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Autore: channy_the_loner    18/02/2021    0 recensioni
Ogni storia d’Amore degna di essere raccontata comincia con il fiabesco C’era una volta.
Ma se vi parlassi di vampiri, spiriti, guerra, salvezza, maledizioni, sacrifici, tentazioni e paura, l’Amore sarebbe ancora così puro?
Loro non sono affatto innocenti fanciulle in attesa del principe azzurro; una giovane giornalista, una sorella protettiva, un’atleta ottimista, una superstiziosa combattente, una tenera fifona e una silenziosa malinconica, nient’altro che sei normali ragazze appartenenti a mondi totalmente diversi, ma accomunate dallo stesso Destino. Saranno costrette ad affrontare un viaggio attraverso l’Inconcepibile, dove tutto è permesso, per scoprire la loro vera identità; oltre il Normale, le certezze crollano e s’innalzano i dubbi, muri e muri di fragilità, ma dietro l’angolo ci sono anche motivi per abbatterli.
Si può davvero vivere per sempre felici e contenti, quando l’esistenza non è altro che un accumulo di dolore e lacrime? Quanto deve essere forte, l’Amore, per far nascere un sorriso nonostante tutto il resto? E infine, la Vita è un libro già scritto, o è il suo protagonista a prendere le redini del gioco?
-IN REVISIONE-
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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AWAY, PORTRAIT AND THREE.

 

 

«Capo, ci sono novità!»

Pochi istanti dopo la porta della camera, che era stata spalancata improvvisamente, urtò la parete vicina e produsse un conseguente forte rumore; l’unico individuo presente nella stanza sobbalzò e lasciò cadere con un tonfo le cuffie rosse che indossava. «Cretino! Quante volte ti ho detto che devi bussare?» Il suo sottoposto, mortificato ma avvezzo a tale scenario, fece per inchinarsi al fine di chiedere il perdono, prima di essere interrotto da un cenno di mano. «Lascia perdere le scuse e dimmi piuttosto di che novità parli.»

Si sistemò allora ben diritto sul posto, fece qualche passo all’interno della camera e si schiarì appena la voce. «Un bulbo ha individuato un movimento inaspettato nell’area tre.» Gli porse uno dei fogli che reggeva con le mani, per poi puntare un dito su un punto specifico della carta. «Esattamente qui.»

Il superiore diede un’occhiata fugace a quella che si era rivelata essere una mappa, riconoscendo subito le zone. «Ma questa è la foresta Haidoku» osservò. «Cosa c’è di insolito?»

«Si tratta dell’Obiettivo Sei. Si sta muovendo, ed è solo.»

Un riso divertito si levò nell’aria. «Sta per caso cercando di ammazzarsi?! Che idiota!»

«Non crede che potrebbe essere un’esca del nemico?»

«Non essere stupido. Karlheinz certamente non si farebbe scrupoli nel sacrificare le sue pedine, ma ora come ora sarebbe una mossa troppo intuibile. È un grande stratega, non si abbasserebbe mai a questi livelli.»

«E allora cosa sta succedendo?»

«Se dovessi tirare a indovinare», fece il master, «direi che le cose non stanno andando come previsto nella Capitale. Tuttavia», fece una breve pausa, «credo che per questa faccenda sia meglio chiamare qualcuno di più ferrato. Sai cosa intendo, vero?»

Il tirapiedi accennò un ghigno. «Provvedo subito, mio Signore.»

«Oh, non fare nulla» gli venne detto, questa volta con un sorriso sinistro maggiormente largo. «Preferisco occuparmi personalmente di questa occasione più unica che rara.»

Detto ciò, compose un numero di telefono.

 

 

***

 

 

Nonostante quell’appartamento fosse di dimensioni notevolmente ridotte, tanto da non consentire a tutte le presenti di godere di un giaciglio comodo sul quale dormire e riposarsi, le ormai coinquiline avevano fatto numerose volte il giro dell’abitazione perché prese da un’impellente sensazione di ansia; appena si erano accorte dell’assenza di Miki avevano iniziato a mettere sottosopra ogni stanza per scartare l’ipotesi della fuga – teoria che tuttavia, in pochi istanti, venne tragicamente confermata. Lasciatasi sopraffare dalla foga della ricerca, Yui aveva persino alzato l’unico tappeto presente confidando nell’esistenza di una botola, conducente a sua volta ad una cantina segreta, bensì fosse un ragionamento privo di qualsiasi possibilità fisica. Le cinque avevano letto più volte il biglietto che la loro coetanea aveva lasciato loro – Devo farlo io. Spero possiate perdonarmi – e avevano rinvenuto anche la lettera destinata al vampiro a lei più affezionato, giungendo alla conclusione comune di non leggerla per rispettare la privacy dei due. «Pensate che l’isterico non se ne accorga, se sbirciamo? Sinceramente non sono in vena di altre catastrofi» aveva suggerito Tara poco prima, per poi riporre la carta nella borsa che avrebbe portato con sé.

La loro intenzione era, difatti, dirigersi al castello reale per informare i Sakamaki dell’accaduto, o semplicemente per trovare insieme una soluzione qualora fossero già al corrente della fuga di una di loro; durante il tragitto non persero l’occasione di guardarsi attorno e scrutare i passanti – benché pochi a causa della luce diurna – nella speranza di trovare tracce della compagna, il più banale degli indizi per avere una pista dalla quale partire. Tuttavia non s’imbatterono in nulla, fatta eccezione per le occhiate cariche di pregiudizi dei non-morti alle quali tentarono di rispondere con la maggior quantità d’indifferenza possibile; nonostante fossero tutelate dal choker della famiglia regnante – il quale pareva far materializzare uno scudo attorno ai loro corpi –, la paura di essere attaccate spinse loro a proseguire a passo svelto lungo la strada e, pertanto, giunsero a palazzo in un arco di tempo minore rispetto a quello delle aspettative. Il portone principale in ferro venne aperto da uno dei sorveglianti – il quale le aveva riconosciute dall’odore – appena loro furono nei paraggi, pertanto fecero il loro ingresso a Corte senza troppe cerimonie; e se alla magione dei fratelli vi era un silenzio perenne, in quei corridoi e in quelle sale la mancanza di vita era quasi assordante, producente un fastidioso fischio nelle orecchie e giramenti di capo.

Impaziente e più avanti rispetto alle altre, Harumi prese fiato e successivamente urlò a pieni polmoni: «SAPPIAMO CHE VI SIETE ACCORTI DELLA NOSTRA PRESENZA! FATEVI VEDERE, VOI SEI!»

Selena le afferrò un braccio per farla voltare; la rimproverò: «Ti sembra il caso di urlare così? Vuoi peggiorare la situazione?»

«E a te sembra il caso di fare a gara a chi cammina più piano?» rispose prontamente la verde, tirando via l’arto dalla presa dell’altra. «La situazione è quella che è, prima parliamo con quegli idioti e meglio è.»

«Chi sarebbero gli idioti?» chiese una voce alle loro spalle.

Le ragazze si voltarono e incontrarono repentinamente lo sguardo canzoniere di Reiji e quello infastidito di Ayato, che aveva parlato con il suo usuale tono aggressivo.

«Ragazzi» fece Tara, «non mi sembra il caso di iniziare la giornata litigando.»

