Film > Star Wars
Segui la storia  |       
Autore: Roanoke_Wilde    17/02/2021    1 recensioni
Prima di poterci ripensare, si rifugiò in quei pensieri che sapeva avrebbero riempito fino all’orlo la sua mente e, con un po’ di fortuna, l’avrebbero accompagnato nell’incoscienza bandendo il dolore. Quei pensieri, lo sapeva benissimo, erano l’unica cosa in grado di distrarlo dall’emicrania – ed erano l’unica cosa che si era ripetutamente ripromesso di far sparire, di seppellire, di dimenticare ogni volta che indossava il suo elmo e il suo Credo.
Avrebbe rievocato la sua casa, e chi era stato un tempo, prima della Tribù.
Avrebbe rievocato la notte in cui i suoi genitori erano morti e il suo destino di Mandaloriano era stato suggellato.
Allora, forse, avrebbe ritrovato la via per andare avanti.

[Missing Moments // Kid!fic // Introspettivo // PoV Din // Traduzione di _Lightning_]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Din Djarin, Nuovo personaggio
Note: Kidfic, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
A huge, heartfelt thank you to Roanoke_Wilde for allowing me to translate this beautiful story ♥

 

Fan Art: shima_spoon // Graphic: _Lightning_

Prologo



 
«Olarom norac

La Mandaloriana seduta appena dopo la porta accolse Din con un saluto, mentre lui emergeva dall’ombra della sera per scivolare all’interno del Rifugio.

Tentò di rispondere con un cenno del capo, ma nel momento in cui distolse l’attenzione dal tenersi dritto e mettere un piede davanti all’altro, l’oscurità si addensò ai margini della sua visuale. Probabilmente barcollò, perché la Mandaloriana di fronte a lui si alzò esitante in piedi, riassicurando il suo blaster nella fondina.

«Cuyir gar shupur’yc?» gli chiese. Sei ferito?

Din serrò i denti e si arrestò del tutto, reprimendo l’impulso di puntare una mano sul muro a sostenersi. Sì, era ferito. E no, non era dell’umore per occuparsene, al momento. A dispetto dell’iniezione d’adrenalina di poche ore fa, il dolore aveva ripreso a irradiarsi dalle sue numerose ferite, le più degne di nota situate sul retro della coscia e del polpaccio. Non ne era certo, ma forse del sangue stava stillando anche attraverso la spessa stoffa dei pantaloni.

Emettendo un grugnito in ritardo, piuttosto che una vera e propria risposta, fece scivolare la sacca dalla spalla, lottando per qualche istante per districarla dai resti stracciati del mantello. Gli tremarono le dita mentre sganciava la fibbia e rovistava all’interno, e gli ci volle ancora qualche istante silenzioso prima di riuscire a chiuderle su ciò che cercava: una bottiglia di spotchka invecchiata e una sacchetta di frutti jogan miseramente avvizziti.

Ondeggiando ormai in modo vistoso, e imprecando tra sé nel frattempo, piazzò gli oggetti nelle mani della Mandaloriana a guardia dell’ingresso.

«Per stasera. Per i Trovatelli,» disse, scegliendo di evitare il Mando’a in favore del Basico, attorno al quale era più avvezzo a districare la lingua.

La Mandaloriana accettò i doni di rito – offerti volontariamente per celebrare la fondazione di quel particolare Rifugio – ma non distolse l’elmo scuro da lui. Si avvicinò di un passo quando lui barcollò di nuovo, tendendo una mano in un cauto gesto di preoccupazione.

«Ti accompagno dal baar’ur,» disse piano.

Din scosse la testa.

«Sto bene. Rimani qui a difesa del Rifugio.» Din deglutì, obbligando la sua lingua riarsa a collaborare, e si schiarì la voce per sicurezza. «Stanotte avremo bisogno più che mai della tua guardia.»

La sua compagna Mandaloriana esitò, ma finì per annuire e tornare alla sua postazione.

«Molto bene,» disse, con voce molto più neutrale di prima. «Fai rapporto dal baar’ur, Mandaloriano. Ve’ganir pirusti iviin’yc. Questa è la Via.»

Din annuì.

«Questa è la Via,» rispose sottovoce.

Percepì che l’attenzione dell’altra, però, si era già spostata sul cibo che le aveva portato prima ancora che lui finisse di superarla. Non importava, pensò. Doveva tornare a concentrarsi sull’arduo compito di camminare.

