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Autore: ShanaStoryteller    18/02/2021    0 recensioni
Una raccolta di storie brevi che dipingono una nuova versione dei miti antichi.
O:
Quello che accadde a Icaro dopo la sua caduta, come Ermes e Estia si immischiarono e salvarono l’umanità e di come Ade voleva solo schiacciare un pisolino.
Genere: Dark, Generale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Afrodite/Venere, Ares/Marte, Era/Giunone, Poseidone/Nettuno
Note: Lime, Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Afrodite non ebbe pace durante la gravidanza. Aveva sempre troppo caldo, sudava copiosamente sia che si trovasse nella calura opprimente delle pendici del vulcano o nell’aria ghiacciata sulla vetta. Non faceva alcuna differenza. Non importava dove andasse o cosa facesse, non riusciva a trovare sollievo. Efesto era la sua ombra, si torceva le mani e poggiava la testa sul suo ventre. La sua pelle tesa era calda al tatto, ed entrambi si preoccupavano per il figlio che cresceva dentro di lei.

Invocarono l’aiuto di Artemide, che non sapeva in che modo assisterli. “Il bambino è sano.” Disse loro, sconcertata. “La madre è in salute, anche se sofferente. Non posso fare niente per voi perché non c’è niente che si possa fare.”

Il tempo passò. Il bimbo nacque. Lo chiamarono Eros.

Era rovente.

***

Si riscaldò tra le mani di Artemide mentre lei lo puliva e Afrodite aspettò con ansia di tenere suo figlio. Artemide urlò e dovette posarlo a terra; sulle mani le si formarono vesciche. Afrodite lo raccolse e riuscì a resistere al calore per più tempo, ma dopo qualche minuto il piccolo le bruciò un lembo di pelle del petto. Efesto fu l’ultimo a provare, e riuscì a tenere suo figlio per un quarto d’ora intero prima che la sua pelle iniziasse a scottarsi.

Artemide non poteva fare nulla. Insistette che non c’era niente che non andava in lui, che era così e basta. Efesto costruì dei guanti di metallo morbido per poter accudire il figlio – il fuoco dell’infante reagiva solo al calore di un’altra persona. Vestiti e oggetti ne erano intoccati. Andarono da Ermes, da Apollo, da Estia, e nessuno di loro poté aiutarli. Estia provò a tenere il bambino. Lei era la custode del fuoco celeste, che bruciava di fiamme più calde di qualunque altre, ma anche lei si bruciò. “Il fuoco celeste è parte di me, dunque non può ferirmi.” Disse loro, con rammarico. “Eros no, dunque può bruciarmi.”

Nessuno poté aiutarli.

Eros piangeva, perennemente triste perché voleva essere preso in braccio e cullato, perché agognava il calore dei suoi genitori, ma questi potevano dargli solo attenzioni smozzicate, momenti rubati prima che lui li bruciasse, costringendoli a ripararsi dietro a freddo metallo.

Afrodite era disperata. Andò di nascosto sul Monte Olimpo, andando contro al volere di suo marito, e si recò da Era. Piangeva mentre parlava, e Era la guardò con occhi freddi e impassibili. “Non c’è niente che non va in tuo figlio.” Disse lei. “È così come l’hai creato. Se non riesci ad accudirlo come merita, trova qualcuno che possa farlo.”

Afrodite la fissò, sentendosi tradita. Era era stata gentile con lei in passato, l’aveva aiutata a scegliere un marito quando l’intero Olimpo bramava la sua mano. Afrodite era figlia di Zeus, ma non di un’altra donna, e dunque Era non l’aveva disprezzata.

Era perse un poco della sua durezza. “Ti ho dato la risposta che cercavi, se non quella che volevi. Torna da tuo figlio e da tuo marito.”

Afrodite se ne andò.

Disse a Efesto dove era stata ma lui, invece di arrabbiarsi, si fece pensieroso.

***

Ares era ricoperto di sangue ed esausto quando suo fratello apparve al suo fianco nel mezzo del campo di battaglia. “Efesto,” lo salutò, sorpreso, “qualcosa non va?”

“Ho bisogno del tuo aiuto.” Disse l’uomo che non gli aveva mai chiesto niente prima di allora. “So che ti fa male allontanarti da qui, ma…”

Ares scosse il capo. “Ci sarà sempre un’altra guerra. Di cosa hai bisogno?”

***

Poteva tenere in mano i lampi di Zeus e faceva bagni nella lava per distendere i muscoli doloranti. Ares rimaneva intoccato dal calore o dalla fiamma perché lo attraversavano, riusciva a farlo perché ne assorbiva il calore invece di farsi male.

Era nel letto di suo fratello e teneva suo nipote; Eros gli rivolse un sorrisino sdentato da dove era steso sul suo petto, pelle su pelle. “Che bambino carino.” Sbadigliò. Efesto era al suo fianco e Afrodite all’altro.

Ares assorbiva gran parte del calore di Eros, quindi il bambino era fresco abbastanza da poterlo toccare. I suoi genitori poterono carezzargli la schiena e baciargli la fronte. “Grazie.” Disse Efesto, che finalmente riusciva a toccare suo figlio senza conseguenze.

“Figurati.” Disse Ares, le palpebre che si chiudevano.

