi mo che dopo.”

 

“E perché non cominciamo a provare da mo? Cioè… non qua,” precisò lui, facendola sorridere, “senza impegno, facendo le cose come… come le facciamo già normalmente, vista la frequenza….”

 

Gli diede un colpo sul braccio e gli disse, “ma tu c’hai il concorso e il corso ufficiali da preparare, Calogiù. Cioè… è praticamente impossibile che io rimanga incinta in poco tempo, anzi, sarà un po’ un miracolo che capiti proprio, ma-”

 

“Ma per me andrebbe benissimo sia se succedesse domani, sia se non succedesse mai. L’importante è che tu te la senta, anche fisicamente, che stia bene e serena, qualunque cosa accada.”

 

Se lo abbracciò forte forte e poi gli sussurrò, “portami in hotel, maresciallo, che non c’avrò neanche il problema dell’orario della pillola stasera.”

 

Sentì il singhiozzo di lui e si rese conto solo quando si sentì accarezzare le guance che pure lei stava piangendo come una cretina.



 

Nota dell’autrice: Ci ho messo un poco più del previsto ma, come avrete potuto notare, se avete letto fino a qua, è stato un capitolo lungo e ricco di molti eventi.

Mi auguro che il viaggio non sia risultato pesante e noioso, ho cercato di alternare cose più da viaggio appunto, con eventi importanti per i nostri protagonisti, ma aspetto di sapere cosa ne pensate. Spero che i dialoghi italo-anglo-giapponesi siano abbastanza chiari, in caso contrario fatemelo sapere che posso aggiungere ulteriori note. Dal prossimo capitolo si torna in Italia e… dopo tutti questi momenti teneri e romantici… il Grande Casino si avvicina sempre di più e colpirà durissimo.

Imma ha un po’ di cose da raccontare a Valentina e… alcune parti menzionate in questo capitolo avranno conseguenze non da poco nei prossimi.

Come sempre, vi ringrazio di cuore per avermi letta fin qui e se vorrete farmi avere una recensione, oltre a farmi tantissimo piacere, mi motivano un sacco a cercare di fare sempre meglio e mi aiutano a limare quello che non va.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 28 febbraio.

Grazie mille ancora!

 
   
 
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