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Autore: Ser Balzo    22/02/2021    1 recensioni
Ti hanno detto che la guerra è arte, e che Clove e Dan non potrebbero essere più diversi.
Ti hanno fatto vedere che occorre esercizio, pazienza e una certa dose di estro poetico, e che quella sadica assassina e quello stupido mandriano non sono altro che due patetiche pedine, due profili su una parete scalcinata, miserabili vittime di un gioco ben più grande di loro.
Ti hanno insegnato tutto questo e tu hai imparato. E hai fatto bene.
Fino ad oggi.
Perché i Settantaquattresimi Hunger Games hanno spazzato via tutto, e ora niente ha più importanza. E chiunque tu sia, se un umile pedone, un coraggioso cavallo, un disciplinato alfiere o un'implacabile regina… sai già cosa accadrà, quando ti ritroverai tra il fango e le bombe, a pregare qualunque cosa perché ti rimetta gli intestini nella pancia e ti conceda finalmente l'oblio.
Ora guarda quei due ragazzi, quelle due anime inseguite da eserciti di ombre, braccate da legioni di demoni, e chiediti: qual è la prima regola dell’arte della guerra, la più importante?
Vincere?
Quasi.
Vincere è fondamentale, ma non essenziale.
Dovresti saperlo: prima della regola uno viene la regola zero.
Resta vivo.
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clove, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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22.
Le ombre, i demoni e l'arte della guerra



I couldn’t help but ask for you to say it all again
I tried to write it down, but I could never find a pen
I’d give anything to hear you say it one more time
That the universe was made just to be seen by my eyes

– Sleeping at last, Saturn


La svegliò un tintinniò di metallo. Sentiva le spalle avvolte da uno strano, formicolante torpore, così provò a muoverle.
Pessima idea.
Il dolore che le attraversò i muscoli bloccati le strappò un gemito. Si rese conto di essere in piedi, le braccia spalancate e legate con delle catene a due tubi incrostati di ruggine. La schiena grattava contro una parete umida e sconnessa.
«Buongiorno, principessa.»
Una piccola figura curva e pallida era emersa dalla penombra. Indossava una divisa nera, le maniche arrotolate fino ai gomiti. Sugli avambracci, segni bianchi di vecchie cicatrici.
Il sergente Ayla Wilkins posò lo sguardo su Deimos, vide il nulla dentro i suoi occhi e seppe di essere già morta.



Fuori dallo squarcio pioveva. Dentro il locale devastato – che forse un tempo era stato una libreria,   forse un negozio di profumi o forse entrambe le cose –, Cato e Clove osservavano le gocce spesse percuotere l’asfalto spaccato.
«Morta» disse Cato.
«Sì» rispose Clove.
«Ed è stato lui.»
«Sì.»
«Con la sciabola del capitano.»
«Sì.»
Cato tracciò delle curve errabonde con le dita sul pavimento ricoperto di polvere. «Curioso.»
«Curioso un cazzo» sibilò Clove. «Tu non l’hai visto. È stato…»
Cato alzò lo sguardo su di lei. «…terrificante?»
Le labbra di Clove si rattrappirono come carta gettata nel fuoco. Spalancò gli occhi e gli lanciò uno sguardo assassino; ma oltre all’ira, c’era qualcos’altro che brillava dietro le sue pupille. Prima che potesse dire qualcosa, un rumore di passi la azzittì. Accompagnato dal tintinnio sinistro della sciabola al fianco, Dan rientrò nella stanza.
«Nessuno in vista» disse. «Per un po’ dovremmo essere tranquilli.» Lo sguardo gli cadde sul fianco di Cato. «La ferita?»
«Va.»
«Bene.» Dan si sedette sui talloni di fronte a lui. «Fa’ il punto.»
Cato prese un dischetto nero dalla tasca e lo poggiò a terra. Al centro del disco si accese una luce bianca, da cui partì un fascio azzurrognolo che si allargò in un quadrato di una trentina di centimetri di lato. Cato unì pollice e indice sopra il quadrato e poi li separò, ingrandendo la ragnatela di strade della capitale fino a visualizzare una piazza rettangolare. «Noi siamo qui» disse, indicando il lato nord della piazza. «Un centinaio di metri più su c’è il fiume. Una volta attraversato, saremo nel centro di Capitol City.» Spostò la mappa per inquadrare una larga strada dritta orientata verso nordest. «Da lì vi basterà seguire Corso degli Eroi fino ad arrivare alla Piazza dei Martiri.»
Dan sollevò lo sguardo su di lui. «E tu cosa farai?»
«Io vi accompagnerò fino a tre quarti del tragitto, poi prenderò Via dei Primigeni, qui, e proseguirò verso il Senato.»
Dan mugugnò un assenso e tornò a guardare la mappa. «Non manca molto, quindi.»
Cato spense il disco e lo rimise in tasca. «Una mezza giornata, più o meno.»
«Mezza giornata» ripetè Dan a bassa voce. Rimase con lo sguardo perso nel vuoto per qualche momento, poi si riprese. «Poco, ma non troppo. Dieci minuti e ci muoviamo.»
Mangiarono mezza razione a testa e si divisero un pezzo di pane bruciacchiato che avevano trovato per strada, abbandonato vicino ad un cappottino azzurro e un orsacchiotto di pezza sventrato. Quando aveva visto l’imbottitura sparsa per terra, Clove era stata ad un passo dal dire agli altri due di non raccogliere il pane. Ancora adesso, non riusciva a capire perché.
Quando ebbe finito, Dan si alzò in piedi, spazzolandosi le briciole di pane dai pantaloni lisi. «Andiamo.»
Clove guardò fuori dal buco nel muro. Se possibile, la pioggia era ancora più forte. «Adesso?» si sorprese a chiedere.
Lui la scrutò, confuso più che stupito. «Hai paura di bagnarti?»
Un impercettibile rossore colorò le guance di Clove. «No.»
«Allora muoviti.»
C’era stato un tempo in cui Clove avrebbe ucciso per simili parole; e forse, per una frazione di secondo, ebbe anche l’istinto di farlo. Ma non mosse un muscolo, né disse una parola. Prese la sua roba, aiutò Cato a rialzarsi in piedi e seguì il ragazzo del Distretto Dieci oltre la soglia, lì dove tutto era grigio e lo scroscio della pioggia si mischiava con il rombo dei cannoni.



«Devo dirlo, hai proprio un ottimo tempismo. Stavamo giusto per svegliarti. Ci tenevamo che assistessi.»
La faccia morta di Deimos si ritrasse dal campo visivo di Ayla. A qualche metro da lei, sulla sua destra, il tenente Baeley, ancora svenuto, era incatenato ad un altro tubo, le braccia unite per i polsi e tese sopra la sua testa.
Dana.
Si guardò intorno, il cuore che martellava. La stanza era un piccolo, lurido scantinato. Tubi di ghisa ovunque sulle pareti annerite dalla muffa, illuminati da un’unica lampadina appesa al soffitto basso. Al centro, uno spesso e largo tavolaccio di legno. Sopra di esso, immobile, c’era Dana.



Il fiume Limen entrava a Capitol City da nordovest, scendeva giù verso sud, compiva una curva ampia un chilometro e risaliva poi verso nordest, dove si perdeva nel mare. Abbracciato da questa lunga ansa, il centro della città si ergeva sulla sponda nord. Clove ricordò i grattacieli di vetro e i palazzi di pietra che aveva visto scorrere fuori dai finestrini panoramici del treno che portava lei e Cato dritti verso il loro destino. Capitol City le era sembrata un regno abitato da dèi, perfetta per accoglierla quando sarebbe tornata vittoriosa dai Settantaquattresimi Hunger Games. Era talmente certa che l’avrebbe rivista che non aveva neanche perso tempo ad osservarla come si deve. Sapeva che sarebbe tornata.
In un certo senso, aveva avuto ragione.
«Libero» disse Cato.
Lei e Dan lo seguirono oltre il relitto del carro armato. Davanti a loro, alla fine dello spiazzo, il ponte della Giustizia si intravedeva appena oltre il muro scrosciante della pioggia. Il centro della città appariva come un’informe ammasso di curve e spigoli impastati tra loro.
«L’incomparabile profilo di Capitol City» disse.
A Dan scappò uno sbuffo divertito. Lei lo guardò quasi stupita; lui si irrigidì come se fosse stato fulminato da un arco elettrico, girò la faccia dalla parte opposta alla sua e tirò un piccolo calcio a un tubo di plastica ritorto.
Giunsero di fronte all’imboccatura del ponte. Ora Clove riusciva a sentire il rumore continuo e inesorabile del fiume scorrere sotto il rullare incessante della pioggia.
«Merda» disse Dan.
La strada del ponte si spezzava dopo una mezza dozzina di metri e scendeva giù dritta tra le acque. L’Esercito Regolare l’aveva fatto saltare.
«Era inevitabile» disse Cato, «ma pensavo avremmo fatto in tempo.»
Dan si avvicinò alla crepa larga un piede dove finiva la parte dritta della strada e scrutò in basso. «La base dei pilastri è ancora intatta» disse ai due. «Gran parte dei detriti affiorano dall’acqua. Non sarà una passeggiata, ma possiamo attraversare.»
Clove guardò Cato. «Non c’è un altro modo?»
«Possiamo percorrere il lungofiume finché non troviamo un ponte ancora intatto: con tutta probabilità, o il ponte Crassus o il ponte della Vittoria. Dove ci toccherà sgomitare tra i ribelli ammassati per l’assalto da un lato e tra i regolari trincerati dall’altro.»
Clove occhieggiò la schiuma bianca del fiume che si infrangeva contro i detriti del ponte. «Quasi quasi lo preferisco.»
Dan si slacciò la cintura con la sciabola dal fianco e se la mise a tracolla. «Andiamo.»
Clove lo osservò scivolare giù per la strada inclinata con un certo brivido. Non aveva grandi simpatie per i fiumi e le correnti in generale. Mentre poggiava le mani sull’ultimo pezzo di strada dritta e si preparava a lasciar lavorare la gravità, vide lampeggiare il ricordo di un giavellotto che sfiorava una treccia di capelli castani e piombava in acqua con una specie di pluf.
Pluf. Chissà se farai anche tu quel suono, quando poggerai il peso nel punto sbagliato e cadrai nel fiume.
«Ci sei?»
Cato era vicino a lei. Vide la sua mascella contratta, e si sforzò per non far cadere lo sguardo sul fianco ferito. «Sempre» gli rispose. «Andiamo?»
«Andiamo.»
L’asfalto bagnato non offrì alcuna resistenza. L’accelerazione le strappò una stilla di panico, ma prima che potesse prepararsi a tenerla a bada era già arrivata in fondo. Sentì gli stivali battere sui detriti e scattò in piedi, ma usò troppa forza e si sbilanciò in avanti. Vide l’acqua turbinare oltre il bordo frastagliato del cemento sul quale stava incespicando, e seppe che non ce l’avrebbe fatta a fermarsi.
Pluf.
Una stretta forte la bloccò sul limitare del bordo, le spalle e la testa già pronte a farsi inghiottire dalla corrente.
Dan la spinse indietro per il pettorale dell’armatura. «Prima o poi ti toccherà imparare a non correre troppo.»
Lei lo guardò istupidita. Ancora una volta, si trovò nella condizione di non riuscire ad aprire bocca.
Dan tese una mano a Cato e lo aiutò a rimettersi in piedi. «I detriti sembrano stabili» disse. «Ma meglio andare piano.»
«Tranquillo» gli disse Clove. «Non ho fatto tutta questa strada per crepare adesso.»
Lui le puntò addosso i suoi occhi scuri. In mezzo alla coltre grigia della pioggia, sembravano due pezzi di ossidiana. La fissò per un tempo che parve infinito, senza dire nulla; poi si girò e cominciò a camminare.



