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Autore: Loda    26/08/2009    4 recensioni
Cherise a soli diciotto anni non crede nell'amore. Elena è appesa a un filo e sotto di lei c'è la depressione. Mattia è sessualmente confuso. Luca è innamorato della sorella. Andrea nasconde un mare di guai sotto l'apparente perfezione. Sono alcuni dei ragazzi che cercano di fare una sola cosa: vivere, ognuno con la propria storia in primo piano. Situazioni familiari disastrose, altre troppo perfette. Intrecci, preoccupazioni, scelte difficili, colpi di scena. L'amore in tutte le sue sfaccettature per un racconto reale che è solo un'altra storia, ma è la nostra storia.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Un film
“Non mi lascerai mai?” chiese lei.
“Non posso lasciarti” rispose lui.
“Perché non puoi?”.
“Perché senza di te muoio”.
“Dimmelo ancora”.
Lui sorrise, la teneva stretta. “Senza di te muoio”.
“Ancora”.
“Senza di te muoio”.
“Ancora!”.
 
Cherise  cambiò canale con uno sbadiglio.
Era tutto molto interessante quando lei amava lui ma lui non amava lei e quando lui si accorgeva di amare lei ma lei non amava più lui. Ma quando entrambi si amavano c’era tutta quella parte dedicata a dichiarazioni e smancerie varie, che non valeva la pena di vedere. Fine del film. Cherise trastullò il telecomando per due minuti buoni prima di trovare un altro film. Mai stata baciata. “Okay può andare” fece, nonostante l’avesse già visto più di una volta. Interessante. Sì, molto divertente tutta la parte in cui lei, giornalista infiltrata che si finge una liceale, viene presa in giro da tutta la scuola. Molto divertente la parte in cui si smaschera al ballo di fine anno. Molto divertente la parte in cui il professore, il suo lui, non ne voleva più sapere di lei perché l’aveva preso in giro. “Ci siamo” borbottò mentre lei, in piedi su quel campo da baseball, aspettava lui per, come aveva scritto nel suo articolo, ricevere il suo primo bacio. Click. Cambiato canale. Di questa sua mania era meglio non far parola con nessuno. Una volta aveva raccontato alla sua vicina di banco di scuola Laura che, quando davano Titanic in tv, lasciava perdere tutta la parte in cui Jack e Rose si innamoravano e guardava solo la morte di lui. Laura non aveva reagito troppo bene. Aveva sgranato gli occhi, alzato le sopracciglia fino a farle sparire dietro la frangia e detto: “Sei sadica”.
Cherise spense la televisione. Non voleva vedere altri film d’amore, dove sembrava che tutto andasse bene e che tutto durasse in eterno. Che cos’era l’amore dopotutto? Incontrarsi, innamorarsi, sposarsi, divorziare.
Non mi lascerai mai?
Oh, sì, ti lascerà, cara mia.
Sentiva le grida dei suoi genitori, nella loro camera da letto. Sentiva la radio accesa in camera di Tonio che tentava di coprirle.
Si stese sul letto.
I suoi genitori non dovevano essere delle persone molto normali, perché non era normale litigare alle undici di sera per un libro di papà lasciato fuori posto mentre mamma doveva pulire. Ma d’altronde non era normale neanche chiamare la propria figlia Cherise. Era un nome che piaceva a tutti, eppure nessuno lo sapeva scrivere. Tra i suoi compagni di classe, i più intelligenti erano riusciti a scrivere Cherys, ma c’era ancora chi era convinto si scrivesse Sceris. Certo, era fico presentarsi così. “Mi chiamo Cherise”. Chi ascoltava restava impressionato. Ma dopo cinque minuti l’aveva già dimenticato. “Scusa, come hai detto che ti chiami?”.
“Cherise”.
Adesso non era più impressionato. Ma era interessato. “Sei straniera?”.
“Il mio bisnonno è morto in Canada”. Come se questo avesse potuto spiegare perché i suoi genitori, entrambi figli di baresi emigrati a Bologna nel lontano 1977, l’avessero chiamata Cherise.
“Ah”.
Era una conversazione da copione.
Presentarsi con nome e cognome era ancora peggio.
“Mi chiamo Cherise Caruso”.
