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Autore: Genziana_91    20/02/2021    4 recensioni
Quando un giovane finisce per caso su uno strampalato sito archeologico, Villa Eleni e i suoi abitanti diventano il fulcro di un gomitolo di intrighi e di una misteriosa sparizione.
Genere: Commedia, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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4. Villa Eleni
 
Dopo un tempo che a me sembrò interminabile, il furgoncino rallentò e smise di sobbalzare e si inerpicò per un vialetto pavimentato e in salita. Il mio innominato autista parcheggiò poco dopo, in un piazzale che lì per lì mi parve nel cuore del niente circondato da fitta vegetazione. Cominciai a sudare, pensando che non esistesse luogo migliore per un omicidio. Mi sbagliavo, perché un posto più adatto esisteva e si nascondeva dietro la cortina di verde e nebbia. Villa Eleni, come la chiamò lui, era acquattata tra alberi secolari e quello che restava di un incolto giardino mediterraneo, un’istantanea di un tempo che lì, chi sa dove tra le basse montagne di San Damiano, non era mai passato. Da dove mi trovavo se ne intravedevano i tetti spioventi e le terrazze, stralci di scale e tettoie divorate dal verde imperante, lastre di marmo rese lucide dall’umidità e scurite dall’incuria. Quella era la base operativa della missione, o per lo meno così mi disse il mio anonimo e provvidenziale salvatore. Il suo nome, lo ammetto, non lo ricordo. Me lo disse, ne sono certo, ma nella mia memoria egli è e sempre sarà il Professore.

Appena il motore del nostro indistruttibile mezzo si spense, un ragazzo si precipitò fuori da una porta seminascosta e dalla vernice verde ormai in parte scrostata per aiutare il Professore con le buste della spesa. Era un tipo riccioluto e disinvolto, infagottato in una felpa di un gruppo metal che, ne sono certo, ad ascoltarlo mi avrebbe traforato timpano e cervello in pochi istanti. Per lo meno, così lasciava immaginare la stampa scolorita con mostri, scheletri, fulmini di colori improbabili e chitarre elettriche il cui collegamento mi era oscuro. Con insospettabile forza, il nuovo arrivato si caricò le sei buste della spesa e sparì nel buio della porta. Mi sentii in imbarazzo, con il mio zainetto da dieci chili e la mia faccia esausta. Il Professore mi invitò ad entrare ed io mi appropinquai timidamente, appesantito dal fango che nel frattempo aveva fatto blocco compatto attorno ai miei scarponi. Mi vennero in mente quei mafiosi che cementano i piedi delle vittime e poi li buttano in mare. Mi consolava il fatto che in zona non sembravano esserci pozzanghere abbastanza profonde. 

All’interno scesi un paio di gradini prima di ritrovarmi in una cucina avvolta in una smorta semioscurità, arredata da un lungo tavolo, tarlato e circondato da diverse sedie spaiate. Sul fondo, in un ambiente a parte, appoggiato alla parete si intravedeva un fornello a gas e accanto un mobiletto a sportelli ricoperto da stoviglie messe ad asciugare. Poco più in là c’era una via di mezzo tra un lavandino e un lavatoio, mezzo nascosto da una teoria di pantaloni, felpe e calzini appesi ad asciugare. In bocca al lupo con questa umidità. Il tipo in felpa nera appoggiò pesantemente le buste sul tavolo, poi accese una luce il cui paralume doveva aver visto almeno la Grande Guerra e a pieni polmoni gridò:
“OH! QUALCUNO MI VIENE A DARE UNA MANO?!”.
Non ne sono sicuro, ma credo che quella che seguì fosse un insulto a qualche divinità.  Cercai di avvicinarmi per aiutare, ma lui mi fulminò con uno sguardo assassino:
“Stai buono lì che con quelle scarpe sporchi tutto. Ho appena pulito.”
Il tono era tale che non me la sentii di disobbedire, perciò mi misi in un angolino a cercare di slacciare gli scarponi incrostati. Nel frattempo, da una porta alla mia sinistra fece capolino un altro ragazzo, più alto e dinoccolato del primo, biondo e pallido come uno svedese. Portava una maglia a righe a maniche corte, del tipo che si compra ai grandi magazzini insieme ad una valanga di t-shirt sformate a poco prezzo, ed aveva il collo avvolto in una kefiah bianca e nera. Non sembrava troppo felice di vivere. Mi vide e mi salutò con un cenno della mano, poi con efficienza e rassegnazione cominciò a smistare la spesa. Per quando avevo finito di togliermi le scarpe, la spesa era stata messa in ordine e i due si erano dileguati, ignorando l’uno la presenza dell’altro, così come la mia. Rimasi in calzini vicino alla porta. Dovevo apparire un vero cretino, non ho dubbi, perché di lì a poco il Professore rientrò, mi squadrò per un istante, poi ridacchiò:
“Hai conosciuto Tommaso? Sì, direi di sì dalla faccia. Bene, vediamo di trovarti un posto letto per stasera…”
Imbarazzato borbottai un assenso.

Il Professore mi guidò nella prima delle tre stanze che si aprivano su quella principale: era spaziosa, ma affollata di brandine, zaini, biancheria buttata in giro, sacchi a pelo ammucchiati. Era la stanza degli uomini, senza dubbio. Fece un po’ di spazio nel caos e ne ricavò uno spazietto libero, nel quale avrei potuto stendere il mio sacco a pelo, per passare la notte.
Lo ringraziai e mi stesi, nella penombra della sera che ormai era alle porte. Che ore erano? Scivolai lentamente verso l’incoscienza, lottando contro la pesantezza delle palpebre e la promessa di un sonno lungo e senza sogni. Nella semi-veglia sentii, o credetti di sentire, le urla femminili, gemiti o grida non saprei dire. Nella mia mente divennero presto i versi disumani di un mostro alato deciso a fare banchetto del mio corpo intrappolato nel sacco a pelo. Poi, scivolai nell’incoscienza.
 
   
 
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