Ayla scattò in avanti. Le catene sferragliarono, sprizzando due nuvolette di ruggine sui tubi dove erano fissate. «Non la toccate
Dall’altra parte del tavolo, Phobos le fece un sorriso scheletrico. «Speravamo proprio che lo dicessi.»
«Vedi» le disse Deimos, facendo lampeggiare un bisturi alla luce della lampadina. «Scuoiare vivo qualcuno è sicuramente divertente. Ma farlo in compagnia… è il massimo.»
Ayla guardò Dana. La piccola Volontaria aveva gli occhi spalancati, le pupille sgranate puntate su di lei in una disperata richiesta d’aiuto. Era immobile, ma cosciente. Volevano che fosse sveglia, mentre la torturavano.
«Allora» disse Phobos con voce piena di allegra follia, «da dove cominciamo?»



Clove si issò sull’ultimo tratto di banchina e strisciò all’ombra di un blocco di marmo, uno dei tanti frammenti dell’obelisco che ornava il centro della piazza prima che l’artiglieria ribelle lo facesse saltare per aria. La pioggia se n’era andata, aprendo il sipario dietro cui aveva nascosto la città. Vedendo gli edifici anneriti dalle vampate delle esplosioni, le facciate come gengive sanguinanti a cui erano stati strappati i vetri delle finestre, Clove si chiese se non fosse stato meglio continuare a non vederla.
Cato sbirciò da sopra il pezzo di obelisco, poi estrasse di nuovo la mappa portatile. «Questa è la piazza dove siamo» disse indicando un semicerchio che si restringeva allontandosi dal ponte. «In fondo avrebbe dovuto esserci l’inizio del corso degli Eroi, ma ora è sepolto sotto i palazzi che gli stavano ai lati. Dovremo deviare verso nord, restare paralleli al corso e sperare di riuscire a riprenderlo il prima possibile.»
Dan annuì. «Quante munizioni abbiamo?»
Clove estrasse il caricatore della propria pistola. «Sette colpi.»
«Dovremo procurarci delle armi.»
«Non preoccuparti» disse Cato in tono lugubre. «Ne troveremo a mucchi.»



«Direi che per questa volta possiamo fare una cosa diversa: io comincio da sopra, tu da sotto. E ci incontriamo a metà strada. Non è carino?»
«Certo, caro, ma così lei soffre per metà del tempo. È un po’ un peccato.»
Ayla sentiva le lacrime scenderle giù per le guance. Non poteva fare niente. Era incatenata, inerme, costretta a guardare una ragazzina per cui avrebbe dato la vita scuoiata viva da due agghiaccianti psicopatici.
«Vi prego» singhiozzò. «Prendete me. Vi prego.»
Phobos le fece un gran sorriso. «Grazie, cara, davvero. Sei la spezia che rende il piatto più… come dire…»
«…gustoso?» propose Deimos.
«…magico.»
Lui ridacchiò. Sembrava il raglio di una carcassa d’asino. «Magico. Sì sì.»



