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Autore: Moonfire2394    19/02/2021    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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AVVISO PER I LETTORI: Ciao a tutti! Volevo avvertirvi che, tecnicamente, questo sarà l'ultimo capitolo della fanfiction, ma non la fine di questo viaggio. Questo perchè manca all'appello il PROLOGO che chiuderà la storia. Vi consiglio, ovviamente, di non perderlo perchè sarà ricco di rivelazioni! Quindi ci rivediamo per il Prologo e gli ultimi saluti. Godetevi la lettura, a presto!
 

LASCIA CHE PRENDA IL TUO DOLORE

Il tronco si smembrò in una pioggia di legname e foglie poco prima che impattasse su di loro. Milioni di minuscoli pezzetti di corteccia restarono sospesi in aria, ruotando su se stessi. Le dita della medjai si contrassero e tagliò i fili invisibili che li mantenevano in orbita. I resti della vecchia quercia si mescolarono col fango e la neve sciolta. La creatura fece ardere le sue braci su di lei e caricò protendendosi in avanti, spazzando via nella foga della ricorsa chi intralciava il suo cammino. Ogni passo scuoteva la terra sotto di loro e sbuffi di vapore acqueo si attorcigliavano attorno al suo corpo colossale avvolto da un calore perenne.  Dalle fenditure dei massi che lo componevano, sbucavano fuori spruzzi d’aria roventi che liquefacevano la neve. Le sue impronte lasciavano  dietro di sé pozzanghere larghe quanto piscine, dentro cui galleggiavano i cadaveri di quella strage. La loro superficie, tinta di rosso, s’increspava in risposta ad ogni scossa di terremoto.
Era folle di rabbia e famelico di distruzione. L’antico urlava e la lava zampillava dalla sua bocca spalancata, sostituendosi al cratere del vulcano. E quando terminava di vomitargli addosso il magma, soffiava su di loro raffiche di vento che ustionavano la pelle, mentre comandava al fiume di affogarli, avvolgendoli nelle spire dei suoi tentacoli acquosi. Nugoli fumosi s’innalzavano dal bosco languente, divorato dalle fiamme che inghiottivano le chiome degli alberi. Leona non voleva ascoltare i gemiti disperati delle creature intrappolate fra quelle mura di fuoco.  Non voleva il peso di tutte quelle vite sulla sua coscienza.
Si paralizzò. Cosa poteva lei contro le forze della natura stessa? Come poteva anche osare pensare di placare la furia degli elementi a cui l’uomo aveva recato offesa? Lo stesso uomo, tanto inorgoglito da credersi un dio, che aveva dato vita alla più abborrente delle creature soltanto per poter sfiorare i confini dell’invincibilità e assaggiare i contorni dell’onnipotenza. Era quella la loro giusta punizione? Le urla di dolore del suo popolo non le rendevano più semplice accettare quel verdetto. Mentre cercava di contenere gli attacchi della creatura insieme al fratello, al massimo delle loro capacità, si rese conto, riportando alla memoria le predizioni di Odetta, che dopotutto quella conclusione era inevitabile. Non poteva esserci perdono per chi calpestava così impunemente le leggi della creazione e per chi spezzava l’equilibrio naturale. E loro, poveri sciocchi, che si contendevano la supremazia di un fazzoletto di terra che di certo non avrebbe mai potuto riscattare il prezzo di tutti quei morti!
Schivando una raffica di pietre, Leona cercò di captare, con scarsi risultati, le urla confuse di Morgana che morivano fra gli ululati del vento. Le giungevano solo sillabe incomprensibili e spezzoni di frasi a cui non riusciva ad attribuire un senso compiuto. Non si trovava esattamente a portata di udito. Richiamò l’akasha dentro di sé e si protese verso l’anima della amica, agganciandosi saldamente.
Dicevi?, le disse quando ebbe stabilito una solida connessione con la sua mente.
Morgana si accovacciò per terra con le mani sopra la testa, evitando di essere incenerita dai tizzoni che straripavano dalle mani del distruttore.
«Leona? Sei nella mia testa o sono i primi sintomi della schizofrenia?» Domandò lei, guardandosi attorno in cerca dell’amica.
«Uno, due, tre, prova…» commentò la medjai sbuffando d’impazienza.
«Ehi, guarda che ti sento!».
«Bene! Allora rispondi alla mia domanda e alla svelta! Non posso mantenere la connessione così a lungo».
«Mi stavo chiedendo chi fosse l’immolato».
«L’immolato? Di cosa stai parlando?», le domandò Leona, lanciando schegge di ghiaccio ai piedi del mostro. L’ennesima scossa fece barcollare Morgana. La ragazza saltò appena un secondo prima che le si spalancasse una voragine sotto di lei. Il cuore di Leona le era schizzato in gola.
«Lo vedi il bel ragazzone a cui stai cercando di fargli venire i geloni alle dita dei piedi? Be’, ho l’onore di presentarti l’Antico».
«Giusto, perché le leggende non restano mai delle stracazzo di leggende…Il tizio se non ricordo male doveva avere il sonno pesante! Mi spieghi allora perché è qui? Non erano sufficienti le nostre disgrazie?» se ne lamentò Leona.
«È imparentato con te, dovresti dirmelo tu!», protestò Morgana.
«Sai com’è, ultimamente ci siamo persi di vista…ehi! Stai insinuando un somiglianza con quella COSA?»
«Qualcuno deve aver stuzzicato il suo appetito», la ignorò la protettrice, mordicchiandosi la punta di una delle sue trecce. Era un gesto che solitamente riusciva a sedare i suoi nervi. «Dio, avranno sacrificato un centinaio di protettori…chi può aver mai fatto una cosa del genere?».
Leona digrignò i denti per la rabbia e il suo sguardo vagò involontariamente in cerca del maledetto Sire dei suoi incubi.
«Oh, credo di conoscere qualcuno che continuerebbe a dormire su dieci guanciali con un genocidio di massa sulla coscienza. Prima hai nominato un’immolato…cosa ha a che fare con tutto questo?».
«Oltre ai cento sacrifici, la leggenda vuole che il risveglio dell’antico avvenga solo con un corpo pronto ad accoglierlo volontariamente».
«Quindi stai dicendo che…».
«Sì, Leona. Qualcuno è finito nella fossa dell’antico perché lo voleva, qualcuno del campo Betelgeuse. Qualcuno dei nostri compagni…Leona dove stai…?»
«Mi è venuta un’idea» la interruppe la medjai.
«Oh, dannazione! ti farai ammazzare!».
«Mi assicurerò che non sia oggi quel giorno, ok?» le disse prima di chiudere la comunicazione mentale con la protettrice.  
Leona lasciò le redini al fratello con un cenno del capo e pregò che il piano che aveva imbastito in quattro e quattr’otto riuscisse a tirarli fuori da quel fossato senza via d’uscita. Protettori, abomini, vampiri e le poche fate rimaste si mescolavano fra loro come un minestrone di verdure miste, galleggianti sulla superficie della brodaglia. La comune minaccia che giganteggiava su tutti loro appianava qualsiasi distinzione razziale o rivalità preesistente. Affluirono verso il lago-portale persino i più immeritevoli di guadagnare la libertà, fino a quando l’Antico non sbarrò loro la via con un enorme masso, franato dalla rupe che terminava sullo strapiombo. Leona si confuse in mezzo a loro, in cerca dell’uomo che le aveva dato il tormento da quando aveva messo piede a Betelgeuse. La fascia da Sire gli pendeva dalla spalla, unta di sangue e  di ogni sorta di sporcizia ma comunque riconoscibile. La medjai attivò l’Akasha e, seppur ripugnata dall’idea, sgattaiolò dentro di lui. Lo costrinse a gettarsi di lato per non essere travolto dalla folla urlante, e lo seguì al limitare delle propaggini boschive non ancora divorate dal fuoco. Per sicurezza materializzò del ghiaccio ai piedi dell’uomo, paralizzandogli le gambe.
«Dannata…» sputò il Sire, guardandosi inorridito le sue nuove calzature glaciali.
«Non c’è tempo per smancerie. Dimmi chi è l’immolato o giuro che il ghiaccio invaderà parti del tuo corpo che nemmeno oseresti immaginare!».
«Sei una sadica! Ti diverte così tanto giocare con i tuoi poteri, tanto da voler anticipare la mia condanna? Ho commesso un errore, è chiaro, ma sfogare la tua vendetta su di me non ti sarà di grande aiuto con quel mostro».
«Quel mostro» sibilò la ragazza, schiumando di rabbia «prima era un protettore a cui tu hai manipolato il cervello esattamente come hai fatto con tuo figlio. Dammi quel nome, e vedrò di addolcirti la pena se riusciremo a sopravvivere».
