Serie TV > La regina degli scacchi
Segui la storia  |       
Autore: acchiappanuvole    19/02/2021    1 recensioni
“Non sono tanto piccola dopotutto. A volte lo sembro anche a me stessa, mi guardo e rimpicciolisco ai miei occhi. Ma ora non ne sono sicura. Forse sono grande e sei tu a rimpicciolire.”
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Si impara a conoscere bene la gente viaggiandoci insieme e giocandoci a scacchi.
(Proverbio russo)
 
 
      Shah
 
Sotto la tettoia di lamiere adiacente lo stanzone dove gli operai erano soliti consumare il pranzo, Vasily se ne stava seduto raggomitolato accanto ad un tubo tranciato, con la neve sfregava una evidente bruciatura che percorreva in diagonale il palmo della mano sinistra. Distrattamente aveva poggiato la mano su un composto ancora rovente, la bolla violacea che si era creata gli impediva di chiudere la mano, la sensazione era che la pelle si strappasse ad ogni piccola pressione.
Un lieve spostamento d’aria accanto a lui gli rivelò la possente presenza di Povlov, con non poca fatica l’uomo gli si sedette accanto franando come un sacco di cemento a pochi centimetri da lui. Alzò il colbacco di pelo stinto che gli copriva completamente la fronte e con uno schiocco di lingua si rivolse a Vasily ancora intento a comprimere neve contro il palmo della mano.
“Fa vedere” e senza attendere risposta Povlov si portò la mano del ragazzino davanti agli occhi esaminandola per poi lasciarla ricadere con poca gentilezza. Si frugò nelle tasche facendone emergere quel che pareva un barattolo da pomata, una scatola in vetro cilindrico che aprì con fare abitudinario, “ecco mettici sopra questa.”
Vasily prese il vasetto portandoselo al naso, l’odore era forte e pungente, la consistenza pareva oleosa, ritrasse la testa all’indietro “che cos’è?”
“un rimedio zaichik, adesso spalmane un po’ sulla bruciatura e aspetta si asciughi, altrimenti ti resterà un bel segno, e in tutta onestà una bruciatura da lavoro non ha lo stesso onore di una bruciatura da battaglia.”
Vasily alzò le sopracciglia perplesso ma poco dopo obbedì, stringendo i denti e lasciando lacrimare gli occhi, rattrappì le dita forzando l’istinto di non serrare la mano o immergerla nuovamente nella neve.
“Bravo zaichick, vedo che sopporti bene il dolore.”
“Perché mi chiami così?”
“Perché?” Povlov fece finta di pensarci “ti si addice e poi se dovessi chiamare anche te compagno Borgov si creerebbe una certa confusione, non trovi? Oppure dovrei stare a dire compagno Borgov padre e compagno Borgov figlio. Uno spreco di parole e di tempo.”
“Ho un nome, mi chiamo Vasily”
“Come uno dei tre principi dell’uccello di fuoco”
Gli occhi del ragazzino si ravvivarono incuriositi “è un dramma?”
“Bah una favola più che altro, ci sono questi tre principi che devono catturare un grosso uccello dalla piume infuocate. Ma l’eroe è il principe Ivan, Vasily fa più che altro la figura del fesso, quindi non mi entusiasmerei troppo.”
“Mi piacerebbe conoscere questa favola”
“Sono sicuro che ti capiterà tra le mani prima o dopo, noi altri quando si parla di uccello di fuoco ci si riferisce ad altro che a pennuti incendiari, ma la situazione ti sarà più chiara da grande, caro il mio zaichik.”
“Tu come la conosci questa storia?”
“Ogni russo che si rispetti la conosce.”
Vasily si fece pensieroso.
“Allora un po’ di sollievo a quella mano?”
Vasily annuì “sì, grazie compagno Povlov.”
“Ad ogni modo non ti avvicinerai mai più ad una fornace. Sai contare e far calcoli?”
Vasily annuì dubbioso “perché?”
“Affiancherai il compagno Klika nel tener conto della produzione giornaliera, passerai in rassegna il magazzino ogni santo giorno riportando fino alla nausea tutto quello che ci finisce dentro.”
“Mio padre vuole che l’aiuti all’alto forno.”