I colpi dei cannoni cominciavano a farsi sempre più vicini. La terra era pervasa da una vibrazione sorda e continua, mentre le raffiche veloci delle mitragliatrici e quelle gravi e ponderate della contraerea spezzavano l’aria.
«Cos’è questo?» chiese Dan, accennando all’edificio alla loro destra. Nella facciata che stavano fiancheggiando non sembrava esserci alcuna finestra: era un blocco unico, alto decine di metri e lungo centinaia, liscio e bianco come un guscio d’uovo.
«È il ministero della Cooperazione» disse Cato. «Questo lato dell’edificio è quello occupato dal quartier generale dei Pacificatori. Per questo non ci sono finestre. Nessuno deve sapere cosa succede dentro.»
Clove misurò con lo sguardo l’altezza della facciata. Sembrava un’onda anomala di pietra, pronta a travolgere chiunque fosse sulla strada. O una lapide. Una grande, gigantesca, scintillante lapide.
La strada era relativamente sgombra da macerie e cantieri; se non fosse stato per qualche lampione a terra e i tronchi spezzati degli alberi ornamentali nelle aiuole, Clove difficilmente avrebbe potuto dire che ci fosse una battaglia in corso.
«Una volta superato il ministero» disse Cato, «dovremmo riuscire a girare a destra e tornare finalmente sul corso. Questa zona sembra essere stata—»
Con uno scatto meccanico, dalla facciata monolitica emerse al livello del terreno un tassello rettangolare alto un paio di metri e lungo il doppio. Il tassello iniziò a scorrere di lato, ma si bloccò a metà strada.
«Qui» disse Dan, indicando la vasca vuota di una fontana circolare. I tre saltarono dentro e si appiattirono dietro il bordo.
Dalla porta giunse uno scambio indistinguibile di voci nervose. Un uomo in completo blu uscì dal varco che il tassello aveva aperto, si guardò intorno e poi fece segno a qualcuno di seguirlo. Dalla porta uscirono una donna bionda avvolta in un lungo cappotto e un’altro uomo dai capelli rasati in maniche di camicia.
«Non possiamo andare via senza chiuderla» disse l’uomo rasato. «Non ci vorrà molto perché capiscano—»
«Ma cosa vuoi che gli importi» ribatté l’uomo in completo blu. «I tesserini, forza.»
L’uomo rasato e la donna col cappotto gli consegnarono due portafogli neri. Lui ci aggiunse il suo e li lanciò in mezzo alla strada. Fece per muoversi, ma si bloccò fissando la donna. «Che cazzo è quello?»
La donna aveva aperto il cappotto per consegnargli il tesserino; sotto, si intravedeva il candore immacolato di una divisa da Pacificatore.
«Ho pensato che se ci imbattiamo nei nostri, noi…» balbettò lei. «Con questa in caso possiamo fargli credere che—»
«Che cosa, che ti eri allontanata un attimo per un caffè?» sbottò l’uomo con il completo blu. «Ma porca puttana, Camilia…se becchiamo una pattuglia dei nostri ci fucilano. Sempre se non incrociamo quei cazzo di invasati degli Universitari, perché in quel caso…»
«Sentite, non c’è tempo» disse l’uomo rasato. «Prima raggiungiamo il fiume, prima troviamo un modo di passare. Non importa cosa abbiamo addosso, tanto qualcuno che cercherà di farci saltare la testa lo troveremo sempre.»
L’uomo con il completo blu sospirò, poi annuì. La donna si abbottonò il cappotto, e i tre si diressero a testa bassa nella direzione da cui Clove, Cato e Dan erano giunti.
«Le pulci abbandonano il toro» disse Dan, alzandosi in piedi.
Cos’è, uno dei vostri modi di dire da distretto povero?, pensò Clove. Si immaginò anche di dirle, quelle parole; ma non ci riuscì.
«È davvero finita» disse Cato, più a se stesso che agli altri due.
«Ti dispiace?» gli disse Dan, la bocca curva in una piccola smorfia.
La stessa di Artemisia, pensò Clove. La stessa che avrei fatto io.
Cato fissava la facciata del ministero. «Non più.»
Uscirono dalla fontana e si rimisero in cammino. Dopo qualche passo, Dan si fermò e prese a raccogliere qualcosa da terra. Erano i tesserini che l’uomo con il completo blu aveva gettato.
«Che fai?» gli chiese Cato.
«Non si sa mai» disse lui, mettendosene uno nella tasca della giacca. Mentre si rialzava, la punta del fodero della sciabola sibilò strisciando sull’asfalto. «Chi sono gli Universitari?»
«Non ne sono certo» rispose Cato, «ma immagino si stessero riferendo agli studenti o ai professori dell’Università. È la scuola più importante di tutta Panem. Nel nostro Distretto, solo i due studenti migliori dell’Accademia potevano avere il permesso di iscriversi.»
«Solo due» mormorò Dan, un sorriso amaro sul volto. «Il caro Presidente non resiste a certe cose.»
Nel mentre che Dan si era fermato per raccogliere il tesserino, lo sguardo di Clove era rimasto catturato dal portellone dischiuso da cui erano usciti i tre pacificatori. Nel varco lasciato aperto dal grosso tassello bianco si intravedeva una breve galleria, una porzione di un grande cortile interno e in fondo una sezione del colonnato che doveva corrergli tutto intorno. Qualcosa di strano stava accadendo in quel cortile, qualcosa che Clove non riusciva a comprendere del tutto. Sembrava…
…neve?
Senza che se ne rendesse conto, cominciò ad avvicinarsi. Il selciato del cortile interno era coperto da grandi macchie di un bianco ancora più immacolato della facciata senza finestre. Le bastò qualche passo per rendersi conto che quelli che volteggiavano nel cortile per poi adagiarsi a terra non erano giganteschi fiocchi di neve, ma fogli di carta. Un oceano di fogli di carta.
«Clove?»
Si girò. Dan la fissava con aria guardinga.
«Guardate» disse lei, indicando lo spicchio di cortile. «Che stanno facendo?»
Cato si affiancò a lei e scrutò oltre il portellone. «Credo siano documenti» disse.
«Documenti?»
«Li buttano tutti nel cortile per poterli raccogliere e bruciare più in fretta.»
«Fanno pulizia» disse Dan. «Per poi scappare dall’uscita di servizio.»
D’un tratto, nell’inquadratura del cortile, comparve un gruppo di Pacificatori. I tre, colti alla sprovvista, si nascosero al lato dell’apertura.
«Ci hanno visti?» sussurrò Dan.
«Non credo» rispose Clove.
«Allora andiamo via» disse Cato.
 «Un momento» replicò lei.  
«Che vuoi fare?»
Clove sbirciò oltre il portellone. Il gruppo era ancora nel cortile. «Sono fermi» disse.
«Bene» commentò Cato. «Andiamo, forza.»
«Un secondo.»
Dalla squadra dei Pacificatori si era staccata una donna alta e massiccia dai capelli rossi legati in una rigida crocchia. La sua divisa bianca aveva i risvolti neri e le spalline dorate. Si girò di scatto di 180 gradi, fronteggiando il gruppo.
«Plotone! In-riga!»
I Pacificatori obbedirono, allineandosi di fronte a lei. L’acciaio scuro delle loro armi baluginava tra la pioggia di carta.
La donna prese un foglietto dalla taschino della divisa, lo spiegò e lo tenne disteso in verticale, come fosse un’antica pergamena.
«In nome di Panem e Panem sola, per l’autorità conferitami dal Presidente della Federazione, dal ministro della Cooperazione e dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza, dichiaro il Primo Questore Octavia Xander, Comandante in Capo della Guardia Pacificatrice, colpevole di tradimento e di vilipendio degli ideali dello Stato, secondo gli articoli 340 e 341 del codice penale, e la condanno a morte tramite fucilazione.» La donna ripiegò con cura il foglio e lo rimise nel taschino. «Plotone! Caricate!»
I soldati in linea si scambiarono sguardi nervosi. Le armi puntate a terra, esitavano.
«Plotone!» strillò la donna, paonazza. «Ho detto caricate!»
Gli otturatori delle pistole mitragliatrici scattarono in posizione di tiro.
«Puntate!»
I Pacificatori sollevarono le armi.
«Panem oggi! Panem domani! Panem per sempre! Fuoco!»
Il fracasso della raffica giunse rimbalzando fino alle orecchie di Clove. Vide la faccia della donna, rossa come i suoi capelli, contratta in un ringhio di dolore. La osservò fare un passo in avanti, il busto massacrato dai proiettili, come se volesse rimproverare i suoi uomini di non aver fatto un buon lavoro; poi cadde in ginocchio, emise un gorgoglìo soffocato e rovinò a faccia in giù nel cortile.
«Che è successo?» disse Cato.
«C’era una donna» rispose Clove, ritraendosi dall’angolo. «Lei… credo fosse il comandante in capo dei Pacificatori.»
«Il comandante?» chiese Dan.
«Sì.»
«E…?»
«Credo… credo si sia condannata a morte da sola.»
Dan la fissò. Ancora una volta, lei ebbe l’impressione di guardare due pezzi di vetro nero.
«Succede» le disse.



Ayla provò l’impulso di vomitare. «Prendete me, prendete me» mormorò, la voce rotta in una cantilena. Con assurda lucidità, decise che piuttosto che continuare ad assistere sarebbe volontariamente scivolata nella follia. «Me, me, me…»
«Senti che musica» disse beato Deimos. «Va bene, abbiamo perso abbastanza tempo. Comincio io.»
Phobos sbuffò. «Cominci sempre tu.»
Lui sospirò con fare paternalistico, poi abbassò il bisturi. «Va bene. Vai, sù.»
Phobos saltellò felice, avvicinandosi alla faccia di Dana. «Grazie caro.»
«Mi raccomando: prima le orbite, poi la mandibola. Non fare pasticci come l’altra volta.»
«L’altra volta era un sacco di tempo fa… ancora che me lo rinfacci?»
«Fin quando servirà. Sù forza, il pubblico sta aspettando.»
Ayla abbassò la testa e chiuse gli occhi. Aveva visto corpi esplodere come sacchi di vernice, occhi schizzati fuori dalle orbite per l’onda d’urto di un’esplosione, cadaveri arrostiti che le avevano fatto rimescolare lo stomaco per la nausea e la fame insieme; ma questa volta non poteva vedere. Chiuse gli occhi e abbassò la testa, pregando qualunque spietata divinità ci fosse lassù che le concedesse, se non la pace, almeno l’oblio.