La risata roca dell’uomo deturpato dalle ustioni non fece bene ai nervi tesi della protettrice che invece trovava sempre più allettante l’idea di avvicinare una kopis alla sua gola per metterlo a tacere una volta per tutte «È quel povero imbecille di Valerio, non so bene di cosa potresti fartene di quest’informazione, il ragazzo è perd…» il resto della frase si perse nel fruscio della frustata che la protettrice gli assestò in bocca, piegando al suo volere il ramo di un abete.
«Sono anni che desideravo farlo» lo motteggiò la ragazza piazzando i pugni sui fianchi con fare derisorio. «Lo sapevo che era lui» borbottò poi fra sé. A quella conferma, l’idea che si era appena abbozzata nella sua mente divenne sempre più concreta.
 Qualcuno cacciò un urlo soffocato alle sue spalle e interruppe le sue macchinazioni. La protettrice si voltò all’unisono con le sue spade e lanciò uno sguardo infuocato a colei che stava per aggredirla slealmente. Sara si dibatteva fra le braccia del fratello, gorgogliando di rabbia. Il ragazzo riuscì a suggerirle «Il polso!» prima che i canini del metavampiro gli penetrassero dentro la carne. Fabiano  chiuse gli occhi e represse un grido, ma non sciolse il capestro umano che aveva avvolto attorno alla gola della sua amata sorella, nonostante i gomiti di lei continuassero a conficcarsi in mezzo alle sue costole. I loro pensieri erano un tutt’uno, il ragazzo era stato messo a parte del suo improbabile piano nello stesso instante in cui si era affacciato nella sua mente caotica. E così le aveva concesso un’opportunità che non si sarebbe ripetuta facilmente. Leona afferrò il polso di Sara senza pensarci, torcendoglielo verso l’esterno. L’incantesimo prese a sbrigliarsi sotto il suo tocco, agitandosi furiosamente sotto la pelle cinerea dell’abominio. Fu più potente di qualsiasi altro linckage in cui si fosse imbattuta, le opponeva resistenza e si rifiutava di abbandonare l’ospite portentosa che l’aveva accolto sotto coercizione. Sostenuta dai penetranti occhi azzurri del protettore che la supplicavano di non mollare, Leona strinse con più decisione la morsa, richiamando a sé quel pastrano oscuro e velenoso che aveva privato i suoi fratelli della loro identità di difensori. Il dolore non tardò ad arrivare. Fu talmente intenso che per un attimo desiderò di essere morta. Ma scacciò subito quel pensiero. Fabiano era connesso a lei tramite l’Akasha, e se avesse percepito quel suo disperato desiderio se ne sarebbe rattristato. Le sue urla e quelle di Sara s’innalzarono in un coro indistinguibile di voci agonizzanti. Attese che le fitte si affievolissero, ma constatando l’invariabilità di quelle spasmodiche sofferenze, si sforzò di racchiuderle in un bozzolo, tenendole il più possibile lontane da quella realtà già di per sé disastrosa. Fu ben più difficile però nascondere a Fabiano le macchie scure giunte oltre la metà del suo avambraccio. Il protettore deglutì vistosamente alla vista di quel cancro oleoso e putrescente che le aveva annerito l’arto sinistro mentre la sorella si accasciava sfinita contro di lui. Infatti, non incrociò più il suo sguardo, e si concentrò a soccorrere una Sara ansimante in preda ai deliri.
La ragazza provò un profondo disagio di fronte alla sua ostentata indifferenza e decise di spezzare il silenzio «Il morso…».
«Non c’era veleno» tagliò corto lui, scostando con dolcezza i capelli dalla fronte di sua sorella. Le palpebre di Sara tremarono per lo sforzo di sollevarsi, i suoi respiri divenivano sempre meno sofferti ed affannosi. Si aggrappò alla cappa di Fabiano gracchiando «Dove…mi trovo?». Fabiano invece di soddisfare la sua curiosità, la abbracciò ancora più forte e pianse silenziosamente con le labbra posate sul suo capo. Ripresa dall’intontimento, cominciò a prendere coscienza di ciò che la circondava. Scattò in avanti liberandosi del cure amorevoli del ragazzo e Leona l’afferrò prima che inciampasse su di lei. Le due si scrutarono guardinghe per un lungo istante, incerte sulla reazione dell’una e dell’altra.
«Io mi…mi dispiace, io non capisco…non so…» le disse inchiodandola con gli stessi occhi azzurri che lei aveva sempre amato « …Perché ti voleva morta?». Leona le sorrise e l’aiutò a rimettersi in piedi, certa che il peggio fosse passato.
«Chi…sei tu?» le domandò ancora.
La risposta le morì in gola. Il dolore alla mano le aveva sigillato le labbra. Fu un'altra voce a chiarire i dubbi dell’ex abominio «Be’…» esordì un Fabiano incapace di tacerle l’imbarazzo «avrei voluto presentartela in circostanze diverse ma…lei è Leona» disse come se tutto il suo orgoglio fosse racchiuso nel nome della medjai «La mia ragazza». Leona non capì se quei tremori fossero tutta opera del terremoto o delle sue gambe ballerine che si rifiutavano di stare ferme.
«Fabiano?...Fabiano?...Oh mio Dio…oh mio dio…il mio fratellino, il mio bambino…» balbettò gettandosi su di lui, soffocandolo nel suo abbraccio fra risate e singhiozzi. Seguirono una cascata di scuse mormorate nell’incavo del collo del ragazzo inframezzate da un nitrito sospetto. Leona puntò lo sguardo in quel vaporoso ammasso soffocante di nuvole grigie e vide chiaramente qualcosa insinuarsi in mezzo, spezzando la continuità di quella cappa cinerea.
«Ma quello è un cavallo alato!» urlò sgomenta Sara, strabuzzando gli occhi per scacciar via quell’illusione. La cavalla bianca volteggiava impavida sopra la testa dell’Antico, sfuggendo con l’agilità di una mosca ai suoi attacchi rallentati dalla stazza colossale. Leona non intuì subito il perché Edna avesse scelto proprio quella forma per tormentare il mostro della montagna con tutte le creature possibili in cui si sarebbe potuta trasformare, perlomeno di egual taglia. Quando scorse il piccolo cavaliere che le montava sulla groppa, ancorata tenacemente alle crine canute del pegaso, si sciolsero tutti i suoi dubbi e ancora di più nel momento in cui la bambina aprì la bocca per urlare. Il boato non fu potente come quello che aveva messo in ginocchio il sobborgo di Londra, ma comunque sufficiente a far barcollare l’antica creatura. Gli attacchi sonori della banshee erano ondate sferzanti che scalfivano le rocce dell’Antico e si spandevano a valle, propagandosi in tutte le direzione. Hilde padroneggiava alacremente il suo dono contro il nemico, permettendo a suo fratello Gabriel di rispondere agli attacchi magmatici della creatura con scudi d’acqua sottratti al fiume.  
Leona non immaginava cosa avesse spinto Valerio a sacrificare tutto ciò che aveva, ma poteva sperare che dentro quell’enorme ammasso di rocce fosse rimasto ancora un briciolo della sua coscienza, della sua vera essenza ed era quella a cui si sarebbe appellata. Aveva già provato a connettersi a lui. E niente da fare, si supponeva essere morto oppure che fosse ben schermato dentro la corazza vulcanica dell’Antico, rendendo inaccessibili i suoi poteri all’interno. Ma se aveva ragione, e le due coscienze non si erano fuse completamente, avrebbe potuto farlo riaffiorare in superficie quanto bastava per distrarlo e a quel punto tentare il tutto per tutto per abbatterlo. Non vedeva altre possibili conclusioni per lui e anche se le straziava il cuore, lui aveva compiuto la sua scelta e lei l’avrebbe rispettata.
«Ok, Sara, ascoltami bene. So che non condividiamo degli ottimi ricordi  e che ognuno dei nostri incontri si è risolto con noi due che cercavamo di farci fuori a vicenda, ma adesso ho bisogno del tuo aiuto».
«No, Sara, piccola mia, non dare retta a quella megera!» la incalzò il Sire, immobilizzato ancora  nel suo piedistallo di ghiaccio.
«Padre…» sbiascicò lei con occhi lucidi.
«Suo Clementissimo…» cominciò Leona stancatamente «potrebbe gentilmente, se le aggrada e con il suo permesso, tenere chiusa quella fottutissima fabbrica di veleno che si ritrova per bocca solo per cinque minuti?». La medjai ruotò il polso e fece scendere lo stesso ramo di poco prima sulla testa del Sire per avvolgergliela e tappargli la bocca. I suoi improperi diventarono incomprensibili.