Tese l’orecchio, captando il trambusto che arrivò a circondarlo man mano che avanzava. La sala principale, posizionata al centro della rete di tunnel che formava il Rifugio, avrebbe ospitato la maggior parte della Tribù per quella notte. Si sarebbero radunati per rievocare la storia e i racconti di onore e gloria del popolo Mandaloriano e della sua terra natìa. Ci sarebbe stata della musica, forse, se i guerrieri più anziani si fossero sentiti particolarmente ispirati. Di certo ci sarebbero stati uno o due Trovatelli pronti a farsi avanti per prestare giuramento al Credo.

Dopodiché, ovviamente, ogni Mandaloriano si sarebbe ritirato nelle proprie stanze o nei recessi del Rifugio e, se possibile, avrebbe bevuto alla salute e allo spirito della loro piccola comunità. Nel farlo, avrebbe saputo che ogni altro Mandaloriano adulto stava facendo lo stesso, nella riservatezza del proprio isolamento. E alla fine, a seconda di dove si trovasse, ciascuno avrebbe rimesso o meno l’elmo per dormire.

Il giorno dopo sarebbe stato come ogni altro, ma quella notte... quella notte era speciale. Per la maggior parte della Tribù di Din, almeno. Lui non si vedeva a prendere parte ai festeggiamenti, anche se magari si sarebbe potuto fermare ad ascoltare un paio di racconti.

Adesso riusciva a sentire la voce limpida dell’Armaiola, mentre percorreva il condotto principale collegato alla sala centrale, e fu quasi tentato di poggiare contro il muro il suo corpo scosso da tremiti per mettersi in ascolto. L’Armaiola non cessava mai di affascinarlo con la sua abilità nel narrare, con la sua autorevolezza e assoluta fedeltà al Credo. L’aveva sempre ammirata – e forse l’ammirava profondamente anche adesso – anche se aveva di rado avuto l’onore di parlarle elmo a elmo.

Un lampo di dolore particolarmente tagliente lo scosse fino al fondo dello stomaco, spronandolo a proseguire prima che potesse cedere a quell’impulso. No, non avrebbe ascoltato alcuna storia, stanotte. Si fece largo in silenzio verso l’angusta, grezza alcova che gli faceva da alloggio quando poteva permettersi di dormire su Nevarro. Era larga appena quanto era alto.

Dopo che le ondate di dolore più intense si furono quietate, si raddrizzò e assicurò il telo che copriva l’entrata della piccola stanza. Finché non fosse stato di nuovo scostato, avrebbe indicato agli altri che non aveva indosso l’elmo, e quindi di non disturbarlo senza un ragionevole preavviso.

Din esalò un lungo respiro nell’adagiarsi supino sul letto spoglio, che da solo occupava la maggior parte dello spazio. Lasciò passare qualche istante, prima di stringere i polpastrelli tremanti sul bordo dell’elmo per toglierselo.

L’improvviso refolo d’aria fresca che gli sfiorò il volto fu così affilato e pungente che onde di tenebra ruggirono di nuovo ai margini della sua visuale; l’elmo gli sfuggì di mano, impattando per terra con un clangore sordo che fece scattare la sua mano al blaster mancante al suo fianco, un riflesso innescato dalla pura memoria muscolare.

«Haar’chak,» imprecò, usando la mano libera per scostare le ciocche di capelli incollate alla fronte madida di sudore.

Sentì una parte del sangue rappreso sul guanto sbriciolarsi e attaccarsi alla pelle, e fece una smorfia, affrettandosi a strapparsi di dosso l’indumento lurido e a gettarlo per terra.

E poi la sua testa prese a girare, e gli sembrò che lingue di fuoco gli si arrampicassero sulle gambe, e c’era un peso gravoso, asfissiante che gli si piazzò sul petto, spremendogli l’aria dai polmoni e schiacciando il suo cuore rallentato contro gli interstizi delle costole. L’incoscienza arrivò più rapida che mai e, stavolta, Din non si oppose.

Quando riprese i sensi, si ritrovò rattrappito nel letto, con la gamba ferita che sporgeva oltre la sponda e l’elmo di nuovo per terra sotto alle sue dita molli.