Con la famiglia di suo fratello accoccolata su di lui, Ares trovò pace a sufficienza da poter dormire.

***

Quando Eros crebbe, imparò a controllarsi. Era comunque caldo, ma quando divenne grande abbastanza perché i ciclopi lo inseguissero in continuazione per la paura che si infilasse in posti pericolosi, aveva già imparato a regolare la sua temperatura e non bruciava più nessuno.

O perlomeno non bruciava più altre divinità. Per quanto si sforzasse, rimaneva troppo caldo perché un mortale lo potesse toccare senza farsi del male.

Prima che riuscisse a controllarsi, Ares aveva trascorso ogni attimo possibile in cui non era sul campo di battaglia con lui. Non riusciva sempre a dormire, ma si sdraiava con Eros sulla pancia e con Afrodite ed Efesto ai lati.

Le voci corsero e si gonfiarono, come sempre. Si diceva che Eros fosse il risultato dell’unione di Ares e Afrodite, si diceva che Afrodite tradiva suo marito da quando l’aveva sposato.

“Mi dispiace.” Disse Ares, il volto contratto.

Efesto sorrise e Ares si rilassò. “Stai solo facendo ciò che ti ho chiesto. Non devi scusarti.”

Ares non poté fare a meno di sentirsi comunque colpevole.

***

Eros crebbe, da infante si fece uomo. Bruciava, la bocca larga e sorridente e occhi come il sole. Nessuno si sorprese quando venne nominato dio della passione.

Aveva ereditato il meglio dell’aspetto dei suoi genitori ed era di una bellezza disarmante, con un volto che avrebbe fatto struggere Elena in persona. Era figlio della dea dell’amore e del dio dell’artigianato, e la passione era necessaria per entrambe le arti.

La passione era molte cose. C’era la passione amorosa e spronava molte coppie timide ad abbracciarsi, disperate. C’era la passione nella guerra, e quando il campo di battaglia si faceva statico e stanco si univa al suo zio preferito e faceva riaffiorare l’energia dei soldati. C’era la passione accademica, e Eros incoraggiava molti studiosi che passavano lunghe notti a cercare risposte che avrebbero potuto non trovare mai. C’era la passione artistica, e ispirava artisti sconsolati a creare seguendo il cuore.

La passione era l’accelerazione dei battiti del cuore, un desiderio che doveva essere saziato, una determinazione ad andare fino in fondo. Era qualcosa che bruciava e ti riduceva in cenere perché era un fuoco troppo bello per essere estinto.

Eros era uno dei preferiti dagli dèi perché molto del suo operato li beneficiava. Entusiasmava le persone, che usavano quell’energia per compiere grandi gesta in loro nome.

Era bello e potente e amato. Non gli mancava niente, fino a quando…

…fino a quando sua madre non lo inviò ad aiutare la ragazza di un villaggio che la pregava da mesi.

Eros vide Psiche e sentì subito il peso dell’amore sul petto.

***

Psiche era bellissima.

Sapeva di esserlo, era l’unica cosa che sapeva di sé. Le era stato detto per tutta la vita, da quando era una bambina balbettante o una giovane o una donna adulta.

Gli uomini venivano a chiedere la sua mano e attraversavano confini e superavano mostri per arrivare alla sua porta. “Non ho una dote,” diceva loro, “non so cucinare, sono una pessima sarta, non ho mai pulito una casa.”

“Non mi interessa,” le dicevano loro, con occhi famelici e mani fameliche,” sei bellissima.”

Da piccola, sua madre e le sue zie l’avevano scacciata dalla cucina dicendo che il vapore avrebbe rovinato i suoi bei capelli; non l’avevano lasciata cucire perché gli aghi avrebbero indurito le sue mani morbide; non avevano voluto che passasse ore a rassettare perché era troppo bella per sporcarsi con del volgare sudiciume.

Gli altri bambini non giocavano con lei, comprese le sue sorelle, e ben presto rifuggì anche i suoi tutori, i cui sguardi le perforavano la schiena. La prima volta che qualcuno le posò un tributo ai piedi, come se fosse stata una sorta di dea e non una semplice ragazza di campagna, scappò e si barricò in camera sua.

I tributi e le preghiere non cessarono, e lei li odiava. Voleva solo essere come tutti gli altri, voleva leggere e cucinare e avere degli amici. Ogni notte, raccoglieva i doni e i tributi che le persone le regalavano e li portava di nascosto al tempio di Afrodite. Lasciava quegli oggetti dove dovevano stare, per la dea della bellezza e dell’amore. “La prego,” implorava ogni notte, “La prego, li faccia smettere, onorevole dea. Non posso vivere così.”

Continuò così per anni e anni, ma le sue preghiere non vennero mai esaudite. Cadde sempre più in basso, sentendosi confinata in casa come una prigioniera perché non poteva uscire senza che le lanciassero fiori ai piedi o che qualcuno commentasse il suo corpo o il suo volto. Le sue sorelle non le parlavano e i suoi genitori non la ascoltavano. Mangiava sempre meno e passava i giorni a languire a letto, diventando sempre più debole e stanca ogni giorno che passava.

Un giorno, dopo aver respinto un altro pretendente ed essere stata respinta da sua madre ancora una volta dopo averle chiesto di aiutarla in cucina, uscì dal villaggio e vagò lontano, dove nessuno l’avrebbe potuta trovare, dove nessuno avrebbe potuto fare apprezzamenti sulla bellezza del suo corpo.