«Princess-chan, sei qui!»

«Wow, Sherlock, ottima intuizione.»

Uno di loro fece un passo avanti. «Tutto okay, ragazze?»

«Azusa-kun, ci sei anche tu.»

Il vampiro annuì piano. «Sono arrivato poco fa per sostenere un colloquio con Karlheinz. Con me c’era anche Sakamoto-san, ma lei ha preferito fare un giro per visitare il castello.»

Il terzogenito Sakamaki sbuffò con arroganza. «Manco fosse in gita con la scuola.»

Reiji lo zittì con un’occhiata gelida, poi si voltò verso le umane. «Spero vivamente che la vostra agitazione sia dovuta a motivi perlomeno decenti.»

«State attente, oggi è di cattivo umore» sussurrò Laito, facendo l’occhiolino.

Tuttavia, prima che fossero date loro tutte le spiegazioni, uno dei fratelli prese la parola chiedendo: «Dov’è Miki-chan?»

Il suo fedele compagno di pezza appoggiò e rinforzò la domanda: «Già, già, Miki-chan manca all’appello. È rimasta nella vostra casetta a dormire?» Incrociò le sue piccole braccia. «Ed io che volevo prendere il tè con lei.»

Udendo quelle parole, Kin abbassò la testa e puntò lo sguardo sulle proprie scarpe con fare colpevole, e senza realmente volerlo attirò l’attenzione di Subaru nonostante egli fosse lontano all’incirca dieci passi dal gruppo; l’albino, quindi, disse con voce seria e inflessibile: «Le è accaduto qualcosa, vero?»

Kanato fu fulmineo a raggiungerlo, con la chiara intenzione di afferrarlo per il colletto della maglia e abbassarlo alla sua altezza, scandendo: «Chi cazzo ti credi di essere per uscirtene con queste sparate?»

L’altro, iracondo, schiuse le labbra per rispondere ma fu preceduto da una voce femminile, la quale catturò la completa attenzione di tutti i presenti. «È andata lei» pronunciò Selena, perfettamente immobile nella sua postura. «Nonostante fossimo tutte contrarie, ha deciso di sua spontanea volontà di raggiungere Kotone-sama chissà dove, ed è scappata mentre dormivamo.» Aggiunse, abbassando il tono e posando gli occhi altrove: «Ha detto che voleva rendersi utile.»

Poiché la tensione era palesemente palpabile, Tara deglutì preoccupandosi di non far rumore mentre con una mano scavava all’interno della propria borsa, con l’intento di recuperare la lettera da consegnare al vampiro dai capelli color lavanda; gli si avvicinò cautamente, porgendogliela. «Questa è per te. L’ha scritta lei.»

Kanato non mosse una singola parte del proprio corpo, limitandosi a scrutarle il volto con i suoi grandi occhi spalancati che poi posò sulla carta; la afferrò con la spontaneità di un bambino al quale era stato porto un dono e ne lesse il contenuto insieme a Teddy, appollaiato su una sua spalla. L’espressione impassibile che gli aleggiava in volto avrebbe potuto far accapponare la pelle di chiunque, se solo qualcuno avesse trovato il coraggio di alzare lo sguardo verso la sua silhouette asciutta; pareva che fosse stato vittima di un incantesimo, un sortilegio che avrebbe impedito ad ogni creatura di palesarsi a lui, o forse il timore di una reazione esagerata aveva convinto i presenti a non fare domande riguardo ciò che vi era scritto su quel foglio sottile. Aveva già terminato la lettura, i suoi occhi si erano fermati a fine pagina, incollati a quel punto finale. Non c’era molto da leggere, ma lui era andato piano, come se il brutto presentimento che si era preso possesso di lui crescesse lettera per lettera, sempre di più. E poi, lui che era un sadico vampiro senza cuore, perché si stava preoccupando così tanto? Non era in sé; quei sentimenti non erano suoi. E allora, di chi erano? Possibile che…

«Dobbiamo fare qualcosa» disse Harumi con voce ferma e i pugni stretti.

Yui annuì prontamente, imitata da Azusa. Quest’ultimo lanciò un’occhiata a Selena e disse: «Abbiamo bisogno di un piano d’azione ben congegnato.»

«Sì» affermò la blu. «Da queste parti è pericoloso muoversi alla cieca. Siamo in terra straniera.»

«Ho portato» farfugliò Tara, frugando nella propria borsa, «la mappa di Vamutsuchiin. Se organizzassimo delle squadre di ricerca?»

Kin coprì con una mano il disegno della città, centro del Regno; con l’indice dell’altra, indicò le zone verdi riportate sulla cartina geografica. Subaru comprese al volo ciò che la rossa avrebbe voluto dire, pertanto si autoelesse interprete: «Dobbiamo concentrare le ricerche nelle zone aperte, come i campi e i boschi. È improbabile che si stia aggirando per la città.»

«Ma che ne sapete?» sputò Ayato. «Magari quella quattrocchi si è infilata in qualche tombino. Battiamo anche il centro.» E Yui gli rivolse uno sguardo dolce; adorava quando il terzogenito si mostrava sotto quella luce apprensiva, quando spostava i riflettori, che solitamente lo illuminavano, su qualcun altro – quando era buono, un po’ di più.

«In questo caso» fece Reiji, «sarebbe meglio se mettessimo degli annunci e aprissimo uno sportello di segnalazioni. Lasciamo la città ai suoi abitanti, noi andiamo altrove.»

«Giusto, puntiamo all’estensione» disse Azusa, per poi voltarsi verso il secondogenito Sakamaki. «Coinvolgiamo anche i soldati nelle ricerche. Prima troviamo Miki-san, meglio è. Ci pensi tu, Reiji?»

Gli occhi dell’altro si posarono sulla sua figura magra, ricolmi d’intolleranza. «Non c’è bisogno che me lo dica tu.» E prese a camminare lungo il corridoio, allontanandosi dal gruppo e diretto verso la meta a cui aveva immediatamente pensato.

I pochi attimi seguenti furono gelidi, ma ci pensò Laito a rompere il ghiaccio creatosi; si rivolse al fratello gemello, raddrizzandosi il proprio cappello nero: «Vedrai, Kanato-kun, la ritroveremo sana e salva.» Aggiunse maliziosamente: «E poi potrai punirla.»

Il violetto, tuttavia, non proferì parola. Piuttosto parlò Teddy: «Sempre se riesce a sopravvivere, poveretta.»

