Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Blablia87    24/02/2021    3 recensioni
“L’Amore, che non osa dire il suo nome in questo secolo” mi sorprese Holmes, iniziando a recitare - con assoluta attenzione - le parole che io stesso stavo leggendo nella colonna di destra “è il grande affetto di un uomo nei confronti di un altro, lo stesso che esisteva tra Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia. Lo stesso che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare…”
[Victorian!AU]
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

L’accadimento che mi accingo a narrare - insieme alla portentosa epifania che ne fu tanto naturale quanto sconvolgente conseguenza - ebbe luogo la sera del 6 aprile 1895.

Avevo, all’epoca, compiuto il primo passo in quello che - per un uomo di discreta salute, buona estrazione sociale e senza troppi affanni lavorativi - viene solitamente considerato il volgere dell’estate della propria vita.

Davanti ai miei occhi (molto più spesso che in passato - soprattutto verso sera - necessitanti del ristoro di un comodo paio di occhiali), è vero, si aprivano ancora gli scampoli di tepore dell’autunno e un inverno - nelle previsioni - molto più mite di quello di molti altri.

Ad ogni modo un lieve e costante senso di vaga malinconia aveva, quasi come un’ombra, iniziato a seguire i miei passi e i miei pensieri.

Una delle riflessioni sulle quali più a lungo, con una certa apprensione, indugiavo - cercando al contempo di sfuggirvi - riguardava lo stato delle mie gambe, in special modo quella che, ormai più di un decennio prima, era stata ferita in battaglia.

In alcune giornate uggiose il dolore che - tenace e pulsante - si irradiava lungo la coscia diveniva a tratti tanto forte da impedirmi di muovermi con sufficiente scioltezza senza l’ausilio del bastone (che - negli altri periodi dell’anno - ero solito portare più per vezzo che per reale necessità).

Questo, posto in diretto confronto con le capacità - nonostante il solo anno che separava la nostra nascita - fisiche che ancora caratterizzavano il mio collega e amico Sherlock Holmes, mi portava sovente a domandarmi per quanto tempo ancora sarei potuto essergli attivamente utile durante le indagini nelle quali era solito coinvolgermi.

Secondo le stime che, notte dopo notte, avevo avuto tempo di cesellare e limare fino allo stremo, non sarei più stato un valido supporto nel volgere di un lustro.

Tale riflessione, è evidente, non faceva che peggiorare il mio stato di costante e generale prostrazione.

E fu proprio accompagnato da questo turbinio di meste sensazioni che, come ero solito fare ogni sera da quasi un decennio, scesi - avvolto nella mia consueta vestaglia di cotone - le scale di legno che congiungevano i miei alloggi a quelli di Holmes.

Raramente - da quando la nostra abitudine di indugiare, prima di coricarci, in qualche chiacchiera di poco conto accompagnata da del buon blended whisky era divenuta un appuntamento improrogabile - mi era capitato di assistere ad una scena tanto straordinaria come quella che mi si parò dinanzi non appena varcata la soglia del nostro salotto: Holmes - illuminato solo dalla tenue luce di una candela adagiata sul tavolinetto posto di fianco alla sua poltrona di pelle - completamente immobile, volgeva il suo sguardo attento in direzione del caminetto spento.

Non furono il silenzio - che ammantava la stanza come una coltre pesante - o la completa assenza di movimento da parte del mio buon amico a destare in me lo stupore che, al solo ripensarci, riesco ancora a sentire forte premere contro il mio sterno.

No.

Fu il velo di tristezza, mai scorta prima tra i lineamenti delicati di Holmes, che mi parve adombrarne gli occhi azzurri fino a trasfigurarli in quelli di qualcuno che stentavo a riconoscere come familiare.

Più volte, nei lunghi anni trascorsi al suo fianco, mi ero ritrovato nella stupefacente quanto inusuale situazione di dover spiegare alla sua mente eccelsa - eppure così poco incline alla comprensione delle umane emozioni - che quello che vedeva trasparire sul volto di un cliente, o un conoscente, era dolore.

Ed in quel momento, riconoscendo gli stessi segnali sul suo, di viso, la cosa mi apparve quasi un oltraggio a quei lineamenti solitamente distesi e “liberi” da ogni tormento terreno.

“Holmes” - lo chiamai, incerto, ancora immobile sulla soglia - “Va tutto bene?”.

Lui si scosse appena, gli occhi ancora fissi ai ceppi scuri del camino.

Schiuse le labbra e, per un attimo, sembrò sul punto di dire qualcosa.