Povlov trasse un profondo respiro “visto che ti piacciono le storie zaichick eccotene una, lo sai chi era lo Zar vero?”
Vasily annuì “era l’imperatore della Russia.”
Povlov fece un risolino grattandosi la guancia “bene, l’imperatore della Russia. L’ultimo si chiamava Nikolaj e vedi Nikolaj non era proprio nato per fare lo Zar, ma i reali hanno questa idiozia della discendenza, del potere dato da dio e stronzate varie per poi far la fine dei capponi, come quegli altri francesi. Comunque a Nikolaj non piaceva fare lo Zar, probabilmente sarebbe stato più adatto a fare il poeta o il giardiniere, aveva una passione per la letteratura e la potatura. Ironico non trovi?! Ma di prender decisioni giuste per il suo paese proprio non ne era in grado, così si affannava ad ascoltar mille voci diverse, a rincorrere le ambizioni di uno piuttosto che dell’altro ed il risultato” trasse un respiro quasi malinconico “era l’incapacità del ruolo che gli era stato affibbiato, perché dopotutto mica se lo era scelto.”
“Non poteva semplicemente rinunciare?!”
“Eh mai poi chi glielo spiegava all’altissimo? Sarebbe stato massimo disonore.”
Vasily parve riflettere, aveva visto qualche fotografia dello zar, un uomo senza particolare carisma e lo sguardo triste.
“Non capisco cosa c’entra con me”
“Beh pure a tuo padre parrebbe di andare contro il volere della falce e martello se non ti ingabbiasse a guadagnarti il pane in questa acciaieria ai confini del mondo, ma tu” e gli prese nuovamente la mano “guarda? Vedi questa sarà solo una delle tante cicatrici che avrai, a sedici anni le tue mani saranno due moncherini sformarti. E così come lo zar  sarebbe dovuto esser poeta forse tu sei destinato a far altro, zaichick. E in più dalla tua hai il vantaggio di non essere un coglione.”
Vasily zi alzò in piedi, spolverò con una mano i residui di neve del cappotto “credo sia meglio torni al lavoro.”
“Sai da cosa nasce il nome degli scacchi?” e dopo averlo detto Povlov fu ben soddisfatto di veder quegli occhietti chiari ancora colmi di curiosità.
“Da una parola francese” rispose Vasily
“Eh no zaichik! Da quale libriciattolo lo hai letto?”
E per tutta risposta Vasily tornò a sedersi accanto all’orso bonario.
“Deriva dalla parola shah che significa re. E’ una parola persiana o qualcosa del genere.”
“Il re è un pezzo importante degli scacchi…” mormorò Vasily
“Ah a ben guardare il re è appunto il signore degli scacchi, e quindi zaichick tu che vuoi essere? Un re o un operaio? Come ti dicevo c’è gente che nasce per essere una cosa e chi per essere un’altra, la strada difficile è seguire il percorso che ci porterà a capire quella cosa e come realizzarla. Se io alla tua età avessi avuto il tuo talento adesso non me ne starei qui.”
“Ma forse ne avevi un altro, compagno Povlov.”
Povlov pensò alla sua abilità di combattente, la precisione della mira del suo fucile, la resistenza fisica che lo aveva fatto sopravvivere fino a quel momento. Eppure quello era stato un genere di talento che era stato grato di abbandonare.
“Forse zaichik, e come vedi a non averlo coltivato ora sono un vecchio della tundra che tirerà le cuoia seduto in qualche latrina” rise ma di una risata priva di reale ironia “ a ciascuno il suo zaichik. Vedrai che pure tuo padre capirà presto cosa gli converrà fare con te, il problema è che certi uomini sono più lenti di altri.”
“Tu non sei sempre stato operaio, vero compagno? Conosci tante cose, cose che solitamente la gente qui dentro non sa.”
“Frena l’altezzosità marmocchio, qui dentro c’è gente che di cose ne sa parecchie, ma la lingua non è utile a manovrar l’acciaio. Ed ora sì torna al lavoro e sta lontano dalle fornaci.”
