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Autore: Red_Coat    21/02/2021    1 recensioni
Questa è la storia di un soldato, un rinnegato da due mondi. È la storia del viaggio ultimo del pianeta verso la sua terra promessa.
Questa è la storia di quando Cloud Strife fu sconfitto, e vennero le tenebre. E il silenzio.
Genere: Angst, Guerra, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cloud Strife, Kadaj, Nuovo personaggio, Sephiroth
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'allievo di Sephiroth'
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Rocket Town non era più il tranquillo villaggio di un tempo, patria solo di contadini e di un vecchio pilota che sognava lo spazio.
Se ne rese ben conto Mikio Inoue al suo ritorno a casa, quando quasi incredulo poté vedere coi suoi occhi le profezie del Pianeta avverarsi.
La terra brulla pregna di sangue, cadaveri ovunque e un forte odore di morte invadevano le sue strade.
Gli unici a calcarle ancora erano un manipolo di orribili non morti, zanne aguzze e occhi spenti. Erano gli abitanti del villaggio, che ora vagavano senza una meta alla ricerca di pace.
Chi li aveva condannati a quel destino era lo stesso bambino che aveva visto crescere tra meraviglia e paura. Lo sapeva bene, anche senza averlo visto di persona, perché erano stati i Cetra a rivelarglielo prima di concedergli la sua seconda possibilità di vita nei panni di Yukio Fujita. Avrebbe potuto salvarlo, se solo lutti e tragedie non si fossero abbattuti su di lui con una violenza e una rapidità tale da non lasciare tempo alle ferite del cuore di rimarginarsi.
Suo padre e suo figlio, un bambino innocente; ancor prima il suo unico amico e infine suo fratello, guida e mentore.
Nessuno avrebbe potuto sperare di resistere a tutto quel dolore, Victor Osaka non faceva alcuna eccezione. Le conseguenze erano e sarebbero state devastanti, culminando nell'oscurità totale.
Sentì il cuore farsi pesante mentre ci pensava, gli occhi si riempirono di lacrime ma non ebbe tempo per versarle.
Qualcuno chiamò il suo nome, sembrava disperato.
Si voltò verso una delle case vicine, alla sua destra, e vide affacciato alla finestra un ragazzo dai capelli castani. Pallido come un cencio, gli occhi sgranati dalla paura.
 
«Venga dentro! Subito!» urlò, indicando qualcosa alle sue spalle.
 
Si voltò e vide uno degli zombie avanzare di corsa verso di lui, ringhiando e minacciando coi suoi lunghi, affilati artigli.
Rimase immobile, paralizzato dalla paura, ma proprio quando credette di essere giunto alla fine vide lo zombie fermarsi, guardarlo e dirigersi verso il ragazzo affacciato alla finestra, che la richiuse immediatamente sbarrando anche le ante.
Si riebbe, e afferrando per il colletto della camicia insanguinata il mostro lo gettò a terra lontano, approfittando poi del momento di tregua per guardarsi intorno.
Anche gli altri zombie si erano allertati, ma sembravano in attesa. Lo guardavano senza far nulla, fino a che il ragazzo non ritornò ad aprire la porta.
Allora ripresero a correre ruggendo.
 
«Dottore! Presto, entri!» gli gridò il giovane, e senza più esitazione obbedì.
 
Osservandolo poi calare una trave di legno sui due robusti ganci di ferro posti ai due lati dello stipite, appena in tempo prima che gli zombie iniziassero a prenderla a pugni.
Poi Mikio l'osservò voltarsi a guardarlo. Era sudato fradicio, sconvolto.
 
«Tesoro, cosa succede?»
 
Una voce di donna, piuttosto anziana a dir la verità, si fece udire dal fondo del corridoio affianco a quella piccola stanza avvolta nella tenue luce di qualche candela sparsa qua e là.
Il giovane si schiarì la voce.
 
«Niente nonna.» si sforzò di rispondere «Il dottor Fujita è tornato.»
«Oh, sia lodato il cielo!» esclamò la donna affacciandosi alla porta.
 
Era piuttosto anziana, si. La schiena curva e il viso solcato da profonde rughe. Ma si reggeva ancora in piedi, per fortuna, e sembrava stare piuttosto bene.
 
«Da quanto tempo siete chiusi qui, Colin?» domandò serio.
 
Il ragazzo sospirò, e sembrò che stesse per scoppiare a piangere ma poi si trattenne.
 
«Quasi un mese.» disse «Da quando Victor Osaka li ha trasformati tutti.»
 
Solo a quel punto una lacrima ribelle scivolò sulle sue guance.
 
«Perché lo ha fatto, dottore? Voi lo conoscete... Perché ha fatto tutto questo?» lo implorò, la voce pericolosamente incrinata.
 
Una morsa gli strinse il cuore. Nel frattempo gli zombie si erano stancati di bussare senza risultati, li sentirono trascinarsi emettendo sinistri grugniti.
Mikio scosse il capo, abbassando gli occhi e battendogli una pacca sulla spalla.
Gesto che sciolse definitivamente il suo interlocutore. Lo abbracciò forte, ed iniziò a singhiozzare senza tregua.
 