«Che cosa hai fatto?» sbottò la figlia.
«Se la caverà. Purtroppo lo fa sempre…ma non c’è tempo per questo, concentrati su di me. Devo chiederti qualcosa che potrebbe mettere a rischio la tua vita…».
«Be’…» la rimbeccò lei «È il minimo che posso fare dopo tutto il male che ho causato. E poi sono in debito con te mi sembra di capire…Sono pronta a tutto».
«Brava ragazza» approvò Leona «ti piacerebbe rincontrare la tua vecchia fiamma? Ti avverto potrebbe essere un tantino cambiato dall’ultima volta che vi siete visti, sai com’è gli uomini sono quelli che ne escono maggiormente sconfitti quando una relazione finisce, e il tuo Valerio credo che fosse più disperato di quello che pensavamo. È una storia piuttosto complicata ma per riassumertela in breve, l’Antico è Valerio, e Valerio è l’Antico…».
«Aspetta un attimo, cosa ne sai tu di Valerio?» disse facendo oscillare un’occhiataccia furente dal mostro a lei come la stesse prendendo per pazza.
«Senti è stato lui a confessarmelo ed è ancora innamorato di te. Portava persino sempre con sé una tua foto che riponeva all’interno del suo diario. Una cosa dolce no?».
Sara inarcò un sopracciglio e tirò su col naso indignata «Qualunque cosa tu abbia sentito, mi sembra che si sia dimenticato di aggiornarti sul piccolo particolare che non sono stata io a lasciarlo…mi aveva detto chiaramente che desiderava qualcosa di meglio per lui, che io non ero abbastanza…che non provava più nulla».
«E tu gli hai creduto? Per la barba di Majak ma allora il linckage deve averti inceppato i fusibili del cervello. Ti sei vista? Chi è il folle che guarderebbe altrove quando ci sei tu nei paraggi? Fidati di me quando ti dico che il nostro Valerio avrà avuto buone motivazione per allontanarti…» disse soffermandosi con disgusto sul Sire che non aveva ancora smesso di agitarsi «questo non cambia ciò che prova per te. Non vedi come i sensi di colpa lo hanno portato persino ad accettare che trasformarsi in un mostro apocalittico fosse una buona idea?».
«Non è mai stato giudizioso» la informò lei accennando un sorriso.
«Vero» confermò arrendevole Leona «ciò non toglie che abbia più palle dell’intero battaglione della squadra anti-vampiro messi insieme e non merita di essere ricordato come il mostro che ha distrutto Betelgeuse, non posso accettarlo. Mi è stato vicino nei miei momenti più bui. Io non ho mai tradito i miei amici e non ho intenzione di cominciare oggi».
Sara guardò un’ultima volta il gigante che seminava distruzione come se cercasse di sondare dentro di lui  per riuscire a convincersi che il suo Valerio fosse ancora lì «Che cosa volete che faccia?» domandò più a suo fratello che a lei con un sospiro.
«Tu dovrai solo parlargli. Al resto ci penseranno Leona e suo fratello. Ti proteggeranno come meglio potranno, fidati di loro. Non potresti trovarti in mani migliori» disse Fabiano.
Lei annuì e gli sorrise amabilmente «Per la barba di Mayak, dov’è finito il bambino dei miei ricordi? D’accordo. Facciamolo».
*********
«Valerio!» lo chiamò Sara sbracciandosi come una naufraga su un’isola deserta «Valerio!».
Improvvisamente il vento si placò e tutto piombò in un inquietante silenzio. La terra ritornò alla sua quieta immobilità. Il crepitio dell’incendio divenne più chiaro, una nuvola di cenere ammantò l’intero campo, mentre il fiume riprese a scorrere solerte come se nulla fosse accaduto. L’odore di legna bruciata impregnava l’aria e ricordò a Leona, con dovizia di particolari, il giorno più brutto della sua vita. Si strappò con violenza al suo truce passato e tentò di convincere le fiamme a ritirarsi dai boschi, ignorando la vita che aveva portato via con sé, abbandonandola in cumoli indistinguibili di carbone fumante.
«Valerio» ripeté per la terza volta Sara. L’Antico si mosse con estrema lentezza, incantato e stordito da quella voce. Gli sbuffi di vapore che si attorcigliavano attorno a lui divennero più sottili e permisero di scorgere meglio il puzzle di rocce appuntite che ricordavano vagamente i lineamenti di un volto umano. Un volto che, da come gli ardevano le fiaccole nelle orbite, sembrava acceso di passionale speranza. Lui, dunque, non era ancora andato via.
«Ciao» esordì timidamente l’ex abominio, torcendosi nervosamente le dita verso il basso.
Leona ignorava quanto efficace potesse essere un saluto informale come quello, mentre il mondo gli stava crollando letteralmente addosso, ma da come sussultò la mostruosità, decise che avrebbe lasciato fare Sara come meglio credeva. Almeno aveva smesso di vomitare lava, era già un ottimo risultato.
«Io…spero che tu possa sentirmi» aggiunse «so cosa stai passando, credimi, meglio di chiunque altro. In qualche modo noi due siamo uguali. Prigionieri del nostro stesso corpo, totalmente fuori dal nostro controllo e dalla nostra volontà. È un po’ come sentirsi sprofondare dentro acque turbolenti e non poter in alcun modo riaffiorare in superficie, sepolti da metri e metri d’acqua, urlando e scalciando dove nessuno può sentirci o raggiungerci per tenderci una mano». Improvvisò un sorriso incerto verso il mostro e così facendo mise in mostra uno dei suoi lucidi canini. Le rocce scrosciarono sfregando fra loro quando la creatura discese verso il basso, piegandosi su un ginocchio con la testa inclinata e lo sguardo attento e curioso. I due gemelli trattennero il fiato, in allerta, pronti ad intervenire alla minima avvisaglia di ostilità da parte sua. Sara invece prese il coraggio a due mani e si avvicinò ancora di più.
«Ti sei mai chiesto se fosse tutta una bugia?» chiese lei, suscitando non solo la perplessità dell’Antico, ma quella di tutti i presenti.
«In realtà ciò che ti ho descritto non mi sembra una similitudine del tutto appropriata o quantomeno veritiera. Quella sensazione di oppressione e costrizione non esiste davvero, è tutta nella nostra testa. Un mero meccanismo di autodifesa per tenere lontano da noi i nostri veri desideri. Come se le nostre fattezze mostruose potessero giustificare il male, la sofferenza che abbiamo creato attorno. Come se il sangue che abbiamo versato non sia opera nostra, ma del nostro soggiogamento, di quel qualcuno che guida la mano al posto nostro, ripulendoci dalle nefandezze di cui ci siamo macchiati. Ma sai che ti dico, quel qualcuno non esiste, non c’è mai stato nessun’altro che noi. Siamo stati noi a prenderci quelle vite Valerio, quella che indossiamo è solo una maschera fatta di rabbia e odio. Noi volevamo fargli del male come loro lo avevano fatto a noi. Sì, era la nostra opportunità per vendicarci del male che ci avevano causato, avevamo una scusa per farlo. Cosa ci si aspetta da un mostro dall’altra parte? Abbiamo solo dovuto recitare bene la parte, tanto nessuno ci avrebbe biasimato, in fondo non eravamo noi stessi, no? So quanto soffri, quello che ci hanno tolto, quello che avevamo, forse non ci verrà mai restituito, ma non è un buon motivo per coinvolgere poveri innocenti nella nostra faida personale.
L’odio genera odio. E io prego che tu sia abbastanza forte da spezzare questo circolo vizioso, perché so che puoi farlo. Io ho fallito, Dio, sono sempre stata così piena di me, alimentata dell’adulazione altrui, come se tutto mi fosse dovuto» disse camminando avanti indietro instancabilmente «Ho odiato te, mio padre, la mia crudele creatrice, persino Pascal. Ero così arrabbiata che non mi sono nemmeno fermata a riflettere sull’inestimabile sacrificio di chi mi aveva ridato la vita e donato il suo stesso cuore» così dicendo, indicò il suo petto. «Io non lo meritavo e ce l’avevo con lui perché credevo di poterlo incolpare per quello che ero diventata. Lui aveva fatto di me la persona, il mostro che detestavo e che temevo di più. Pascal non c’entrava nulla, avevo scelto io di accogliere il mostro dentro di me.  Se solo avesse saputo…Io…mi chiedo ancora come tu ti possa essere innamorato di un spirito arido come il mio. Ma tu non sei così, io so perfettamente chi sei. Sai che non ti ho mai visto come gli altri ti dipingevano, e non hai mai avuto bisogno di dimostrarmelo. Oggi, però, voglio che tutti lo vedano, io…voglio che vedano il tuo coraggio, la tua compassione, il tuo piccato senso dell’umorismo, la tua tenacia e sangue freddo e non solo il sempliciotto casanova che tutti hanno imparato a conoscere. Quindi basta con tutto questo, non lasciarti dominare dalla paura, ciò che è fatto è fatto. Tu puoi dominarlo, tu puoi essere tutto ciò che vuoi, non sarà un viso mostruoso a deciderlo».