Prima ombre sfuggenti, poi gruppetti rapidi e silenziosi; infine, una vera e propria massa, tutta incolonnata e diretta verso nordovest. Non ci volle molto a capire quale fosse la meta di quella folla di capitolini inermi: negli schermi sopravvissuti ai bombardamenti, il presidente Snow invitava tutti gli abitanti della città a trovare rifugio nei confini della propria villa.
«Pazzo bastardo» disse Dan. «Qual è il suo piano?»
«Non ne ho idea» replicò Cato. «Ma potrebbe esserci Rorke di mezzo. Ribelli, regolari e civili, tutti convergenti verso un unico punto...»
«…sta radunando la mandria per il macello.»
Nessuno pareva far caso alla corazza nera di Clove, alla divisa mimetica di Cato o alla sciabola da cerimonia di Dan. Uomini, donne e bambini strascicavano un piede dopo l’altro, lo sguardo stralunato perso nel vuoto. C’erano pellicce, piume, cravatte, seta, velluto, plastiche e fibre vegetali: una gigantesca, grottesca sfilata che avanzava tra rovine e la polvere di un mondo che un tempo era suo. Gli abitanti di Capitol City, invidiati e temuti da tutta Panem, ridotti ad un branco di pagliacci dementi e spaesati.
Se non fosse che stiamo per crepare tutti quanti, pensò Clove, ci sarebbe veramente da ridere.
Tre camion passarono rombando a sinistra della colonna, diretti in direzione opposta alla loro. Clove intravide delle divise kaki e si chiese a quale corpo speciale appartenessero i soldati che le indossavano. Quando furono ormai lontani, si rese conto che il kaki non era altro che bianco talmente sporco di polvere e terra da aver cambiato colore.
Rispetto alla marcia nelle Lande Ingenerose, quella non era altro che una passeggiata; eppure, essere costretti a seguire il passo infinitesimo quell’esercito talmente svuotato dagli eventi da non essere neanche più in grado di provare disperazione rendeva ogni metro percorso una conquista esasperante. Non era neanche più possibile uscire dalla colonna: la strada si faceva sempre più stretta, schiacciando le persone le une contro le altre. Erano costretti ad andare avanti, inermi di fronte alla spinta immensa della massa.
«Ore due» disse ad un certo punto Cato. «Laggiù in fondo. Li vedete?»
Clove sollevò lo sguardo. Un palazzo crollato aveva lasciato un varco nella schiera di edifici che chiudevano il lato destro della via: stagliati nel cielo plumbeo, tre grattacieli gemelli svettavano esili e intatti.
«Cosa sono?» chiese Dan.
Una scossa bruciò le tempie di Clove. «È il Paratorium» mormorò.
«Il cosa?»
«È dove vengono ospitati e allenati i Tributi prima dell’inizio di ogni Gioco» disse Cato. «È dove siamo stati io, Clove e tua sorella... prima dell’Arena.»
Dan rimase impassibile. «Capisco» replicò. «E quindi?»
«Piazza dei Martiri» disse Clove. «È lì.»
«Cento metri più a nord» specificò Cato. «Ma sì. È lì.»
«Bene» disse Dan. «Come ci arriviamo?»
«Per prima cosa dobbiamo uscire da qui. Spostiamoci verso destra, un poco per volta. Appena si aprirà una strada, ci infiliamo dentro.»
Dan annuì. «Va bene.»
Clove sollevò lo sguardo verso un balcone al primo piano. Un soldato in giubba nera strillava da un megafono, leggendo da un tablet che teneva in mano.
«…non chiedo molto, anzi non chiedo niente: solo che coloro per cui combatto non mi voltino le spalle. Qui al ponte nessuno riposa, nessuno cede: i ribelli affogano nel loro sangue, piangono di rabbia di fronte al nostro ardore. I miei fratelli sono morti, i miei figli sono morti, ma io non cederò, perché so che voi siete con me. Perché so di essere la sottile linea bianca che separa il popolo di Panem dalla bestia della ribellione!»
Clove aveva già visto quell’uniforme: dietro un tavolo, sotto un volto alieno dagli occhi verdi. Quell’uomo sul terrazzo non era il colonnello Rorke, ma come lui apparteneva alla Guardia Presidenziale. A quanto sembrava, il corpo paramilitare più importante della nazione aveva deciso di prendere in mano la gestione del morale.
«Se io cado, i ribelli vi cercheranno, i ribelli vi staneranno, i ribelli sevizieranno le vostre mogli, schiavizzeranno i vostri mariti, prenderanno i vostri figli e li faranno combattere tra loro per il proprio divertimento!»
«Clove?»
Lei girò la testa verso Dan. Lui la guardava, la mano tesa verso di lei. «Sì?»
«Dammi il braccio.»
Clove lo guardò come se le avesse appena chiesto di ballare con lei. «Come?»
«Il braccio. Dobbiamo stare uniti mentre ci spostiamo.»
Oh. «Sì. Certo.»
Clove passò la mano attorno all’incavo del gomito di Dan e si ritrovò spalla a spalla con lui. Non era la prima volta che si trovavano così vicini, ma era sicuramente la prima in cui questo accadeva senza che cercassero di uccidersi a vicenda. Il lato imprevedibile della vita.
«Tutta Panem diventerà un’Arena! Cittadini di Capitol City, non mi tradite! Cittadini di Panem, fate il vostro do—»
Non ci fu molto tempo per reagire. Un fischio acuto, un botto assordante e Clove cadde a terra, spinta da un’ondata rovente. Qualcuno sotto di lei gridò, mentre qualcosa le rotolava sopra. Saltò in piedi, spinta dagli automatismi dell’addestramento. Gli occhi erano pieni di polvere. Prese a tentoni la borraccia dalla cintura e si versò un po’ d’acqua in faccia. Sbattè le palpebre, tossì e vide il cratere che si era aperto sulla strada una ventina di metri più avanti. Un mattone rotolò verso di lei: quando si fermò davanti ai suoi piedi, si rese conto che era un pezzo di avambraccio.
Alla sua destra, Dan stava aiutando Cato a rimettersi in piedi. Clove si avvicinò a loro, passò sopra un corpo immobile e afferrò la mano libera di Cato. «Ci siete?» chiese ai due.
«Io sono a posto» disse Dan.
«Anche io» mormorò Cato. I suoi occhi fissarono il cratere. «Qualche metro più vicini e qualche persona in meno a prendersi le schegge e quel proiettile ci avrebbe fatto a brandelli.»
«E che la fortuna sia sempre a nostro favore» disse Dan.
 Uno dopo l’altro, gli sfollati di Capitol City si rialzarono in piedi, mentre gemiti, urla e singhiozzi riempivano la via. Qualcuno rimase a terra, inginocchiato vicino a corpi senza vita con cui fino a qualche momento prima aveva condiviso quel viaggio di folle speranza; ma la maggior parte, stordita, silenziosa e mansueta, tornò al proprio posto, serrò i ranghi e riprese a marciare. Tenendosi stretti sottobraccio, Clove, Dan e Cato seguirono il flusso della folla, spostandosi appena era possibile verso destra. Erano ormai quasi giunti a toccare la sponda di quel ciclopico fiume di esseri umani, quando la marcia rallentò fino a fermarsi.
«Che succede?» chiese Clove.
«Non ne ho idea» rispose Cato.
Si mossero di qualche passo, poi si fermarono di nuovo. Un vociare confuso cominciò a serpeggiare tra la folla.
«C’è un blocco…»
«Che blocco?»
«Controlli.»
«Non ci fanno passare?»
«Il Presidente ha detto—»
«Fanno passare, fanno passare! Vogliono vedere se ci sono ribelli infiltrati.»
«Come infiltrati!»
«Merda» sussurrò Dan.
Cato scrutò oltre la distesa di teste davanti a loro. «Duecento metri, posto di blocco. Due mitragliatrici, sette uomini. Ma ce ne saranno altri.»
«Quanti?»
«Un plotone, almeno.»
«Non ce la faremo mai» disse Clove. «Dobbiamo andarcene.»
La folla si mosse di nuovo. Un paio di metri più avanti, la strada si allargava in una piazza quadrangolare: non era molto larga, ma sarebbe bastata a sottrarsi alla spinta della folla.
«Muoviamoci con calma» disse Cato. «Sarà difficile per loro notarci, ma non si sa mai.»
Un metro e mezzo. Un metro. Un braccio. Un passo, poi un altro ancora, e furono nella piazza. Com’era naturale, la colonna allentò le maglie non appena fu libera dell’angusta costrizione della via; approfittando di quel riflesso, Clove, Dan e Cato si addossarono ad un portone di legno massiccio dipinto come se fosse coperto di verderame.
«Ci hanno visto?» disse Dan.
Clove sbirciò il posto di blocco in fondo alla piazza. Da quella distanza, coperti dalla folla, i soldati non erano altro che piccoli coriandoli bianchi. «Non credo proprio.»
Cato passò un dito sulla serratura del portone. «È una serratura vecchia. Meccanica, addirittura. Potremmo farla saltare, ma lo sparo attirerebbe l’attenzione.»
Un coacervo di grida rabbiose giunse dalla testa della colonna. Clove vide l’agitazione attraversare la folla come un’onda elastica.
«Ho come l’impressione che tra poco non sarà più un problema» disse Dan.
«Chiudono!»
«Chiudono?»
«Come chiudono?»
«Non fanno più passare!»
«Non è possibile!»
«Il Presidente ha detto di andare da lui!»
«Dobbiamo andare dal Presidente!»
«Fateci andare dal Presidente!»
La folla prese a spingere contro il posto di blocco. Le macchie bianche si moltiplicarono. Qualcuno gridò un ordine perentorio.
«Traditori!» gridò qualcuno.
«Traditori!»
«Bastardi!»
«Sono ribelli mascherati!»
«Fateci entrare!»
«Ammazziamoli!»
Clove estrasse la pistola, mirò alla seratura e premette il grilletto.
In quel momento, i soldati cominciarono a sparare.
Cato spinse il battente della porta. Non si apriva. «È bloccata.»
Gran parte della folla stava cominciando a rinculare verso la via. Le persone si urtavano, cadevano, venivano calpestate. Qualcuno cominciò a correre verso di loro.
«Spingete!» gridò Dan. Tutti e tre puntarono i piedi e spinsero con tutta la loro forza sul battente. Sotto gli spari si udì un gemito e un gran tonfo; nella porta si aprì uno spiraglio di una trentina di centimetri.
«Dentro, dentro!»
Clove attraversò lo spiraglio dopo Cato. Dietro la porta c’era un androne ampio con il pavimento a scacchi e due colonne di porfido rosso, oltre le quali un’ampia scalinata si avvolgeva intorno ad un ascensore di ferro battuto. Una lunga tavola di legno laccato, che un tempo forse era stata il fianco di un pesante scaffale, giaceva a terra, vicino a un cassettone e un divanetto ancora addossati all’anta semiaperta.
Dan era per metà ancora fuori, quando qualcuno lo spinse nell’androne con violenza, facendolo cadere a terra. Il cassettone gemette strusciando sul pavimento, mentre la folla disperata si accalcava sul portone.
Clove afferrò il polso di Dan e lo tirò su. I tre si lanciarono verso le scale, mentre il portone si apriva di schianto e una mandria impazzita di capitolini terrorizzati si riversava nell’androne. Un altro proiettile d’artiglieria cadde nella piazza, facendo tremare tutto il palazzo.
Clove saliva le scale due gradini per volta, mentre Cato sbuffava come un mantice e la sciabola di Dan sbatteva ritmicamente contro la sua gamba. Arrivati al sesto piano, Cato emise un gemito e crollò in ginocchio sul pianerottolo.
Clove si lanciò verso di lui. Con sollievo, scoprì che non era stato ferito; ma era pallido e sudato, il corpo scosso da un tremito leggero ma persistente.
«Andate» mormorò lui. «Non posso—»
«Non ci provare» lo interruppe Clove. «Dan!» Indicò la porta sul pianerottolo davanti a loro. «Aprila!»
Dan andò alla porta e provò a spingere. «Chiusa!»
Clove trascinò Cato vicino alla porta. Non c’era serratura. A destra dell'uscio, un lettore ottico segnalava l’alto livello di protezione dell'appartamento.
Il macello di strilla della folla rimbalzava tra le pareti. Ancora qualche momento e sarebbero arrivati a travolgerli.
«Andate» disse di nuovo Cato. «Andate o è la fine.»
«Sta’ zitto!» gli urlò Clove. Con un ruggito di rabbia, si lanciò contro la porta. Il battente rimase immobile.
«È inutile, è corazzata» disse Dan.
Lei lo incenerì con lo sguardo. «Hai forse un’idea migliore?»
Lui si frugò nelle tasche e tirò fuori il tesserino dei pacificatori; sul suo viso parve brillare una luce trionfante, ma si spense subito per lasciare spazio a un ringhio di frustrazione. «No.»
Clove guardò le scale. La folla stava aggredendo l’ultimo tratto che li separava da quel piano. Il tempo a disposizione per inventarsi qualcosa era finito. Non potevano più scappare.
Poi la sua mente ebbe un lampo, strappò il tesserino dalla mano di Dan e lo poggiò sul lettore ottico.
Con uno scatto, la serratura si aprì.
«Vai, vai, vai!»
Dan prese Cato e si infilò dentro l’appartamento. Clove schizzò alle loro calcagna, afferrò la porta e spinse; ma un braccio si infilò nell’apertura, impedendole di chiudere il battente. Il peso della folla cominciò a spingere contro di lei. Puntò i piedi, ma gli stivali iniziarono a scivolare sul pavimento. Contro una simile sproporzione di forze, non poteva competere.
Un leggero spostamento d’aria, un tonfo liquido; poi Clove avvertì la forza di Dan unirsi alla sua, e insieme riuscirono a chiudere il battente. Le grida e gli spari si spensero, come se qualcuno avesse premuto un interruttore. Esausta, Clove si lasciò cadere a terra. 
Accanto a lei, avvolta in una pozza di sangue, c'era la metà del braccio che aveva tenuto aperta la porta
Con un sibilo e un piccolo scatto, Dan rinfoderò la sciabola. La guardò, e per un momento parve quasi che volesse dirle qualcosa; ma tenne le labbra dritte, le diede le spalle e si allontanò, lasciandola lì sul pavimento.