Camminò fino al ciglio di una scogliera e prese un profondo respiro. “Afrodite, Signora,” sussurrò, “rendimi brutta nella prossima vita.”

E saltò.

***

Eros la vide cadere e chiese a Zefiro di salvarla. La giovane venne sostenuta con gentilezza dal vento. Però, era talmente debole e malnutrita che lo shock per non essere caduta verso morte certa la fece svenire. Eros avrebbe voluto salvarla da sé, per poterla prendere tra le braccia e tenerla stretta al petto.

Ma lui bruciava.

Se l’avesse toccata, le avrebbe fatto del male. Dunque, non lo fece.

“Portala nella mia casa.” Disse, combattuto perché non voleva affatto diventare simile a Zeus o Poseidone. Ma lui non poteva toccarla, non era la stessa cosa. “Io arriverò a breve.”

Zefiro la trasportò via, lontano.

Non era quello che sua madre aveva inteso quando l’aveva inviato lì, ma non poteva lasciare Psiche tra i mortali. Se aveva cercato di uccidersi una volta, l’avrebbe fatto di nuovo, e dove sarebbe stato lui allora?

Eros era pesante d’amore e non conosceva quella ragazza, non capiva come potesse essere possibile a meno che non fosse stato orchestrato dalle Moire. Psiche era una ragazza bellissima, ma lui era un dio. Era figlio della dea della bellezza e ogni altra dea che conosceva era altrettanto graziosa nel corpo e nel volto. Non era tentato dalla bellezza dei mortali.

Aveva anche altre cose da fare, quindi accantonò il problema di Psiche per andare a convincere una giovane nobile a baciare la figlia del panettiere.

***

Psiche si svegliò, cosa che non si aspettava. Per di più, non sentiva dolore. Era stata deposta con cautela sull’erba soffice da un essere che non poteva vedere. “Dove sono?” Chiese. Non pensava che fossero gli Inferi. Si trovava sulla vetta di un’alta montagna e vicino al ciglio c’era anche una villa enorme e bellissima con colonne di marmo.

C’era un ciglio. Poteva ancora buttarsi. Mosse un passo per avvicinarsi, esitante, ma una forte raffica di vento la spinse indietro e qualcosa di simile a una voce disse Questa è la dimora di un dio, non dissacrerai questo luogo col tuo sangue.

“Va bene.” Disse, e un misto di sollievo e paura le bloccava la gola. “Posso… posso entrare? Fa freddo qui fuori.”

Il vento la sospinse verso la villa, gesto che lei prese come un permesso.

C’erano marmo e oro e pelli ovunque, tutto era splendidamente decorato e c’erano moltissime stanze e oggetti curiosi. Ma Psiche trovò la camera da letto, e tra la strada per allontanarsi dal villaggio e l’adrenalina di essere stata sorretta dal vento e trasportata lì, era esausta. Si issò sul letto soffice senza pensare, e si addormentò nell’istante in cui la sua testa toccò il cuscino.

***

La luna era alta nel cielo quando Eros tornò a casa. Entrò e non accese nessuna delle torce per paura di spaventare la ragazza. La trovò nella sua stanza e riuscì a scorgere per un attimo la sua figura sulle lenzuola bianche prima che lei si muovesse, tirandosi su per guardarsi intorno. Gli occhi di lei non erano buoni quanto i suoi, dunque non poteva neanche vedere i contorni degli oggetti. Per lei, quell’oscurità era totale. “Chi c’è?” Domandò lei, la voce roca per il sonno. “Cosa vuoi?”

“Sono un amico.” Disse lui, omettendo il suo nome. Sapeva bene l’impressione che i mortali avevano di lui, e l’ultima cosa di cui Psiche aveva bisogno era sapere che lui era il dio della passione e che lei stava lì di fronte a lui, inerme, sul suo letto. “Il vento ti ha portata qui perché ti sei buttata giù da una rupe. Perché l’hai fatto?”

Lei si mise a sedere e si strinse le ginocchia al petto. “Non ne voglio parlare.”

Lui sospirò, ma non la incalzò. “Non sono qui per costringerti, se non vuoi.”

“Per cosa sei qui?” Chiese lei. “Perché sono qui?”

Sembrava triste e spaventata, e desiderò di poterla toccare. Desiderò di poterle prendere le mani e di baciarle la fronte, ma non poteva, non senza farle del male. “Penso che sia meglio se rimani con me per un po’. Fino a quando le rupi non ti sembreranno più così accattivanti. Ho una bella casa e spesso sono assente per curare i miei affari, quindi sentiti libera di sfruttarla al meglio.”

“Cosa ci guadagni?” Domandò lei.

Lui sorrise, beffardo, e sapeva che lei non poteva vederlo. “Credo di avere proprio bisogno di una governante.”

Voleva fare una battuta, ma a quelle parole lei si rallegrò. “Una governante? Davvero?”

“Se ti fa piacere.” Disse lui, anche se c’erano spiriti della casa che si curavano della sua villa quando necessario. “Ti chiedo scusa, per tutto questo tempo abbiamo parlato al buio. Accenderò le lanterne.”