Il volto rude dell’Antico si contrasse, imbronciandosi in un coacervo di macigni perfettamente levigati e ricoperti di muschio. Il liquido gioco d’ombre delle fiaccole che illuminavano le sue cavità vuote, parve intristire la sua espressione o forse la rese soltanto più riflessiva. Le rocce scricchiolarono imitando i movimenti delle articolazioni e l’enorme braccio della creatura si distese a terra con il palmo rivolto verso il cielo plumbeo.
«Non farlo. Non potremo più proteggerti…» le disse quando Sara si appese a una delle sue grosse dita, tirandosi su a sedere, incuneata fra le pietre.
«Vi prego, non fategli del male» rispose lei angosciata mentre la trascinava all’altezza dei suoi occhi. Leona rimase stupida dalla sua delicatezza, come se la creatura fosse conscia della fragilità della ragazza, corpuscolare rispetto alle dimensioni della sua mano. Sara saltellò da un affioramento a un altro e giunta sotto il suo mento aguzzo, prese ad accarezzarglielo. Non sentirono le parole che gli sussurrava, soprattutto perché i sospiri dell’Antico raspavano come decine di motoseghe indiavolate. Qualunque nenia lo stesse cullando, il mostro sembrava gradirla. Dal canto suo, Sara si trovava a proprio agio, quando invece chiunque altro sarebbe stato vittima di infarti multipli. Il coraggio di certo non le mancava, ma un pizzico di prudenza in più non avrebbe guastato. Anche se lo aveva ammansito, era lo stesso gigante che poco prima aveva cercato di seppellirli vivi sotto cumuli di rocce vulcaniche e lava bollente e Leona detestava avere ragione. Avrebbe davvero voluto che per una volta il suo puro-istinto facesse cilecca, che le sue sterili considerazioni si limitassero ad essere gli innocui frutti delle sue isteriche paranoie. Ma non poté comunque fermare la bocca del gigante che si serrava su Sara. Dopo il boccone, il silenzio dell’Antico si protrasse a lungo, manifestando l’apprezzamento del pasto appena consumato. La medjai avrebbe voluto urlare se solo la sua bile non fosse stata così prepotente da stimolarle un conato di vomito. Il peso del suo fallimento gravò tutto sulle sue gambe e per poco non si abbandonò a quella debolezza. Era finita, aveva giocato la sua ultima carta, aveva accompagnato l’innocente agnellino fino all’ingresso del mattatoio per ricavarne la concia. Ma c’era di più. Aveva promesso che l’avrebbe protetta. Leona non aveva nessuna voglia di far fronte all’incommensurabile delusione che cresceva a dismisura nel petto del ragazzo a cui era stata strappata la sorella un numero di volte insostenibile per la sua sanità mentale.
Ispezionò l’area attorno a sé. La morte era ovunque lei guardasse. I corpi dei protettori disseminati per il campo, marcivano sotto i suoi stessi occhi. Avrebbe potuto compatirsi, era solo una ragazza e nessuno le aveva chiesto di interpretare il ruolo della paladina della giustizia. Superbia? Sì, forse aveva a che fare con quello e probabilmente era uno dei motivi per cui le faceva così male, oltre al fatto che era stata lei a trascinare i suoi alleati in quella guerra. Avevano creduto in lei. E non poter riscattare quella fiducia la faceva sentire vuota e inerme. La storia della sua vita era un ciclo infinito di fiaschi. Lei non era abbastanza, non era riuscita a salvare sua madre e suo padre, figurarsi impedire il crollo di Betelgeuse tutta da sola.
Era così dolce la tentazione di abbassare le armi, piegarsi riverente sulle ginocchia di fronte alla sua inettitudine e attendere che tutto finisse nel buio. Leona era stanca, e non solo per l’insopportabile dolore che la invalidava. Avrebbe mollato ogni cosa se solo la sua arrendevolezza non avesse coinvolto il fratello, l’anello di congiunzione che la manteneva ancorata alla terra. Per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Per lui avrebbe rinunciato all’irresistibile abbandono che le prometteva l’oblio liquido dell’universo onirico in cui si sarebbe rifugiata, perennemente trascinata dalle correnti, in balia dei flutti, in ascolto della cantilena delle onde. In quel momento credeva sul serio di sentire lo sciabordio dell’acqua e quel suono la trascinava altrove, a mille miglia da lì, ma non così lontano da non avvertire la gelida puntura del suo para-braccio. Una mano eterea e inconsistente aleggiava sulla sua guarnizione dorata, qualcosa che solo lei poteva vedere.
«Porta l’acqua da noi» le diceva la ragazzina che le stava accanto. Aveva una macchia viola sulla metà destra del viso, fulvi capelli ricci ed era magra come un chiodo, eppure la richiesta di quel fragile mucchietto di ossa l’aveva scossa dentro. I suoi occhi d’oro erano fuoco che bruciavano su di lei.
Odetta sollevò un braccio e lasciò che sue dite tessessero ricami ondeggianti e invisibili. Leona studiò i suoi movimenti e la imitò. Avvertì stringersi lo stomaco, le cellule di mana si arrovellarono impazzite e fuori controllo nelle sue vene. E lo sentì. Il richiamo dell’acqua, vivo e pulsante dentro di lei. Per un po’ non accadde nulla, Leona credette di aver perso la ragione. Poi l’Antico riprese a trasudare vapore acqueo, ogni singola molecola era soggiogata dal controllo di Leona e obbediva al suo volere. L’acqua prese a sgorgare fra le sue rocce, prima debolmente, poi il flusso s’ingrossò, straripando con violenza. Invece che riversarsi ai suoi piedi proseguì dritta verso di lei, raccogliendosi nella loggia inferiore della sua reliquia dorata, quella con il simbolo dell’elemento che gli era complementare. Continuò così fino a che il corpo della creatura non fu completamente prosciugato. Leona non poteva credere di aver maneggiato decine e decine di cubiti d’acqua senza subirne le conseguenze. Non era mai stata affine all’acqua, non come lo era Gabriel, eppure…
Adesso la loggia non era più vuota. Una goccia di lapislazzuli ornava la sua reliquia, scintillando liquidamente di blu.
Odetta le sorrise e annuì.
Aveva imbrigliato l’energia dell’Acqua dentro la reliquia. Si agitava in attesa di un suo comando. Suo fratello era esterrefatto, sembrava non aver la minima idea di cosa stesse accadendo. Per un attimo sgranò gli occhi sullo spirito di Odetta, ma lei era già svanita lasciando dietro di sé una gradevole scia ventosa, fresca e corroborante. Leona colse il messaggio. C’era ancora un’altra loggia solitaria che attendeva solo di essere colmata. Leona tirò. Zefiri urlanti sfuggirono dalle membra rocciose della creatura con fischi acuti e penetranti. Una volta sottratti alla manipolazione dell’Antico, la medjai si focalizzò sulla ionizzazione delle molecole d’aria che turbinavano nei vortici da lei creati. La sua mente vagò frenetica in cerca di elettroni da strappare. Elevati picchi d’energia ionica sfrigolarono nello spazio che li divideva, manifestandosi sotto forma di zigzaganti saette di elettricità statica. Fungendo da parafulmine attrasse le saette su di sé, concentrandole sulla loggia vuota. L’energia che ne trasse, andava oltre ogni più rosea immaginazione, le folgori danzavano attorno a lei formando un globo sfavillante, rendendola l’unico fulcro di luce nell’intera vallata. Sopra la pietra di lapislazzuli vi era incastonata un’altra di quarzo, la pietra che rappresentava l’elemento dell’Aria. Entrambe brillavano intensamente, alimentate dal potere dell’Akasha che trasudava dal corpo della medjai.
Poi fu avvolta dal calore. Spirali infuocate si riversarono dalla bocca spalancata della creatura mentre venivano risucchiate via, richiamate dalla sua loggia. Le fiaccole dentro i suoi occhi cavernosi si estinsero, divenendo desolati e incolori, mortalmente malinconici. Il fuoco lo aveva abbandonato.