 
 
Poco prima che il sole divenisse una linea rossastra sull’orizzonte della sera, Lyubim fu convocato da uno dei compagni più anziani, Vasily lo spiò ascoltare l’uomo che tra una parola e l’altra agitava le mani, poté chiaramente distinguere il viso di suo padre cambiare colore, un pallore improvviso. Si mosse nervosamente nella sua direzione, “andiamo” disse soltanto camminando così velocemente che Vasily dovette correre per stargli dietro.
“Papà cosa è successo?”
“taci e cammina” sussurrò.
 
Sua madre era tornata con il treno dello 17.00 con due ore d’anticipo rispetto al solito, durante il giorno infatti prestava servizio in diverse case vicine al centro città, si occupava delle faccende, del bucato, di rammendare. Era stramazzata sul marciapiedi appena fuori la stazione di Rostokino, una donna che la conosceva l’aveva caricata su di un carretto con l’aiuto del nipote conducendola all’infermeria del popolo, un edificio non poco distante dai binari ferroviari. C’era un ospedale più grande a Rostokino ma non era cosa immediata l’essere ammessi.
“Hanno i posti saturi c’è il rischio che la lascino crepare sulla strada” disse la donna mentre incitava il nipote, appena tredicenne, a farsi carico di Kalisa per portarla fin dentro le porte dell’infermeria. Lì un uomo dal camice latteo aveva chiesto cosa fosse successo, ma non ci volle molto a comprendere poiché sotto il cappotto la gonna di Kalisa era completamente impregnata di sangue. Il medico si fece raggiungere da un’infermiera, non c’era molto tempo e le speranze di successo in quelle condizioni erano scarse.
Quando Lyubim e Vasily arrivano all’infermeria Kalisa era cosciente, c’era una foto di Stalin sopra il suo letto ed un’altra sulla parete opposta, il letto era corto tanto che la donna sembrava starci a stento, immersa tra coperte pareva una bambina. Vasily guardò sua madre, aveva la pelle bianca e tesa sulle ossa, le mani erano posate sulla coperta, respirava lentamente, fuori la neve aveva ricominciato a cadere.
“Un bel giardino di ciliegi, Vasily. Se dio esistesse ora tuo fratello dovrebbe stare in un bel giardino di ciliegi, come quello di cui mi leggi ogni sera. Mi sarebbe bastato qualche rublo in più e avrei potuto andare da un bravo dottore, tutto questo non sarebbe accaduto. No, non sarebbe accaduto.”  Non c’era alcuna inflessione particolare nella voce della donna, parlava in maniera così apatica e spenta che Vasily fu preso dall’impulso di saltare sul letto e scuoterla poiché quella voce non era la voce che conosceva, non era la voce di sua madre.
Lyubim si era intrattenuto a parlare con l’infermiera, una donna corpulenta con gli occhi cerchiati da profonde occhiaie, era stata pratica e solerte a spiegare quanto avvenuto, un aborto forse a causa del freddo, la fatica, qualcosa di pregresso, cose che possono capitare si era affrettata a dire prima di lasciare l’uomo solo sulla soglia della stanza indeciso sul da farsi. Per un istante Lyubim si risentì bambino, l’ultimo di sei fratelli, nascosto sotto il tavolo d’assi di legno dove era stata posta la bara del fratello maggiore Aleksej. Protetto dalle falde della tovaglia dal corpo morto e nuovo di suo fratello, la grande promessa della famiglia, la luce elettrizzante di una casa illuminata da candele. Aleksej Borgov, bravo ragazzo, fisico atletico, buoni voti a scuola, un piccolo re candidato a risollevare le sorti di una famiglia della buona borghesia caduta in disgrazia. Piangevano le donne venute apposta per piangere, e il suono dei loro lamenti era come il canto mortale delle sirene. Lyubim in quel ricordo color seppia ha undici anni ed è negato nello sport, basso di statura, un corpo tozzo. Così diverso da Aleksej. Aleksej che dei sei era il preferito di sua madre, sua madre ritirata nelle sue stanze, con finestre e tende chiuse per non vedere, non sentire nessuno.  