Stavolta non tentò di recuperarlo. Rimase sdraiato lì – col dolore che gli pulsava dalle tempie lungo la curva del cranio e poi di nuovo dietro gli occhi – in ascolto. Concentrato sul prendere aria per poi lasciarla scivolare via con un crepitio. Tentò di soffocare l’inquietante impressione di essere in una cella su una qualche roccia dell’Orlo Esterno, e non nel Rifugio nel quale era cresciuto. Le sue condizioni non facilitavano l’impresa.

Ascoltò i passi dei Mandaloriani nel corridoio, il basso brusio delle loro voci mentre facevano ritorno alle loro stanze. Ascoltò l’onnipresente sgocciolio di un qualche tubo che perdeva nelle profondità del sistema fognario ormai in disuso. Ascoltò l’eco metallica della voce dell’Armaiola, ancora intenta ad ammaliare i Mandaloriani che sfidavano le ore più nere della notte e la stanchezza per bearsi delle sue parole.

Si sforzò di concentrarsi su quei suoni; e quando fallì, e la sua mente tornò di nuovo allo sfinimento che pulsava nel suo intero corpo, passò a concentrarsi sugli odori – polvere e il suo stesso sangue e una traccia di peli e capelli bruciati – e poi sul fatto che la stanza fosse quasi completamente buia, stantia di oscurità intrappolata lì dentro da tempo.

Più a lungo giaceva lì, più si concretizzava una certezza: stava male. Non erano soltanto le ferite, lo sapeva, anche se a quel punto c’era la possibilità che si fossero infettate. Non era nemmeno soltanto la spossatezza e la bassa ma tenace febbricola per la quale si era rifiutato di vedere il medico circa una settimana prima, quando era tornato dalla boscosa, umida Felucia.

Era–

Un ruvido raspare contro la parete di roccia lo fece trasalire, poi sussultare di nuovo per il dolore. Cercò a tentoni l’elmo malmesso sul pavimento.

«Ge’talsol? Sei lì dentro?»

Din sospirò e reclinò all’indietro la testa, strizzando gli occhi a schermarsi dagli ondeggiamenti che invasero la sua visuale. Era Paz. Solo Paz.

«Sì,» disse, la voce che uscì molto più roca di quanto si fosse aspettato.

Ci fu una pausa. Un altro paio di colpi a palmo aperto sulla roccia, a indicare che la sua voce era stata abbastanza flebile da perdersi a metà strada tra il suo letto e le orecchie di Paz.

«C’è qualcuno? Ti ricordo che ai Trovatelli non è concessa un’Alcova fino alla maggiore età.»

Din tentò di esalare un sospiro stremato mentre riusciva a rimettersi l’elmo, ma quello si tramutò in una tosse secca e stridula. Si puntellò sui gomiti con sforzo e l’accesso finì, mentre la stanchezza gli mordeva ogni singolo muscolo dal collo ai piedi.

«Sì, Paz. Sono io,» disse, stavolta più forte – a dispetto della gola in fiamme.

Udì l’altro uomo che si muoveva oltre la soglia.

«Ah. Mi sarei sorpreso meno a trovarci un ragazzino, qua dentro... pensavo che stasera fossi a brindare coi tuoi amichetti Imperiali.»

Il disprezzo nella sua voce era netto anche attraverso gli strati di beskar e pietra. Din serrò la mandibola e rimase in silenzio, iniziando a percepire la tensione nel busto per lo sforzo di tenersi su in quelle condizioni. Non poteva permettersi di cedere alla provocazione e sprecare energie.

«Non disturbarti a farti vivo nella sala centrale, Ge’talsol,» continuò Paz dopo una pausa, con voce più bassa, ma non per questo meno intensa. «Di certo ti lasceranno da parte qualcosa da portar via. Assicurati solo di andartene prima dell’alba. C’è uno dei miei che avrebbe bisogno di un alloggio.»

Paz non si preoccupò nemmeno di aspettare qualunque replica Din avesse avuto intenzione di elaborare, e i suoi passi si mossero rapidi e decisi lontano dall’alcova, in direzione della sala comune. Din si lasciò cadere di nuovo sul letto, ora con l’orlo dell’elmo che gli incideva la linea del collo.

Le implicazioni erano fin troppo chiare, anche se Din trovò sorprendentemente semplice ignorare il dolore che avrebbe avvertito di solito alle parole di quello che un tempo era suo amico. Forse, quella era l’unica grazia che le forze dell’universo, qualunque esse fossero, avevano deciso di concedergli per quella notte.

