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Autore: NyxTNeko    21/02/2021    1 recensioni
Napoleone Bonaparte, un nome che tutti avranno letto almeno una volta sui libri di scuola.
C'è chi l'ha adorato, chi odiato, chi umiliato e chi glorificato.
Ma siamo sicuri di conoscerlo veramente? Come si sa la storia è scritta dai vincitori e lui, il più grande dei vincitori, perse la sua battaglia più importante.
Dietro la figura del generale vittorioso e dell'imperatore glorioso si nasconde un solitario, estremamente complesso, incompreso che ha condotto la sua lotta personale contro un mondo che opprime sogni, speranze e ambizioni.
Un uomo che, nonostante le calunnie, le accuse, vere e presunte, affascina tutt'ora per la sua mente brillante, per le straordinarie doti tattiche, strategiche e di pensiero.
Una figura storica la cui esistenza è stata un breve passaggio per la creazione di un'era completamente nuova in cui nulla sarebbe stato più lo stesso.
"Sono nato quando il paese stava morendo, trentamila francesi vomitati sulle nostre coste, ad affogare i troni della libertà in mari di sangue, tale fu l'odioso spettacolo che colse per primo il mio occhio. Le grida dei morenti, i brontolii degli oppressi, le lacrime di disperazione circondarono la mia culla sin dalla nascita".
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore, Periodo Napoleonico
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Capitolo 106 - Il Leone e il Grifone -

Genova, 15 luglio

Napoleone e i suoi aiutanti erano appena giunti nella città di Genova, che in quei giorni d'estate pareva splendere incredibilmente, al pari della suo inconfondibile faro, denominata Lanterna, il cui contorno riconoscibile, spiccava in lontananza dal porto. Era uno dei simboli di Genova, se non addirittura il monumento cardine della città ligure, al pari della Torre di Pisa, della Cupola del Brunelleschi a Firenze, del Colosseo a Roma e di Notre-Dame a Parigi. In esso un intero popolo s'identificava.

Per il corso attraversare quella città in particolare gli procurò una strana sensazione, nemmeno lui riusciva a apiegarsi che cosa fosse in realtà, gli sembrava simile a quando ritornava sulla sua amata Corsica. Provava una nostalgia per un luogo che nemmeno conosceva, forse il suo animo associava ancora Genova all'isola, come se non l'avesse mai venduta alla Francia, come se fosse ancora un suo possedimento e lui un cittadino della Serenissima Repubblica, come lo era stato suo padre, suo nonno, i suoi parenti, ma anche suo fratello Giuseppe, essendo nato l'anno prima della scissione.

- Ecco Genova - sussurrò in italiano Napoleone mentre s'inoltrava tra le vie pittoresche della città. Il sangue che aveva nelle vene era italiano, in parte toscano, in parte ligure, di francese non aveva nulla, eppure aveva indosso l'uniforme di quella potente nazione. Aveva deciso, dopo essere stato brutalmente cacciato via, di diventarlo pienamente. Era consapevole però che non avrebbe mai potuto eliminare questo frammento di lui, che sarebbe stato diviso tra due paesi, che lo avrebbero condizionato per sempre. "Chissà come sarebbe stata la mia vita se la storia fosse andata diversamente..." Rifletté sollevando la testa verso il terso cielo azzurro. "Probabilmente starei al servizio di questa Repubblica e combatterei per essa, chissà magari cercando di portare la Rivoluzione anche qui".

I suoi colleghi lo conoscevano oramai, perciò lo lasciavano immerso nei suoi pensieri più reconditi e oscuri. Aveva accennato loro che un tempo la Corsica era stata una frazione della millenaria Repubblica, senza, tuttavia, scendere nei dettagli e gli aiutanti, saggiamente, non avevano voluto insistere. Il generale era più sensibile, emotivo, di quanto volesse ammettere egli stesso e sicuramente parlare di questi avvenimenti erano una nota dolente, per cui rispettavano il suo silenzio. Nonostante ciò erano certi che non si sarebbe lasciato influenzare dai sentimenti, dal cuore, avrebbe agito secondo il dovere e gli interessi della Francia. Questo pensiero li rassicurò, Buonaparte non avrebbe mai voltato le spalle alla sua nuova patria.