“Watson”, pronunciò alla fine, la voce arrochita dal lungo silenzio nel quale - era per me tanto evidente da apparire lapalissiano - si era chiuso tutte le ore che ci avevano tenuti distanti durante il giorno che volgeva al termine. “Non l’ho sentita rientrare, questo pomeriggio... Ha passato una buona giornata?”

Pronunció le ultime parole socchiudendo appena le palpebre, come se - per poterle dire - avesse la strana necessità di doverle ricordare, recitandole come il passo di un vecchio canovaccio.

“Un paio di casi interessanti” presi a raccontare, facendo infine totalmente ingresso nella stanza. “Sarò lieto di metterla a parte di quello più bizzarro, se avrà voglia di ascoltare qualche dettaglio crudo unito alla narrazione di come l’ingegno umano - se volto al trasformare un innocuo utensile da cucina in un’arma atta a spaventare il proprio vicino e dissuaderlo dall’importunare la propria sposa - possa condurre un rispettabile cittadino a presentarsi presso lo studio di un medico condotto con quanto rimane di un mestolo di metallo conficcato in un braccio.”

Le labbra di Holmes si incresparono appena in un sorriso ed io - mi resi conto solo in quel momento, sentendo la pressione scivolare via dalle mie spalle come una pesante cappa di lana - riuscii nuovamente a respirare con sufficiente profondità, ristorato dal non dover ancora sopportare la vista di del mio caro amico strasfigurato da un’umana debolezza che non volevo e - avrei capito solo in seguito - non potevo riconoscergli.

Negli anni, prima per diletto e poi - quando nei miei pensieri e nel mio cuore si erano schiusi dubbi sui quali, in un’epoca buia come la nostra, anche solo indugiare costituiva un reato che una persona proba come il mio compagno di avventure non avrebbe esitato a definire “frivole sciocchezze da alta borghesia annoiata” - per necessità, avevo preso, con cura e attenzione, a costruire attorno ad Holmes un’immagine di eterea e impenetrabile intoccabilità. Ai miei occhi egli appariva quasi, per mia stessa opera, un essere che aveva trasceso le umane faccende e - con loro - la caducità che ne accompagna il passo. Scorgere in lui un seppur minimo barlume di umanità - intesa come rappresentazione delle caratteristiche emotive che ne identificano i suoi appartenenti e che spesso, non potevo che concordare con lui su questo, ne fiaccano lo spirito e i corpi - significava per me contemplarne le mortalità stessa.

Ed una parte della mia mente, benché avessi - nel corso delle nostre peripezie - più volte sventato io stesso una prematura dipartita di Holmes, non voleva in alcun modo soffermarsi su una riflessione tanto triste come quella che sarebbe esistita, prima o poi, una Londra priva della sua mente eccelsa e dei suoi lineamenti così peculiari.

“Whisky?”, proposi, avviandomi con passo rapido verso il tavolinetto dei liquori.

“Sa sempre cosa dire per dar ristoro alla mia mente” acconsentì lui e, stranamente, mi parve che la sua voce fosse priva del bonario tono canzonatorio con il quale era solito rivolgermisi in contesti similari a quello nel quale ci trovavamo.

“Holmes”, mi sentii spinto a chiedere, allungando verso di lui un bicchiere di spesso cristallo adeguatamente riempito della nostra bevanda preferita, “c’è qualcosa che la turba?”

Lui mi prese il vetro dalle mani, lasciando - come più volte era accaduto, ad ennesima e ormai superflua dimostrazione di quanto il mio amico poco incline fosse a seguire norme sociali di alcun genere - che le sue dita si chiudessero pigramente attorno alle mie prima di afferrarlo.

Sollevò il bicchiere e se lo portò alle labbra, in silenzio, gli occhi chiusi.

Non di rado, durante le nostre serate, Holmes aveva scelto di chiudersi in un ostinato mutismo. In quelle particolari occasioni io - incerto su quale apporto poter dare alla sua mente eccelsa evidentemente indaffarata in elucubrazioni tanto complesse da non ritenermi degno della loro condivisione - mi limitavo, dopo aver recuperato dalla pila delle riviste accatastate vicino alla porta il quotidiano di più recente messa in stampa, ad accomodarmi sulla mia poltrona e a trascorrere il resto della serata così, con un ridicolo separé di carta e inchiostro tra i miei pensieri confusi e quelli irrequieti di Holmes.

Così feci, quindi, anche quella sera.

Mi avvicinai alla catasta pericolante che, in buona parte, poggiava il proprio peso sulla pesante carta da parati che ricopriva il muro alle sue spalle, e presi il quotidiano del mattino.