«Ci porti via, la prego. Ci porti via da qui! Ci aiuti.»
 
Il dottore alzò gli occhi verso l'anziana donna alle loro spalle. La vide abbassare il volto, tristemente.
Per fuggire avrebbero dovuto correre il più velocemente possibile, e lei di sicuro non ce l'avrebbe fatta.
Eppure ... Doveva esserci un modo ...
Sospirò, poi gli strinse le spalle invogliandolo a guardarlo.
 
«Farò del mio meglio, Colin. Te lo prometto.» rispose «Non preoccuparti, ce la caveremo.» lo rassicurò.
 
Prima però aveva bisogno di riposo, sempre ammesso fosse riuscito ad addormentarsi.
 
\\\
 
Gli zombies non lo attaccavano. Era la prima cosa che aveva notato, la sorpresa più triste in realtà, perché era la conferma di quanto buono fosse ancora il cuore di chi li aveva creati.
Sofferente, ma ancora incline ad atti di riconoscenza.
Dovette fare appello a tutte le sue forze per ignorare il suo istinto paterno nei confronti del nipote e genero, e pensare solo a come portare via Colin e sua nonna da lì.
Alla fine aveva escogitato un modo, per attuarlo gli servivano polvere da sparo e una torcia.
Avrebbe tracciato una linea di confine oltre al quale quei mostri non avrebbero potuto andare, ma per farlo avrebbe dovuto da solo raggiungere la casa del pilota Cid Higthwind e convincerlo ad aiutarlo.
Lo fece, senza che quei mostri provassero anche solo ad avvicinarsi, ma una volta lì si trovò di fronte ad una notizia che non seppe se definire buona o cattiva.
La casa era vuota, i proprietari erano fuggiti probabilmente a causa degli zombies, ma nel magazzino trovò ancora qualche barile di dinamite in polvere mista a carbone.
Se li sarebbe fatti bastare. Doveva farseli bastare, ne andava di mezzo la vita di due poveri innocenti, intrappolati dentro ad un incubo che la loro immaginazione non sarebbe stata nemmeno in grado di concepire.
 
***
 
Era il tramonto, il cortile dell'ospedale era illuminato da un'avvolgente luce dorata e leggera, la verde vegetazione carezzata appena da un leggero vento tiepido. Gli unici rumori udibili erano i rari cinguettii degli uccelli sopravvissuti alla catastrofe, che facevano ogni tanto capolino posandosi sui rami degli alberi e sull'erba.
Tuttavia, nonostante l'idilliaca atmosfera, Rufus Shinra osservava i corridoi semivuoti oltre le pareti di vetro della struttura con la morte in cuore, incapace di trovare un po’ di conforto.
Due giorni addietro, i suoi ragazzi erano tornati dallo scontro contro Victor Osaka, malconci e abbattuti.
Reno non si era più ripreso dal geostigma, esteso in quasi tutto il corpo ora. La febbre restava alta, i deliri continuavano senza sosta. A volte era semicosciente e allora piangeva, chiedendo scusa a Tseng per non avergli dato retta e a lui per non essere stato abbastanza concentrato sulla missione.
Sempre più spesso però era travolto da visioni e incubi che lo lasciavano senza forze e in preda al terrore, mentre la malattia diventava sempre più estesa e debilitante, fino a renderlo quasi irriconoscibile.
Era un'agonia atroce, per lui e per chi gli stava accanto.
Il wutaiano si era fatto sempre più cupo, chiudendosi in sé stesso sempre più spesso. Elena gli stava accanto in silenzio, impotente, e piangendo inconsolabilmente quando era da sola.
E lui ... il loro "boss" ... lui rimaneva a guardare, senza poter fare nulla, mentre quella stessa malattia si prendeva anche le sue forze.
Si sentiva inutile ... si sentiva indifeso, e per la prima volta senza alcun piano.
Non era qualcosa che una mente analitica potesse affrontare. Nemmeno il migliore degli istinti di sopravvivenza poteva essergli utile. Aveva sopportato di tutto. Attentati, rapimenti, la caduta del suo impero a causa di una catastrofe soprannaturale.
Ma questo ... questo non riusciva proprio a capire come sopportarlo, anche se non voleva per nessuna cosa al mondo darla vinta a quel terrorista di Osaka e alla sua gang.
Aveva scoperto le sue carte, ora sapeva quali erano le armi a sua disposizione. Ma come affrontarlo?
Reeve era stato trasformato in zombie, la sua testa gli era stata consegnata dai suoi turks. I sopravvissuti del suo esercito avevano deciso di ritirarsi, la maggior parte di loro per paura, gli altri perché feriti gravemente o mutilati in modo da renderli impossibilitati al servizio.
Gli uomini rimasti erano poco più di trenta. Quattro, tutti SOLDIER, erano diventate le sue nuove guardie del corpo, gli altri erano stati mandati a monitorare la situazione ad Edge.
La Shinra non aveva più le forze per respingere la minaccia, gliene restavano a malapena per difendersi. Ma ancora il suo unico erede non aveva alcuna intenzione di accettare la sconfitta.
 