Imboccando una strada che conduceva alla piazza principale, i quattro notarono la folla che si riversava affannosamente, febbrile, tra le merci esposte - A quanto pare non c'è per nulla aria di crisi qui! - esclamò Junot intravedendo sui volti di quei genovesi grandi sorrisi ed occhi speranzosi ed appagati - La Repubblica dev'essere davvero molto ricca - aggiunse poi cercando di capire cosa stessero dicendo alcuni uomini illustri che stavano passeggiando poco avanti, in una lingua ed un accento strano. Era diversa da quella italiana che oramai aveva imparato a riconoscere, seppur non lo sapesse e comprendesse.

- Infatti lo è - rispose Napoleone - Lo stanno chiaramente dicendo - aggiunse poi voltandosi lievemente verso di loro, tenendo ben salda la briglia del cavallo, che si stava agitando - Affermano che da quando la Corsica è stata ceduta, l'economia della città è praticamente rifiorita ed è più che stabile, stavano parlando anche di alcuni loro importanti investimenti - precisò infine con tranquillità, come se ciò che avesse appena riferito fosse qualcosa di naturale.

- Voi comprendete il genovese generale? - domandò stupito Muiron, era rimasto praticamente a bocca aperta, incredulo. Sbatteva le palpebre, il loro generale sapeva fare praticamente tutto, in Italia per lui non ci sarebbe stato alcun problema. In quell'instante capì il perché di così tanta insistenza nei confronti del fronte italiano.

- Il corso parlato dalle mie parti non è poi così dissimile dal genovese - rispose con ovvietà il giovane generale, facendo spallucce - Per cui a grandi linee lo capisco, inoltre se dovessi comunicare nella mia lingua madre credo proprio che mi comprenderebbero anche loro... - ridacchiò bonariamente. Era un modo per togliersi dalla testa quella frase terribile che aveva udito: in pratica la Corsica era stata, per tanti anni, un peso per la loro economia. Eppure non avevano mai permesso a loro di staccarsi dal loro giogo, di essere indipendenti e liberi, di creare uno stato vero e proprio come Paoli auspicava, anche se si era perso per strada.

- I francesi! - gridò una donna che li avvistò in lontananza, giovanissimi e affascinanti, in groppa ai loro destrieri scalpitanti, con le loro splendide uniformi militari e l'aria straniera, spaesata - Sono arrivati i francesi! - teneva puntato il dito nella loro direzione. In quel momento sembrò essersi scatenato il panico, dopo l'attimo di silenzio che era calato non appena si accorsero della presenza dei forestieri. Molti vi si avvicinarono con aria minacciosa, altri erano preoccupati, altri ancora decisamente curiosi, poichè erano, seppur tacitamente, grandi sostenitori degli avvenimenti che si stavano svolgendo nella neonata Repubblica Francese.

- Veniamo in pace - esordì Napoleone esprimendosi in lingua italiana, gesticolava animosamente, le dita sottili lasciavano delle scie invisibili dovute al movimento repentino - Non abbiamo alcuna intenzione di muovere guerra agli illustri cittadini della potente Repubblica di Genova - continuava con aria affabile, cauta e rispettosa. Pose una mano sul petto, a mo' di giuramento, in modo che fossero convinti della sua sincerità, onestà.

Gli abitanti osservarono con particolare attenzione quel giovane ufficiale che doveva essere un generale, a giudicare dal fatto che avesse una divisa più sofisticata rispetto ai suoi uomini. Per giunta non aveva la minima traccia di cipria sui suoi lunghi capelli che scendevano sul collo e sulle spalle, coperti nella parte superiore, dall'ampio tricorno, a differenza dei suoi compagni che invece portavano o la tipica parrucca, Marmont e Junot, pure loro dal fascino indiscutibile, o i capelli di un bianco laccato, Muiron. La barca incolta era evidente solamente se ci si avvicinava.

Non immaginavano che, tra i ranghi militari dei francesi, ci fosse qualcuno che sapesse parlare così tanto bene il loro idioma da non mostrare il tipico e spiccato accento degli oltralpe. Non potevano di certo essere a conoscenza del fatto che fosse un giovane di origine italica e per di più corso di nascita.