E fu in quel momento che la molla arrivò al massimo della sua tensione, per poi scattare nella direzione opposta; un lampo, un fulmine, passi ruggenti come tuoni, il suo animo in tempesta. La ragazza corse, corse, corse senza fermarsi anche quando le urla delle sue amiche giunsero alle sue orecchie. Fermati Harumi! – era questa l’unica cosa che riusciva a sentire, seppur fosse ovattata. La rabbia fluiva in ogni singolo capillare del suo corpo; “Stiamo perdendo tempo. Io, io sto perdendo tempo” pensava come un disco rotto, ed era la motivazione la stava facendo quasi volare fuori dal palazzo reale. Aveva superato le guardie, le quali non l’avevano bloccata poiché non ne avevano ricevuto l’ordine, e sicuramente non avrebbero dato ascolto alle umane, seppur in quel momento avessero più autorità di loro. Tara si era fatta prendere dal panico e aveva iniziato a rincorrere la giovane dai capelli color muschio, ma non avrebbe mai potuto raggiungerla – Harumi era molto più atletica rispetto a lei. Azusa fu colto da un riflesso che aveva sviluppato grazie al lungo periodo vissuto in compagnia di gente umana: fece qualche passo in avanti, in direzione della fuggitiva, perché desideroso di inseguirla, di fermarla, di farla tornare indietro. Tuttavia, si ricordò del luogo nel quale si trovava, pertanto si immobilizzò immediatamente sul posto. Un tentativo realmente concreto lo fece Yui, la quale si rivolse al vampiro con il quale aveva il rapporto più intimo e stretto: «Ayato-kun, fa’ qualcosa, ti prego!» La sua voce era balbettante, e lasciava trapelare un senso di angoscia; la consapevolezza di star perdendo un altro membro della squadra al femminile le fece venire un nodo alla gola – credeva quasi che tra poco arrivasse anche il suo turno, pensiero per il quale si ammonì mentalmente perché estremamente egoista in quel particolare ambito.

Ma Ayato scosse la testa, inclinata leggermente verso il basso. «Non può fare niente, il sottoscritto.» Con un cenno del capo, fece riferimento a Shuu, il quale non aveva proferito parola fino a quel momento.

Selena era stravolta dall’andare così frettoloso degli eventi, uno dietro l’altro, così crudeli e spietati; mai, infatti, avrebbe immaginato che si sarebbe inginocchiata per pregare il primogenito tra i fratelli vampiri, supplicandolo di fermare Harumi, di sfruttare la sua posizione di presunta e fastidiosa superiorità e fare le veci di chi avrebbe voluto, ma che non avrebbe potuto. Gli sarebbe bastato un passo per raggiungerla, allungare un braccio per impedirle di continuare la folle corsa; la ragazza atleta avrebbe scalciato, si sarebbe dimenata, avrebbe urlato come un ossesso, ma poi si sarebbe lasciata trascinare indietro e avrebbe riacquisito la lucidità, avrebbe collaborato al piano di ricerca per l’amica dispersa e tutto sarebbe andato a buon fine. Il biondo aprì gli occhi, facendo posare i suoi zaffiri sulla ragazza genio; poi squadrò uno ad uno tutti i presenti, le loro espressioni, il loro disagio, la loro ansia, la loro speranza. Allora s’alzò, si mise in piedi lentamente e si spolverò i pantaloni. Tara gli rivolse un sorriso allargato ed esclamò: «Finalmente! Vai, fai presto!»

Shuu si portò una mano verso la testa, le dita ad accarezzare i capelli. S’incamminò nella parte opposta all’uscita, diretto alle proprie stanze per poter restare da solo. Scosse il capo. «Che scocciatura.»

Fu solo allora che Kanato si liberò, cacciando uno straziante grido disperato.

 

 

***

 


Se n’era pentita. Se n’era enormemente pentita. Dispersa nella foresta della Regione più ignota e pericolosa che avesse mai conosciuto e, nonostante non vedesse nulla, circondata da bestie dal potenziale distruttivo e mortale – come la fine che, ne era sicura, avrebbe fatto. Si vedeva già schiacciata al suolo dal peso dei sensi di colpa, con dei condor a osservarla dall’alto degli alberi e le iene a fare a brandelli la sua carne. Un barlume di lucidità la fece tornare in sé; in un blink delle palpebre, si ricordò che quello non era affatto l’habitat di quelli che, nella sua fervida immaginazione, sarebbero stati i suoi becchini. Non sarebbe mai esistito nulla di più lugubre di un corpo divorato nel mentre che ospitava ancora una coscienza – “Nulla, fatta eccezione per quello che dovrò subire una volta tornata” fu il suo pensiero. E un’idea le venne in mente: perché, in quelle condizioni, dopo quanto accaduto, sarebbe dovuta tornare? Constatò che non ci fosse alcuna motivazione al mondo che avrebbe potuto aiutarla a scegliere di rincasare; vivere, forse? Continuare con la propria vita, andare avanti, realizzare i suoi sogni, lottare ancora – tutti buoni motivi per non far smettere al suo cuore di battere. E per quest’ultimo, qual era la sua voce in capitolo? Non che riuscisse a formulare pensieri decenti, da un po’ di tempo a quella parte. Kanato, Kanato, Kanato – quel nome riecheggiava nel suo petto a ogni contrazione di quel muscolo vitale. Sorrise amaramente, i suoi occhi ancorati al terreno fangoso del bosco; come avrebbe reagito il vampiro se la ragazza avesse fatto rientro al castello, da lui? Conoscendolo, il suo pessimo carattere bipolare gli avrebbe fatto dare i numeri: l’avrebbe squadrata dalla testa ai piedi con quei suoi occhi gelidi – che Miki riusciva a percepire su di sé – e poi, in un fatale attimo, si sarebbe portato a un soffio dal suo viso, le sue mani strette attorno al suo collo e le sue guance rigate dalle lacrime. Non avrebbe più respirato, l’avrebbe uccisa. Ma poi se ne sarebbe pentito? Le scappò una risata divertita, un risolino quasi frivolo; possibile che in quel luogo e in quella situazione, l’unica cosa a cui era in grado di pensare fosse un quesito amoroso? Quel vampiro, il quartogenito Sakamaki, il più inquietante tra tutti i suoi fratelli, il più macabro non-morto di quel Regno, avrebbe potuto ricambiare i sentimenti di una giovane umana, con le ore contate, paurosa e priva di una qualsiasi abilità specifica? Kanato avrebbe mai potuto provare qualcosa per Miki?

La consapevolezza di essere solo un’illusa prese le redini della sua mente; lui non era altri che un essere sanguinario, un assassino, un pazzo da rinchiudere in un manicomio. “Non conosci la sua storia. Non conosci i suoi perché”, le avrebbe detto la coscienza se fosse stata abbastanza forte da farsi sentire – se solo ne fosse rimasto un brandello. Del resto, la moralità non possedeva un ruolo importante in quel momento. Se per tutta la sua vita era stata in grado di agire dando ascolto unicamente alla propria voce interiore, quello sarebbe stato l’unico giorno in cui l’avrebbe scacciata con irruenza. Miki sarebbe morta, e ne era perfettamente consapevole. Anni addietro, o forse anche solo fino a qualche giorno prima, pensare al proprio capolinea le faceva accapponare la pelle; ma in quella situazione che, per di più, lei stessa aveva creato, il decesso sembrava rappresentare l’unica possibile liberazione dai mali verso cui si stava dirigendo. Era stata così convinta di essere lei la persona più giusta per raggiungere il villaggio delle streghe, tanto da non dare ascolto alle sue amiche. “È meglio che resti qui”, era ciò che le aveva aspramente detto Selena. E lei? Lei, se n’era infischiata. La verità, tuttavia, era solo una: Miki era gelosa della ragazza-genio. Non l’aveva mai ammesso apertamente a se stessa, tantomeno a qualcun altro, ma proprio non riusciva a comprendere il motivo per il quale la sua amica dai capelli blu fosse considerata così saggia, molto di più rispetto a chiunque altro.