«Cara, cara, aspetta» sentì dire Deimos in tono irritato. «Non sta guardando.»
«Come non sta guardando?»
«Eh no.»
«Te l’avevo detto che dovevi tagliarle le palpebre.»
«Non ricominciare, per favore…»
«Be' allora fa’ qualcosa!»
Mentre sentiva i passi di Deimos avvicinarsi, Ayla si rese conto con una strana chiarezza di aver finito le lacrime. Poteva sentire distintamente i dotti lacrimali pompare inutilmente a vuoto, alla  ricerca del pianto in cui avrebbe dovuto mutarsi almeno una minima parte del dolore infinito che urlava dentro di lei. Ma non c’era più niente, lì dentro. Non c’erano più lacrime. Aveva creduto di averle finite da tempo; ma ne aveva ancora un’ultima, piccola scorta, nascosta nelle profondità del suo animo. E anche quella, adesso, era finita.
Non c’erano più lacrime, per il sergente Ayla Wilkins.
Restava solo l’odio.



Erano in quattro: madre, padre e figlia piccola seduti sul divano di velluto verde smeraldo, l’avox servitore di fronte a loro. Le tende bianche alle finestre ammorbidivano la luce grigia che veniva da fuori.
Clove posò lo sguardo sulla bambina. Somigliava a sua sorella.
Chissà se è viva. Chissà se mia – quella che avrebbe dovuto essere mia madre è viva. Con ogni probabilità, non lo saprò mai.
La madre aveva la faccia tonda e gli occhi azzurri, mentre il padre era un ometto con dei baffi folti e la testa liscia e lucida come un pomo d’ottone. Il volto dell’avox aveva un’espressione lontana e serena, come una gelida polla d’acqua di montagna. Aveva ancora in mano la pistola.
Dan aprì le dita contratte dal rigor mortis e prese l’arma. Era un vecchio revolver, un oggetto da collezione che aveva l’aria di non aver mai visto una guerra. «Ha sparato agli altri tre e poi si è fatto saltare la testa» disse, guardando l’avox. «Ma perché?»
«È un avox» disse Cato. «Con tutta probabilità, gliel’hanno ordinato.»
Dan alzò lo sguardo su di lui. «Ordinato?»
«Gli avox sono proprietà della famiglia presso cui servono» disse Clove. «Fanno tutto ciò che gli viene chiesto.» Continuava a fissare la bambina. «Evidentemente, non volevano vivere in un mondo che non era più il loro.»
Dan parve sul punto di dire qualcosa, poi si alzò e lanciò la pistola a Cato. «Due colpi. Ma almeno è qualcosa.»
Esplorarono il resto della casa. L’appartamento era grande e immacolato, ma spoglio, senza identità – quasi un non-luogo. In cucina, Clove trovò un paio di coltelli e se lì infilò alla cintura; poi, per un istinto che non riuscì a comprendere, si mise a cercare la camera della bambina. La trovò in fondo alla casa, quasi agli antipodi della stanza dei genitori. Una grande finestra illuminava un letto singolo poggiato su un pavimento di parquet lucido, circondato da armadi laccati di un bianco immacolato che coprivano tutte le pareti. Non c’erano altri mobili. Uno strano senso di vertigine la colse, e si allontanò in fretta da lì.
Trovò gli altri due nella stanza di disimpegno dell’ingresso. «Dov’eri finita?» le chiese Dan.
«Ero… ho trovato questi» disse lei, accennando ai coltelli alla cintura.
Dan lanciò uno sguardo distratto alle due armi improvvisate, poi spostò gli occhi verso Cato. «A quest’ora la folla si sarà dispersa» disse. «Possiamo provare a proseguire.»
«Ormai è buio» disse Clove. «Forse ci farebbe bene riposare.»
«Riposeremo quando sarà tutto finito.»
«Siamo esausti e Cato è ferito» ribatté lei. «Non ha senso fare le corse se poi muori perché non riesci più a stare in piedi.»
Un lampo oscuro passò negli occhi di Dan. «Rorke—»
«Sta aspettando che i ribelli e gli sfollati si concentrino nella villa del Presidente» lo interruppe lei. «Un paio d’ore non cambieranno le cose.»
Dan la fissò a lungo. Una parte di Clove si preparò a estrarre i coltelli.
«Due ore» disse lui alla fine. «Non una di più.»



Quello che accadde negli istanti successivi in quel misero e anonimo scantinato perso nella periferia di Capitol City si può forse spiegare con l’incuria e la forte umidità che aveva corroso le tubature e con i prodigi che può creare l’adrenalina quando si riversa nel corpo di un essere umano deciso a proteggere i propri figli. Che tra il sergente Wilkins e il soldato semplice Serkins non ci fosse alcun legame biologico, non aveva mai avuto così poca importanza.
Con un rumore a metà tra uno schiocco e un gemito, i due tubi che tenevano ferma Ayla si squarciarono. La ghisa cedette come se fosse stata creta, e il sergente cadde addosso a Deimos, paralizzato dallo stupore.
«Phobos!» gridò Deimos. «Pho—»
 Ayla gli infilò le mani in bocca. Sentì i denti dello IEROS affondare nelle sue dita, ma non provò alcun dolore. Non provava nulla. La sua ira era così piena da averle svuotato la mente, lasciandola con l’adamantina, agghiacciante volontà di uccidere.
Deimos gorgogliò qualcosa, le mani bianchicce che graffiavano la faccia di Ayla.
Lei cominciò a tirare.
Paralizzata da un orrore che per una volta era tutto suo, Phobos assistette all’orribile spettacolo della bocca di suo fratello che si apriva sempre di più, bloccata nella morsa ferrea e sanguinante del sergente. Un mugolio uscì dalla bocca di Deimos, sempre più acuto e penetrante; poi ci fu un orribile suono che pareva il digrignare di un esercito di denti, uno schiocco e da uno strappo carnoso, e il mugolio divenne lo strillo di una bestia scannata.
Phobos sentì qualcosa di umido attraversarle le guance, e si rese conto che stava piangendo.
Abbassò lo sguardo, istupidita. Sul tavolo, vicino al ginocchio sinistro della ragazzina, c’era la sua pistola lanciadardi. Il suo corpo venne attraversato da un brivido, e realizzò che a produrglielo era stato un ringhio così basso da essere quasi inudibile. Rialzò gli occhi. Ayla era in piedi, le mani lorde di sangue, le catene che le pendevano dai polsi e uno sguardo così fermo e spietato da farle girare la testa.
Non riuscì ad impedirselo. Mentre prendeva la pistola, la sua vescica cedette e le inzuppò i pantaloni.
«Non è possibile» mormorò, un sorriso folle sul volto rigato di lacrime, mentre puntava la pistola contro Ayla. «Non è possibile.»
Premtte il grilletto. Il dardo si piantò sulla spalla destra di Ayla. Imperturbabile, lei continuò ad avanzare.
«Ho calcolato» balbettò lei. «Ho sempre calcolato. Non dovresti… non potresti…»
Con calma orripilante, Ayla mosse il braccio destro di scatto e le schiantò la catena sulla tempia.
Phobos cadde a terra, emettendo uno squittio strozzato. Gli occhi le roteavano nelle orbite scure senza alcun controllo.
«Non – nonnononono – no…»
Ayla chiuse le dita martoriate dai denti di suo fratello sulla sua caviglia, la sollevò da terra e poi, come fosse un pezzo di carne da ammorbidire per bene prima di venire cucinato, la sbatté con violenza sul pavimento.
Schegge di denti e schizzi di sangue partirono dal volto massacrato di Phobos. Lei provò a dire qualcosa, ma le uscì solo un rantolo sputacchiato. Ayla la sollevò di nuovo e la mandò a schiantare sulla parete. Poi di nuovo a terra. E poi sulla parete, ancora una volta.
Stava per ricominciare quando si rese conto che Dana la stava guardando.
Lasciò andare la caviglia di Phobos. D’un tratto, non aveva più alcuna forza.
«Tranquilla» si sentì dire. «Sono qui. Sono qui.» Fece per accarezzarla, ma quando vide le sue dita lorde del sangue suo e dei due IEROS, si fermò. «Ora ce ne andiamo» le disse. «Tranquilla, ce ne andiamo.»
Un orribile suono di risucchio, poi qualcosa che avrebbe potuto essere una risata.
Aggrappandosi al tavolo, Deimos era riuscito a mettersi in piedi. La mascella strappata pendeva come una pezza carnosa stesa ad asciugare. Il labbro superiore era ritratto, scoprendo l’arcata di denti arcuata in un raccapricciante sorriso rossastro. I suoi occhi erano due biglie di vetro fisse su di lei.
Deimos sollevò il bisturi che aveva raccolto da terra e lo calò su Dana.
Ayla mosse in avanti il braccio sinistro e lasciò che la lama affilata gli penetrasse nell’avambraccio. Ancora una volta, non sentì dolore.
Deimos emise un lungo sibilo, mentre cercava di estrarre il bisturi dalla carne di Ayla. Lei gli prese il polso con cui stringeva lo strumento e glielò spezzò.
Un gemito bestiale uscì dalla gola di Deimos. Quello che ormai non era altro che un sacco di ossa e carne martoriata si sbilanciò all’indietro e cadde a terra.
Ayla estrasse il bisturi dall’avambraccio, aggirò il tavolo e si fermò davanti a lui. Lo guardò lì a terra, misero, rantolante e inerme, ed ebbe l’impulso di gettare il bisturi e correre via da lì.
È finita. Non possono più farle del male. È finita.
Poi spostò lo sguardo su Dana, la fissò nelle sue grandi iridi azzurre e le disse di non guardare.