- Siamo giunti sino a qui - riprese poi, il tono di voce era gentile e pacato, lievemente basso, che era ben risaltato dalla pronuncia perfetta, era molto preciso nello scandire ogni singola parola, cosa che non avveniva col francese, dato che sbagliava piuttosto spesso - Per avere un'udienza con l'illustrissimo doge della Serenissima, ma non sappiamo quale sia la via da percorrere per arrivare al Palazzo Ducale, se qualcuno di voi potrebbe riservarci tale gentilezza ne saremmo più che contenti, sarebbe un'ottima maniera per mostrare a noi la vostra disponibilità e generosità

In realtà Napoleone conosceva più che bene la strada, ma aveva intuito che mostrandosi cordiale con la popolazione avrebbe potuto tranquillizzarla e renderla alleata senza molti sforzi. Oltre che per avere una definitiva conferma. I genovesi, colpiti dalla sua amabile cortesia gli diedero tutte le indicazioni necessarie, con così grande premura che Napoleone non poté non ringraziarli togliendosi il cappello e regalare un profondo inchino.

Dopodiché, affiancato dai suoi uomini che si fidavano ciecamente di lui, si avviò alla volta della piazza indicata, la cosiddetta Piazza Nuova di Ferreria, molto piccola eppure importante, sul lato nord est vi si affacciava, con imponenza ed eleganza, una parte del Palazzo Ducale, da poco ristrutturato e modernizzato, in puro stile neoclassico, dopo un terribile incendio scoppiato nel 1777.

Assetati, accaldati, alzando il collo ed esaminando la piazza per intero, avvistarono una fontana e, scesi da cavallo, si precipitarono per abbeverarsi e rinfrescarsi. Poco più avanti si trovarono dinnanzi ad una cortina, anch'essa pululante di vita, animata e vivace: sotto i portici vi erano botteghe affollate e banchetti - Tutto qui? - sbottò Junot un po' deluso nel vedere una misera e anonima facciata. Si aspettava qualcosa di più consono al nome di quella città che da secoli era una delle più importanti, belle e potenti d'Europa - Questo sarebbe il fantomatico Palazzo Ducale?

Napoleone lo guardò sorridendo furbetto, accanto a lui - Si vede che non hai studiato bene la città, Junot - lo rimproverò bonariamente tirandogli il lobo dell'orecchio, rivolse lo sguardo nuovamente alla cortina - Seguitemi e vedrete che rimarrete più che soddisfatti - si rimise nuovamente in sella, diede un colpo di sperone al cavallo ed entrarono nel cortile, subito dopo aver ricevuto altre occhiate curiose e al tempo stesso timorose dalle persone che sostavano lì per vendere e comprare. Erano a conoscenza di ciò che stava accadendo oltre le Alpi e l'arrivo di quei militari stranieri non prometteva nulla di buono.

Junot guardò gli altri due leggermente perplesso e si accodò al suo comandante, il quale sembrava così sicuro di sé anche in una località nel quale non aveva mai messo piede prima d'allora. Era incredibile come riuscisse ad essere sempre a suo agio in qualunque posto si trovasse. Non appena attraversarono la piazza d'armi interna ed entrati nel cortile i tre poterono rimirare la reale facciata neoclassica del Palazzo, rimasero a bocca aperta: vi erano otto coppie di colonne doriche e ioniche rialzate in bugnato e stucco lucido, sei finestre sormontate da altrettante finestrelle che mettevano in mostra la potenza della città. Sulla sommità c'erano otto statue poste nelle apposite nicchie. E infine lo stemma della città: i due grifoni alati che sorreggevano lo scudo incrociato di San Giorgio, croce rossa in sfondo bianco, santo amatissimo e sormontato da una corona.

- Allora le vostre aspettative sono state ripagate? - gli domandò sarcastico Napoleone ammirando col fiato sospeso quel meraviglioso monumento.
Contemplarlo dal vivo, con i propri occhi, era tutt'altra cosa rispetto alle sue riproduzioni che aveva avuto modo di scorgere sui libri su cui si era ampio documentato durante il viaggio. La simmetria con il quale ero stato realizzato lo rendeva perfetto e piacevole da guardare, appagava il suo senso dell'ordine e della semplicità, tipica di quella corrente che ancora dominava l'arte europea.

