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Autore: Nadine_Rose    17/02/2021    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
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Capitolo 47

 

Il fantasma dell’altro

 

“Anche se addormentata, il mio costante volgermi è ricco di rivelazioni, il mio largo stupore è maturante un attacco improvviso di perfetti ignorati strumenti, la mia voce prepara i toni della profezia, il mio corpo ogni grado di scintilla vitale, le mie labbra la parola finale cui converge il brivido del sangue.”

Alda Merini, Anche se addormentata

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Napoli, 20 aprile 1947

 

Sul volto di Matteo, non c’era alcun segno di pentimento e, nei suoi occhi, restava immoto un lampo astioso.

L’insistente rifiuto di Sarah a rientrare in casa dei suoi genitori non era stato la causa scatenante dello schiaffo – forte, quasi da dolergli la mano –, ma soltanto la scintilla che aveva fatto esplodere la sua rabbia repressa. Eppure, neanche allora lasciò che il muro di parole non dette, di spiegazioni non reclamate crollasse.

A ferirlo nell’orgoglio di uomo non era certamente la disubbidienza di sua moglie, in quanto, di lei, lo aveva fatto innamorare il carattere indomito che, dopo il matrimonio e fino a quel momento, s’era però assopito dietro l’ombra di un perenne broncio di tristezza e insoddisfazione.

Era cambiata Sarah, divenendo quasi apatica, soprattutto nell’intimità, trasformandosi in una donna completamente diversa dalla ragazza dolce e passionale che aveva conosciuto nel loro nascondiglio tra gli scogli. Distesa immobile sul letto, neanche le mani levava nel gesto di una carezza o per stringersi a lui e, a volte, era come se fingesse.

Della sua demotivazione nell’atto coniugale, all’inizio, aveva attribuito la colpa al trauma per la violenza subita a Fossoli, almeno fin quando Sarah non iniziò a parlare nel sonno e, tra mormorii incomprensibili, proferire languidamente il fastidioso nome di quel nazista.

Il dubbio che fra sua moglie e quell’essere degenere si fosse instaurato un legame sentimentale riapparve più prepotentemente, tanto che, stavolta, non finì nel dimenticatoio ma nell’oblio di un latente delirio che lo indusse a nascondere le sue paure dietro un ragionamento sconclusionato. Il fantasma che agitava le notti di Sarah era colpevole della loro incapacità a procreare, avendo di lei, quand’erano a Fossoli, avvelenato il grembo col suo seme malevolo e rendendolo a lui un’impenetrabile terra.

All’insaputa di sua moglie, fece addirittura entrare in casa uno scaccia malasorte armato di incenso e cornetti rossi e farneticante una litania di scongiuro, mettendo in imbarazzo se stesso, dato che, a differenza della sua famiglia, Matteo neanche credeva nella scaramanzia. Fu solo una coincidenza se il rito sortì l’effetto desiderato e la presenza dell’altro smise di intrufolarsi nel loro letto, giacché le labbra dormienti, perciò inconsapevoli, di Sarah non ne pronunziarono più il nome – almeno momentaneamente.

In quello schiaffo, gesto esprimente il contrario dell’amore e generante umiliazione, aveva in realtà sfogato il suo sentirsi non amato e apprezzato, ma non una lacrima vide solcarle il viso impallidito, poi arrossato dal colpo ricevuto e dalla rabbia che ne era conseguita.

Gli porse l’altra guancia e, guardandolo di sottecchi, ostentando la sua fierezza, dischiuse le labbra in parole di sfida: “Dammene un altro. Più forte. Così dentro sentiranno quanto sei uomo.” Nella voce e nel portamento, era un tremore di foglia agitata dal vento di una dura e inimmaginabile realtà.

A tale provocazione, Matteo reagì con un gesto che, nelle notti inquiete di sua moglie, aveva inconsciamente desiderato e represso. Le tappò la bocca con una mano e premette forte per ridurla al silenzio, mentre con l’altra continuava a strattonarla, intimandole: “Zitta, devi stare zitta.”

Neanche questo si aspettava Sarah e quasi le mancò il respiro, ma fu sua volontà lasciar soffocare la parte di sé battagliera.

“Ora torniamo dentro, aspetti che finisco la partita e ti stai zitta”, incalzò e, liberata dal bavaglio di pelle ruvida e callosa, gli permise di spintonarla verso la porta.

Rientrando in casa, preceduta da Matteo, spossata nell’anima e nel corpo, nessuno s’interessò a lei, noncuranti del suo incedere barcollante a testa china, dei suoi capelli spettinati che lasciavano intravedere sul viso le impronte rosseggianti – che l’indomani si sarebbero tramutate in lividi visibili agli occhi di chi le voleva bene, nonostante lo spesso strato di cerone –, ma non si stupì, giacché erano stati loro a metterglielo contro. Soltanto provava amarezza e disagio nel sentirsi accusata, sbagliata, umiliata, degradata, come un riverberarsi di sensazioni già vissute ai tempi della persecuzione antisemita.

Con espressione cupa e respiro accelerato dalla rabbia, Matteo tornò alla sua postazione e alle sue carte, attorniato da padre e compare, mentre lei, lentamente, prendeva posto in mezzo alle donne. Il silenzio creatosi nella stanza sembrava riflettere un certo imbarazzo per il comportamento forse inaspettato del giovane che l’aveva ridotta in quello stato. Finanche la sua cognata più piccola, lasciata da sola in terra a giocare, aveva smesso di far parlare fra loro le bambole.

Per stemperare la tensione e distrarsi dal dolore sempre più pungente al viso, Sarah iniziò ad appallottolare la giacchetta color panna che teneva sul grembo fasciato dal vestito rosa e, pian piano, rivide le sue mani che stringevano un lembo del grembiule bianco sul fondo nero della divisa da cameriera.

Nel vuoto del suo sguardo, riprese forma l’immagine di Hermann in uniforme, con le mani giunte dietro la schiena un po’ ricurva, di spalle rispetto a lei che sedeva sul letto in preda a un rancore intrattenibile. Attraverso lo specchio del comò, guardava le sue labbra carnose spaccate dalla mano di chi, all’alba, si era aggrappato con forza alla vita e i suoi occhi verdi socchiusi in un’espressione arcigna.

 

Berlino

 

“… Sette, otto, nove, dieci.” Con il viso contratto per lo sforzo, Hermann teneva il conto delle flessioni in italiano.

Esercitava la sua pronuncia, per meglio poter passare inosservato al suo ritorno in terra italica, intanto che tentava di restituire al corpo, reduce da prigionia e malattia, il vigore di un tempo, perché lei lo riconoscesse, allenandosi con la ferrea tenacia di chi si prepara alla battaglia.

 

“Magari un giorno l’universo accoglierà la mia richiesta

e ci riporterà vicini.

Tra l’aldilà e il mio nido di città c’è molta differenza

anche se provo a non vederla.

E giro il mondo e chiamerò il tuo nome per millenni

e ti rivelerai quando non lo vorrò più.”

 

Tiziano Ferro, Per dirti ciao!

 

   
 
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