L’interlocutore rimaneva per qualche istante pensieroso, probabilmente chiedendosi se dire o no quella cavolata che avrebbe poi detto. “Avete dei nomi strani laggiù”.
Laggiù. Il fatto che i suo genitori fossero del Sud e il fatto che sua madre mentre era incinta si guardasse un film americano dietro l’altro erano ben poco collegabili. “Ero indecisa tra Cherise e Sandy, con Caruso però stava meglio Cherise” le aveva spiegato una volta. Sandy Caruso. Cherise aveva cominciato ad apprezzare il proprio nome.
Fortunatamente, alla nascita di suo fratello, sua madre aveva già superato questa fase e aveva scelto il nome Antonio, nome che comunque, accompagnato poi da Caruso, era un chiaro segno distintivo del laggiù da cui venivano.
La musica di Infinity regnava ancora sovrana in casa, accompagnate dalle urla isteriche di mamma.
“E’ tardi, abbassate il volume!” gridò Cherise. Il giorno dopo sarebbe dovuta alzarsi a un orario improponibile d’estate. Era il primo giorno di lavoro. Non aveva mai lavorato in vita sua, e dato che tra qualche mese sarebbe stata maggiorenne, i suoi avevano deciso di affibbiarle un lavoretto estivo.
Aveva trovato qualcosa in un centro commerciale, insieme coi suoi amici Elena e Mattia.
Sbadigliò. Se la sua vita fosse stata un film, si sarebbe innamorata del suo capo o di un suo collega o di un cliente abituale. Ma se la sua vita fosse stata un film, probabilmente si sarebbe chiamata Cherise per un motivo tipo sono americana-ho un nome americano.
Il boom boom della musica house di Tonio continuava.
“Il volume!” esclamò ancora la ragazza.
Il volume finalmente s’abbassò. E rimasero le urla dei genitori che non demordevano.
“Non mi aiuti e lasci pure la tua roba in giro!”.
“Se la mia roba ti dà fastidio la metto in una valigia e vado via!”.
Non mi lascerai mai?
Nei prossimi venti minuti, no
Ringrazia di vivere in un film.
 
 
Era appena finito Mai stata baciata.
Elena Mancini, sdraiata a pancia in sotto sul suo letto, stringendo il cuscino a sé, sognava ancora quel professore da sballo che aveva fatto innamorare la protagonista. Amore. Aveva diciotto anni ma si sentiva impotente in quel campo. Non ci capiva ancora molto. Certo che con due fratelli maschi si poteva ritenere fortunata se era uscita qualche volta con dei ragazzi. Luca riusciva a farla sentire in colpa ogni volta che usciva e Andrea sembrava la volesse tenere sotto una campana di vetro. Soprattutto da quando era successo.
Qualcuno bussò alla porta.
“Sei ancora sveglia, Elena? E’ tardi”.
“Sto andando a letto, nonno”.
“Buona notte”.
Elena si alzò e disfò il letto. “Buona notte”.
Si risedette. Il giorno dopo avrebbe cominciato a lavorare in un centro commerciale. Doveva farlo. La pensione del nonno e lo stipendio di Andrea non bastavano per tutti e quattro. Non era del tutto negativa all’idea. Dopotutto avrebbe passato del tempo con Cherise e Mattia. Sentì le gote andare improvvisamente in fiamme. Subito dopo una risatina nervosa prese il sopravvento. Si buttò sul letto di lato, continuando a ridacchiare. Avrebbe passato del tempo con Mattia. La felicità sfumò e in attimo si sentì agitata. Non aveva idea di come sarebbe stato lavorare, non aveva idea di chi le avrebbe insegnato, non ne aveva idea se sarebbe stata all’altezza o avrebbe fatto come suo solito delle pessime figure.
Calmati, si disse. Il cuore le batteva forte e non voleva spegnere la luce. Se avesse spento la luce, si sarebbe addormentata e il mattino sarebbe arrivato. Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, delle rassicurazioni, un po’ di conforto ma il nonno era troppo burbero, Andrea era ancora a lavoro e Luca già dormiva. E comunque nessuno di loro avrebbe capito. Voleva una presenza femminile, voleva la mamma.