Fece per accenderle, la scintilla di una fiamma che già si formava sulle sue dita, quando lei urlò: “NO! NON FARLO!”

Eros si bloccò. “Psiche?”

“Non puoi guardarmi.” Disse lei, disperata. “Ti prego. Non… mai. Se mi vedessi, non saresti così gentile con me. Voglio… voglio che tu sia gentile con me. Non accendere le lanterne.”

“Mai?” Domandò lui, e l’aveva già vista da lontano, conosceva il suo aspetto. Ma sembrava che fosse sul punto di piangere e pensò che dirle la verità in quel momento sarebbe stato crudele.

“Mai,” disse lei, “ti prego. Ti prego.”

Stare lontano da casa durante il giorno era poca cosa, considerato che il vulcano di suo padre era sempre aperto per lui, e vedeva abbastanza bene nel buio da non inciampare nei suoi stessi piedi. “Molto bene, Psiche. Se è ciò che desideri. Ci incontreremo solo al buio, e non vedrò mai il tuo volto.”

***

Psiche prese sul serio la sua proposta scherzosa di fargli da governante. Non aveva mai fatto le pulizie prima, ma aveva osservato come andavano fatte ed era semplice se non facile. La prima volta che le sue mani si riempirono di vesciche e si rovinarono non riuscì a smettere di sorridere per tutta la giornata. Passava i suoi giorni a pulire e all’inizio le prendeva tutta la giornata. Non era abituata, lenta, e si buttava a letto completamente esausta. Non aveva il tempo di rimuginare sulla vita che si era lasciata alle spalle o sul dolore sordo sotto lo sterno.

Era un lavoro duro ed era sempre affamata. Prima, non mangiava quasi niente e passava gran parte del giorno a dormire. Lì non lo faceva più, non poteva, e aveva più fame di quanta ne avesse da bambina. Ninfe portavano cibo alla casa, frutta e verdura, pane e formaggio e carne. Iniziò col preparare pasti semplici, ma quando diventò più veloce con le pulizie si sorprese a sperimentare. Cucinare era più difficile di pulire.

Il suo amico arrivava da lei la notte, scivolando nella sua camera. Sapeva sempre quando arrivava, anche quando dormiva profondamente, e si svegliava per parlare con lui. Psiche non scendeva mai dal letto e lui rimaneva sempre dall’altro lato della stanza. Lei si tirava a sedere e ascoltava la sua voce, le persone che aveva visto e le cose che aveva fatto. Anche lei gli raccontava la sua giornata, anche se all’inizio pensava che non gli sarebbe importato. A torto, perché le faceva domande e la lodava per come lucidava i pavimenti fino a farli brillare. Una notte, dopo che aveva fatto un grosso guaio, la prima cosa che le chiese fu: “Hai cercato di dare fuoco alla mia cucina, Psiche?”

Rideva, quindi lei gli lanciò un cuscino, soddisfatta dal suono sordo e ovattato per aver fatto centro, e lui rise ancora di più. “Se ci avessi provato ci sarei riuscita e tu avresti fatto ritorno a un cumulo di ceneri.”

“Allora sono grato per il tuo autocontrollo.” Disse, e lei gli tenne il muso anche se non la poteva vedere. “Cosa doveva essere quell’odore orribile?”

“Agnello.” Disse lei, sospirando. “Non credo di essere una buona cuoca.”

“Forse no. Perché non provi a fare qualcos’altro? Qualcosa che ti piace?” Le chiese.

Lei incrociò le gambe seduta sul letto e aggrottò la fronte. “Non saprei,” disse, infine, “sono una pessima artista e una cuoca ancora peggiore. Non ho occhio per il ricamo. Mi piace sapere cose, ma non amo imparare. Mi- mi piace pulire. Mi piace usare le mani.”

“Concentrati su ciò che ti piace. Cerca di fare qualcosa con le tue mani. Al giardino potrebbero giovare un po’ di attenzioni.” Le suggerì.

“Ma devo comunque mangiare,” sottolineò lei, “quindi tanto vale che impari a cucinare.”

Lui sbuffò col naso, divertito. “Risparmia sia te che la mia cucina. Non dovrai preoccupartene. Occupati invece della menta che sta soffocando i cespugli di rose.”

Non comprese ciò che intendeva se non il mattino dopo, quando si svegliò e trovò i pasti di un’intera giornata ad attenderla, già cotti e più squisiti di qualunque pietanza lei avesse mai cucinato. Lì accanto c’era un libro sul giardinaggio.

Per quello sì che era portata. Era il giardino di un dio, dunque era sempre stato bello, ma con le sue cure lo divenne ancora di più, rigoglioso e verde grazie alla sua dedizione. Piantò fiori che sbocciavano di notte e si illuminavano, cosicché il suo amico potesse attraversare il giardino e venire accolto da qualcosa che non dormiva ancora.

Le sue mani divennero callose e dure, e la terra le si annidò sotto le unghie. I capelli erano un groviglio di sudore e rovinati sulle punte, e la pelle le si era abbronzata a chiazze, con le braccia e la nuca più scure dello stomaco e delle cosce. Le spuntarono lentiggini nelle parti più impensate, sui polsi e le spalle, una vicina al centro dello sterno.

Non si era mai sentita così bella.