\\\
 
Tseng era seduto proprio accanto al letto del collega, lo sguardo perso verso un punto impreciso del pavimento e le mani giunte, ne ascoltava i deliri a mezza voce senza neanche più sentirli, ripensando al giorno della tragedia.
Il rosse, in preda ad una febbre altissima, continuava a mormorare suppliche di scusa verso quel bambino morto a causa di una sua bomba e verso suo padre, che per vendicarsi lo aveva ridotto in quelle condizioni dopo avergli fatto assaggiare il sapore amaro della perdita del suo migliore amico e quello altrettanto velenoso di una profonda depressione.
Quello era l'ultimo atto della sua promessa punizione.
 
«Non voglio morire, non voglio morire, non voglio morire ...»
 
Reno continuava a mormorarlo, intervallandolo a gemiti di dolore, pianti e tremolii.
All'inizio aveva cercato di confortarlo il più possibile, aveva smesso quando si era reso conto di non essere udito.
Assorto nei suoi pensieri, si riscosse quando una tazza di caffè fumante apparve davanti ai suoi occhi.
Era di nuovo Elena, il viso affranto e gli occhi azzurri umidi di lacrime.
Prese il nero nettare e la ringraziò, ma non aveva voglia né di mangiare né di bere.
Si limitò a stringerlo tra le mani, osservando il denso sbuffo di vapore che saliva verso il suo naso, svanendo a metà strada.
Un po' come la vita di un turk, anche meno sicura di quella di un SOLDIER.
Quando si sceglieva un mestiere come quello, era uno dei rischi da mettere in conto.
Cercando di convincersene sentì un nodo legarglisi in gola.
 
«Ho bisogno di una passeggiata.» disse, alzandosi, appoggiando il caffè sul comodino e allentandosi la cravatta.
 
Guardò Elena e le sorrise.
 
«Vuoi accompagnarmi?» chiese.
 
La ragazza guardò Reno, preoccupata, poi lanciò un'altra occhiata al suo superiore e si sforzò di sorridere a sua volta.
 
«Volentieri.» replicò.
 
Forse una boccata d'aria avrebbe fatto bene ad entrambi.
 
\\\
 
Tseng era cupo, triste, e disperato. Si vedeva lontano un miglio, aveva assoluto bisogno di aiuto ed Elena avrebbe voluto tanto fare o dire qualcosa di utile, ma non sapeva cosa.
Era l'ultima arrivata, aveva ancora tanto da imparare e si sentiva una bambina messa a confronto con lui, sempre così serio, determinato, capace.
Quella era la prima volta che lo vedeva perdere, e a lei mancava la terra sotto i piedi.
Prese un respiro, e provò a parlare
 
«I-io ... mi spiace molto per Reno.»
 
Il suo collega la guardò, e parve riscuotersi quando vide le sue lacrime sincere appannarle gli occhi azzurri.
La rimproverava spesso di parlare troppo, in passato lo aveva fatto anche con fastidio, ma ora ... in realtà sentire la sua voce era un sollievo ... in un certo senso.
Sorrise, amaro e triste, ricacciando le mani nella tasca del completo.
Non disse nulla, ma Elena capì di averle fatto piacere.
 
«Noi due eravamo gli unici veterani rimasti.» le raccontò, continuando a guardare la punta dei suoi stivaletti in pelle «In realtà, io ero più anziano di lui in quanto ad anni di servizio, ma non di molto e ci capivamo benissimo. Non è stato difficile addestrarlo...» tornò a tacere, perdendosi nei suoi ricordi quasi fino a non accorgersi nemmeno più di lei.
 
Ben presto, il sorriso nostalgico scolorì. Stette ancora qualche istante a riflettere, poi scosse il capo, e si strinse nelle spalle.
 
«Ne abbiamo passate tante ...» mormorò «Ma non avremmo mai pensato saremmo finiti così ...» un'altra pausa.
 
Stavolta, anche i suoi occhi si empirono di lacrime.
 
«Mai ... Davvero. Anche se Osaka era forte quanto Sephiroth ... non ci saremmo mai aspettati che arrivasse a tanto.»
 
Elena sentì un nodo legarglisi in gola, e nonostante tutti i suoi sforzi per apparire forte per lui, all'improvviso la tristezza la sopraffece e un singhiozzo le sfuggì.
Si coprì la bocca, stringendosi di più nelle spalle. Di colpo la giacca della divisa non bastava più a proteggerla dal freddo che sentì appiccicarglisi addosso.
Tseng si fermò a guardarla, e s'intenerì.
Tolse la sua giacca e gliela appoggiò sulla schiena, guardandola così intensamente negli occhi da farla arrossire.
 
«Rientriamo?» le domandò, in un tono così dolce che quasi non sembrò nemmeno più lui.
 