Rimase steso lì per qualche altro secondo, fissando il soffitto segnato da ragnatele di crepe e fratture che trasudavano un’indefinibile sostanza grigio-verdastra.

Sapeva che non sarebbe riuscito a dormire.

Sapeva di non poter pensare al peso che si trascinavano dietro le parole di Paz – le scelte che aveva compiuto per alienarsi dai suoi compagni – amici? – Mandaloriani.

Sapeva anche di non poter pensare a ciò che sarebbe accaduto al mattino, se voleva svegliarsi prima dell’alba – un’altra giornata a caccia di taglie o in fuga o in battaglia, come aveva sottinteso Paz.

Si era già trovato in quella situazione, prima d’ora: ferito, febbricitante senza alcuna ragione precisa – di certo, l’ultima volta aveva anche bevuto troppo, ma non era quello il punto. Sapeva soltanto che pensare a certe cose non avrebbe portato a nulla, se non spingerlo più vicino alle tenebre che alimentavano il suo malessere. La febbre sarebbe stata scacciata attraverso il delirio prima di poterci davvero pensare – se il tutto si fosse davvero concluso con una guarigione. E non poteva rischiare di aggirarsi così vicino all’oblio, perché non c’era alcuna garanzia di un ritorno – né della propria mente, né del proprio corpo.

O magari poteva correre il rischio?

Din risucchiò un respiro che gli punse i polmoni con mille aghi, portando con sé l’odore di decadenza. Intrecciò poi le mani nude sulla sua corazza scrostata, proprio nel punto in cui avrebbe sentito battere il cuore, senza il beskar a schermarlo.

Prima di poterci ripensare, si rifugiò in quei pensieri che sapeva avrebbero riempito fino all’orlo la sua mente e, con un po’ di fortuna, l’avrebbero accompagnato nell’incoscienza bandendo il dolore, almeno finché non si sarebbe sentito in grado di andare a recuperare un po’ di bacta.

Quei pensieri, lo sapeva benissimo, erano l’unica cosa in grado di distrarlo dall’emicrania – ed erano l’unica cosa che si era ripetutamente ripromesso di far sparire, di seppellire, di dimenticare ogni volta che indossava il suo elmo e il suo Credo.

Avrebbe rievocato la sua casa, e chi era stato un tempo, prima della Tribù.

Avrebbe rievocato la notte in cui i suoi genitori erano morti e il suo destino di Mandaloriano era stato suggellato.

Allora, forse, avrebbe ritrovato la via per andare avanti.


 
Glossario Mando’a:
Olarom norac: bentornato
Cuyir gar shupur’yc?: sei ferito?
Baar’ur: medico
Ve’ganir pirusti iviin’yc: guarisci presto o rimettiti presto (traduzione approssimativa)
Haa’chak: insulto
Ge’talsol: il nome che Din ha scelto di usare nel Rifugio: fusione delle parole Mando’a per “rosso” e “uno”.

Note della Traduttrice:
Cari Lettori ♥
Questa è una storia della bravissima autrice Roanoke_Wilde in cui sono incappata per puro caso nei meandri di AO3, e mi sono piaciute così tanto le premesse, le idee e lo stile che, pur non essendo completa, ho deciso di tradurla e di portarla qui su EFP – il permesso di traduzione è in calce sotto al disclaimer. Spero che la mia traduzione le renda giustizia, e che possa piacere a voi quanto è piaciuta e sta piacendo a me :)
Aggiornerò una volta a settimana, sempre di mercoledì o giovedì, finché non sarò in pari con la storia, arrivata attualmente all'ottavo capitolo.
Grazie per aver letto e grazie a chiunque vorrà lasciare un commento: mi impegnerò a riportare le vostre parole all'autrice originale. E, se vi è piaciuta, non dimenticate di andare a lasciarle dei kudos su AO3! Potete farlo anche senza iscrizione e trovate il link a piè di pagina ♥
Alla prossima settimana,

-Light-

 
 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, l'autorizzazione a ripubblicare queste traduzioni altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP.

©Roanoke_Wilde 

©_Lightning_

©Lucasfilm

Autorizzazione a tradurre (link ai commenti originali):
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Star Wars / Vai alla pagina dell'autore: Roanoke_Wilde