Si appoggiò a un albero, interrompendo la scarpinata per riprendere fiato. Chiuse gli occhi e inspirò. Ma poi, invece di permettere effettivamente ai propri polmoni di respirare in maniera corretta, spalancò la bocca e cacciò un urlo: «CHE CAZZO SIGNIFICA?!» Non era solita esprimersi con termini scurrili, ma la furia le aveva appannato la vista e l’ultima briciola di buon senso che le era rimasta. «Oh, mi scusi, la signorina è dovuta crescere in fretta», disse ad alta voce. Poi imitò il modo di parlare di Selena: «Devo badare a una casa, devo trovarmi un lavoro, Isako-nee deve andare a scuola, devo fare tutto io.» Scosse violentemente la testa, e i codini già stravolti per il lungo viaggio scivolarono verso il terreno, perdendosi per sempre poiché la proprietaria non li avrebbe più raccolti. «E io che devo dire? IO CHE DEVO DIRE?» Continuò il proprio monologo, scostandosi dalla corteccia di quello che sembrava essere un faggio. «Ma la mia vita è molto avvantaggiata, oh sì. Provengo da una famiglia di ricconi, ho la strada spianata. E poi? Papà picchia mamma tutti i santi giorni. Takumi finisce al fresco ogni due settimane. Il mio futuro è stato già scritto da qualcun altro e non posso fare niente per poter vivere la mia vita come cazzo mi pare.» Strinse i pugni come a voler contenere la traboccante rabbia, e puntò lo sguardo a terra. Le dispiaceva per le cattiverie nei confronti dell’amica alle quali stava pensando, ma non riusciva a placare lo tsunami che sentiva agitarsi nel petto. «È da quando sono nata che seguo gli ordini degli altri. Miki fai questo, Miki fai quello. Miki comportati bene, non voglio fare brutte figure alla cena di lavoro semestrale. Miki chi ti ha detto di piangere? Mi dà fastidio sentirti nelle orecchie. Miki, non ho tempo ora. Miki, quante volte ti ho detto che è vietato entrare nel mio studio? Sparisci dalla mia vista, non ti voglio vedere. Miki studia, che se non prendi il massimo dei voti ai prossimi esami ti prendo a cinghiate e ti chiudo nello sgabuzzino com’è successo l’ultima volta. Miki dovresti accettare l’appuntamento di Minoru, sai che suo padre è il proprietario di una prestigiosa banca? E a me COSA ME NE FREGA?!» Sentiva le lacrime pizzicarle gli occhi, chiedendo il permesso per uscirne e inondarle il volto; scosse la testa, vietandosi di piangere. Piuttosto, seppur amaramente, sorrise: «Hanno ragione dopotutto. Non ho un talento particolare, non sono brava in niente. Non ho una logica istantanea, né abilità fisiche. Non ho nemmeno i superpoteri. Non so fare nulla. L’unica cosa che so fare è lagnarmi di continuo» si disse, riacquisendo un tono di voce nella norma. «Lo riconosco, so è così. E la cosa ancora più penosa è che non riesco a cambiare. Ma cosa mi è saltato in mente? Come posso aver creduto di poter raggiungere da sola un villaggio paranormale sconosciuto persino ai vampiri?» Riusciva a sentirsi degli occhi addosso, probabilmente la fauna locale. Seppur non sembrassero possedere nulla di bizzarro, gli animali che abitavano in quella foresta non erano normali; a partire da quel cervo azzurro e con le corna troppo sottili, fino all’uccello nascosto tra i rami che ruggiva, passando per le formiche di così tante dimensioni diverse. La ragazza si era spaventata quando si era accorta della stranezza di quelle creature ma in quel momento, in cui il suo unico desiderio era quello di sparire nel nulla, pareva essersene persino dimenticata. Il sorriso si trasformò in un ghigno, e il ghigno divenne sonoro con una risata isterica: quel timbro di voce troppo acuto, le mani aggrappate alla faccia, gli occhi quasi fuori dalle orbite – sembrava essere diventata Kanato in tutto e per tutto. «Che ne dite se esco di scena?» domandò al nulla. «Così la smetto di rallentarvi.»

E detto ciò iniziò a correre ad una velocità che mai avrebbe creduto di raggiungere. Costrinse ogni singolo muscolo del proprio corpo ad adattarsi all’andamento fulmineo, ignorando i dolori, le fitte, la mancanza d’ossigeno, la stanchezza, i capogiri – diede solo retta alla disperazione. Lasciò che i rovi le tagliassero la pelle, lasciò che le foglie si incastrassero nei capelli, lasciò che i vestiti si sporcassero a ogni suo inciampo. E poi lo raggiunse: si ritrovò davanti un baratro roccioso di immense dimensioni, e riuscì a fermarsi appena in tempo – un passo in più e si sarebbe ritrovata a precipitare nel vuoto. Guardò in basso, constatando che il precipizio era così profondo da non rivelarne la fine. Arretrò appena, spaventata dal luogo in cui l’irrazionalità l’aveva condotta. Fu in quel frangente che riacquistò abbastanza lucidità da desiderare di tornare indietro; tuttavia erano ore che aveva perso il senso dell’orientamento – quel minimo che aveva sempre posseduto – e proprio non sapeva come far ritorno a casa. Ma fu quest’ultima parola – casa – a farle tornare in mente il motivo di quello scatto di follia: fare ritorno avrebbe significato morire. E da codarda provetta qual’era, non riusciva ad appacificarsi con la consapevolezza di essere la prossima vittima di un furioso omicidio da parte di una creatura vampiresca. Non avrebbe mai sopportato l’idea che sarebbe stato Kanato l’artefice della carneficina; non avrebbe mai avuto il coraggio di guardarlo negli occhi mentre egli si sarebbe apprestato ad avventarsi su di lei con un coltello dalla lama affilata e lucente. Non le importava più nulla della sua vita, non temeva più la morte. L’unica cosa che le era rimasta nel cuore, era la salute di quel vampiro. Sapeva che l’avrebbe uccisa, ma sapeva anche che il gesto estremo gli sarebbe costato l’ultimo barlume di sanità mentale. E no, non avrebbe mai permesso che ciò accadesse.

Sussurrò: «Ti amo, Kanato-kun. Ricordalo per sempre.» Sorrise per un’ultima volta e si lanciò nel baratro, precipitando verso l’oscurità.

 

 

***

 


In vent’anni di vita non aveva mai visto un edificio così grande. Di posti ne aveva visti, a partire dai negozi del quartiere commerciale di Tokyo fino alla Reggia di Versailles, in Francia, quell’unica volta in cui c’era stata quando ancora non aveva compiuto dieci anni – ma mai si era ritrovata a poter girare liberamente in un castello di quelle dimensioni. Azusa doveva parlare con Karlheinz e lei non aveva dovuto insistere molto per poterlo accompagnare, dato che il vampiro aveva volentieri deciso di portarla con sé. Arrivati a destinazione, lo aveva mollato all’ingresso e aveva iniziato ad aggirarsi per i saloni e per le camere, ammaliata dalla magnificenza che trasudava quel luogo. Aya amava i palazzi reali, specialmente quelli che sembravano essere rimasti bloccati nel tempo. Il castello dei Sakamaki, infatti, pareva ergersi in un normale e quotidiano contesto del Settecento, seppur contenesse qualche elemento moderno. Faceva a cazzotti con la contemporaneità di Vamutsuchiin e dell’avanguardia delle attrezzature nelle cucine, talvolta anche con gli indumenti del personale e degli abitanti del complesso, ma per la ragazza stare lì era come vivere in un sogno. Si sentiva una principessa mentre vagava per i corridoi della reggia vampiresca, le mani a reggersi l’un l’altra dietro la schiena e le scarpe da ginnastica che picchiettavano sui chilometrici tappeti. Osservava le pareti e le colonne, i dipinti e le loro cornici, i candelabri e i divanetti in tessuto distribuiti con elegante precisione lungo tutto il percorso; di tanto in tanto si fermava a guardare fuori da un’ampia finestra, scostando le morbide tende e ammirando il panorama esterno. Si stava rilassando e al contempo divertendo in quella gita improvvisata, e fremeva dall’eccitazione di visitare l’immenso giardino reale: dall’alto del quarto piano aveva scorto un labirinto naturale nella vegetazione, e non vedeva l’ora di potersi avvicinare per perdersi nella sua massima idea di bellezza.