La ragazza sorrise appena, annuendo, e allora il wutaiano la strinse a sé, iniziando a camminare con lei verso l'entrata dell'ospedale.
Inconsapevole, come lei, che qualcuno li stesse osservando.
 
\\\
 
Yazoo aspettò che i due rientrassero, poi si voltò verso Victor e osservò con una punta di curiosità il sogghigno malefico che rapido si dipinse sulle sue labbra pallide.
 
«Che teneri, eh?» commentò, quasi provocandolo.
 
Osaka si accarezzò il mento con la mano destra, guantata di pelle nera.
 
«Quasi melensi, direi ...» mormorò, mentre nella sua mente si delineavano rapide nuove prospettive.
 
Qualcuno ridacchiò alle sue spalle.
 
«Cos'hai in mente, Niisan?» domandò Loz, impaziente di sapere.
 
Non ebbe risposta. Semplicemente, vide il suo sogghigno allargarsi fino a diventare quasi una smorfia malvagia, mentre continuava ad accarezzarsi il mento.
 
«Vuoi che li rapiamo?»
 
Il Niisan scosse la testa.
 
«Non ancora ...» disse, poi si concesse una lieve, roca sghignazzata mentre li vedeva abbracciarsi un'ultima volta prima di rientrare «Non ancora.» ripeté «Lasciamo almeno che si scambino il primo bacio ... No?»
 
Li guardò, finalmente, sfoggiando il suo miglior sorriso entusiasta.
Loro risero, scuotendo il capo. Ovviamente concordi.
Kadaj gli rivolse un lungo sguardo affascinato, riflettendo. Aveva saputo di lui, della sua donna amata e perduta e di quel figlio che era stato strappato alla vita da quel turk così presto.
Lo aveva visto nel lifestream. Ed era così ... impressionato dalla sua resistenza.
Aveva già avuto più di un'occasione per avere la sua vendetta, eppure ... aveva resistito, aspettando il momento adatto, e nel frattempo preparando il modo adatto, passandone in rassegna altri mille in maniera quasi maniacale.
Lui non era capace di una simile forza d'animo. Per Kadaj, chiunque insultasse la madre o ferisse uno o più membri della sua famiglia, verbalmente o fisicamente non importava, era meritevole di morte, con attuazione immediata della pena.
Victor no.
Lui era più ... tattico. E molto, molto più letale, perché infliggeva pene non solo alla carne ma anche allo spirito, deteriorandolo fino allo stremo.
Fino a farli impazzire a tal punto da desiderare la morte, e anche oltre.
Era come se si divertisse a guardarli mentre si contorcevano negli ultimi spasmi. Solo quando rimanevano immobili privi di forze allora dava loro il colpo di grazia, ma in realtà erano già morti di dolore.
Come lui, che nessuno riusciva ancora ad abbattere però, perché qualcosa nel suo spirito lo teneva in piedi.
Una scintilla di ribellione, il suo orgoglio forse, il pensiero che non avrebbe mai dato la soddisfazione ai suoi nemici di vederlo cadere in ginocchio di fronte a loro. Perché loro erano vermi, e lui l'allievo e il fratello di un dio, e forse dio a sua volta.
Esseri insignificanti come loro non avevano il diritto di opporsi alla sua volontà, e non lo avrebbero avuto neppure di vederlo sconfitto.
Per ogni dolore che gli avevano inflitto, lui gliene avrebbe inflitto uno doppio, anzi triplo.
E questo ... questo a Kadaj piaceva.
E non soltanto a lui.
 
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Un grido inorridito squarciò il silenzio tranquillo della sera.
Tseng e Rufus, in riunione al momento nella stanza di quest'ultimo, riconobbero la voce di Elena e si precipitarono nella stanza di Reno.
La videro in ginocchio a terra di fronte al letto del collega, ormai esanime.
Non sembrava nemmeno più lui ormai, dopo due giorni di dolorosa agonia il suo corpo era dimagrito, il geostigma aveva divorato e deformato il suo volto e l'ultima smorfia di dolore era diventata un'orribile maschera in cui i suoi occhi si perdevano.
I suoi capelli rossi, spettinati e sudati, non facevano che risaltare il nero e l'orrore.
Gli occhi spalancati e ormai vitrei erano ancora pregni di lacrime. Nel vederli, Tseng non poté non sentire anche i suoi empirsi e ardere come tizzoni ardenti.
Sospirò, avanzò verso di lui e, in un ultimo gesto di compassione glieli chiuse, mormorando un lieve, commosso.
 
«Riposa in pace.»
 
Poi si voltò verso Elena e la raggiunse, inginocchiandosi e stringendola forte a sé.
Tremava, e nel sentirla iniziò a farlo anche lui, alzando lo sguardo verso Rufus che li guardò torvo per poi voltarsi e uscire dalla stanza.
La loro ultima riunione non era stata come le altre.
 