Decisero di riposare in una piccola stanza vicino all’ingresso, così da poter tenere sotto controllo più facilmente eventuali movimenti sul pianerottolo. L’elettricità, già scarsa dopo la distruzione della diga del Distretto Cinque, con i bombardamenti era diventata pura utopia; nella stanza però c’era una vecchia stufa a legna, forse una reliquia della prima guerra tra Capitol e i Distretti, che Dan riuscì a far partire strappando un lembo di tessuto dalla tovaglia che copriva il tavolo da pranzo nel salone e facendo a pezzi lo schienale di una sedia.
Lo scoppiettare delle fiamme e la luce ambrata che usciva dallo sportellino aperto di ghisa fecero scendere su Clove un manto di calda stanchezza. Si tolse i coltelli dalla cintura, si distese per terra, appoggiò la schiena al muro e si addormentò. Quando li riaprì, era ancora buio. Dan e Cato erano davanti alla stufa. Nessuno dei due dormiva. Parlavano a bassa voce, ma nel silenzio assoluto di quella casa Clove non faceva alcuno sforzo nel distinguere le parole.
«Quindi a Capitol City ogni allegra famigliola ha con sé una versione domestica dei giocattoli di Rorke?» chiese Dan.
«No» rispose Cato. «O meglio, non esattamente. Gli avox non subiscono processi di condizionamento mentale. A parte la lingua, non viene rimosso loro nulla. Sono liberi di intendere e di volere.»
«Vuoi dire che lui ha ucciso tre persone, di cui una bambina, volontariamente? Per… cosa, lealtà? Dovere? Amore?»
«Non tutti i capitolini sono folli.» Cato indicò con un gesto vago la stanza. «Alcuni, semplicemente, nascono in questo mondo e non ne escono più.»
Una scintilla volò fuori dalla stufa. Dan seguì la sua traiettoria e la osservò spegnersi sul pavimento. «Ti ho visto morire» disse a un tratto. «In diretta tv. Ho guardato fino alla fine.»
«Capisco.»
Dan gli puntò gli occhi addosso. Non c’era rabbia sul suo volto. Era come guardare l’eco di un sasso che cade in un pozzo. «Davvero?»
«Volevi vendetta. Al tuo posto, avrei fatto lo stesso.»
«Al mio posto saresti—» Dan si interruppe, come se qualcosa gli avesse impedito di terminare la frase. Si guardò le mani, posate sulle ginocchia. «Non era per vendetta, comunque. O meglio, all’epoca pensavo lo fosse. Ma non lo era.»
Cato non disse nulla. Passò un minuto, poi Dan riprese a parlare. «Non mi frega niente di tutto questo. La guerra, i ribelli, Rorke, il piano… per me possono morire tutti. Che Panem bruci, atomizzata da un povero fesso. Sarebbe la giusta fine per questo posto di merda. Ma voglio rivedere mia sorella, e quindi farò tutto il possibile perché il tuo piano folle riesca. È per questo che mi hai scelto, no? Questo e perché non avevi di meglio a disposizione.»
Cato sbuffò dal naso e piegò le labbra in un sorrisetto amaro. «Piuttosto accurato.»
«Quello che non capisco» continuò Dan, «è perché tu. Perché non sei andato anche tu a caccia di Katniss Everdeen? Perché, dopo quello che ti è successo, ti sei messo in testa di salvare il mondo?»
Cato fece un profondo respiro. Chiuse gli occhi, poi gli riaprì. «Comincia tutto con mio padre.»
«Tuo padre?»
«Generale Leo Sullivan della Guardia Pacificatrice. Rispettato, ammirato, temuto, con molti agganci al Dipartimento dei Servizi d’Informazione. E grande amico di Aelius Rorke.»
Clove dovette fare un grande sforzo per continuare a far finta di essere addormentata. Non aveva idea che il padre di Cato fosse amico di Rorke. Non aveva idea neanche di quale fosse il suo nome. Cato non gliel’aveva mai detto. E lei non gliel’aveva mai chiesto.
«Il generale Sullivan è orgoglioso di suo figlio» proseguì Cato, «e come ogni bravo patriota sogna il giorno in cui si coprirà di gloria nell’Arena. Quando si offre volontario è fiero come non mai. Ma il giorno dei punteggi degli allenamenti lo coglie di sorpresa. Una disperata del Distretto Dodici, dal nulla, è schizzata in cima alla classifica. Il generale Sullivan è famoso per avere un grande intuito, e capisce che qualcosa non sta andando nel verso giusto. E che i Settantaquattresimi Hunger Games saranno più speciali che mai.» Prese un sorso d’acqua dalla sua borraccia e la posò a terra. «Così va dal suo amico Rorke, che in quanto ex Stratega sa come muoversi e ha ancora certe conoscenze nell’ambito, e gli chiede, in gran segreto, di aiutarlo a far vincere suo figlio. Lui accetta, ma a una condizione: che dopo gli Hunger Games la sua progenie lavori per lui.»
Negli occhi vuoti di Dan si acccese la sorpresa. «E quindi loro due hanno…»
«…truccato il gioco, sì» concluse Cato per lui. «O meglio, truccato ancora di più. Bypassando le telecamere dell’Arena, Rorke riesce a parlare con il giovane e sprovveduto figlio del generale Sullivan. Gli dice dove andare, cosa fare, come muoversi; se obbedisce e fa quello che gli viene detto, sostanzialmente, vincerà senza quasi muovere un dito. Ma il figlio, spavaldo ed esaltato dal sangue che ha appena versato, rifiuta sdegnato. Vuole vincere con le proprie forze, come gli è sempre stato insegnato. Così che, finalmente, possa essere all’altezza di suo padre.»
Cato fece una pausa, lo sguardo perso tra le fiamme della stufa. Dan lo osservò per qualche momento, poi lo spinse a continuare. «E quindi il giovane stupido figlio è andato avanti senza trucchi?»
Cato parve ridestarsi da un sogno a occhi aperti. «Per un po’ sì. Ma mano a mano che i Tributi muoiono e i numeri si restringono, le parole di Rorke cominciano a occupare sempre più spazio nella sua testa. Non vuole confessarlo a se stesso, ma quell’Arena sta cominciando a fargli paura. E anche se non vuole ammetterlo, i Tributi con cui gira, che in parte detesta, teme e non capisce, comincia a quasi a sperare che vivano. Finché non trovano Katniss Everdeen, la braccano e la accerchiano. E lei, da sola contro il meglio dei Favoriti, li frega tutti quanti.» Sospirò e scosse la testa. «Da quel momento, il giovane e stupido figlio del generale diventa un po’ meno giovane e un po’ meno stupido. Si fregia di essere impavido, e sicuramente lo è, ma di fronte al corpo gonfio e massacrato di quella che quasi poteva considerare un’amica comincia a rendersi conto che fino a quel momento non ha fatto altro che macellare dei poveri ragazzini inermi, e che in quell’Arena di vespe mutanti e palle di fuoco c’è molta meno gloria di quanto credesse.»
Dan fece un ghigno. «E l’eroe scoprì di avere una coscienza.»
«L’eroe scoprì di essere un ragazzino intrappolato con altri ragazzini in una gabbia mortale» replicò Cato, «ma sì, la tua versione è senza dubbio migliore. Fatto sta che il nostro eroe è tentato di accettare la proposta di Rorke, ma non riesce ancora a prendere in considerazione l’idea di truccare la partita. Finché la scorta di provviste che lui ha pazientemente raccolto salta per aria, il suo unico amico muore, e gli Amanti Sventurati conquistano sempre più sponsor e sempre più cuori. Così, una notte, il figlio del generale capisce che il gioco, più che truccarlo, forse è il caso di distruggerlo.»
Gli occhi di Dan si dilatarono per la sorpresa. «Non ci credo. Tu… davvero?»
«So che sembra ridicolo e furbo dirlo adesso, e non mi aspetto che tu ci creda» disse Cato. «Ma in quell'Arena non è stata solo Katniss Everdeen a pensare alla rivolta.»
«Non ti ho visto alzare tre dita al cielo, però» gli disse Dan.
«Perché ho pensato che non aveva senso fare rumore in quel momento» replicò lui. «Una volta vinti gli Hunger Games avrei potuto cominciare la mia piccola grande rivoluzione. Allora mi sembrava un gran piano, molto più sensato dei gesti ridicoli della disperata del Dodici. In ogni caso, alla fine il figlio del generale parla con Rorke, e accetta il suo aiuto. Ma pone una condizione: che non sia più uno il vincitore, ma due.»
Dan sbatté le palpebre un paio di volte prima di riuscire a processare l’informazione. «Aspetta, cosa? No, non è – quindi sei… tu hai – Katniss e Peeta hanno vinto per—»
«Sì, no, forse» rispose Cato. «Forse la cosa era già nell’aria, e Rorke ha solo dovuto dare una piccola spinta. In ogni caso, è riuscito a mantenere le sue promesse. E il ragazzo, per la prima volta, spera. Ancora non ha messo a parte del piano la sua compagna di Distretto, ma lo farà. Prima bisogna vincere. Prima bisogna uccidere Katniss Everdeen.»
Nella stanza cadde il silenzio. Clove sentiva i propri polmoni bruciare per la mancanza di ossigeno, ma non osava respirare. Non poteva permettersi di farsi sentire. Non riusciva a fare altro che continuare ad ascoltare.
Cato inspirò, aprì la bocca, deglutì e riprese. «Ma poi le cose non vanno secondo i piani. È solo quando corre sentendo gridare il proprio nome che il ragazzo capisce perché ha voluto che fossero due, i vincitori; ma in ogni caso, è troppo tardi. La gloriosa rivoluzione del figlio del generale finisce ancora prima di iniziare. Gli resta solo la rabbia, e la rabbia lo porta alla fine.»
Per un momento, Clove vide qualcosa brillare negli occhi di Dan; ma fu una luce che si spense subito.
Cato abbassò lo sguardo a terra. «Il giorno dopo la fine dei Settantaquatresimi Hunger Games, il generale Sullivan si chiude a chiave nel suo ufficio, prende la sua pistola di ordinanza e si spara in bocca. Qualche settimana più tardi, suo figlio apre di nuovo gli occhi. Ci è voluta un po’ di fatica per sistemare il corpo massacrato dai lupi mutati, ma ora sta bene. Ed è pronto ad onorare l’accordo tra Rorke e suo padre.»
Un pezzo di legno si spaccò dentro la stufa. Il suono riecheggiò come uno sparo.
«E… Clove?»
Il cuore di Clove mancò un battito quando lei sentì Dan pronunciare il suo nome.
«Clove cosa?» chiese Cato.
«Perché Rorke ha fatto tornare in vita anche lei? Non faceva parte dell’accordo.»
«Non lo so. Non me l’ha mai detto. E in parte, io ho sempre avuto paura di chiederglielo. Forse era un perverso regalo da parte sua, forse una leva da sfruttare in caso si fosse trovato a costringermi a collaborare. In entrambi i casi, ho preferito non saperlo.»
Mentre il silenzio tornava nella stanza, Clove realizzò qualcosa che forse, in fondo, aveva sempre saputo: che non era stata la sua bravura a riportarla in vita. Era stata solo una coincidenza, un effetto collaterale, una grammo di carne nel gigantesco piatto di una bilancia.
L’articolo di un accordo.
Si chiese se non fosse stata nient’altro che quello, in tutta la sua vita.
Sentì qualcosa pizzicarle gli occhi, come se si fosse strofinata del sale sulle palpebre; e in sottofondo, quasi impercettibile, uno scatto. Siccome entrambe le cose la stavano inquietando e Cato e Dan erano rimpiombati nel silenzio, pensò fosse il momento migliore di far finta di svegliarsi. Staccò la schiena dalla parete, appoggiò la mano sinistra a terra e spinse con il baccio destro per sollevarsi. Più per caso che per altro, lo sguardo le cadde sulla soglia della stanza.
Lì, immobile, c’era Ares.
«Nemico!» gridò Clove, scattando in piedi.
Ares si lanciò su Dan ruggendo come una bestia, in mano una delle due spade corte che Artemisia aveva avuto prima di morire. Clove si rese conto di aver lasciato i due coltelli a terra; ma in ogni caso, era troppo lontana per fare qualcosa.
Dan guardò con orrore la montagna di ossa e muscoli venirgli addosso, la sciabola ancora per metà nel fodero; ma prima che Ares potesse calare la spada su di lui, Cato gli si gettò contro, placcandolo e mandandolo a schiantarsi contro la parete. «Clove!» gridò. «Clove, andate—»
La lama rossastra  della spada corta gli sbucò dalla schiena. Cato sputò un fiotto di sangue, poi infilò il revolver da collezione sotto il mento di Ares, gli ringhiò in faccia e premette il grilletto.
Lo sparo si abbattè sui timpani di Clove, mentre una lingua rossastra schizzava il muro fino al soffitto. Il corpo gigantesco di Ares ebbe un ultimo sussulto, poi franò addosso a Cato e, insieme a lui, cadde per terra.
Il fischio acuto che risuonava nei timpani di Clove si ridusse ad un sussurro ovattato. Immobile, istupidita, osservò le dita di Dan aggrapparsi alla corazza di Ares per tirarlo via da Cato. Lui era a terra, supino. Il peso di Ares gli aveva spinto la spada nel petto fino all’elsa, inchiodandolo al pavimento.
«L’olomappa» mormorò lui. «Prendetela…»
«Ehi» gli disse Dan, mentre le dita si agitavano intorno all’impugnatura della spada corta. «Aspetta. Aspetta.»
«Per entrare serve un’impronta, del Dna e la scansione della mia retina.» Cato puntò lo sguardo su di lui. «Un occhio e un dito dovrebbero bastare.»
«Non serve» rispose Dan. «Non serve, tranquillo, non serve.»
Cato chiuse gli occhi. L’espressione del volto si rilassò. «Per quel che vale, Dan… mi dispiace.»
«Aspetta, ti ho detto, aspe—»
Cato si piegò la testa verso destra, pallido come una statua, e non si mosse più.