- Be' non posso dire che questa non sia una città che non riservi sorprese - ridacchiò infine il collega. Era curioso di scoprire anche le sale interne, ma al momento non gli sarebbe stato concesso, in quanto scorse l'irriquetezza di Napoleone che era fin troppo evidente, fremeva anche più del solito "Dev'essere davvero importante questa missione" Non vedeva l'ora di incontrare questo fantomatico doge di cui tutti parlavano con profondo rispetto, se non in quella giornata, avrebbe senz'altro avuto questo onore in quelli successivi. Giunti all'ingresso le guardie che proteggevano li bloccarono per sapere cosa avessero intenzione di fare; il giovane generale spiegò il tutto con calma e fermezza.


Al salone del minor consiglio, denominato salonetto, usato maggiormente durante le afose giornate d'estate, per le riunioni di marginale importanza, intanto, il doge eletto, il sessantaquattrenne Giuseppe Maria Doria, occhieggiava e ascoltava stancamente il suo interlocutore, in piedi, poco distante, l'incaricato d'affari francese Jean Tilly, che da mesi sostava in città, con il delicato compito di discutere assieme al doge su una determinata quota che quest'ultimo dovrebbe versare per garantire la sua neutralità - Vi ho già detto e ripetuto che la Repubblica non ha avuto nessun ruolo riguardo quel maledetto assalto inglese alla vostra nave Modesta che era ormeggiata al nostro porto e con essa la morte di alcuni marinai - ribadì sbuffando l'uomo, sfoggiando la sua perfetta padronanza della lingua. Era stato un diplomatico per parecchio tempo fino alla sua improvvisa ed imprevista elezione, infatti non vedeva l'ora che i due anni di carica scadessero in fretta, non ne poteva proprio più di quell'incarico "Proprio me dovevano nominare dopo 160 anni dall'ultimo Doria" Senza contare che non sopportava quell'uomo dalla parlatina fastidiosa e dall'accento insopportabile.

- Comprendo il vostro disappunto serenissimo principe, ma dovete comprendere anche che non posso di certo tornarmene in Francia da Robespierre a mani vuote - ripeté ancora una volta un disperato Tilly, scuotendo le braccia, sperando che alla fine si convincesse e cedesse alla sua richiesta. Afferrò il fazzoletto già zuppo dalla tasca e tentò di asciugarsi il volto sudato, il caldo era davvero insopportabile e gli abiti che portava indosso contribuivano al suo malessere - Devo portare una somma che garantisca la vostra parola...

Il doge perse per un attimo la pazienza - Cos'altro volete da noi, francesi! - batté violentemente il tacco al suolo, il suono acuto rimbombò lungo la stanza. Tilly ingioiò la saliva rumorosamente, sforzandosi di restare il più calmo possibile - Vi abbiamo ceduto territori e denaro, che cosa volete ancora? - chiese sospirando, sbatté le braccia sui fianchi.

Improvvisamente una guardia entrò e inchinatosi veloce al cospetto del doge, enunciò - Un ufficiale francese è giunto poco fa, eccellentissimo, e chiede di poter ottenere una breve udienza con l'incaricato Tilly - riferì dopo essersi messo in posizione e aspettando una conferma.

- Un altro francese? - sobbalzò il doge, sbatté la mano sul viso, compì qualche passo attorno alla sala sperando di non perdere la calma - È un'invasione... una vera invasione... - alzò lo sguardo verso la guardia e in seguito verso Tilly - Se chiede di voi vuol dire che vi conosce...

Tilly annuì titubante - In realtà so solo, tramite una lettera giunta qualche giorno fa, che sarebbe venuto un militare e che avrebbe parlato a nome di Robespierre, chi sia non ne ho la più pallida idea - ammise onestamente il francese.

- Allora sospendiamo le nostre contrattazioni per il momento e andate da costui - lo invitò cordialmente agitando la mano in direzione della porta - Poi mi riferirete ogni cosa, su andate... - Tilly non poté fare altro che obbedire ed uscì accompagnato dalla guardia, mentre il povero doge si accomodò sulla sedia imbottita più vicina, stanchissimo e accaldato, mandando al diavolo i francesi, gli inglesi e persino il ruolo che lui stesso stava ricoprendo - E restateci...