«Vuoi andartene, Tseng?» gli aveva chiesto, quasi sfidandolo «Se temi per te, puoi farlo. Non sono più il tuo boss da un pezzo ormai, perché continui a restare?»
 
Lui lo aveva guardato negli occhi e aveva risposto, per la prima volta chiamandolo per nome.
 
«Perché non è più solo un affare degli Shinra ... Rufus. Potrei anche togliere la divisa, ma per Victor Osaka rimarrei sempre un turk, uno di quelli che lo hanno pedinato, che hanno minacciato e poi distrutto la sua famiglia e ancor prima ... uno dei cani da guardia del presidente. Non posso più tirarmi indietro da un pezzo, ormai.»
 
Quindi tanto valeva rimanere e concludere la missione, anche se non ne rimaneva più alcuna valida.
Esattamente come i SOLDIER, i turks avevano fatto il loro tempo. La Shinra lo aveva fatto. E Victor era venuto per riscuotere i loro debiti.
 
«Quindi è per questo che rimani. Perché non hai altra scelta?» gli aveva chiesto allora Rufus, non contento e quasi amaro.
 
Il wutaiano aveva sorriso.
 
«No.» era stata la sua replica «Rimango perché a differenza di Victor Osaka io so che tu non hai colpa di tutto ciò che gli è successo. Come potevi, se tuo padre ti ha sempre tenuto all'oscuro di tutto?»
 
Rufus era rimasto a fissarlo senza reagire. A Tseng, che lo aveva protetto fin da quando era piccolo, era concesso parlargli così.
Ora non era più una conversazione tra capo e sottoposto, ma tra fratelli.
Non di sangue, ma questo cambiava poco.
 
«Se Reeve non fosse morto, tu avresti continuato ad aiutarlo per il bene del pianeta, per espiare quelle colpe e ripristinare il nome degli Shinra.» aveva proseguito Tseng, senza indugi «Io lo so. Ed è per questo che resto ...»
 
"Perché ti voglio bene come se fossi mio fratello e perché ci hai salvati, mi hai salvato, quando ne avevi la possibilità. Ti devo la vita. Tutti i turks, anche Reno, te la devono."
 
E a quel punto, Rufus aveva sorriso. E gli avrebbe di sicuro detto di andarsene se quel grido non lo avesse preceduto.
Ma nel vedere i suoi turks ridotti in quel modo, qualcosa si spezzo nel suo cuore.
Un dolore sordo, qualcosa di indescrivibile. E fu solo in quel momento che parve rendersene conto: Era stato sconfitto.
Victor Osaka ... aveva mantenuto la sua promessa.
Ma di certo non si sarebbe fermato lì. Anzi, questo non sarebbe stato che l'inizio, perciò rintanatosi di nuovo nella sua stanza chiuse a chiave la porta e lasciò che qualche lacrima sfuggisse al suo controllo. Solo adesso, in un momento in cui nessuno poteva vederlo, per non correre il rischio di farlo faccia a faccia con il suo nemico giurato. Era diventato un perdente, ma non era ancora arrivato il momento di dimostrarsi tale.
Non sarebbe mai arrivato, per lui.
 
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Dal momento in cui il geostigma era entrato nel suo corpo, Reno non aveva sentito che dolore e rimorso. Quei sentimenti che aveva lottato per nascondere in fondo al suo cuore all'improvviso avevano iniziato a divampare come un fuoco riaccesosi da sotto le ceneri, e i due giorni successivi erano stati i più atroci.
Sentiva tutto, dai pianti di Elena alle discussioni con Tseng alle parole del medico che lo davano per spacciato, ma per quanto si sforzasse di risvegliarsi non ci riuscì, e il dolore e la disperazione aumentavano fino a spingerlo ad urlare.
Era prigioniero di un corpo che non rispondeva più e davanti ai suoi occhi tornavano i fantasmi di quel passato che avrebbe tanto voluto cancellare.
Se solo Rude non fosse morto. Se solo lui non si fosse lasciato prendere dalla vendetta.
Aveva ucciso delle vite, mandato all'inferno un bambino innocente per cosa?
E poi ... Quando mai lui aveva provato rimorso?
Ora. Ora che Victor Osaka aveva reso il suo cuore di pastafrolla e il suo corpo una mela marcia, facendogli assaggiare solo una minima parte del dolore che aveva piagato la sua coscienza di padre e marito, nel vedere sua moglie spegnersi giorno dopo giorno e sua madre struggersi per la perdita del marito. Nel sapere che il sorriso dolce di suo figlio, nel pieno della fanciullezza, era stato spento per sempre da un gesto così crudele ed efferato.
Ora sapeva come doveva essersi sentito. Si sentiva morire, eppure non era che un quarto di quel dolore.
Cadde in ginocchio in mezzo al bianco che lo circondava e si prese la testa tra le mani.
 
«Che cosa ho fatto?» mormorò in lacrime «Che ho fatto?»
 
Singhiozzante, tremante.
 
«Non voglio morire.» iniziò a ripeterlo fino a credere, per un secondo solo, di essere stato ascoltato.
 