Ora Psiche era più forte. Il cibo e il duro lavoro le avevano riempito i fianchi e illuminato lo sguardo. Non crollava più a letto esausta la notte, ma rimaneva seduta ad aspettare che il suo amico le facesse visita, ascoltando attenta le sue avventure diurne e raccontandogli ciò che aveva fatto, delle nuove piante che cercava di far crescere e di come la siepe crescesse testarda ad altezze diverse.

“Le mie mani sono tutte rovinate.” Gli disse una notte, come un segreto.

Lui non capì. “Hai provato a massaggiarle con dell’olio?”

Lei rise e si alzò in piedi, con la sicurezza di conoscere la stanza abbastanza bene da non inciampare e cadere mentre camminava verso la sua voce. “No, è una bella cosa, non era mai successo prima. Vedi?”

Allungò la mano e lui urlò: “No! Non toccarmi-”

Troppo tardi, l’aveva già afferrato per un braccio alla cieca. Lo lasciò: “Scusa! Non lo sapevo-”

“Dobbiamo portarti da Hermes prima che l’ustione si aggravi.” Disse con urgenza.

Adesso era lei che non capiva. “Quale ustione?”

Lui si calmò. “Non ti sei fatta male?”

Lei saggiò la mano, confusa. “No. Avrei dovuto?”

“Io- si sono sempre fatti tutti male.” Disse.

“Io non sono tutti.” Disse lei con sicurezza, muovendo un altro passo più vicino. Gli prese di nuovo il braccio, cercando a tentoni la sua mano per poi tenerla nella sua. Lui si irrigidì, ma non si sottrasse. “Visto? Sto bene.”

Con cautela e molto, molto lentamente, le cinse la vita e la tirò a sé, al petto, e le premette le labbra sulla fronte. “Sono- sono così felice.”

Non si riferiva solo al fatto che non si fosse bruciata. In quel momento, Psiche sentì un moto di affetto per lui e lì, tra le sue braccia, si rese conto di una cosa. Lo amava, un uomo che non aveva mai visto e che non conosceva davvero. Era gentile e divertente e le aveva ridato una vita che non sapeva di aver perso. Non l’aveva mai toccata né desiderata, e anche ora che l’abbracciava non c’era niente di lascivo o che la metteva a disagio nel suo tocco.

Cosa che avrebbe potuto cambiare se l’avesse vista. Se avesse scoperto il suo aspetto, avrebbe potuto dimenticarsi del resto di lei, e perdere il suo affetto e rispetto l’avrebbe sicuramente uccisa come quella caduta dalla scogliera.

Ma lui non aveva bisogno di vederla né toccarla.

Si spostò in modo che lui sollevasse il capo, e raccolse il suo coraggio. Premette le labbra sulle sue, prima con leggerezza, poi con meno quando lui la ricambiò. “Vieni sul letto.” Gli disse, quando si separarono, inebriata da emozioni che non aveva mai provato prima.

“Ne sei sicura?” Chiese lui, la voce bassa.

Non era mai stata così sicura di qualcosa in tutta la sua vita.

“Sì.”

***

Quella era la sua vita, adesso. Occupava i giorni facendo pulizie e giardinaggio e le notti col suo amico, ora amante. Non le aveva mai detto il suo nome e lei non glielo voleva chiedere. Lui non la vedeva e lei non ne conosceva il nome. Era meglio così, le sembrava più giusto. Si addormentava tra le sue braccia ogni notte e lui se ne andava prima che lei si svegliasse, svanito prima che il primo raggio di sole filtrasse dalla finestra.

Lui la amava. Era palese, così incredibilmente palese che Psiche si vergognò di non averlo notato prima. L’aveva lasciata dormire nel suo letto prima ancora che iniziassero a dormire insieme, le aveva lasciato la sua casa senza chiedere nulla in cambio, l’aveva ascoltata e riso con lei. La amava e lei lo amava, ed era tempo che gli desse fiducia.

Era ancora sveglia quando arrivò, e lo accolse con un bacio. Lui notò quanto era tesa e si ritrasse. “Qualcosa non va?”

“Credo che sia ora che tu veda il mio volto.” Tremava e non riusciva a fermarsi. Lo amava ed era terrorizzata che il suo amore per lei cambiasse al vederla.

Si sedette sul letto e lui le si inginocchiò di fronte sul pavimento, tenendole le mani tra le sue. “Psiche, non devi se non vuoi. Tranquilla.”

Lei scosse il capo. “No. Ti amo e- e dovremmo stare insieme anche alla luce del giorno, il nostro amore è diventato troppo grande per essere contenuto in questa stanza.”

Le baciò il polso e disse: “Come desideri.”

Come avrebbe potuto vivere senza il suo amato? Sperava di non doverlo scoprire mai. Prese una lanterna e se la mise in grembo, accendendola con dita esperte. La stanza venne rischiarata da un tenue bagliore e lei chiuse gli occhi, in attesa.

Si sentì toccare un punto sullo sterno, poi la spalla, il collo, le guance, la punta del naso. “Hai le lentiggini,” disse lui, “mi piacciono.”

Aprì gli occhi. Il suo amato le sorrideva ed era stupendo, bello quanto lei, con occhi scuri e pelle ancora più scura. Ma soprattutto, la guardava come persona, con amore e affetto. Non come un qualcosa di indistinto e astruso, come invece molti altri facevano prima, come se fosse un oggetto o un’opera d’arte.