Tutto d’un tratto, però, la sua attenzione venne catturata da un dettaglio apparentemente poco significante. Un quadro di modeste dimensioni, se paragonate ai dipinti della stirpe reale che aveva potuto osservare in una galleria al piano terra; il soggetto raffigurato era un uomo d’età giovane, forse un ventenne proprio come lei, con lo sguardo austero, un sorriso appena accennato e i capelli perfettamente in ordine. Non portava né una corona né gioielli, fatta eccezione per uno stemma sul petto; neanche i vestiti erano appariscenti o, almeno, la camicia e la giacca che quella figura indossava parevano essere di buona fattura ma non eccessivamente raffinati. Aya non se ne intendeva, tuttavia pensò che se il ritratto di quel giovane uomo fosse stato riportato in quel luogo, una certa importanza avrebbe pur dovuta averla. Non aveva somiglianze con i principi fratelli, né tantomeno sembrava imparentato con Karlheinz o con le sue mogli. Rimase ferma a fissare la tela, gli occhi assottigliati come a voler analizzare al meglio l’oggetto; distinse il colore degli occhi, azzurro ghiaccio, poi un neo appena accennato sulla mandibola sinistra. Quell’espressione e quell’aspetto, non era la prima volta che li vedeva. Col passare dei secondi si convinceva sempre di più dell’essere già a conoscenza dell’identità di quella persona – di quel vampiro – o, almeno, le ricordava qualcuno che aveva già incontrato durante la propria esistenza. Un altro piccolo particolare le catturò l’attenzione: si accorse solo in quel momento che, poco più in basso del quadro, avvitata al muro vi era una piccola targa argentata dotata di un’incisione sottile. Sorrise appena, contenta di poter scoprire l’identità del misterioso giovane ritratto. S’avvicinò di qualche passo e mise a fuoco la scritta; in quel preciso istante, il suo buon umore si dissolse nel nulla. Il nome di quel nobile era dannatamente familiare alla ragazza: Sakamoto Akihito.

Schiuse appena le labbra. «Papà?»

 

 

***

 

 

I vampiri che abitavano quella zona avevano tutti gli occhi puntati su di lei; famelici, la osservavano con curiosità travestita d’indifferenza, un compromesso incoerente per mantenere in piedi l’orgoglio e la nomea di creature fredde e calcolatrici. Alcuni di loro, i più audaci, avrebbero voluto saltarle addosso e azzannarla – l’odore di carne umana era inconfondibilmente buono – ma si trattenevano, poiché attorno al collo della ragazza spiccava il choker dotato dello stemma del re, lasciato in bella vista dai capelli verdi che ondeggiavano al vento per via della folle corsa. Quella giovane mortale era di proprietà dei Sakamaki e guai a chi si sarebbe azzardato a torcerle un capello. Le manie possessive dei principi erano ben conosciute all’interno del Regno; che fosse un gioiello, un’abitazione, una preda o qualunque altra cosa non faceva differenza: se apparteneva a uno dei fratelli di sangue reale, chiunque avrebbe fatto meglio a starne alla larga. Ogni residente di Vamutsuchiin aveva avuto l’opportunità di conoscere le sconvolgenti reazioni dei signorini, che fosse stato per esperienza diretta o per sentito dire. Se Kanato andava di matto e si metteva a urlare, Reiji era ben più composto e si limitava ad agire con segretezza: il colpevole veniva rapito e torturato per ore, a seconda della gravità del torto commesso. Subaru era solito, invece, scatenare una vera e propria rissa per ribadire a chiunque di stare alla larga dalle proprie cose. Ayato e Laito s’assomigliavano anche in questo: il primo con arroganza e presunzione e il secondo con malizia, ma entrambi miravano alla pubblica umiliazione. L’unico che non faceva pieghe e non si curava di ciò che gli veniva strappato via era Shuu, impeccabile nella sua freddezza glaciale e il menefreghismo di chi non attribuiva importanza a nulla. E quello era il motivo per il quale non stava facendo niente per riprendersi Harumi: non aveva valore. Valeva meno di zero per lui, averla o no non gli avrebbe cambiato la vita.

Di tanto in tanto si fermava per riprendere fiato e urlava: «Avete visto Miki?» Si guardava attorno con nervosa frenesia, cercando con gli occhi la figura minuta della sua amica. «È un’umana, non potete sbagliarvi. L’avete vista? È scappata la scorsa notte, i Sakamaki la stanno cercando!» Ma non riceveva mai risposta alcuna. E allora ricominciava a correre, sentendo il tempo scivolarle via dalle membra; era come se a ogni ticchettio di un orologio invisibile sentisse Miki sempre più lontana, sempre più irraggiungibile, sempre più perduta. Ma dove avrebbe potuto cercarla? Vamutsuchiin era una terra molto estesa, s’era accorta di quella vastità mentre si trovava su quel jet privato a sorvolarla. Avrebbe voluto che la sua controparte eterea fosse lì con lei, in modo da poterle suggerire l’ubicazione esatta dell’amica per poi mostrarle la strada più rapida per raggiungerla – ma anche qualora il suo spirito fosse stato accanto a lei, non avrebbe potuto proferire parola poiché avrebbe contribuito a modificare un intero futuro. A parer suo, era complicato il discorso che la sua anima e quelle delle sue compagne avevano fatto; non ci aveva capito molto, tuttavia si rese conto che nulla di ciò che fosse in procinto di vivere – e che stava già sperimentando – avrebbe posseduto una spiegazione logica e semplice. Sapeva di essere la mano piuttosto che il cervello, e le andava perfettamente bene: la razionalità, la serietà e la noia l’avrebbe lasciata a qualcun altro; nulla sarebbe stato più divertente e soddisfacente dell’azione, scaraventarsi in un campo di battaglia e dare il meglio di sé, duellare fino all’ultimo, sudare, urlare e vincere, far vincere la propria squadra. Harumi era l’atleta, non il coach; era lei a sollevare la coppa dorata perché lei l’avrebbe ottenuta, e nessun altro.