Mi parve, con la coda dell’occhio, di percepire un piccolo sussurro da parte del mio amico. “Improbabile”, mi dissi, dando la colpa di tale accadimento alla luce instabile e menzoniera della candela.

Recuperai il mio bicchiere di whisky dal tavolo degli alcolici e, con un piccolo sbuffo, mi lasciai andare sulla mia poltrona.

Dopo aver, con un paio di secchi strattoni, imposto alla carta di tornare alla propria foggia iniziale - ovvero rigida a sufficienza da permettermi di leggere senza affanno quanto riportato nella prima pagina - iniziai a scorrere i titoli.

L’intera pagina era occupata dalla notizia del processo che, a quell’epoca, sembrava sul punto di infondere alla rigida - ma solo in pubblico - morale dei nostri pudichi concittadini una sferzata di pura e straordinaria realtà.

Oscar Wilde, ormai da mesi, combatteva la propria personale battaglia nelle aule di tribunale. Ma, contro ogni aspettativa del pubblico assetato di particolari pruriginosi e pronto ad una facile quanto fugace indignazione, lo stava facendo non negando le accuse, ma spiegando - ad ogni occasione propizia - perché il suo amare non costituisse pericolo a nessuna morale conosciuta.

“L’Amore, che non osa dire il suo nome in questo secolo” mi sorprese Holmes, iniziando a recitare - con assoluta attenzione - le parole che io stesso stavo leggendo nella colonna di destra “è il grande affetto di un uomo nei confronti di un altro, lo stesso che esisteva tra Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia. Lo stesso che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare…” 1)

Prese fiato per qualche secondo ed io - che con gli occhi mi ero già spinto oltre, scoprendo parole che il sol pensiero di sentire pronunciare da Holmes sentivo bruciare il mezzo al petto - interruppi il mio con lui.

“Non c’è nulla di innaturale, in ciò”, terminò, e potei scorgere distintamente un leggero tremolio nella sua voce.

“Credo che tutti…” iniziai, percependo l’assoluta e irreprimibile necessità di riempire con la parola il silenzio che, nuovamente, si era venuto a creare tra noi “non possano che dirsi concordi con queste parole” terminai, veloce, abbassando il giornale quel tanto da poter scorgere il volto di Holmes oltre il muro di carta e inchiostro che avevo frapposto tra noi.

Lo trovai, immobile, con gli occhi attenti rivolti verso di me. Istintivamente finii di abbassare il quotidiano, in modo da poter - per intero - vederne l’espressione.

“Un’epoca nella quale il solo amare qualcuno più trasformarsi in un atto tanto grave da richiedere l’incarcerazione non può, di certo, definirsi illuminata” continuai, spinto da quello che - solo molto tempo dopo - compresi essere una necessità ancestrale e violenta di ristoro, per qualche attimo, dalla continua tenuta a bada, con briglie e scudiscio, dei miei pensieri più nascosti. “I crimini sono ben altri”, conclusi, attendendo una qualche reazione da parte di Holmes.

Lui sembrò, per qualche attimo, confuso. La luce della candela ballò sul suo volto, scivolando rapida dagli occhi seri alle labbra tirate.

“Non comprendo, tuttavia…” pronunciò Holmes poco dopo, dando una sorsata al proprio whisky, “il non voler proteggere se stessi e chi si ama da un tale affronto pubblico”.

“Forse, semplicemente, arriva un momento nel quale il peso della menzogna diviene più forte della paura della verità” mi trovai a ribattere, di getto, sentendo tale riflessione ritorcermisi contro con tale forza percepirne un malessere fisico.

“A costo di finire in carcere, e di condurre anche l’altro allo stesso triste destino?” chiese Holmes, una viva curiosità ben evidente sul viso.

“Ho rischiato il carcere più volte per lei, Holmes, e altrettanto si può dire abbia fatto lei per me. Questo diminuisce forse il nostro rapporto? O, in qualche modo, ne meglio racconta la profondità?”

Holmes abbassò gli occhi, portandoli sul bicchiere che teneva ben stretto tra le mani.

Per un attimo parve quasi che il liquido ambrato che si muoveva, lento, all’interno del vetro si fosse adagiato anche nel chiarore dei suoi occhi.

“Non potrei mai, ad ogni modo, farl… fare una cosa simile” sentenziò, con voce distaccata. “Non permetterei mai che qualcuno senza parte alcuna nei nostri affari rovistasse nella nostra vita in cerca di qualcosa che appaghi la sua pruriginosa curiosità.”