L’ondata di sollievo che provò fu così forte da lasciarla sfinita. Si accorse dell’errore un secondo dopo che la lanterna le sfuggì dalle mani, rovesciando olio bollente.

Il suo amore reagì più veloce di qualunque uomo mortale, spingendola via e afferrando la lanterna a una strana angolazione, e gran parte dell’olio bollente gli colò lungo le braccia e il petto. “No!” Urlò Psiche.

Lui guardò la sua pelle ricoperta di bolle, affascinato. “Non mi era mai successo prima d’ora.” Fece una smorfia di dolore e strinse le mani man mano che le ustioni si propagavano sul suo corpo, mentre la sua pelle si rompeva e sanguinava.

“Stenditi!” Urlò Psiche, afferrando le lenzuola e cercando di tamponare l’olio, tentando di fermarne il percorso. “Cosa pensavi di fare? Avresti dovuto lasciare che mi cadesse addosso!”

Lo stava bruciando più di quanto dell’olio bollente avrebbe fatto, e singhiozzava mentre cercava di impedirlo. “Non essere sciocca.” Disse lui, la voce fievole, e chiuse gli occhi. “Non permetterei mai che ti facessi del male.”

“No!” Lo afferrò per le spalle e lo scosse. “Svegliati! Devi svegliarti!”

Non le rispose. Psiche cercò di ricordare, affannata, quando pensava di averla bruciata quando si erano toccati la prima volta, la persona di cui diceva che avrebbero avuto bisogno. “ERMES!” Urlò. “ERMES! UN DIO HA BISOGNO DI TE!”

Ci fu un lampo di luce, e il dio messaggero e guaritore le comparve dinnanzi. “Eros.” Disse, chinandosi al suo fianco senza degnare Psiche di uno sguardo. “Che ti è successo?”

Gli toccò il petto e scomparvero entrambi.

Psiche rimase sola a piangere con un lenzuolo pregno di olio.

***

Ermes portò Eros dai suoi genitori, che lasciarono perdere qualunque altra cosa per stargli accanto. “Che è successo?” Chiese Efesto.

Ermes si concentrò sul contenere le ustioni prima che si espandessero ulteriormente. Si sarebbe preoccupato di guarirle più tardi. “Si è rovesciato dell’olio addosso.”

“È un dio,” sbottò Afrodite, “non c’è olio che possa ferirlo. E anche se fosse, non lo ridurrebbe così.”

Ermes rivolse loro un sorrisino. “Sembra che il tuo bambino si sia innamorato. Solo il vero amore potrebbe raffreddarlo abbastanza da bruciarlo, solo il vero amore potrebbe ferirlo così.”

Fu in quel momento che Eros rinvenne di soprassalto. Sollevò un braccio e Afrodite gli prese la mano. “Madre,” disse, gli occhi spalancati, “ti prego, va’ a casa mia, c’è una ragazza lì-”

“È stata lei a farti questo?” Gli domandò, minacciosa.

“È stato un incidente, l’ho spinta via, non sapevo che mi sarei bruciato.” Gemette per il dolore, poi strinse i denti per sopportarlo. “Madre, ti prego. Ti prego va’ da lei.”

Lei guardò Ermes, impegnato a miscelare un unguento. Non la guardò quando disse: “Tuo figlio starà bene. Mi prenderò cura delle ustioni.”

Efesto la guardò e annuì, secco. “Vai, starò io con lui.”

Afrodite non voleva lasciarlo, ma si arrese e fece ciò che le aveva chiesto suo figlio.

***

Arrivò giusto in tempo per fermare la mortale dal lanciarsi giù dal crinale. “Cosa pensi di fare?” Sbottò, e le ci volle un momento per capire che era la ragazza che aveva chiesto a Eros di aiutare tempo fa. Non era ciò che aveva in mente.

I suoi occhi arrossati e il volto madido di lacrime servirono a placare l’ira di Afrodite più di quanto avrebbero fatto le scuse che la ragazza le avrebbe potuto rifilare. “È morto,” singhiozzò, “lo amo ed è morto e non ho più alcuna ragione per vivere. La prego, mi lasci morire.”

Afrodite vide in lei la scintilla dell’amore e comprese che l’affetto della ragazza per suo figlio era sincero. “Non è morto,” esitò, e poi aggiunse, “non ancora.”

Il vero amore aveva fatto scoppiare guerre e lasciato chi toccava con nient’altro che polvere e rimorsi. Suo figlio si meritava più di questo. Un amore non doveva essere solo vero – doveva essere puro.

“Se vuoi che viva, dovrai aiutarmi.” Le disse.

Psiche le si prostrò ai piedi. “Qualunque cosa! Farò qualunque cosa!”

Afrodite la portò in un magazzino pieno di cereali misti. “Devi dividerli entro l’alba. L’orzo è fondamentale per un impacco che guarirà mio figlio. Sbrigati.”

***

Psiche guardò i cereali con disperazione. Ma il suo amore aveva bisogno di lei. Eros aveva bisogno di lei.

Si mise all’opera.