 

Il sergente maggiore Opper sollevò un pugno all’altezza della tempia. Alle sue spalle, la squadra si abbassò poggiando un ginocchio a terra. Davanti a loro, la strada era invasa da una nebbia grigiastro.
«Ti prego, non di nuovo il gas» mormorò la soldatessa Perrier.
«Il gas è più chiaro» disse il soldato Macob. «Questa sembra più polvere.»
«Anche a Grier sembrava polvere, e quella merda se l’è mangiato vivo.»
«Silenzio» intimò loro il sergente. «C’è qualcuno.»
«Fumogeni» gemette Macob. «Forse era meglio il gas.»
«In copertura, svelti.»
La squadra si divise, spostandosi ai lati della strada. I soldati si acquattarono tra le macerie, spianando i fucili verso la cortina di fumo.
Tremolando in mezzo alla dense volute grigie, una strana sagoma informe fece la sua comparsa.
«Alt!» gridò il sergente.
La figura si arrestò, ondeggiò come se fosse ubriaca e crollò a terra, sfaldandosi come se fosse fatta di un fluido viscoso
«Non sparate!» ordinò il sergente alla sua squadra.
«Potrebbe essere una trappola, sergente» disse la soldatessa Perrier.
«Lo so» borbottò lui. «Tenete quella roba sotto tiro, io vado a dare un’occhiata.»
Il sergente Opper superò la trave d’acciaio dietro la quale si era nascosto e avanzò lentamente in mezzo alla strada, il fucile abbassato ma pronto a sparare. Alle sue spalle, la squadra attendeva.
Una folata di vento gli accarezzò le spalle, percorrendo la via e scacciando indietro la nube di fumo. Per terra, a una decina di metri da lui, Opper riuscì a distinguere la figura.
Non era una strana creatura, ma un essere umano. Anzi, tre. Un uomo, una donna e una ragazzina.
Opper si avvicinò con cautela. L’uomo indossava una divisa dell’Esercito Regolare, mentre la donna aveva la fascia rossa dei sergenti dei Volontari al braccio.
Ma che diamine…
L’uomo tossì, aprì gli occhi, vide il sergente e cercò di alzarsi.
«Fermo» gli intimò Opper, puntandogli contro il fucile. «Non ti muovere, stronzo capitolino.»
«Ammazzami, se devi» mormorò l’uomo. «Basta che le salvi. Devono… devi portarle da Katniss Everdeen.»
Il volto di Opper lampeggiò di sorpresa. «Come?»
«Katniss Everdeen» ripeté l’uomo, a fatica. «Portale da Katniss Everdeen, se non vuoi che crepiamo tutti.»
«Ma chi cazzo sei, tu?»
L’uomo non rispose. Era già svenuto.
Opper fece segno alla squadra di raggiungerlo. Perrier e Macob scrutarono le tre figure a terra, perplessi.
«Questa sì che è strana» disse Macob.
«Che facciamo, sergente?» chiese Perrier.
Il sergente Opper scrutò il volto dell’uomo.
Katniss Everdeen. Un ufficiale dei regolari che mi chiede di Katniss Everdeen. Che cazzo di città fuori di testa.
«Prendeteli» disse. «Li portiamo al comando. Vedranno loro se fucilarli o meno.»