Non lascerà il letto nemmeno per deporre un ultimo bacio sulle labbra sempre più azzurre del suo principe preferito. Aleksej il primo genito morto alla vigilia del suo diciassettesimo compleanno in un incidente con la slitta, su una lastra ghiacciata. L’avevano riportato a casa a bordo di quella stessa slitta trainata da un mulo, morto e esteriormente quasi intatto, ma con il collo spezzato e le ossa sparpagliate come per opera di uno di quei turbini di vento e foglie secche che scendono in picchiata per i dirupi siberiani.  Era stato sul far della sera, ricondotto a casa dagli uomini appena usciti dalle filande coperti dal rosso, dal verde e dall’ocra degli enormi barili di tintura. Agli occhi di un bambino era parsa una parata colorata, una processione di aiutanti della Baba jaga.* Lyubim era uscito sull’uscio nascosto dietro le gonne delle sue sorelle, la slitta che solenne  ferma davanti la porta della casa, e suo fratello adagiato su di una coperta rossa come una marionetta alla quale abbiano rubato i fili, Lyubim  corre sotto il tavolo per non vedere sua madre gridare. Se c’è qualcosa di più terribile di un grido è vedere da dove viene, quel grido: le grida trasformano le persone, ne fanno qualcosa di nuovo e terribile e Lyubim non riconosce sua madre fulminata dal lampo del grido. I vetri tremano, fuori un cane abbaia, e qualcun altro grida perché le grida isolate trovano sempre altre grida a cui agganciarsi. Il padre di Lyubim ordina alle figlie di portare la donna nella sua stanza, e nei giorni seguenti e in quelli a venire la casa rimarrà come sospesa nell’aria, ferma in un tempo che non avanza, come se il grido di Olga Borgov avesse alterato per sempre i meccanismi del tempo e dello spazio.
“Papà?”
Lyubim riprese a respirare come se quel richiamo lo avesse fatto riemergere da una lunga apnea, ancora fermo sulla porta fissava il viso di sua moglie, rigida e muta, una mano che di tanto in tanto tastava il grembo alla ricerca di qualcosa che non c’era più.  Lyubim trovò il coraggio di avanzare, ed un passo alla volta la paura di ritrovare sul viso di Kalisa il riflesso di Olga. Ma no, Kalisa si riprenderà, se ne convince poiché Kalisa ha già sofferto, ha già conosciuto la perdita, è una donna che non molla il timone neanche per un minuto, occhi inchiodati sull’orizzonte a cercare la terra ferma.  Lyubim convince se stesso, pianterà un albero accanto alla riva dello Jauza, lo chiamerà con il nome che Kalisa voleva dare a quel loro bambino, un bambino senza volto.
“Non si sente la mancanza o non la si sente troppo di quel che non si è conosciuto e non si è nemmeno riusciti a capire.” borbottò raggiungendo il letto della donna, e in quel momento gli occhi di Kalisa brillarono di un lampo rancoroso, come se una scarica l’avesse attraversata da capo a piedi, ma stavolta Lyubim non aveva tavoli sotto i quali nascondersi.
Vasily arretrò a sua volta spaventato e fu solo allora che sua madre sporgendosi dal letto gli afferrò il braccio tirandolo verso di lei con tale irruenza che il bambino si sbilanciò in avanti rischiando di cadere. Kalisa non parlò ma seguitò a stringergli il braccio e a fissarlo in modo tale che Vasily dovette fare uno sforzo immane per non scoppiare in lacrime.  Sembrava pretendesse da lui una promessa, una promessa che in quell’istante Vasily non era in grado di comprendere.
 
Note:
*Shah : l’origine del nome degli scacchi proviene dalla parola persiana Shah che significa RE. In Persia il famoso “scacco matto” viene tradotto come Shah Mat ovvero Re sconfitto, morto
*Baba Jaga è un personaggio folkloristico russo, una sorta di strega raffigurata a volare a cavallo di un grosso mortaio o di un bastone che usavano nelle filande per miscelare i colori. Baba è vista sia come entità maligna in quanto divoratrice di bambini e portatrice di sventura  sia come dispensatrice di saggi consigli  a seconda delle circostanze. Ha una casa nel fitto nel bosco che si rivela agli occhi degli esseri umani solo se questi conoscono la formula magica con cui evocarla. La sua figura ispirò i fratelli Grimm per la fiaba di Hansel e Gretel.
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > La regina degli scacchi / Vai alla pagina dell'autore: acchiappanuvole