Il suo nuovo e improbabile proprietario osservava con occhi ingordi di cupidigia il fulgido rubino che si era appena conquistato. Le fiamme si levarono dal palmo aperto di Gabriel senza alcun impedimento o smorfia di sofferenza. Leona non riuscì a sopprimere la fitta di gelosia. Il fuoco le era sempre appartenuto, era sempre stato una parte di lei, ma avrebbe potuto digerire quel tradimento se lo avesse condiviso con lui, o per lo meno se ne sarebbe fatta una ragione dal momento che anche lei lo aveva privato dell’esclusivo controllo dei suoi elementi. E in effetti ne mancava ancora uno…
Il pugno di Gabriel batté sul selciato e un fitta rete di crepe si diramò da quel colpo secco e rude. L’onda d’urto viaggiò nel sottosuolo sollevando al suo passaggio zolle di terra umida e fangosa e si andò a schiantare contro la creatura che barcollava confusa. Ci fu un gran boato. Le rocce che componevano l’Antico si sgretolarono, rombando in un fragoroso baccano. Era come se la forza che le teneva tutte insieme si fosse improvvisamente esaurita, prosciugata dalla forte attrazione che la reliquia di Gabriel esercitava su di esso. Lo smeraldo della Terra brillò nell’ultima loggia, decretando definitivamente l’appartenenza all’arcaico oggetto hijiriano.  
Del gigante era rimasto solo una catasta di lucido pietrisco lavico, e sulle prima giacque a terra non mostrando il minimo segno di vitalità. Proprio mentre Gabriel cominciava a perdersi in futili vanterie autoreferenziali, gioendo prematuramente della loro insospettabile vittoria, qualcosa s’agitò sotto il cumulo di pietre. Leona zittì il fratello sganciandogli un cazzotto sulla spalla e gli gesticolò di seguirla. Circuirono le spoglie dell’Antico tenendosi a debita distanza e attesero un ulteriore sussulto da parte delle rocce. Era troppo concentrata sull’imminente minaccia che sarebbe potuta sbucare fuor dalle ceneri del mostro, ma s’immagino il fratello innalzare gli occhi al cielo di fronte alla sua palese diffidenza nei confronti di quello che evidentemente non era altro che materia inanimata. Le rocce sembravano solo delle rocce, eppure Leona era sicura di aver visto…
Eccolo di nuovo! Leona non perse tempo a gloriarsi del suo infallibile intuito col gemello perché era certa di aver udito dei gemiti strozzati provenire dalla frana di pietre. Fu allora che Fabiano sfrecciò fra loro, arrampicandosi su per la collinetta a mani nude, e cominciò a scavare. Fabiano non pareva curarsi delle ferite che si procurava frugando fra i massi appuntiti, né dei moniti della medjai.  Leona lo raggiunse sulla cima tentando di dissuaderlo, ma il ragazzo non volle ascoltarla. Non sapeva esattamente cosa sperasse di trovare lì sotto, Leona era completamente spiazzata da quella disperata ricerca e temeva che quel folle atteggiamento fosse causato plausibilmente da un crollo emotivo del ragazzo. Coinvolta da quella foga avvilente, decise di aiutarlo spostando tramite geocinesi i massi più grossi, favorendo così una più facile penetrazione all’interno della pila pietrosa.
«C’è qualcuno sotto le macerie!» esultò Fabiano prima che il mezzobusto di lui si tuffasse fra le pietre e scomparisse dalla sua vista. Leona lo trattenne per una gamba e quando lo tirò su, notò che Fabiano era notevolmente aumentato di peso. Questo perché non si era accorta che lui non era più solo. Il corpo che era stato sepolto da quella tomba improvvisata, riemerse soffocando per l’asfissia.
La medjai non poteva credere ai suoi occhi. Sara era sopravvissuta alla fagocitosi dell’Antico, uscendone praticamente illesa. Lei e Fabiano la sollevarono da sotto le ascelle e i polmoni della ragazza si rifocillarono di ossigeno mentre strisciava via da quell’incubo. Tossì violentemente ripiegandosi su se stessa, incapace di formulare qualsiasi frase pregna  di logicità. Il nome di Valerio, però, risuonò chiaro dalle sue labbra, e Leona nutrì la speranza che anche il suo vecchio amico fosse sfuggito alle grinfie della morte. Così riprese a far levitare le rocce e le dispose ordinatamente al di là del fiume, rifacendosi inconsapevolmente alla struttura circonferenziale dello Stonehenge. Non seppe descrivere la gioia che provò nel rivedere il viso imberbe e imbrattato di fuliggine del protettore. Certo, ricordava che avesse molti più capelli. Adorava i suoi fluenti riccioli ramati…Quando aveva deciso di rasarsi a zero? Per non parlare del suo cipiglio inquietante, forse perché non più incorniciato da spesse sopracciglia? E che fine avevano fatte le ciglia? A dire la verità il suo corpo, ad una prima occhiata, sembrava completamente glabro. Allora capì che quella di depilarsi non doveva essere stata una sua scelta. Con molta probabilità la sua peluria era andata persa tuffandosi nella bocca infernale del vulcano. Valerio si guardò attorno con occhi cisposi e abbagliati dalla luce, meravigliato come un bambino che si affaccia al mondo per la prima volta. Metà del suo corpo, dalla vita in giù, era ancora sepolta fra i macigni, ma sembrava rispondere reattivamente agli stimoli esterni. Sara nel frattempo aveva recuperato le forze e si era catapultata nel punto di ritrovo, offrendo il suo aiuto per tirarlo fuori di lì.
Quando  Valerio ebbe sgranato gli occhi su di lei le rivolse un timido «Ciao». Lei si ammutolì, ingessata come una statua nell’atto di accarezzargli la guancia. Leona non voleva interrompere quella reciproca contemplazione, erano passati anni dall’ultima volta che i due amanti si erano guardati negli occhi senza che il padre di Sara s’intromettesse nel loro rapporto. Niente era più come prima. Lei aveva subito una mutazione che l’aveva irreparabilmente vampirizzata e nel suo petto batteva il cuore di qualcun’altro, lui si era consacrato alla vita da mostro per salvare il suo popolo, eppure per chissà quale miracolo le loro anime si riconobbero.
«Dai su, dammi la mano che ti tiro fuori di lì» si offrì volenterosa Sara reprimendo un singhiozzo silenzioso. La testa pelata di Valerio si girò da un’altra parte in preda a un gran imbarazzo.
«Ehm, al momento sto bene dove sto» li rassicurò lui portandosi con disinvoltura le braccia dietro la nuca, rilassato e pago come un vacanziere su una spiaggia paradisiaca che dondola su una amaca sorseggiando bevande deliziose da una noce di cocco.  «Non essere ridicolo…» fece per dire Sara. «Credimi, è meglio così» s’innervosì l’altro.
Leona si protese verso i massi attorno a lui con l’intenzione di sgombrargli il passaggio e disse «Deve aver battuto la capoccia,  tranquilla ci penso io». Cominciò da quello più grande e prese a spostarlo telecineticamente, ma dopo quello che scoprì esserci sotto lo rimise subito al suo posto, esattamente nella stessa posizione. Faceva decisamente caldo. La sue gote arrossate scottavano a tal punto che avresti potuto friggerci uova e bacon e servire una tipica colazione all’inglese. Valerio, con il viso rubizzo forse anche più del suo, le lanciò uno sguardo desolato che sottintendeva che in fondo se l’era cercata.   .
«Ha ragione, è meglio se lo lasciamo qui» tossì Leona. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter dimenticare quell’immagine o poter essere teletrasportata altrove e arrossire in segreto.
«Visto te lo avevo detto!» rimarcò piccato Valerio alla volta della sua ex ragazza.
«Ma che diamine ti prende? Cos’è, hai finito il carburante dei tuoi giochetti di prestigio? Spostati ragazzina, ho decisamente più muscoli di te anche senza i tuoi poteri magici…» le disse Sara a un soffio dallo sfiorare il macigno. Leona ansimò e s’interpose fra lei e il suo ostacolo. Le chiese con discrezione di inclinarsi verso di lei – era più alta almeno di due spanne – per poterle sussurrare all’orecchio che Valerio non indossava nient’altro che la sua pelle. Già, era molto nudo. Sara inarcò un sopracciglio e occhieggiò prima lei e poi lui, e si portò le mani alla bocca scoppiando a ridere, una risata così fragorosa che finì per travolgere inevitabilmente anche Leona. La tensione scivolò via dalle sue spalle e la fece fluttuare libera da quel senso di colpa che la schiacciava al suolo impedendole di respirare.