Con un sordo stridio di scarpe, arrestò la scattante marcia. Respirò profondamente con la bocca, appena piegata sulle ginocchia e le mani a scostare la frangia dalla fronte, asciugando quest’ultima dal sudore e scoprendo un fresco sollievo. Si guardò attorno, nel tentativo di capire in che punto della città si trovasse; aveva guardato la mappa insieme alle altre, la sera precedente, pertanto qualche riferimento le era rimasto ben fisso nella mente. Avrebbe solo dovuto collegare i punti e visualizzare nuovamente la cartina, affidandosi alla memoria visiva. Tuttavia, fallì miseramente – ricordare qualcosa in quella maniera non le era mai stato facile, a partire dall’ambito scolastico fino alle situazioni più disparate, come quella che stava vivendo in quel momento. Cosa la stava circondando? Abitazioni più modeste, palazzine più basse rispetto agli immensi edifici del centro della capitale. Capì di aver raggiunto la periferia, forse una zona limitrofa al quartiere in cui aveva sede l’appartamento affittato per lei e per le sue amiche; e Miki – si domandò immediatamente – da che parte sarebbe scappata con esattezza? Si aggirò per i dintorni, tentando di cogliere qualche indizio utile per le ricerche; dopo pochi minuti s’imbatté in un cartello, un’indicazione stradale: per la foresta Haidoku proseguire dritto. «Ma certo!» esclamò risoluta. «Un villaggio segreto non può trovarsi nel bel mezzo di una città grande come questa.»

Ricominciò a correre, contenta di aver riacquistato in pieno le proprie energie semplicemente camminando. E ben presto il suo campo visivo fu invaso da un muro di vegetazione, la quale diventava sempre più fitta man mano che la ragazza s’addentrava. Alberi alti, cespugli folti, rami affilati, animali nascosti nell’ombra – ma niente era in grado di abbattere il coraggio di Harumi. Sapeva che ce l’avrebbe fatta, stava già pregustando il forte abbraccio che avrebbe dato alla sua amica appena l’avrebbe scorta tra il fogliame, sicuramente dopo numerosi rimproveri e qualche lacrima di commozione mista alla paura che stava provando in quel momento e nei precedenti. Era forte, lei, più forte di chiunque altro; non lo era sin dalla nascita, piuttosto aveva acquisito quel potere fisico e morale durante l’infanzia e l’adolescenza, maturando una giovinezza che avrebbe potuto condurla alle Olimpiadi – che, non a caso, rappresentava il suo sogno più grande. Una parte di lei era morta insieme a suo fratello, quella lontana sera di aprile, tra quelle lingue incandescenti e la disperazione dell’intero quartiere; poi, però, era rinata. Avrebbe dovuto vivere anche per lui, avrebbe dovuto ereditare la sua forza, avrebbe trionfato nella vita anche per lui.

E allora perché si stava accasciando? Perché stava lentamente scivolando verso il terreno? Tentò di aggrapparsi al fusto di un albero, ma il tentativo di rimanere in piedi fallì. Improvvisamente si era sentita abbandonata da ogni muscolo del corpo, nessun nervo comunicava gli ordini da eseguire, i movimenti da compiere. Non era stanca, in passato aveva corso per percorsi di maggiore lunghezza, aveva compiuto imprese di gran lunga più pesanti – eppure, in quel preciso istante, non aveva più nessuna briciola di energia. Percepì un nodo alla gola, dovuto alla mancanza d’aria respirabile: i suoi alveoli polmonari si erano completamente svuotati, e il debito d’ossigeno si fece rapidamente sentire alla sua testa, che iniziò a vorticare furiosamente. Non ci volle molto prima che i sensi la abbandonassero e che perdesse conoscenza.

Smise di agitarsi e chiuse gli occhi, restando inerme sul terreno fangoso.

 

 

***

 


Due ore – due lunghe e atroci ore. Due ore di suppliche a Shuu, l’unico essere nelle condizioni ideali per poter riportare Harumi a corte, da loro. Nessun altro all’infuori di lui avrebbe potuto sguinzagliare le guardie reali per andare a riprendere la caposquadra dei boy-scout – quella ragazza era la sua preda, e lui avrebbe potuto farne ciò che voleva. Il bel vampiro dalla folta chioma bionda non aveva alcuna intenzione di scomodarsi per recuperare quella testa calda dell’umana, pertanto aveva semplicemente optato per ignorare le lamentele di Yui e si era messo a dormire nel proprio caldo e comodo letto, rintanato nelle proprie stanze. Selena, dal canto suo, vedendo che il primogenito non si stava affatto curando di ciò che stava avvenendo, aveva provato a inseguire l’amica dai lunghi capelli verdi senza, tuttavia, ottenere risultati; di puntuale ritorno dalla sua meta ignota, Reiji l’aveva prontamente fermata, appena si era reso conto di ciò che l’umana aveva intenzione di fare. L’impresa, dunque, non era andata a buon fine e di Harumi non c’era ancora nessuna traccia. A quel punto l’unica possibilità di ritrovamento sarebbe stata quella di allestire delle ricerche anche per lei, inglobandole a quelle di Miki. Restava solo da organizzare un piano adeguato alle circostanze, un progetto che fosse abbastanza veloce ed efficace da eseguire. Fu per questo che il secondogenito radunò in una delle sale dedicate alle conferenze i propri fratellastri, le ragazze e alcune guardie, le maggiori, quelli che sarebbero stati i comandanti degli squadroni di ricerca. L’unico a non presentarsi fu Kanato, scomparso da qualche parte nel castello. Non si era più fatto vedere né aveva dato suggerimenti su dove si fosse rifugiato; l’unico indizio della sua presenza erano delle urla strazianti, doloranti, angoscianti che si potevano udire in lontananza: un lamento esausto, un grido d’aiuto di chi ne aveva abbastanza di soffrire, soffrire e soffrire. Teddy l’aveva lasciato solo poiché riteneva più opportuno partecipare alle ricerche: nonostante fosse uno stregone natio di un mondo abitato da vampiri e creature magiche, nonostante – contro ogni apparenza e pregiudizio – avesse un carattere fermo e severo, si era affezionato a Miki. Non era capace né di intendere né di volere quando si trovava nel mondo degli umani, ma era lì; era lì quando la ragazza correva da Kanato, era lì quando l’occhialuta lo abbracciava e gli regalava il proprio sangue; era lì quando lei ascoltava il vampiro, era lì a guardarli ed era fermamente convinto che Miki fosse l’unico essere esistente, di qualunque natura, in grado di potersi prendere cura del violetto. E Teddy l’avrebbe riportata a casa, a qualsiasi costo.