Non fu così. E dopo aver rivisto mille volte il dolore che aveva provocato si stese a terra, e si lasciò andare.
Non ne poteva più.
Tanto valeva arrendersi, almeno avrebbe potuto chiedere scusa.
Esattamente quello che voleva Osaka, ma non fu accolto come si aspettava.
Giunto nel lifestream, la voce di Rude lo riscosse.
 
«Hey, compare. Stavolta l'hai combinata davvero grossa.»
 
Si voltò e lo vide, quasi non fu in grado di crederci.
Sentì di dover piangere, ma si rese conto di non poterlo più fare. Aveva lasciato il suo corpo, ormai. Tseng, Elena, Rufus ... li aveva lasciati.
 
«Rude ...» mormorò.
 
Ma si accorse che sul vetro dei suoi sempre presenti occhiali scuri erano apparsi dei riflessi, delle sagome che non riuscì a non riconoscere.
Si voltò e cadde di nuovo in ginocchio.
Hikari stringeva in braccio una neonata completamente avvolta da un fascio di coperte, e nella mano libera era stretta quella di suo figlio. La sua vittima.
Keiichi, di solito sempre sorridente e affabile, lo guardava quasi spaventato e si stringeva a lei e suo nonno, che gli teneva la manina libera nella sua destra.
Tutti e tre gli rivolsero un lungo sguardo triste e accusatorio.
Sul loro volto sembrarono apparire delle lacrime.
 
«Keiichi! Signor Osaka! Perdonatemi io ... Io non sapevo cosa stavo facendo! VE LO GIURO, IO NON VOLEVO!» urlò disperato, poi fece per avvicinarsi ma il bambino urlò spaventato, aggrappandosi a suo nonno che lo prese in braccio, stringendolo protettivo.
«Sono sempre stato contrario ai metodi di mio figlio.» gli disse severo l'uomo «Ma questa volta lascerò che funzionino.»
 
Poi guardò Hikari e le rivolse uno sguardo paterno, prendendola per mano.
 
«Non otterrai il nostro perdono.» decretò, facendo sprofondare il suo cuore nella più cupa disperazione «Non fino a quando non avrai consumato con noi tutto il dolore che ci hai provocato.»
 
Infine si voltarono e scomparirono, così com'erano arrivati.
Reno urlò, li implorò di restare ma non fu ascoltato. Nonostante la natura buona delle loro anime, nemmeno il loro verdetto poteva essere clemente per il responsabile di un infanticidio.
Dei tanti crimini che avesse potuto commettere nella sua carriera, quello era il più imperdonabile, perché era volontario, ed esulava dai suoi doveri.
Avrebbe pagato quella decisione d'impeto con la condizione da anima in pena per l'eternità.

 
***
 
Era una gelida sera di fine febbraio quando, inaspettatamente, Cid e sua moglie bussarono alla porta del nuovo 7th heaven.
Tifa, che aveva già messo a letto i bambini, corse ad aprire pensando si trattasse di Cloud, invece si trovò davanti i volti impensieriti e stanchi dei due coniugi.
 
«Cid? Shera?» esordì guardandoli.
 
Non si sarebbe proprio aspettata di trovarseli davanti.
 
«Ciao dolcezza.» la salutò il pilota cercando di apparire il solito disinvolto.
 
Una strana tensione negli occhi glielo impedì.
 
«Hai per caso qualcosa di forte per due profughi?» le chiese.
«Io preferirei qualcosa da mangiare, se non ti spiace.» sorrise Shera, appoggiandosi al braccio del marito «Ho lo stomaco a pezzi.»
«Te lo dicevo io, di mangiare. Tu non ne hai voluto sapere.» la rimproverò lui.
«Come facevo a mangiare con tutto quel nervoso in corpo?» replicò stizzita lei, che di solito era sempre così dimessa nei suoi confronti.
«Ma cosa vi è successo?» domandò a quel punto Tifa, interrompendoli «Come mai siete qui?»
 
Poi li fece entrare e li accomodò al primo tavolo disponibile, ascoltando con sgomento la loro storia mentre preparava qualcosa da mangiare e un buon cocktail. O meglio, mentre cercava di farlo, perché ad ogni parola il cuore tremava sempre più e mani e gambe si indebolivano rassomigliando sempre più a pastafrolla.
Si ritrovò a ripensare a Reno, al patto reciproco che si erano scambiati e alle ultime parole che si erano detti. Cloud si era rifatto vivo, anche se poi era tornato al suo nascondiglio ripresentandosi solo qualche volta per controllare che il ragazzino stesse bene. Ma Reno? Non si avevano più notizie di Victor? Possibile che ancora non fossero riusciti a trovarne il corpo?
Un'angoscia soffocante e appiccicosa la prese alla gola e crebbe talmente tanto da impedirle alla fine anche di udire le domande che i due le fecero su Cloud.
Si avvicinò trasognata al tavolo col vassoio e consegnò a Cid una birra e a Shera un piatto di riso con verdure.
 