Valerio gli fece il verso «Sì, sì, davvero molto divertente…ma qualcuno sarebbe così gentile da prestarmi dei pantaloni?». Il riverbero metallico di Symphony affettò il due la sua domanda e richiamò su di sé l’attenzione come una calamita. «Magari più tardi amico» intervenne suo fratello «Qui non abbiamo ancora finito. C’è qualche vampiro di troppo in questo campo e sono certo che mi farà venire l’orticaria».
«Oh, credimi…lo sento anch’io il prurito» convenne con tono farsesco Valerio, su di giri, in attesa di godersi lo spettacolo. Le pietre incastonate nel para-braccio di Gabriel  lo irradiarono di luce rossa e verde, e Leona rimase affascinata da come quei fasci colorati s’intrecciassero fra loro per dare vita a nuove sfumature.  Anche le sue s’illuminarono nello stesso istante, canalizzate dal potere delle loro gemelle della terra e del fuoco. Un potere che ribolliva in ogni centimetro del suo corpo e per riflesso anche in quello di Gab.
I gemelli medjai erano una cosa sola.
«Che ne dici sorellina? Non pensi sia tempo per il gran finale?» la incalzò lui. In tutta risposta Leona sprigionò il mana e richiamò i fulmini su di sé. Il cielo nero si zebrò di lampi luminescenti, preannunciando l’imminente nubifragio. I pochi Drakulia rimasti indietreggiarono impauriti da quella dimostrazione di forza, frastornati dalla melodia ritmica dei tuoni che biancheggiavano fra le nuvole cariche di pioggia. La medjai attivò il potere del vento, attingendo finalmente da esso a suo piacimento. I lunghi capelli neri si gonfiavano come un mantello oscuro dietro di lei, l’elettricità scoppiettava nel palmo della sua mano, come una dea creatrice di tempeste, bellissima e terrificante al tempo stesso.
«Sì» gli rispose la sua voce interiore «ma non lo faremo da soli».
Gab annuì e i loro cuori rimbombarono in un solo laborioso coro indistinguibile, come un marchingegno di ingranaggi ben oliati. Entrambi intinsero le dita del pozzo dell’Akasha e la riesumarono dalla sua letargia millenaria per spanderla sui loro compagni d’armi come una benedizione. Fu proprio allora, nel più insospettabile silenzio, che i simboli degli elementi arsero nelle fronti di tutti i protettori, frammentandosi e adattandosi alla singola vocazione di ciascuno di loro. C’era a chi piaceva giocare col fuoco, chi si dilettava fra le onde del mare, chi desiderava librarsi in aria fra gli uccelli del cielo e chi era riconoscente per i frutti succulenti della madre terra.
E non era tutto. Qualcuno sapeva persino padroneggiare l’allomanzia, altri dominavano i fenomeni della nebbie e la foschia,  muovevano le sabbie frantumando la roccia finemente, riducendola in particelle di minerali e modellandola a proprio vantaggio, provocavano terremoti o causava gli tsunami, creavano scudi con la terra o influenzavano la salgemma,  sfruttavano l’exnomophis per plasmare le particelle d’aria dando vita a illusioni, infrangevano la barriera del suono, si districavano nelle menti labirintiche degli avversari anticipando le loro mosse, facevano danzare le correnti elettriche e attiravano fulmini, rivitalizzavano le piante o parlavano agli animali suscitando devozione, generavano tormente polari e manipolavano il ghiaccio o innalzavano muri torridi di magma, e quelli ancora più rari manovravano la radiazione elettromagnetica dei fotoni per abbagliare gli avversari con la luce ed erano in grado di creare duplicati olografici destreggiandosi con la rifrazione dei fasci luminosi o  ancora accecavano con le tenebre.  Quel giorno, ogni protettore, col dono che lo rendeva unico, combatté sotto lo stesso stendardo della fratellanza che li univa ad opera dell’Akasha, l’energia primordiale che li concatenava gli uni agli altri.
I medjai si voltarono raggianti verso il loro esercito invincibile di guerrieri, sentendo ogni singola anima come una parte di sé. «Protettori!» urlò Leona.
Quando marciarono verso i loro nemici come un corpo solo, i protettori lasciarono che i medjai rinfocolassero il loro spirito battagliero con l’invocazione che avevano imparato prima di esprimersi in vagiti strillanti, quella che era stata marchiata a fuoco nella loro memoria ancor prima di muovere i primi passi, la stessa formula che di secolo in secolo era stata pronunciata almeno una volta da ogni protettore, la stessa che veniva proclamata per la nascita di una nuova vita e esalata in tono di cordoglio quando si varcava la soglia della notte eterna.
E così, gridarono a una sola voce: «LUX OMNIA VINCIT».
***********
«Questo è l’ultimo?» chiese Leona, medicando l’abominio trafitto gravemente ad una gamba da un coltello. Era uno dei pochi superstiti di quella tragica guerra. L’arteria femorale era stata recisa, la punta della lama gli attraversava la carne fuoriuscendo dalla parte opposta e il sangue zampillava a intermittenza dal taglio profondo, schizzando da per tutto. Ma adesso che la battaglia era solo un brutto ricordo da chiudere per sempre in una cassaforte, la ragazza poteva dedicarsi alla cura dei feriti e all’eliminazione delle ultime tracce di quell’oscuro incantesimo delle fate. Mentre congelava le sue membra lacerate per arrestare l’avanzamento della necrosi, in attesa dell’intervento di un vero medico, Leona non riusciva ad assaporare il gusto di quella vittoria. I vampiri erano stati scacciati dalle loro terre e i sopravvissuti avrebbero sicuramente pensato due volte a riorganizzare un altro battaglione contro il loro esercito di protettori elementali almeno per un secolo. Quel pensiero però non era abbastanza per lei, e di per certo non lo era per coloro che quel giorno avevano perso la vita. Le ruote dei carri cigolavano sofferenti sotto il peso dei cadaveri impilati uno sopra l’altro. I pianti di chi non voleva lasciarli andare sembrava squarciare il velo azzurro dei cieli. Una squadra si stava occupando dei loro corpi. Alcuni erano così maciullati da essere a malapena riconoscibili, ma tentavano comunque di ricomporli come meglio potevano, lavavano via il sangue e il fango con fazzoletti di lino imbevuti di acqua di fiume, spegnevano i loro sguardi vuoti calandogli le palpebre sugli occhi e mormoravano delle preghiere per loro. Qualcun altro invece raccoglieva le armi destinate ad essere sepolte nel tempio dei bottini o, a seconda dei casi, tramandate ai discendenti; altri ancora si erano inoltrati nelle macerie carbonizzate dei boschi di latifoglie centenarie per racimolare i pochi ciocchi di betulla ancora intonsi, scampati all’incendio. L’odore dolciastro della resina si sarebbe mescolato al fumo della pira e avrebbe coperto il tanfo della decomposizione. Il solo immaginare il corpo immobile e freddo di Norman lambito dalle fiamme, la straziava dentro, grattandola fino alle ossa. Si strofinò il naso gocciolante nella manica e si concentrò completamente sul processo di criogenesi della ferita.
«Sì» gli rispose secco Edward. Dal tono era chiaro che fosse ancora in collera con lei per avergli disobbedito. Si era opposto all’idea che la ragazza se ne andasse in giro ad assorbire come una spugna il putridume del linckage. Spiandolo di tanto in tanto, aveva sorpreso il vampiro ad accigliarsi così spesso che se non avesse avuto una pelle così liscia da fare invidia alla levigatezza del marmo avrebbe arato di rughe quel viso straordinariamente bello. La sensazione di avere qualcuno che vegliasse su di lei non le dispiaceva affatto, anzi ne era quasi assuefatta e ne voleva sempre di più. Anche se lo conosceva appena, sapeva già che la separazione sarebbe stata atroce e sarebbe giunta presto. Lui non faceva parte del suo mondo e prima se ne faceva una ragione meglio sarebbe stato per lei.
 «Adesso che hai finito di giocare alla crocerossina, vorrei dare un’occhiata alle condizioni del tuo braccio. Non hai una bella cera».
«Senti un po’ chi parla. Sto bene» gli mentì cercando di nascondergli i brividi che le risalivano lungo la schiena «Il tuo caso clinico batte il mio su tutta la linea. O devo ricordarti che sei morto?»
«Ti ringrazio per la brillante diagnosi. La tua retorica deduttiva mi lascia sempre a bocca aperta, ma le battute mordaci non hanno mai guarito nessuno, quindi ti suggerei di mettere via le spiritosaggini per un po’ e lasciarmi confutare il tuo stato di salute».
«Che ne dici, credi che si sia offeso?» pungolò suo fratello con un gomito.
«È sempre così. Chi dice la verità, perde le amicizie» postillò mentre lucidava il piatto della spada.