Clove fissava il corpo di Cato da lontano, come se fosse sulla cima di una montagna e guardasse giù verso il mare. Una lontana eco sembrò giungerle portata dal vento. Si fece più forte, più insistente; finché non si rese conto che era la voce di Dan.
«Clove.»
Spostò lo sguardo su di lui, inebetita. Una mano sporca del sangue di Cato era tesa verso di lei.
«Un coltello.»
Lei guardò il volto di Cato, poi tornò con gli occhi su Dan. «Cosa?»
«Mi serve uno dei tuoi coltelli» ripeté lui, scandendo inesorabile le parole.
«Cosa… cosa vuoi fare?»
Gli occhi bui di Dan erano più freddi dei due cadaveri nella stanza. «Secondo te?»
Un occhio e un dito dovrebbero bastare.
«No.»
Dan inclinò leggermente la testa, scrutandola come se appartenessero a due specie diverse. «Come?»
«Non lo toccare.»
«Non sta a te deciderlo.»
«Non lo toccare, stronzo mandriano pezzo di merda, o ti uccido.»
Dan sollevò le mani, impassibile. «Va bene» disse.
Poi scattò in avanti e le tirò una testata.
Clove rinculò con un grido, il naso spaccato che le inondava la faccia di sangue. Intravide il pugno sinistro di Dan giungere verso la sua faccia, e sollevò l’avambraccio per intercettarlo. Mentre la forza del colpo si scaricava attraverso le ossa, concentrò le forze sulla gamba sinistra e gli tirò un calcio in mezzo alle gambe. Dan emise un guaito strozzato, piegandosi in avanti e consentendole di ricambiare la testata.
«Stronzo bastardo, schifosa, patetica, pezzente nullità» gli sputò addosso mentre lui crollava a terra. Con un ghigno sadico, raccolse i due coltelli che aveva lasciato sul pavimento. «Bovaro del cazzo, ora ti scuoio vivo.»
Dan rotolò all’indietro, afferrò la sciabola che giaceva vicino al corpo di Cato e saltò in piedi. «Sono qui, pagliaccio psicopatico. Magari questa volta ce la fai.»
Clove scattò in avanti. Dan scartò di lato, lasciandola a colpire il vuoto, poi calò la sciabola sul suo collo. Lei sollevò un coltello, e un orrendo stridiò di metallo risuonò nella stanza mentre le due lame strisciavano una sull’altra.
«Sei bravo», disse Clove ansimando. «È un vero peccato che non ci fossi, nell’Arena. Chissà, magari quella stupida ritardata di tua sorella riuscivi pure a salvarla.»
Il volto di Dan si deformò in preda all’ira più nera. Sollevò in alto la spada, urlò come mai in vita sua e calò la lama sulla testa di Clove.
Era quello che lei stava aspettando. Incrociò i coltelli, li sollevò, parò il colpo di Dan e lasciò che la lama della sciabola scivolasse fino all’elsa; poi, con un violento strattone, la spinse di lato, strappandogliela dalle mani. Dan saltò all’indietro, evitando un fendente che gli avrebbe aperto la pancia, incespicò e cadde.
Clove roteò i coltelli per portare la lama sotto il pugno e si lanciò su di lui. Dan riuscì ad afferrarle il polso destro, mentre la mano sinistra si chiuse attorno alla lama dell’altro coltello. Il sangue prese a colargli sulla sua camicia, mentre l’attrezzo da cucina gli squarciava le dita e si avvicinava sempre di più al suo petto.
Clove lo guardò con gioia sadica. «Puoi fermare l’uno o l’altro, non entrambi. Fai la tua scelta, stupido mandriano.»
Qualcosa cambiò nello sguardo di Dan. Le sue iridi, che fino a quel momento le erano sembrate buie come una notte senza stelle, parvero riacquistare il loro caldo tono castano. Gli occhi si inumidirono, e due lacrime scesero sul pavimento, scavando un solco immacolato sulle tempie sporche di guerra.
Avrebbe dovuto essere un momento di trionfo sopraffino, per Clove; lo era sempre stato, ogniqualvolta era riuscita a far piangere il suo avversario. Le lacrime e la disperazione le erano sempre sembrate un nettare delizioso, il segno inequivocabile che era riuscita a spezzare il suo nemico oltre ogni possibile soglia di dolore. Eppure, quella volta, guardando quel patetico disperato del Distretto Dieci sotto di lei, non riuscì a sentire nient’altro che una strana, amara, acida malinconia.
«Vuoi sapere qual è stata la mia scelta?» disse Dan. «Voler essere come te.»
I muscoli con cui Clove spingeva i coltelli verso di lui ebbero un fremito. Cosa?
«Volevo essere come voi. Essere un Favorito, combattere nell’Arena e conquistare la gloria immortale. Ma non potevo, perché ero nato nel Distretto sbagliato. Finché un giorno non conobbi un uomo. Un capitolino, caduto in disgrazia e spedito da noi come Pacificatore. Sapeva molte cose, perché aveva ricevuto una raffinata educazione. Fu lui che mi insegnò a duellare.»
Clove fu presa dall’istinto di spingere il più possibile e affondare i coltelli dentro di lui, perché una parte di lei aveva il terrore di quello che avrebbe potuto dire. Ma le sue braccia rimasero immobili, e lui proseguì.
«Mi allenai in segreto per anni. L’uomo mi insegnò anche come comportarmi, cosa dire, come atteggiarmi per catturare l’attenzione degli sponsor e vincere il cuore del pubblico. Quando giunsero i Settantaquattresimi Hunger Games, ero pronto. Ero una macchina da guerra. Un Favorito. Proprio come te.»
Clove sentì la mascella contrarsi. Basta, pensò disperata. State zitti. Smettetela di parlare. Basta. Basta. Basta—
«Come sempre, prima le fanciulle.» Dan emise una piccola, stridula risata amara. «Senza queste parole, forse io e te oggi non saremmo qui. Mia sorella venne scelta, e io andai nel panico. Perché volevo vincere, ma sapevo che per vincere avrei dovuto ucciderla. Non pensai a proteggerla, a sacrificarmi per lei, al fatto che forse la storia dei due fratelli sventurati avrebbero potuto commuovere così tanto il pubblico da convincere lo Stratega a fare uno strappo alle regole. Pensai solo che quella cretina di mia sorella aveva rovinato tutti i miei piani. Così rimasi lì, immobile, e lasciai andare il fratello zoppo del mio migliore amico a farsi uccidere al posto mio.» Le sue labbra si accartocciarono in un ghigno orribile. «Non sei l’unico mostro in questa storia, Clove. Non sei neanche il peggiore. Io e te siamo stati una squadra perfetta. Io te l’ho portata, tu non hai esitato. E insieme l’abbiamo uccisa.» Dan la guardò, e il suo volto parve distendersi in una maniera molto simile a quella di Cato sull’orlo della morte. «Pensavo che riportarla in vita avrebbe sistemato tutto, ma in realtà non è così. In realtà volevo solo morire nel tentativo. Che accada adesso o dopo non ha importanza.» Chiuse gli occhi, appoggiò la testa al pavimento e lasciò la presa sui coltelli.
Un secondo. Due secondi. Tre.
Due tonfi sordi, ed era finita.
Clove si alzò in piedi. I coltelli, piantati nel legno del pavimento, ondeggiavano vicino agli zigomi di Dan. Lui aprì gli occhi e la guardò con stupore, quasi stralunato.
Lei raggiunse la sciabola e la calciò verso di lui. «Vattene» gli disse. «Fai quello che devi fare. Vai da tua sorella, crepa in questa tua stupida cavalcata da poveraccio in cerca di redenzione. Non me ne frega niente. Non me ne frega più niente. Morite tutti e lasciatemi sola.»
Sbatté la schiena alla parete, si lasciò cadere a terra e lì rimase. I passi di Dan che si allontanavano gli giunsero come in sogno. Passò un tempo che non riuscì a calcolare, lì seduta mentre il sangue di Ares e Cato si mischiava e irrancidiva, finché il suono di altri passi non giunse alle sue orecchie.
«Bene bene» disse la voce del Bianco. «Guarda un po’ chi si rivede.»









L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: capitolo lungherrimo (penso il più lungo di tutta questa fanfy, ma non sono sicuro), ma era difficile non uscisse fuori così. Rivelazioni sono state rivelate (ve l'avevo detto che c'era un motivo per Dan d'Artagnan, hehhè), gemelli psicopatici sono stati mazzuolati (Ayla unchained – la D è muta) e piani disperati sono diventati ancora più disperati. Dan è ormai lanciato verso il suo destino, mentre Clove pare ormai aver gettato la spugna (no Caesar, io esco... oh cielo perdonatemi). Quindi boh, è finita? La guerra praticamente sì; tutto sta nel come.

Ci siamo quasi, gente. Nel prossimo capitolo, l'ultimo atto dei Settantaseiesimi Hunger Games. Eggià.


Tante care cose, fate quello che dovete fare, e a presto!
  
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