Il suo cammino si concluse davanti ad un ampio gelso, i rami fronzuti carichi di foglie e gelsi rossi. Tisbe lo fissò, interdetta. Poche ore prima, i frutti dell’albero erano bianchi. Eppure, in quel momento, si erano arrossati. Che cosa era successo? Perché gli dei avevano compiuto un simile atto? E Piramo dove era? Perché non era lì? Gli era accaduto qualcosa? La stava cercando? Si era ammalato? Rimase ferma, gli occhi sbarrati. No, se gli dei lo avessero colpito con qualche morbo, glielo avrebbe comunicato. A lei Piramo aveva schiuso i misteri del suo animo limpido. E a lui Tisbe aveva rivelato la sua anima. Nonostante la loro situazione, si erano ripromessi d’essere sinceri e di non cadere nella rete delle menzogne. Un gemito di dolore, ad un tratto, attirò la sua attenzione e la ragazza abbassò la testa. – Piramo! –
Il volto della giovane sbiancò e i suoi occhi ambrati si velarono d’angoscia. Il suo amato giaceva sul terreno, agonizzante, e il suo petto era dilaniato da una grave ferita, da cui sgorgava sangue, che si allargava in una macchia vermiglia circolare sempre più ampia. Nella mano sinistra, il giovane stringeva un corto pugnale e, a poca distanza da lui, giaceva un velo sbrindellato, rosso di sangue. Tremante, ella si inginocchiò, gli cinse le spalle con un braccio e gli sollevò il busto. Tutto, in quel momento, era chiaro ai suoi occhi. Piramo era giunto poco dopo la sua fuga e aveva creduto che ella fosse morta, uccisa da un animale predatore. Straziato dal dolore, aveva deciso di porre termine alla sua vita. Gli accarezzò i ricci biondi e le sue labbra si posarono sulla fronte di lui. Poteva sentire il gelo di quel corpo straziato… Presto, si sarebbe spento tra le sue braccia. Ad un tratto, Piramo aprì gli occhi grigi, velati dalla morte, e li fissò su di lei. – La morte ha un bel volto… E io sono pronto. – mormorò, un sorriso sulle labbra sottili, livide di morte. Poi, il suo corpo si rilassò nella quiete eterna. Tisbe, a stento, frenò un singulto. In quell’estremo, doloroso sussulto di vita, il suo amato aveva veduto in lei una divinità infera. Il dolore gli aveva impedito di riconoscerla, ma non aveva annientato i suoi sentimenti per lei. Con premura, riappoggiò il cadavere di lui sul terreno e prese il pugnale. Quell’arma le avrebbe dato la libertà. Nell’Ade non sarebbero stati costretti ad una finzione estenuante e a rubare al tempo pochi, preziosi momenti di felicità. – O albero, che tante nostre promesse hai ascoltato, mantieni nei tuoi frutti il ricordo di quanto è accaduto questa notte. – sussurrò Tisbe. Poi, alzò la testa e fissò l’astro notturno. – O dea… Allontana la durezza dalle nostre famiglie e consenti ai nostri corpi di riposare in un unico sepolcro. – pregò ancora. La dea Selene avrebbe accolto la sua umile preghiera, ne era sicura. La vita aveva separato lei e Piramo, la morte li avrebbe uniti. Lanciò un fuggevole sguardo al volto del suo amato, privo di vita, poi volse il pugnale verso se stessa e lo immerse nel suo petto. Il sangue sgorgò, invermigliando la bianca veste di lei, e la giovane cadde accanto al corpo di Piramo. – Ti amo… Ora nessuno ci separerà… – sussurrò. Finalmente, si sentiva leggera. Il suo animo era libero dall’angoscia di una esistenza simulata. Poco dopo, le forze l’abbandonarono e la sua anima precipitò nell’Ade.
P.S: mai avrei pensato di scrivere una storia sui miti greci e romani. Non so cosa mi sia preso, ho pensato a come si fosse sentita Tisbe in quel racconto e mi è venuta in mente questa breve storia. Come cambiano le cose, dato che per me questi racconti non potevano essere oggetto di storia amatoriale. E io l’ho fatto.