Leona corrucciò la fronte «Questo è…davvero saggio» ci rifletté su.
«Infatti non è mia» disse Gab facendo spallucce.
«Dove sono andati Alice e gli altri?» domandò lei per spazzar via il disagio che si era creato.
«Be’…il sangue è…loro…» balbettò lui alla ricerca di una frase che potesse addolcirle la pillola e non tirare in ballo la loro frenetica bramosia di sangue.
«Sono andati via. Non preoccuparti, capisco…» annuì, desolata per averli fatti ripiombare nell’imbarazzo di quelle bizzarre faccende delicate da vampiri. Che buffo. Aveva odiato per così tanto tempo i vampiri che non avrebbe mai creduto di poterli comprendere…eppure era così.
Nel frattempo due protettori inglesi dello squadrone anti-vampiro avevano preso in custodia il sire. L’uomo non smetteva di dibattersi dalla loro presa. L’orlo dei pantaloni era bagnato fradicio per via del ghiaccio che si era sciolto ai sui piedi. Il cappuccio gli era scivolato dalla testa e aveva lasciato in bella mostra le gravi ustioni che campeggiavano sul suo viso pustoloso. Leona notò Fabiano distogliere lo sguardo da suo padre, non prima di aver letto un breve guizzo di rabbia nella sua espressione.
«Come sta Ethan?» chiese Fabiano senza preamboli alla madre del protettore. Il caschetto biondo della donna si scompigliava ad ogni folata di vento, ma manteneva pur sempre una postura regale e uno sguardo severo capace di indurre ad esplorare la punta delle scarpe piuttosto che sostenerlo.
«Se la caverà, ha la mia tempra e non è saggio sottovalutare un Brightstars» rispose la donna abbandonando per un attimo le formalità per regalare un piccolo sorriso al ragazzo che pareva sinceramente interessato alle condizioni di suo figlio « e devo confessarti che quel vampiro…il dottore. Be’ sa il fatto suo. Se non fosse intervenuto tempestivamente, forse per il mio Ethan sarebbe stato troppo tardi. Mi chiedo soltanto come faccia a sopportare l’odore di tutto quel sangue…».
«Secoli di duro allenamento» intervenne con orgoglio Edward.  
«È un sacrilegio!» sbraitò il sire, sbavandosi sulla barba sale e pepe mezza bruciacchiata «Non importa quanto sia bravo a fingersi quello che non è, nemmeno il nobile mestiere di un curatore potrà mai cambiare la sua natura. Che si divertano pure con i loro giochetti ipocriti, ma che lo facciano fuori dalla mia Betelgeuse!».
La sire inglese gli tributò un’occhiataccia che avrebbe fatto tremare l’inferno «Non t’infiammare troppo Tiziano. Non ricordavo di averti accordato il permesso di parlare. Visto la negligenza che hai dimostrato nel gestire le tue responsabilità, per l’avidità che condividevi con i setti saggi e il tuo blasfemo coinvolgimento nell’increscioso caso della sparizione dei protettori sei sollevato con effetto immediato del tuo titolo di Sire fino al giorno del tuo processo».
«No! Non ne hai il diritto! Ti supplico Raley non lasciare che le nostri questioni personali offuschino il tuo giudizio…».
La donna si produsse in un verso stizzito e represse il disgusto per mantenere il decoro che le medaglie commemorative all’onore gli imponevano. «Ti assicuro che questo non ha niente a che fare con noi, qualunque cosa ci sia stata» disse scacciando quel “qualcosa” con un gesto molle della mano «Sollevare me e mio figlio dalla tua ingombrante e inutile esistenza è stato forse il dono più grande che tu mi abbia fatto in tutti questi anni. Lui non ti deve niente.» disse colma di rabbia, senza potergli nascondere i bulbi liquidi dentro i suoi occhi «Mi ripugna anche solo l’idea che il mio Ethan possa condividere i tuoi stessi geni corrotti, ma grazie al cielo la vostra somiglianza si limita soltanto a qualche vago tratto fisionomico». Poi marciò a passi lenti e misurati verso di lui e si fermò a pochi centimetri dal suo naso. A quel punto gli espettorò in faccia. Il sire chiuse gli occhi, umiliato, lasciando che la saliva calda gli gocciolasse fino al mento.
«No, lui non è come te. E per volere dei sacri medjai nemmeno tuo figlio ha seguito le tue orme. Mi sorprende come abbia conservato la sua irreprensibile morale. Ed è proprio al suo giudizio a cui mi appello adesso. Sarà lui a decidere quale pena ti sarà riservata. Questa sarà la sua ricompensa: avere la possibilità di vendicarsi delle sevizie del suo snaturato padre». Tiziano spalancò gli occhi e la paura prese a imbiancargli il viso.
«Non fare quella faccia sorpresa. La medjai mi ha raccontato dei tuoi discutibili metodi educativi…se fosse dipeso da me, ti avrei fatto staccare le palle per poi servirtele al pasto serale, ma non voglio privare il ragazzo di tutto il divertimento. Non temere fenomeno, mi metterò in fila e aspetterò paziente il mio turno».
Leona non si lasciò sfuggire lo scambio di sguardi pietosi e compassionevoli fra Fabiano e suo padre. Ed era certa che se lo avesse supplicato abbastanza…
«Niente punizioni corporali» decretò in fine Fabiano perdendo apparentemente interesse per le sorti di suo padre. La sua pietà avrebbe potuto essere scambiata facilmente per debolezza, circostanza che, una volta raggiunta la maggiore età, non avrebbe favorito una sua possibile candidatura fra i papabili successori per ricoprire la carica di sire, Lei però sapeva che il suo Fabiano era migliore di suo padre e di chiunque altro avesse detenuto il potere in futuro. Lui sarebbe stato sempre lì, ai piedi del carrubo, pronto ad afferrarla qualora avesse messo il piede in fallo. «Ha diritto a un giusto processo come tutti. Sono fortemente convinto che rimettendomi al ragionevole discernimento dei nuovi saggi nominati ad interim, possa comunque ottenere giustizia per me stesso  e per chiunque altro sia stato vittima delle  sue tirannie».
Fabiano fece per voltarsi «Ingrato! Non saresti quello che sei oggi se non fosse per me! Rinnegami quanto vuoi, ma il tuo cuore conosce la verità». Il sire quasi si soffocò, vittima delle sue grasse risate. Quello sprazzo di insana ilarità indusse i pugni del ragazzo a chiudersi come ricci, saturi di terrore. Passarono solo pochi attimi e poi la stretta si allentò.
«Sì, la conosco» confermò continuando a mostragli la schiena «So che dovrò districarmi a lungo per poter finalmente fuggire dal mare di bugie dentro cui mi hai gettato. Ma so che alla fine ce la farò, e sarò un uomo migliore, lotterò per diventare quello che tu non sei mai stato. Questa è una promessa, padre.»
La sorella, che aveva assistito al dibattito in silenzio, gli corse incontro e lo accolse fra le sue braccia.
Leona non era completamente soddisfatta di quel verdetto, ma se lo dovette far bastare. Gli occhi di Fabiano fecero capolino da sopra la spalla di Sara, e Leona s'immaginò che cercasse anche il conforto suo e quello di suo fratello Gabriel.
Gli sorrise e poi tutto accadde troppo in fretta affinché lei riuscisse a delineare una vaga idea di ciò che le stesse accadendo. C’era il dolore, certo, quello non era mai andato via, anzi non faceva che aumentare, ma allora perché tutto a un tratto restare all’in piedi era diventata la sfida più difficile che avesse affrontato?
Un attimo prima era lì a incoraggiare il ragazzo che amava, l’attimo dopo giaceva fra le braccia di Edward. Non poté non notare come il freddo della sua pelle fosse così accogliente, così rinfrancante, avrebbe voluto profondare in quel gelo pungente e rimanere cristallizzata lì per sempre, rannicchiata in posizione fetale contro il suo petto solido e incrollabile come la roccia.
«Che cosa le succede?» esclamò suo fratello.
«Qualcuno mi porti una lettiga pulita!» ordinò Edward. Nonostante il comando provenisse da un vampiro, nessuno ebbe l’ardire di contraddirlo. «Fabiano, aiutami a stenderla, prendila per la gambe…ecco così, bravo» lo incoraggiò Edward poggiandogli una mano fresca sulla fronte.
«Ha la febbre alta» aggiunse dopo pochi istanti, stringendo i denti. Poi urlò stentoreamente il nome di suo padre «Carlisle!».
Percepì solo lo spostamento di un refolo di vento prima di ascoltare l’intervento pacato e professionale del vampiro «Le hai già controllato la frequenza cardiaca?».