Metà della notte era già passata e non aveva neanche completato un decimo del lavoro. Era inutile, il suo amore sarebbe morto e non avrebbe potuto fare niente per impedirlo. Si arrese e prese a singhiozzare nel bel mezzo del magazzino, ma sentì un formicolio sulla mano. Abbassò lo sguardo e vide una piccola formica. “Perché piangi?” Le chiese la formica.

“Devo dividere questi cereali e non ce la faccio.” Disse, tirando su col naso. “Il mio amore ha bisogno dell’orzo per guarire.”

La formica ci pensò su. “Ti aiuterò,” disse, “e in cambio dovrai lasciarmi prendere tutti i fagioli di questo magazzino.”

“Non sono miei,” disse Psiche, a malincuore, “quindi non posso accettare il tuo aiuto.”

“Allora il tuo amato morirà.” Disse la formica, spietata, e se ne andò.

Guardò la montagna di cereali. Non se avrebbe potuto impedirlo.

Psiche si rimboccò le maniche e si rimise all’opera.

***

Afrodite tornò e Psiche stava ancora lavorando. Aveva separato tre quarti dei cereali, e Afrodite ne fu colpita. Pensava che non sarebbe riuscita a separarne neanche la metà. Era chiaro che la ragazza non aveva dormito e perfino ora non accennava a fermarsi. “Mia signora,” le disse, “non ho ancora finito.”

“Basterà.” Disse Afrodite, guardando la considerevole montagna di orzo. Fece apparire una bottiglia di vetro e gliela posò di fronte. “Per fermare la morte mentre prepariamo l’impacco, abbiamo bisogno dell’acqua del fiume Stige. Sgorga sulla cima del monte di mio figlio. Devi prendere quell’acqua e portarmela.”

Psiche incassò le spalle, ma non esitò quando prese la bottiglia di vetro. “Lo farò.”

***

Psiche chiamò il vento, supplicandolo di portarla sulla cima del monte. Se è ciò che desideri, disse. Si sentì sollevare in aria e venne portata lì. Era congelata ed era difficile respirare quell’aria gelida. Ai lati della fonte c’erano due draghi, che fecero scattare le fauci verso di lei. “Vi prego!” Li supplicò. “Ho bisogno dell’acqua del fiume Stige! Opero in nome di Afrodite.”

Quelli sibilarono e sputarono fuoco, e lei si aggrappò a una parete per evitare le fiamme. “Non sottostiamo agli ordini della Signora Afrodite,” disse una voce di bambina, e Psiche sollevò lo sguardo, notando una ragazza dalla pelle nera e i capelli grigi che la osservava a cavallo di uno dei draghi.

“La prego,” disse Psiche, “Signora Stige, mi conceda un po’ delle sue acque. Eros ne ha bisogno per vivere.”

Stige aggrottò le sopracciglia e disse: “Questa non è acqua che porta la vita.”

“La prego,” ripeté lei, “le giuro che nessun male verrà fatto in suo nome, le mie intenzioni sono buone.”

La dea bambina sospirò e disse: “Vieni a prenderle, dunque. Se le fiamme dei miei draghi ti attraverseranno, significa che dici il vero e potrai avere un po’ delle mie acque. Se menti, ti rivedrò negli Inferi.”

Psiche annuì e venne avanti, senza distogliere lo sguardo dalla dea bambina. I dragoni stridettero e le fiamme rombarono verso di lei e… la attraversarono. Raggiunse intoccata la cima del monte. Porse la bottiglia di vetro.

Stige rise e gliela riempì. “Buon viaggio.” Disse, prima di spingerla giù dal monte. Zefiro la prese a metà caduta e ci volle qualche secondo perché Psiche smettesse di gridare.

Zefiro la depositò a terra e Afrodite le apparve di fronte. Psiche le porse la bottiglia.

Afrodite la stappò e ne versò l’acqua a terra, e l’erba moriva dove questa cadeva. “È troppo tardi,” disse, e Psiche sentì il cuore in gola, “l’unica speranza è andare da Persefone e supplicarla per una scintilla di vita.” Fendette l’aria, facendo apparire un passaggio per gli Inferi. “Persefone non esaudirà mai una mia richiesta. Devi andare tu.”

Aveva a malapena finito di parlare che Psiche si era gettata nel portale.

***

Afrodite fissò il punto in cui prima stava la ragazza, colpita. Ermes apparve al suo fianco. “Tuo figlio sta bene e dorme.” Disse. “Non è un po’ troppo?”

“Mio figlio ha un cuore che non esita mai. Deve dimostrarsene degna.” Rispose Afrodite.

Ermes la fissò. “Intercederai presso Zeus per lei?”

“Se si dimostrerà degna.” Disse, poi guardò il punto in cui aveva versato le acque indicibilmente pericolose dello Stige. “Al momento, se la sta cavando bene.”

***

Psiche ruzzolò attraverso il portale e cadde in ginocchio. Il che si rivelò essere una fortuna perché era finita nella sala del trono del palazzo degli Inferi. E non solo c’era Persefone lì, ma anche Ade e un dio che immaginò essere Thanatos. Sia Persefone che Thanatos lanciarono sguardi assottigliati ad Ade, che lui ignorò. “Psiche,” disse, “ti stavamo aspettando.”

“Ma davvero?” Disse Persefone, secca.

Psiche si fece avanti finché non fu in ginocchio davanti a Persefone e premette la fronte sul pavimento di ossidiana. “Signora dea,” disse, “ti imploro per una scintilla di vita.”