Fu così che si ritrovarono riuniti tutti a un tavolo, di nuovo; il banco era grande e rotondo e, sebbene i membri di quella riunione fossero numerosi, le dimensioni della tavola garantivano l’avanzo di spazio. Kin tremò di paura quando vide un generale prender posto accanto a lei, alto e robusto nella sua stazza centenaria; impegnati a fissare il vuoto, i suoi piccoli occhi color mango erano puntati dritti davanti a sé, mentre alla sua cintura era ben legata una katana dall’impugnatura scarlatta. Subaru si accorse immediatamente del disagio della ragazza, pertanto afferrò la seduta della poltrona d’ufficio sulla quale era seduta e l’avvicinò alla propria. La giovane dai lunghi capelli rossi lo ringraziò con un muto sorriso, ma nel giro di pochi attimi la sua attenzione venne nuovamente catturata dal soldato d’alta carica, rimasto impassibile per tutto il tempo. Poco più in là Yui prese posto accanto ad Ayato, ormai sull’orlo delle lacrime: tutti quegli eventi la stavano stremando. Fissò Reiji, esattamente dal lato opposto della tavola; non riusciva a credere che quel vampiro riuscisse a mantenere la calma in qualsivoglia momento – era il suo perfetto antipodo, incompatibile e ingiustificabile. Era una ragazza buona, e i suoi sani principi rinnegavano fortemente sentimenti aspramente negativi come l’odio, ma proprio non riusciva a non trovare ripugnante quell’indifferenza; due compagne erano scomparse, era avvenuto un omicidio ed erano sull’orlo della guerra, eppure Reiji non aveva un capello fuori posto. Era per quella motivazione che preferiva ampiamente e apertamente stare con Ayato, ed era grata che il vampiro avesse scelto proprio lei. Una fitta al petto le cancellò il piccolo sorriso che si era formato sul suo volto appena aveva accarezzato con gli occhi il profilo del terzogenito; “È un vampiro, non dimenticarlo”, disse fra sé e sé con delusione e amarezza. Avrebbe voluto che il suo rapporto con Ayato si allargasse di più, che si arricchisse, che diventasse un’intima relazione tenera, ma era consapevole che quel desiderio sarebbe stato destinato a rimanere tale, effimero, una nuvola di vapore che sarebbe scomparsa pian piano. Una fitta al cuore, poi tutto di nuovo normale; si portò istintivamente le mani al petto e strinse l’inseparabile crocifisso rosato, aggrappandosi all’unica forza che mai le sarebbe venuta meno. Ayato si voltò verso di lei, inespressivo – e Yui avrebbe sperato solamente in un sorriso, anche accennato; avrebbe voluto dire qualcosa, ma non ce la fece, era come se non ne avesse avuto il coraggio. Poi tornò a guardare altrove, il ciuffo di chioma rossa ad ostacolargli la vista smeraldina.

«Signore, siete estremamente ed estenuamente più problematiche del previsto» fece il secondogenito, spezzando il silenzio. Osservò i presenti uno ad uno. Domandò, nascondendo il nervosismo: «Dov’è Shuu?»

«Reiji-kun, ma non l’hai visto prima?» intervenne Laito, un sorriso colmo di divertimento accennato in volto. «È andato a dormire.»

Il corvino si sistemò meglio gli occhiali sul ponte del naso, probabilmente per nascondere la bocca con il palmo della mano: «Scansafatiche». Si accomodò; al suo fianco Selena, sempre presente, come se fosse stata la sua ombra, la sua gemella inseparabile. «Prima di cominciare, umane, permettetemi di presentarvi dei colossi del nostro sistema militare, delle figure di grande importanza per Vamutsuchiin. Lord Mizukensei, il Capitano Mabushii e il Tenente Kagesurou», e li indicò uno per volta.

Lord Mizukensei era il guerriero accomodato accanto a Kin, ancora silenzioso e ancora pietrificato; lasciò solo la testa muoversi, un minuscolo segno d’assenso e di saluto, gli occhi chiusi come in meditazione. Aveva l’aspetto di un samurai, con i capelli scuri come la notte legati in alto e delle geta ai piedi, le infradito tradizionali della cultura nipponica.

Il Capitano sedeva tra Teddy e Ayato, andando a creare un trio di forti personalità. Esordì, difatti, con un: «Inchinatevi a Mabushii, ingrate ragazzine umane». E a quella che definiva presunzione, curandosi di non essere osservata, Tara roteò gli occhi al cielo – “oh no, un altro esaltato che parla in terza persona”, pensò. Quel vampiro si era battuto un pugno sul petto, gonfio di fierezza e privo di vergogna; la marcata mascella quadrata era stretta in un sorriso che aveva palesemente l’obiettivo di mostrare i lunghi canini bianchi. Per avere il titolo di Capitano, quell’uomo avrebbe dovuto avere un’età matura, ma il suo aspetto non lo dimostrava affatto: l’unica ruga che presentava il suo viso era una cicatrice sulla guancia destra, che altro non rappresentava che la fierezza con la quale era solito scendere in battaglia.

E dal lato opposto della tavola, piazzato tra Subaru e Reiji, si ergeva il suo antipodo. Il Tenente Kagesurou non era silenzioso e pacato come il lord, ma il suo carattere non gli consentiva di andare d’accordo con Mabushii; l’uno sfavillante, l’altro tenebroso. «Buffone» gli disse, infatti, gli occhi rossi piccoli e cattivi a fissare il suo rivale. Antagonisti da sempre, Kagesurou prediligeva la riservatezza all’esagerazione. Spalle sottili e gambe lunghe, un vestiario sobrio ed elegante che faceva a cazzotti con la sua carica militare.

Tre personaggi diversi a cui le ragazze presenti in sala non avrebbero mai affibbiato un’immagine vampiresca, eppure anche loro erano creature della notte dedite al sangue e, di conseguenza, al dolore altrui. Aya li osservò uno ad uno, senza batter ciglio. «Piacere di conoscervi», disse a nome di tutte. In condizioni normali non si sarebbe fatta problemi a nascondere dell’entusiasmo; ciononostante, il suo volto non ospitava espressione alcuna.

«Ragazzi, da quanto tempo», fece Teddy, alzando una zampina. «Saranno duecento anni che non ci vediamo.»

Gli rispose il Capitano Mabushii: «Teddy, vecchio mio, ancora intrappolato in quel pezzo di stoffa?»

Annuì. «Non si sta tanto male, una volta che ci fai l’abitudine.»

Lord Mizukensei posò lo sguardo sul peluche, ruotando di poco il capo. «Yo, Tatsuya-san.»

L’orso incrociò le braccia al petto, negando con la testa. «No, Mizu-san, non sono più Tatsuya. Kanato-kun ha deciso che il mio nome deve essere Teddy, e Teddy sono.»

«Quel moccioso ti comanda fin troppo. Che fine ha fatto lo stregone che incuteva terrore con un singolo sguardo?»

«È morto insieme al mio vecchio corpo.» E poi mise fine al discorso, rivolgendosi al Sakamaki: «Continua pure.»

Reiji annuì. «La farò breve poiché non c’è tempo da perdere. Dobbiamo recuperare Harumi-san e Miki-san il prima possibile. Temo che il nemico le abbia già individuate.» Kin sobbalzò e si portò entrambe le mani alla bocca per reprimere un urlo – ma non emise neanche un suono. «Mi sfianca passare sempre per il catastrofico della situazione, tuttavia devo pur avvertirvi dell’ipotesi più propensa a realizzarsi. Potrebbero morire. Non che possa dispiacermene, ma le conseguenze potrebbero essere alquanto una seccatura» sibilò, scoccando un’occhiata a Selena.

La ragazza in questione puntellò i gomiti sulla tavola, afferrandosi il capo stanco con le mani. «Non solo Miki, adesso anche Harumi-san. Si sono entrambe volatilizzate nel nulla. La responsabilità è mia, lo so e me l’assumo.» Guardò i presenti in sala. «Spero possiate aiutarmi a ritrovarle.»