«Bradicardia. Sono quarantacinque battiti al minuto, iperidrosi acuta, le pupille sono dilatate, le labbra violacee e secche, difficoltà a deglutire, piressia al di sopra dei cinquanta gradi centigradi…» riassunse cesellando minuziosamente il quadro clinico della ragazza.
«Ricordano i sintomi di un…avvelenamento» intervenne Sara.
«Temo proprio che lei abbia ragione signorina» disse Carlisle «e credo di sapere quale sia la causa…». Carlisle teneva sollevato per il polso il braccio annerito di Leona, ma lei non riusciva più ad avvertire il suo tocco freddo.
«Non sento più niente!» strillò con tutte le sue forze, cercando di divincolarsi dalle presa di Edward che la teneva  inchiodata alla lettiga. Edna le trotterellava attorno abbaiando e ringhiando contro i vampiri che la stavano soccorrendo. Il Golden Retriver sgusciò sotto le loro gambe per andarsi a stendere accanto alla sua padrona. I suoi guati sofferenti erano interrotti solamente quando tirava fuori la lingua per leccarle la faccia.
«Cristo santo, fate qualcosa!» sbottò  Gabriel inginocchiato ai piedi di sua sorella.
«Non è ancora giunta la vostra ora, medjai» pigolò la vocina di una bambina «Conosco la data e l’ora esatta della vostra morte, e posso assicurarvi con certezza che non sarà oggi» predisse con un sorriso spensierato.
«Ma che diam…ma tu sei la strillona di prima? Che cazzo ne sai tu…».
«Gab!» lo richiamò all’ordine la sua gemella «ne parliamo dopo se non ti dispiace, ok? Hilde sa quello che dice. Carlisle  i processi necrotizzanti al braccio sono sfociati nei vasi sanguigni, sta per raggiungere il cuore?» domandò strizzando gli occhi per cacciar via le gocce di sudore freddo.
«No, al momento la cancrena è localizzata dove termina l’iperpigmentazione della pelle all’altezza dell’estensore delle dita» rispose lui flemmatico. Lei e Edward si guardarono prendendo entrambi coscienza di ciò che andava fatto. Leona chiuse gli occhi e prese un profondo respiro «Immagino che sia tutta colpa del destino; è come i cetriolini: te li ritrovi a tradimento quando meno te lo aspetti nel momento in cui hai già dato il primo morso al tuo hamburger grondante di formaggio fuso e ketchup e lo trasforma nel pasto più disgustoso della tua vita».
«Non so di cosa tu stia parlando…» protestò Gab «i cetriolini sono deliziosi».
«Alla peste i cetriolini! Ortaggi infernali, dovrebbero rendere illegale il commercio. Mi occuperò dopo della campagna diffamatoria contro i cetrioli, adesso prestami la tua cinghia così avrò qualcosa da mordere e consegna Symphony a Fabiano». Leona ignorò le perplessità che si affacciarono sul viso di Gabriel e rincarò la dose sbraitandogli contro di darsi una mossa. Al contrario di suo fratello, Fabiano aveva capito tutto. Se ne stava lì impalato di fronte a lei con le unghie conficcate nel palmo così in profondità da incidersi quattro mezze lune sanguinanti. Nei suoi occhi si agitava una tempesta di emozioni. Fra tutte, l’impotenza lo corrodeva come acido.
«Lea, mi dispiace così tanto…avrei dovuto esserci io al tuo posto».
«Non dire sciocchezze. Ci sono già passata, no? Almeno so cosa mi aspetta» lo consolò lei rivolgendogli un sorriso forzato.
«Aspettate. Per quale motivo dovrebbe dispiacergli?» domandò Gab, sospettando della malinconia del suo amico. Fabiano attese l’apparizione del simbolo del fuoco e s’incendiò la mano.
«Amerai lo stesso questa ragazza quando sarà senza un braccio?» si volle assicurare prima di procedere con l’amputazione. Fabiano la tenne un po’ sulle corde, la risposta indugiò volutamente nella sua mente anche se non le era sfuggito il suo sorriso. Strofinò la mano infuocata sul piatto della lama e l’acciaio di Hijir rosseggiò sotto il calore delle fiamme. Non sarebbe stata una amputazione chirurgica ortodossa, ma Symphony vantava  la fama di essere la lama più tagliente dell’ultimo secolo. Con un po’ di fortuna, non sarebbe stato così doloroso, si ripeté lei pur di non convincersi del contrario.
Poi sentì la voce di Fabiano risuonare nella sua testa «Lea. Come faccio a spiegarti, senza scadere nell’ovvio o nel banale, che tu sei la cosa più bella su cui si siano posati i miei occhi? Non esiste nulla, nessuna cicatrice, nessuna amputazione potrà mai contaminare la tua bellezza, persino adesso che il candore della tua pelle sfiora la morte…».
Edward interruppe la loro conversazione privata, schiarendosi la gola. E i vampiri non hanno assolutissimamente bisogno di schiarirsi la gola! Leona non gli riservò un’occhiataccia soltanto perché le tempistiche non giocavano a loro favore. Comunque se la sarebbe legata al dito e avrebbe trovato il momento opportuno per fargliela pagare a quell’assassino di atmosfere.
«Nessuno mi aveva chiamato così prima d’ora…» asserì Edward, evidentemente divertito dal suo nomignolo.
«Oh e questo è nulla! Aspetta di sentire gli altri che ho in serbo per te».
«Non vedo l’ora» disse lui schiacciandole l’occhiolino.
Carlisle distese il braccio per lungo e tenne ferme le due estremità  «Bene figliolo, quando sei pronto».
«Oh, porca vacca…» imprecò suo fratello, quando finalmente giunse alla conclusione a cui tutti erano già arrivati da un pezzo. Meglio tardi che mai.
«Vuoi che sia io a farlo?» le domandò Fabiano e lei si limitò ad annuire.
«D’accordo» disse mettendosi in posizione del boia, calibrando ad occhio il punto d’incrocio fra la spada e la pelle cancrenosa di Leona.
Il protettore trascinò l’arma sopra la sua spalla con fluidità. Ma tentennò prima di calarla su di lei. Leona osservò le sue ciocche umide di sudore, il tremolio convulso delle sue mani e la ruga d’espressione fra le sue sopracciglia, corrucciato come se fosse sul punto di vomitare.
«Fabiano, guardami. So che non avresti mai voluto farmi del male e infatti non lo farai. Tu mi stai salvando la vita, va bene? Concentrati su questo. Qualunque cosa accada, sappi che io ti amo». Lui annuì silenziosamente una seconda volta, ma con più decisione della precedente. Symphony tracciò un arco sopra il protettore e…
«Frena, frena, aspetta un secondo!» gridò suo fratello Gabriel, sollevando le mani in alto.
«E adesso che cosa c’è…?» si lamentò Leona. Gabriel le prese la mano sana fra le sue e le disse «Lascia che prenda il tuo dolore, posso farcela».
«Non se ne parla Gab…»
«Non ricordi più? Un po’ per me, un po’ per te, abbiamo sempre condiviso tutto noi, dalla sacca gestazionale di nostra madre al porridge vomitevole che ci cucinava Carlo tutti i mercoledì…non vedo perché adesso debba essere diverso».
«Certo che lo è!» ribatté lei furiosa.
«Ti prego» la supplicò lui imprimendole un bacio sulle nocche «lasciamelo fare. Hai promesso: fino a che non saremo polvere e ossa. Non puoi infrangere il nostro giuramento, non puoi e basta. Adesso vieni qui e poggia la testa sul mio petto, ti cullerò finché non ti addormenterai. Vuoi che ti canti una canzone…?».
«Pensavo che volessi alleviare le mie pene, non che intendessi esacerbare questa tremenda agonia! No, no. Attireresti tutti gli uccelli saprofagi che circolano nel raggio di un chilometro e io ci tengo alla mia milza».
«Ok, allora…»
«Stai zitto e stringimi».
«Ti voglio bene sorellina». Non glielo aveva mai detto. Il suo cuore si fermò, lui doveva averlo notato per forza.
«Ti voglio bene anche io, Gabriel. Per sempre» le ultime parole furono solo un sussurro. I suoi occhi s’impastarono di oscurità e intrapresero il lungo viaggio verso le tenebre.
Non sentì affatto il morso della lama.
Quel testardo l’aveva ingannata. Doveva averla depredata di tutto il suo dolore, come lei aveva già fatto una volta per lui.
Quello che invece ricordò di quei attimi, fu l’odore salmastro del mare imbrigliato nei riccioli d’ebano di suo fratello, e ancora di più di ogni altra cosa il tenero amore che nutriva per lei.
   
 
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