Persefone si alzò dal suo trono e le girò intorno con passi lenti e misurati, il volto impassibile e severo. “Ho visto il tuo giardino,” disse, infine, “hai talento per le piante.”

“La ringrazio, mia Signora.” Disse.

Persefone si accucciò e le prese il mento, tirandola su per guardarla bene. “Ma tu guarda che carina che sei.” Mormorò. “Ti darò una scintilla di vita. In cambio, devi darmi la tua bellezza.”

“Prendetela,” supplicò Psiche, estasiata dal prezzo così basso, “non la voglio, non l’ho mai voluta. Ciò che voglio è Eros.”

La sua freddezza si sciolse e la dea della vita e della morte scosse il capo, un piccolo sorriso che le arricciava le labbra. “Ha scelto bene.” Disse.

Psiche non capì finché non si sentì un altro strappo nell’aria da cui uscì il suo amato. Sembrava in salute, vivo e vegeto. “Eros!” Urlò lei, scattando in piedi e dimenticandosi di essere al cospetto del re e della regina degli Inferi. Prima che potesse inginocchiarsi di nuovo, Eros le corse incontro e la prese tra le braccia, sollevandola e facendola girare con lui.

“Ero così preoccupato per te.” Disse, baciandola, e poi baciando le sue lacrime.

“Credevo che stessi per morire!” Disse lei, carezzandogli il petto e le spalle, e per poco non svenne per il sollievo di trovare la sua pelle intatta e senza bruciature.

Lui fece una smorfia e la baciò di nuovo. “Mia madre… Le avevo chiesto di aiutarti, non di metterti alla prova. Mi dispiace.”

“Dovresti esserle grato.” Disse Ade, e i due si girarono verso di lui. “Psiche ha dato prova di sé e Afrodite intende contestare Zeus cosicché lei possa stare al tuo fianco per l’eternità.” Sorrise. “Se Afrodite dovesse fallire, venite da me. Farò ciò che posso.”

Si inchinarono entrambi e sparirono il momento dopo.

***

Afrodite andò da Efesto. “Tu sei suo figlio, Zeus vorrebbe che la richiesta partisse da te.”

“Tu sei sua figlia.” Ribatté lui, mentre camminava senza posa.

Lei sospirò. “Sono nata dal suo sangue e da spuma di mare. Non è la stessa cosa e lo sai.”

Efesto annuì, riluttante. Nessuno di loro era tra i favoriti dell’Olimpo, quindi andò da chi lo era.

Ares lo guardò, pensieroso. “Dovresti chiederlo a nostra madre tu stesso. Nostro padre farà ciò che lei dice.”

“Era mi odia.” Sbottò Efesto. “Respingerebbe la richiesta di mio figlio se fossi io a presentarla.”

Ares afferrò il fratello per la nuca e lo tirò a sé finché le loro fronti non si toccarono. Un po’ della tensione che Efesto provava scemò. “Provaci, per me.” Disse Ares. “Se ti rifiuta, glielo chiederò io e non me lo negherà.”

Efesto si recò al Monte Olimpo quando non c’era Zeus e si inginocchiò di fronte a Era. Sollevò lo sguardo e non poté fare a meno di pensare che Ares aveva ragione: avevano i suoi occhi. Anche Eros aveva i suoi occhi. “Mio figlio si è innamorato di una mortale che desidera sposare. Ti chiedo di permetterle di diventare immortale.”

Era pronto a tutto, le spalle incassate. Alla sua risata, alla sua derisione, all’essere scagliato giù dall’Olimpo come quando era appena nato. “E questo ti renderebbe felice?” Domandò lei.

Sbatté le palpebre, la bocca aperta. Era forse un altro trucco crudele, costringerlo ad ammettere che era qualcosa che voleva solo per goderci di più a negargliela? “Sì.” Disse, perché era vero. Avrebbe reso Eros felice, e quando suo figlio era felice, lo era anche lui.

“Molto bene.” Disse Era, con freddezza. “Il matrimonio si terrà sull’Olimpo, e una volta scambiati i voti lei diventerà come noi.”

La fissò, impietrito per la sorpresa. Non si immaginava che sarebbe stato così facile. Non aveva mai sentito di qualcuno che avesse chiesto qualcosa da Era e che lo avesse ottenuto così, a parte Ares.

“C’è altro?” Domandò lei.

Efesto scosse il capo. “No, mia regina. Ti ringrazio.”

Scomparve prima che avesse il tempo di rispondere, prima che potesse cambiare idea.

***

Il matrimonio di Eros e Psiche fu l’evento del secolo. Si presentarono divinità maggiori e minori, perfino Ade venne convinto a lasciare il suo regno per partecipare.

Votarono la loro vita l’uno all’altra, ed Era officiò in quanto dea del matrimonio. Quando si furono giurati fedeltà, prese un piccolo boccone di ambrosia e imboccò Psiche. Lei lo inghiottì in due bocconi, e una volta finito brillò della sua nuova immortalità.

Eros prese Psiche e le fece fare un casquè.

Quando la baciò, il tripudio degli dèi fu così alto da provocare tempeste per tutta la terra.

 
 
Note dell'autrice: Spero che vi sia piaciuta!

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