«Ecco a voi.» disse, senza accorgersi dei loro sguardi straniti e preoccupati.
 
Fu Barret a farlo, invece. Era sceso per un bicchiere d'acqua e si era trovato davanti quella scena.
Aveva ascoltato il loro terribile racconto e visto Tifa farsi sempre più cupa. Omicidi e zombies in ogni parte del pianeta, attentati dinamitardi alle miniere di carbone e il corpo di quel pazzo psicopatico di Osaka ancora introvabile. Se a questo si aggiungeva il fatto che Cloud si faceva vivo ad intermittenza e solo per controllare che Denzel stesse bene, sparendo poi di nuovo senza neanche salutare o dire dove andasse.
Nessuno sapeva dove viveva ora, alle domande specifiche non rispondeva e se, come era successo due settimana addietro, qualcuno provava a forzare la mano o alzare la voce, lui se ne andava senza salutare, sbattendo la porta.
Non sembrava affatto un vincitore, uno che appena sei mesi addietro aveva salvato il mondo e sconfitto un pazzo che si era innalzato a dio.
Anzi sembrava anche piuttosto malaticcio in realtà, ma anche questo era un argomento tabù, anche se non avevano potuto fare a meno di notare la lunga stola di stoffa nera che dallo spallaccio era calata a ricoprire il braccio sinistro.
Tifa aveva finto di non vedere, o forse era stata talmente preoccupata da non accorgersene davvero. Barret invece l'aveva vista eccome, ma non era riuscito a prendere l'argomento perché Cloud trovava sempre il modo di non rimanere solo in sua compagnia.
Aveva paura, Mr. Simpatia. Avrebbe dovuto averne, perché appena sarebbe stato in grado Wallace aveva intenzione di fargli una lavata di testa così vigorosa da stampargliela ben in mente per il resto della vita.
Intanto però si limitò a soccorrere nuovamente Tifa, scendendo come se nulla fosse le scale e accogliendo i nuovi ospiti con un saluto cordiale.
 
«Cid! Shera! Benvenuti!» esclamò allargando le braccia.
«Barret, vecchio pirata! Te la passi bene ad Edge, eh?»
 
Risero entrambi, mentre Shera continuava a fissare preoccupata la ragazza al suo fianco.
 
«Tifa, ti senti bene?» le chiese.
 
Lockhart sembrò riscuotersi da un torpore pesante. La guardò stupendo e rapidamente sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
Per fortuna Wallace intervenne prima che queste potessero uscire.
 
«Oh, è stata una giornata faticosa. Tifa ...» la chiamò, e appena questa si voltò verso di lui fece in modo di avere solo per sé il contatto visivo «Perché non vai a riposarti ora. Ci penso io a loro.» le disse amorevole, stringendole le spalle e scoccandole un occhiolino.
 
Il volto della giovane si riempì di un sorriso sollevato.
 
«Grazie...» mormorò, voltandosi poi a fatica verso i due nuovi arrivati e sforzandosi di sorridere «Scusatemi.» concluse.
«Vai tranquilla, a Barret ci pensiamo noi.» scherzò Cid, e Wallace rispose con una sonora risata.
 
Shera la osservò in silenzio avviarsi verso la scala che portava al piano di sopra e scomparire poco dopo.
Quello che non vide furono le lacrime che finalmente poté permettersi di versare quando riuscì a rifugiarsi sotto le coperte, chiudendo gli occhi e tappandosi la bocca con una mano per evitare ai singhiozzi di diventare troppo forti e svegliare i ragazzi.
Si addormentò dopo molto, stremata dal pianto, mentre Barret si prendeva cura degli ospiti.
 
«Quindi ora siete senza casa?» chiese dopo aver ascoltato senza parole il racconto del pilota.
 
Cid annuì.
 
«Non potevamo mica restare lì. Gli zombies ci sono entrati in casa e ci avrebbero ammazzato se non avessimo avuto l'aeronave.» rispose, battendo un pugno sul tavolo col disappunto «Non bastava la miniera saltata in aria ...» mormorò contrariato.
«Non ho potuto prendere nemmeno i miei progetti.» si lamentò la sua consorte sconsolata «Ci avevo messo un giorno intero a ridisegnarli.»
 
Barret si scurì.
 
«Giuro che se è opera di quel Victor gli stacco quella testa bacata dalle spalle!» esclamò con rabbia.
«Tsh, se non fa prima lui a trasformarti in morto vivente.» gli rispose Cid «Ma non lo avevamo sconfitto?» domandò poi.
 
Wallace scosse il capo.
 
