Capitolo 47
Il fantasma dell’altro
“Anche se addormentata, il mio costante volgermi è
ricco di rivelazioni, il mio largo stupore è maturante un attacco improvviso di
perfetti ignorati strumenti, la mia voce prepara i toni della profezia, il mio
corpo ogni grado di scintilla vitale, le mie labbra la parola finale cui
converge il brivido del sangue.”
Alda Merini, Anche se addormentata
Immagine
dal film “L’amore oltre la guerra”
Napoli, 20 aprile 1947
Sul volto di Matteo, non
c’era alcun segno di pentimento e, nei suoi occhi, restava immoto un lampo
astioso.
L’insistente
rifiuto di Sarah a rientrare in casa dei suoi genitori non era stato la causa
scatenante dello schiaffo – forte, quasi da dolergli la mano –, ma soltanto la
scintilla che aveva fatto esplodere la sua rabbia repressa. Eppure, neanche
allora lasciò che il muro di parole non dette, di spiegazioni non reclamate
crollasse.
A
ferirlo nell’orgoglio di uomo non era certamente la disubbidienza di sua
moglie, in quanto, di lei, lo aveva fatto innamorare il carattere indomito che,
dopo il matrimonio e fino a quel momento, s’era però assopito dietro l’ombra di
un perenne broncio di tristezza e insoddisfazione.
Era
cambiata Sarah, divenendo quasi apatica, soprattutto nell’intimità,
trasformandosi in una donna completamente diversa dalla ragazza dolce e
passionale che aveva conosciuto nel loro nascondiglio tra gli scogli. Distesa
immobile sul letto, neanche le mani levava nel gesto di una carezza o per
stringersi a lui e, a volte, era come se fingesse.
Della
sua demotivazione nell’atto coniugale, all’inizio, aveva attribuito la colpa al
trauma per la violenza subita a Fossoli, almeno fin quando Sarah non iniziò a
parlare nel sonno e, tra mormorii incomprensibili, proferire languidamente il
fastidioso nome di quel nazista.
Il
dubbio che fra sua moglie e quell’essere degenere si fosse instaurato un legame
sentimentale riapparve più prepotentemente, tanto che, stavolta, non finì nel
dimenticatoio ma nell’oblio di un latente delirio che lo indusse a nascondere
le sue paure dietro un ragionamento sconclusionato. Il fantasma che agitava le
notti di Sarah era colpevole della loro incapacità a procreare, avendo di lei,
quand’erano a Fossoli, avvelenato il grembo col suo seme malevolo e rendendolo
a lui un’impenetrabile terra.
All’insaputa
di sua moglie, fece addirittura entrare in casa uno scaccia malasorte armato di
incenso e cornetti rossi e farneticante una litania di scongiuro, mettendo in
imbarazzo se stesso, dato che, a differenza della sua
famiglia, Matteo neanche credeva nella scaramanzia. Fu solo una coincidenza se
il rito sortì l’effetto desiderato e la presenza dell’altro smise di
intrufolarsi nel loro letto, giacché le labbra dormienti, perciò inconsapevoli,
di Sarah non ne pronunziarono più il nome – almeno momentaneamente.
In
quello schiaffo, gesto esprimente il contrario dell’amore e generante
umiliazione, aveva in realtà sfogato il suo sentirsi non amato e apprezzato, ma
non una lacrima vide solcarle il viso impallidito, poi arrossato dal colpo
ricevuto e dalla rabbia che ne era conseguita.
Gli
porse l’altra guancia e, guardandolo di sottecchi, ostentando la sua fierezza,
dischiuse le labbra in parole di sfida: “Dammene un altro. Più forte. Così dentro
sentiranno quanto sei uomo.” Nella voce e nel portamento, era un tremore di
foglia agitata dal vento di una dura e inimmaginabile realtà.
A
tale provocazione, Matteo reagì con un gesto che, nelle notti inquiete di sua
moglie, aveva inconsciamente desiderato e represso. Le tappò la bocca con una
mano e premette forte per ridurla al silenzio, mentre con l’altra continuava a
strattonarla, intimandole: “Zitta, devi stare zitta.”
Neanche
questo si aspettava Sarah e quasi le mancò il respiro, ma fu sua volontà
lasciar soffocare la parte di sé battagliera.
“Ora
torniamo dentro, aspetti che finisco la partita e ti stai zitta”, incalzò e,
liberata dal bavaglio di pelle ruvida e callosa, gli permise di spintonarla
verso la porta.
Rientrando
in casa, preceduta da Matteo, spossata nell’anima e nel corpo, nessuno
s’interessò a lei, noncuranti del suo incedere barcollante a testa china, dei
suoi capelli spettinati che lasciavano intravedere sul viso le impronte
rosseggianti – che l’indomani si sarebbero tramutate in lividi visibili agli
occhi di chi le voleva bene, nonostante lo spesso strato di cerone –, ma non si
stupì, giacché erano stati loro a metterglielo contro. Soltanto provava
amarezza e disagio nel sentirsi accusata, sbagliata, umiliata, degradata, come
un riverberarsi di sensazioni già vissute ai tempi della persecuzione
antisemita.
Con
espressione cupa e respiro accelerato dalla rabbia, Matteo tornò alla sua
postazione e alle sue carte, attorniato da padre e compare, mentre lei,
lentamente, prendeva posto in mezzo alle donne. Il silenzio creatosi nella
stanza sembrava riflettere un certo imbarazzo per il comportamento forse
inaspettato del giovane che l’aveva ridotta in quello stato. Finanche la sua
cognata più piccola, lasciata da sola in terra a giocare, aveva smesso di far
parlare fra loro le bambole.
Per
stemperare la tensione e distrarsi dal dolore sempre più pungente al viso,
Sarah iniziò ad appallottolare la giacchetta color panna che teneva sul grembo
fasciato dal vestito rosa e, pian piano, rivide le sue mani che stringevano un
lembo del grembiule bianco sul fondo nero della divisa da cameriera.
Nel
vuoto del suo sguardo, riprese forma l’immagine di Hermann in uniforme, con le
mani giunte dietro la schiena un po’ ricurva, di spalle rispetto a lei che
sedeva sul letto in preda a un rancore intrattenibile. Attraverso lo specchio
del comò, guardava le sue labbra carnose spaccate dalla mano di chi, all’alba,
si era aggrappato con forza alla vita e i suoi occhi verdi socchiusi in
un’espressione arcigna.
Berlino
“…
Sette, otto, nove, dieci.” Con il viso contratto per lo sforzo, Hermann teneva
il conto delle flessioni in italiano.
Esercitava
la sua pronuncia, per meglio poter passare inosservato al suo ritorno in terra
italica, intanto che tentava di restituire al corpo, reduce da prigionia e
malattia, il vigore di un tempo, perché lei lo riconoscesse, allenandosi con la
ferrea tenacia di chi si prepara alla battaglia.
“Magari un giorno l’universo accoglierà la mia
richiesta
e ci riporterà vicini.
Tra l’aldilà e il mio nido di città c’è molta
differenza
anche se provo a non vederla.
E giro il mondo e chiamerò il tuo nome per millenni
e ti rivelerai quando non lo vorrò più.”
Tiziano Ferro, Per dirti ciao!