Si alzò, respirando affannosamente. Smettila di avere paura, si disse. Si passò una mano sulla fronte, era imperlata di sudore. Basta, era grande ormai, non poteva continuare ad avere paura di notte. Eppure non riusciva mai ad evitarlo. I suoi piedi cercavano da soli le ciabatte e la conducevano fuori dalla stanza, lungo il corridoio. Si ritrovò di fronte a quella porta che nessuno apriva mai.
L’aprì piano, quella cigolò appena. Era buio.
“Mamma, papà” chiamò “posso dormire con voi?”.
Senza aspettare una risposta, s’intrufolò nella stanza e chiuse la porta dietro di sé senza fare rumore.
Si avvicinò al letto in punta di piedi perché non voleva svegliare nessuno. Si accomodò sul letto, ignorando la coperta ruvida, e si fece piccola piccola perché se no in tre non ci stavano.
“Buonanotte mamma. Buonanotte papà”.
Baciò le due fotografie che il nonno aveva messo ai due lati del letto.
E chiuse gli occhi.
 
 
Era appena finito uno di quei film che sicuramente tutte le ragazzine avevano guardato ciucciandosi il dito.
Mattia spense la tv assonnato. La sera prima del grande giorno dovevano trasmettere quella roba?
In due ore di film, la giornalista era riuscita ad avere ciò che più sognava. Un articolo ben scritto, fama e amore. Bella vita. Mattia si stese a pancia in sotto sul letto, armatosi di carta e penna.
4 scrisse. Si gratto la punta del mento con la biro. 25. 78. 43. Chiuse gli occhi per concentrarsi. 59. Sì, 59 ci stava. E per ultimo, 88. Piegò il foglietto di carta e lo lanciò sul comodino. Se quella era la sera prima del grande giorno, che sarebbe stato noto come il più orribile della sua vita, Dio poteva mandargli un po’ di fortuna. Un euro. Un misero euro e sei numeri.
Si mise su un lato, guardando davanti a sé una seggiola ricoperta di vestiti. La sua vita era sempre stata estremamente noiosa. Scuola, calcio, scuola, calcio. Un cinema ogni tanto. Genitori ordinari, una sorella isterica, un cane. E ora avrebbe avuto il top della noia. Un lavoro. In un centro commerciale. Con due amiche, con Elena Mancini, ma tanto non è che andavano là per divertirsi. Fece una smorfia. Ripensò a ciò che gli diceva Chiara.
“Pensi di avere una vita noiosa? E’ la vita che hanno tutti i ragazzi, cosa ti aspetti di più?”.
“Boh”.
“Sei proprio uno strano, Parisi. Sogni ma non sai cosa sognare”.
Non credeva fosse un complimento. Ma non sapeva mai cosa dire in certe situazioni. Certo che dire alla propria ragazza che la vita gli sembrava noiosa non era stata una grande idea. Probabilmente era per quello che l’aveva mollato. Non importava, l’amore non era eterno e che finisse prima o dopo non faceva differenza. Tutta questa situazione faceva pena.
“Sei tu che fai pena, Mattia”.
“Grazie, Giulia”.
Dio, aveva solo esposto di prima mattina tutti gli aspetti negativi della vita mentre accarezzava il cane. Giulia aveva sputacchiato latte ovunque sibilandogli che almeno lui quel giorno non avrebbe avuto l’interrogazione di matematica e il compito di latino nel giro di tre ore. Questo si chiamava vivere giorno per giorno. Sua sorella Giulia viveva giorno per giorno. Era felice se non c’erano interrogazioni o era felice se il tipo super super figo della 5°B  la guardava. Lui voleva di più. Se la tipa super super figa della 5°A lo guardava (e comunque non era mai successo), ciò non risolveva un bel niente.
Poggiò sul pavimento biro e carta. Doveva ricordarsi di raccoglierli da terra subito il mattino dopo o la mamma l’avrebbe tirata così lunga che il caffè si sarebbe bruciato, il cane avrebbe pisciato in casa, Giulia avrebbe cominciato a frignare perché aveva bisogno per come minimo mezz’ora del bagno, occupato da papà che non usciva perché non voleva finire in quel casino.
Chiuse gli occhi.
Dio, fa che vinca al superenalotto.
   
 
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