«Abbiamo saputo che non è stato ancora trovato il corpo, quindi tutto è possibile. Anche che quel bastardo sia ancora vivo.»
«E credi che voglia vendicarsi di noi?» chiese preoccupata Shera.
«Ovvio che sì! Abbiamo massacrato il suo dio!» replicò Cid.
«Bah, dio! Se fosse stato veramente un dio non sarebbe morto!» ridacchiò soddisfatto Barret ricordando lo scontro «Gliele abbiamo suonate di santa ragione, ed ora gli brucia aver perso. Sempre detto io che i SOLDIER sono una massa di montati lagnosi.»
«Ma è stato Cloud a dargli il colpo finale.» osservò Shera «Se se l'è presa con noi probabilmente lo farà soprattutto con lui. Lo avete avvisato?»
«Ah, quell'altro!» sbottò il capo di AVALANCHE scacciando l'aria con la mano «Non sai mai cosa gli passa per la testa! Ci ho provato ad avvisarlo, ma non ha voluto sentire parola. Se n'è andato come se nulla fosse e arrivederci. Da allora non lo abbiamo più visto. Sono due settimane! Anche il bambino che ci ha portato sta cominciando a chiedere di lui.»
«Che bambino?» fece Cid, incuriosito.
«Ah, un ragazzino dei bassifondi, ha il geostigma. Lo ha trovato e lo ha portato qui, chissà per quale motivo.»
 
Il pilota si corrucciò.
 
«È un bravo bambino, per carità.» continuò Barret «Anzi, è pure più responsabile di lui a dirla tutta!»
«Certo, strano è strano forte.» osservò Higthwind.
«Comunque, per stasera vi dovrete arrangiare sul divano.» disse a quel punto Wallace, cambiando argomento e indicando il divano in pelle vicino alle scale «Domani vedremo di trovarvi un posto migliore. Ci sono ancora delle case abbandonate in buono stato, qua vicino. Magari una potrebbe essere vostra.» ipotizzò, conducendoli verso la fine della serata.
 
La più lunga e difficile della loro vita, e dire che ne avevano passate tante!
 
***
 
Un pugno dopo l'altro il sacco da box piazzato al centro dell'arena oscillò pericolosamente, avanti e indietro un paio di volte, poi arrivarono i calci.
La giovane Principessa di Wutai, affannata e rossa in viso, sfogò così la sua frustrazione fino a che non si sentì abbastanza stanca da rinunciare, ma evidentemente non fu abbastanza, perché dopo aver tracannato mezza bottiglia d'acqua tornò a stringere nervosamente i pugni, sbruffando.
 
«Ma dove accidenti sono spariti, tutti!» si lamentò.
 
Quindi, cedendo agli impulsi compulsivi, estrasse dalla tasca il telefono e controllò per l'ennesima volta di non avere chiamate o messaggi non letti.
Non era necessario, visto che lo aveva sempre avuto in tasca, ma lo fece.
Si sentiva irrequieta da quando aveva saputo dell'epidemia di zombie in tutto il continente.
Aveva mandato qualcuno dei suoi ragazzi a sondare la situazione ma da più di una settimana non aveva più notizie.
Ci sarebbe andata lei, ma da quando suo padre si era ammalato Wutai era nelle sue mani, e in più aveva i suoi piccoli allievi a cui badare.
Aveva provato a chiamare Cloud ma non aveva ricevuto risposta nemmeno al messaggio in segreteria, Tifa gli aveva promesso che se ne sarebbe occupata ma non si era fatta più sentire, e Vincent non aveva neppure un telefono!
Sbuffò di nuovo, e decise.
 
«Non ce la faccio più ad aspettare! Al diavolo tutti, vado a controllare da sola!»
 
Quindi si tolse i guanti da allenamento e corse verso il palazzo reale, intenzionata a mettere un punto il prima possibile a quella situazione snervante.
 
***
 
Le moto sfrecciavano rombando nella prateria, immerse nel verde e nell'azzurro di una parte nel pianeta ancora intatta, nonostante la calamità si fosse abbattuta su di esso solo a pochi chilometri da lì.
Kadaj, Loz e Yazoo avevano trovato le loro, di un verde militare scurissimo, avevano trovato le loro in uno dei depositi abbandonati della base di Junon, sapientemente guidati da Victor. Lui invece aveva recuperato la sua dalla fattoria dei chocobo.
Il proprietario era stato alquanto sorpreso di rivederlo, specie dopo tutto ciò che era successo. E altrettanto strano era stato trovarlo con quei suoi compagni di viaggio che non avevano affatto un aspetto affabile, nonostante si sforzassero di esserlo.
Il SOLDIER però non ci fece caso, e ogni riferimento alle sue precedenti visite lì sembrò infastidirlo.
Li trattò con freddezza, non rispose a molte delle loro domande e ad altre si limitò a telegrafici si o no. Non chiese nemmeno che fine avesse fatto il suo chocobo, e sembrò volersi sbrigare ad andarsene.
 
«Niisan, loro non li trasformiamo in zombies?» chiese Loz, visto che tutti i villaggi fin ora incontrati avevano incontrato quel destino.
 
Osaka sembrò scurirsi ancor di più.
 
«Sono troppo pochi. Insignificanti.» li liquidò.
 
E così insieme ripartirono per la loro prossima meta, il luogo dove avrebbe trovato l'esca perfetta per la sua preda più ambita.
Kalm.

 
   
 
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