Tara ebbe così modo di osservare gli occhi dell’amica: erano stanchi, colmi di rabbia e delusione, d’amarezza, di voglia di tornare ai vecchi tempi, a quando le loro vite erano identiche a quelle di qualsiasi altra ragazza del loro paese; sarebbe stato bello svegliarsi all’improvviso e scoprire che era stato tutto solo un sogno, guardarsi attorno e ritrovarsi in camera propria, poi vestirsi, scaraventarsi in strada e vedere la vita continuare a procedere placidamente. Sarebbe stato bello scorrazzare per il parco e trovare Harumi in compagnia dei suoi boy-scout, alle prese con le istruzioni per montare le tende da campeggio, in allenamento per la gita programmata per ogni estate; sarebbe stato bello passare accanto alla chiesa e incontrare Yui, indaffarata a staccare vecchi avvisi dalla bacheca del sacro luogo per poter far spazio ai nuovi. Sarebbe stato bello proseguire un altro po’ e imbattersi in Miki, in piedi alla fermata dell’autobus aspettando il mezzo di trasporto, perché doveva immediatamente correre all’università per una lezione straordinaria; sarebbe stato bello, poi, fare un salto al supermercato per fare qualche acquisto necessario, l’essenziale per il pranzo e la cena di quel giorno, e incrociare Tara con le buste della spesa colme di farina e uova, perché al piccolo albergo gestito dai suoi genitori erano finiti gli ingredienti base per preparare la colazione. Sarebbe stato bello giungere dinanzi al municipio per dare uno sguardo alle comunicazioni cittadine, e notare Kin seduta sulla panchina poco più in là dell’entrata, indaffarata a scarabocchiare qualcosa sul suo quadernetto; e subito accanto al Comune, Selena ed Isako in fila all’ufficio postale, sempre affollato di lunedì, sempre circondato da un inconfondibile aroma di caffè. Nessun Mondo Parallelo, nessun omicidio, nessuna complicazione – soprattutto, nessun vampiro.

«Bah», gorgogliò Mabushii, «voi umane siete stomachevoli. Cosa vuoi che importi al sottoscritto di due ragazzine che hanno deciso di suicidarsi?»

Yui sussultò visibilmente, attirando l’attenzione di Ayato. «Loro non hanno istinti del genere», s’azzardò a dire.

Il Capitano sbatté le grosse mani sulla tavola, affacciandosi per vedere meglio la ragazza. «Tu osi ribattere a un’affermazione di me medesimo? Sai con chi stai parlando, biondina? Ti potrei distruggere semplicemente alzando un dito.»

Ayato gli scoccò un’occhiataccia. «Modera i toni, Capitano di ‘sto cazzo.»

«Ah?! Credo di non aver capito bene. Puoi ripetere? Sempre se ne hai il coraggio.»

Quasi gli diede una testata a causa della loro stretta vicinanza. «Tu, piuttosto, ne hai parecchio di coraggio. Il sottoscritto è un Sakamaki, quindi un tuo superiore. Se non fosse per me, tu neanche avresti questa carica.»

«Ma se ho quattrocento anni più di te, marmocchio!»

«Marmocchio?!»

«Ayato, ti prego di moderare i toni.»

«Non ti ci mettere anche tu, maniaco della porcellana!»

Una risata leggera si levò nell’aria. «Andiamo, ragazzi, non credete sia meglio essere tutti amici?» domandò Laito. Poi guardò Selena, dicendole: «Puoi contare su tutti noi, Clever-chan.»

La blu era solita storcere il naso quando il quintogenito la chiamava in quel modo, tuttavia gli mostrò un sorriso riconoscente. «Grazie, Laito-kun.»

Il vampiro le sorrise di rimando. Si voltò verso Tara, accomodata alla sua destra, e la sorprese a fissarlo; non cambiò espressione, e le strinse una mano con la propria, accarezzando il dorso con il proprio pollice.

In quel momento, una cartina geografica – ben più grande rispetto a quella posseduta dalle ragazze – venne srotolata sulla tavola. Reiji afferrò una bacchetta sottile, lunga abbastanza per poter additare ogni luogo presente sulla mappa senza doversi protrarre in avanti. Ignorò il nervosismo crescente. «Signori, abbiamo indugiato anche troppo. Direi di andare dritti al punto.» Indicò l’ubicazione dell’appartamento delle ragazze. «Questo è il dormitorio delle umane. Asano Miki si è mossa da qui durante la notte, presumo quasi all’alba, data l’ora di rincaso di ieri. Calcolando il tempo trascorso finora e considerando che le sue prestazioni fisiche lasciano molto a desiderare, non può essersi allontanata troppo.»

Il Tenente Kagesurou fece un cenno d’assenso. «Sappiamo dove era diretta?»

«Le sue intenzioni», rispose Selena, «erano quelle di raggiungere il villaggio delle streghe. Ci teneva così tanto. Tuttavia, nessuno di noi conosce le sue coordinate.»

«Per l’appunto.»

«La questione è molto semplice», riprese Kagesurou. «Se era alla ricerca di una città sconosciuta, è poco probabile che si trovi in centro in questo momento. Scommetto che si è addentrata nella foresta Haidoku.»

Reiji annuì. «Ci troviamo d’accordo. Batterei ugualmente la città, poiché il secondo soggetto, Yamada Harumi, possiede un pessimo senso dell’orientamento. Ipotizzo che possa essersi persa da queste parti», e puntellò la zona ovest della capitale. «Dopotutto, è via da poche ore.»

«Facciamo così. Io esploro la città con le umane, e voi perlustrate Haidoku.»

«Tenente», lo chiamò Tara, colta da un’improvvisa voglia di sapere, accuratamente coperta da rispetto ed educazione. «Nulla da togliere alla Sua autorità e alle Sue decisioni, ma se io preferissi esplorare la foresta?» “Che girare per la città mi mette un’ansia assurda, con tutta quella gentaglia carnivora”, pensò, evitando tuttavia di pronunciare ad alta voce.

Il Capitano Mabushii rise sguaiatamente. «Certo che sei ignorante.»

Tara stava per chiedere spiegazioni, quando sentì un respiro profondo provenire da sole due sedie di distanza dal proprio posto a sedere; si voltò ed era Lord Mizukensei, il quale schiuse le labbra: «Hai significa veleno. Doku significa polmone». La fissò con sguardo severo. «Quella foresta è una trappola mortale.»

 

 

 

Angoletto dell’Autrice!!

Questa storia sta diventando il delirio più totale. Ed io? Be’, non sono da meno. Mi sono diplomata, mi sono iscritta all’Università e attualmente lavoro part time presso una testata giornalistica – lo stress lo devo pur riversare su qualcuno, no? E quel qualcuno deve pur essere Reiji-san, no?

Reiji: Vorrei tanto prenderti a cinghiate per poi prosciugarti fino all’ultima goccia di sangue.

Nuuu-- Se lo facessi non potrei più finire questa storiella ;(

Reiji: Ma che peccato. Tanto non ti legge più nessuno.

Eh no, i miei lettori non mi hanno abbandonata! C’è ancora chi mi segue, ancora chi aspetta aggiornamenti. After all this time? Always. Vi amo guys. Grazie per il sostegno.

Dai, ora torno a studiare, che la sessione invernale non si è ancora conclusa. Mi manca il liceo :’)

-Channy

 

 

Post Scriptum: sono troppo in fissa con The Promised Neverland. E niente. Ciao.

  
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