“Con tutto l’affetto nei suoi riguardi, che lei sa essere sincero e profondo, non credo che i sentimenti amorosi siano il campo della conoscenza dove meglio muove i suoi passi, Holmes”, risposi, quasi piccato. La sensazione che Holmes stesse, ancora una volta, giudicando impietosamente quella che lui valutava essere solo una debolezza umana, mi aveva ferito in un modo che difficilmente avrei saputo - e potuto - esprimere compiutamente a parole.

Quello che accadde subito dopo attiene all’epifania alla quale, senza scendere in particolari, ho accennato all’inizio di questo scritto.

Ancora oggi - quasi un lustro a separarci da quella sera - vi ripenso sovente, scoprendomi ancora e sempre impreparato come fui allora allo spettacolo che mi si parò dinanzi.

“Perché dice questo?” mi chiese Holmes, alzando sui miei occhi affaticati dalla penombra uno sguardo ferino. “Perché giudica tanto impietosamente il mio affermare che mai, per nessuna ragione, potrei permettere a qualcuno di parlare di noi senza conoscerci?”

“Io, non…”, tentai di ribattere, sorpreso dal tono improvvisamente acceso usato dal mio compagno.

In tanti anni spesi al suo fianco anche per discretamente prolungate quantità di tempo mai mi era accaduto di udire tanta enfasi farsi spazio tra le labbra di Holmes. “Intendevo solo dire…”

“Intendeva dire…” mi interruppe lui, sollevandosi rigidamente dalla propria poltrona e dirigendosi con passo svelto - la vestaglia di pesante cotone finemente lavorato che ormai conoscevo in ogni sua cucitura sollevata appena, dalla celerità dei suoi passi,  dietro di sé - al tavolinetto degli alcolici.

Sotto il mio sguardo attonito si versò un altro generoso bicchiere di whisky, senza premurarsi di domandarmi se - a mia volta - ne desiderassi un rabbocco.

“Intendeva dire che un uomo come me non potrà mai comprendere uno come lui” terminò, sollevando un dito accusatorio verso l’immagine di Wilde che - muta e quasi in attesa a sua volta - osservava quel bizzarro spettacolo che si parava dinanzi ai nostri occhi.

“No. Intendevo dire…” provai nuovamente, venendo interrotto da un gesto imperioso di Holmes che - portato il bicchiere alla bocca con la mancina - mi intimò, con la destra, di non osare proferire oltre.

Non fu tanto il gesto di palese scortesia - nei tanti anni trascorsi a Baker Street mi era capitato sovente di venir trattato, se possibile, anche in modi più bruschi - a condurmi in piedi a mia volta, quanto il vedere Holmes trasfigurarsi, sotto ai miei occhi, in un essere che faticavo a riconoscere.

In un certo qual modo - ma questo potei capirlo solo molto, molto dopo - la parte del mio essere che, da sempre, si era fatta carico della salvaguardia (anche quando persino lui sembrava non riporre nella cosa alcun interesse) di Holmes, aveva percepito che quella sera si trovasse in una condizione di alterazione che - ben lontana da quella familiare portata seco dalle droghe delle quali, nonostante ogni mia raccomandazione, continuava a fare sporadico uso - in un qualche modo lo atterriva.

“Per l’Amor del Cielo”, proruppi, avvicinandomi a lui quel tanto da trovarmi a pochi centimetri dalla sua mano tesa - in segno di veto - verso di me. “Mi vuol spiegare cosa la turba tanto?”

Posai una mano sul polso di Holmes, invitandolo - con ferma gentilezza - a togliermi da davanti agli occhi il suo palmo censore.

Lui, di tutta risposta, svuotò - in una sola, lunga sorsata - il bicchiere di whisky che aveva riempito solo qualche attimo prima, lasciandolo cadere sul tavolino.

Nonostante avesse - nel corso di molte indagini - mostrato di avere, con l’alcool, un rapporto di equilibrato distacco intervallato da qualche momento di divertita e sfrenata libertà, la furia con la quale aveva dato fondo alla propria bevuta davanti ai miei occhi non mi permetteva di comprendere a quale dei due estremi - gli unici che conoscessi, legati al bere di Holmes - facesse riferimento quel gesto.

“Mi turba…” socchiuse gli occhi, quasi la ricerca della risposta richiedesse ogni suo scampolo di lucidità mentale. “La codardia.”

Abbassò di colpo la mano che, fino ad un attimo prima, non aveva dato segno di voler allentare dal mio viso.

“La codardia, Watson” ripetè, quasi sentisse quella parola per la prima volta.

“Non scorgo codardia in quanto fatto da Wilde” intervenni, titubante, conscio di non essere - ancora una volta, nonostante tutti gli anni passati accanto a Holmes - capace di decifrare in modo adeguato e completo quell’uomo straordinario e le sue parole.