Nel frattempo Napoleone stava aspettando impaziente che giungesse Jean Tilly, giocherellava con la striscia dorata del bicorno e la coccarda tricolore, battendo ritmicamente il piede. Aveva pensato che fosse più prudente e saggio evitare di confrontarsi direttamente con il doge. Era pur sempre una missione segreta quella che gli era stata affidata da Robespierre minore e Saliceti. Non era lì solamente per accertarsi dei rapporti tra Genova e Parigi, ma anche e soprattutto per perlustrare la città, analizzare e studiare i forti che, al pari di una muraglia, circondavano la città e rendevano la sua difesa incredibile.

- Non appena ci saremo chiariti con l'incaricato - ricordò sottovoce ai suoi uomini, che stavano osservando l'ampio cortile quadrato con le colonne doriche che sorreggeva un porticato e gli archi. Quelli si ridestarono e gli prestarono ascolto, notarono la sua accortezza, le sue iridi chiare perlustravano la zona attente e vigili - Faremo ciò per cui siamo giunti qui, nella massima discrezione e prudenza, può darsi che non ci sarà una guerra conto Genova, ma potrebbe sempre esserci utile, per il futuro, conoscere ogni angolo della città...

- Agli ordini generale - sussurrarono all'unisono i tre, comprendendo quanto fosse pericoloso un simile compito. Per la Rivoluzione avrebbero compiuto questo ed altro, pur non avendo ancora inteso che Napoleone lo stava facendo solo ed esclusivamente per sé stesso.

Il rimbombo di passi in lontananza li fece voltare, videro un uomo allampanato, dalla faccia seriosa correre verso di loro, era Jean Tilly. Napoleone, mise sottobraccio il cappello e lo raggiunse - Siete voi l'ufficiale che Robespierre manda? - domandò il francese guardandolo dalla testa ai piedi: era magro, abbastanza alto e giovanissimo, sicuramente non aveva trent'anni anni. Chinò leggermente il capo.

- Sì, sono il generale Buonaparte, cittadino Tilly - rispose prontamente Napoleone ricambiando il gesto automatico. Non doveva assolutamente inimicarselo, era sotto controllo e il mirino del governo francese e doveva mostrarsi il più amichevole possibile - Immagino che Robespierre vi abbia già informato nella lettera che vi ha inviato, cittadino - emise freddamente, mettendosi ritto. Allungò la mano sulla cartellina che l'uomo teneva stretta.

- Certamente, così come mi hanno riferito del vostro compito svolto sul confine franco-italiano - precisò l'uomo sorridendo tirato, evitò di guardarlo negli occhi, provava una paura sconosciuta - E delle recenti vittorie conseguite

- Già, per questo non possiamo permetterci che altri stati s'intromettano nella guerra - abbassò lo sguardo al pavimento in marmo rossiccio e poi lo rivolse nuovamente al francese - La coalizione contro cui la Nazione combatte è già abbastanza corposa, un altro nemico sarebbe insostenibile

- Capisco le vostre necessità - emise comprensivo, asciugandosi nuovamente il volto e si slacciò leggermente la cravatta - Perdonatemi...oggi è una giornata ardente... - ridacchiò imbarazzato.

Napoleone con un gesto gli fece intendere che per lui non era affatto un problema - Fate pure, cittadino Tilly, e andate a riferire ciò che sapete al doge Doria - quel nome gli fece sorridere, l'ultimo governatore della Repubblica apparteneva ad una delle famiglie più potenti e note non solo genovesi, ma dell'Italia intera, presente nella politica e nella diplomazia sin dal Medioevo. Poco prima si era soffermato a fissare le due statue che erano poste su due piedistalli ai lati della scalinata che dall'ingresso conduceva al primo piano, che raffiguravano due dei più importanti esponenti della famiglia appena citata - In modo da essere preparati per eventuali riunioni e spiegazioni - il suo interlocutore annuì. Era un militare, eppure mostrava una grande serietà e preparazione, non poteva fare errori, era sotto l'occhio attento dell'incorruttibile giacobino.






 

 

   
 
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