“No, certo” convenne e, per una frazione di secondo, mi parve sul punto di arrendersi ad un nemico invisibile che io non ero, con mio enorme rammarico, in grado di distinguere. “Non v’è alcuna traccia di viltà, in lui.”

“Allora, mi perdonerà, ma io non riesco a capire” confessai, sentendomi un pessimo confidente ed un altrettanto pessimo amico. “Se volesse essere così paziente da spiegarmi…” iniziai, inspirando profondamente.

Nella penombra viva del salotto, animata dalla danza irrequieta della candela, Holmes prese respiro a sua volta. Poi, senza proferire parola, si lasciò andare - per usare una metafora che lui stesso, poche ore dopo, volle regalarmi per descrivere quei momenti - alla volontà dei flutti che sentiva agitarsi attorno ai suoi pensieri.

Colmò con un passo la distanza che ci separava e, socchiudendo gli occhi, chinò il suo viso sul mio, fino a far sfiorare le nostre labbra.

Il tutto - ripensandoci ora, con il giusto distacco non certo emotivo quanto mentale - non può essere durato che la frazione di secondo. Eppure, se riporto il mio cuore e la mia mente a quel preciso istante, potrei riprodurne a parole ogni singolo frammento.

Le labbra di Holmes, calde e venate dal sapore del whisky.

Il suo respiro, faticoso, quasi quel gesto gli stesse richiedendo - a livello fisico - uno sforzo pari a quello di una corsa veloce.

Le mie mani d’improvviso attorno al suo volto, frementi come il cuore che sentivo battere sotto il colletto, adesso troppo stretto, della mia camicia.

“Codardo” mi poggiò Holmes sulle labbra dopo qualche secondo “sono io, Watson, nel non osare pronunciare il suo nome.”

 

Compresi tutto, in modo violento e quasi doloroso, in quell’istante.

E fu come spingersi a mia volta nelle acque gelide delle paure di Holmes, facendovi confluire le mie così tanto a lungo celate.

Quel dolore dal sapore dolce, improvviso e viscerale, mondò la mia anima provata da tutte le emozioni che - nelle notti più scure - avevo provato a nascondere anche a me stesso. Mi liberò, come aveva appena fatto - ora capivo, sentivo - con Holmes stesso.
 

E, mentre i flutti - discendendo dalle ciglia - arrivavano a cingerci le labbra, decidemmo di accogliere la lezione che Wilde stava, con estremo coraggio, impartendo a noi e all’Inghilterra intera: osammo, quindi, pronunciare il suo nome.

 

 

 

Note:

1) Il secondo processo a Wilde, accusato di sodomia per il suo rapporto amoroso con Alfred Douglas, si aprì il 6 aprile 1895. Durante il controinterrogatorio l’accusa lesse una poesia di Douglas, intitolata Two Loves (Due amori) e chiese a Wilde:

«Cos'è l'amore che non osa pronunciare il proprio nome?»

Wilde rispose: «l'Amore, che non osa dire il suo nome in questo secolo, è il grande affetto di un uomo anziano nei confronti di un giovane, lo stesso che esisteva tra Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, lo stesso che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare... Non c'è nulla di innaturale in ciò.»
 

Ho modificato la parte relativa all’età dei due amanti perché - data la vicinanza di età tra Holmes e Watson (nel racconto “L'ultimo saluto”, ambientato nel 1914, viene affermato che Holmes ha circa 60 anni. Se ne deduce, quindi, che sia nato attorno al 1854. Watson, invece, si laurea per certo in medicina all'università di Londra nel 1878, presumibilmente all’età di 25 anni. Da questa informazione si può far risalire la sua nascita al 1853. Al momento della nostra storia - ambientata nel 1895 - Holmes e Watson hanno quindi, rispettivamente, 41 e 42 anni) sentivo avrebbe avuto più presa nella coscienza di Holmes potersi rispecchiare completamente in quanto detto da Wilde durante il processo.



Angolo dell’autrice:

sì, lo so. Sono sparita per anni e adesso - nel giro di pochi giorni - pubblico l’aggiornamento di una long e una OS totalmente inedita.

Ho già detto che mi sono sentita profondamente in colpa, nel trovare tante recensioni che mi chiedevano di tornare?

Vi chiedo scusa se, qua e là nel testo, saranno presenti refusi.

Rileggerò correggendo appena possibile. Ma, per una volta, volevo pubblicare una storia senza rischiare di farla rimanere giorni (se non settimane) sul pc “a prender polvere”.

Grazie, come sempre, a chiunque abbia letto questa cosuccia (perché davvero di questo si tratta!) fin qui.

A presto,
B.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Blablia87