II
Il
capitano Farris osservava con
evidente soddisfazione il campo base dall’alto di una
piattaforma di legno. Era
stata una delle prime cose che avevano costruito, quando ancora tutti
dormivano
all’interno dell’astronave: era fatta di vero pino
terrestre, rinforzato da
listelli d’acciaio in modo da essere resistente, aveva una
forma quadrata, con
un parapetto di un metro e venti che ne circondava il perimetro;
l’avevano
piazzata sull’albero più alto tra quelli che
crescevano intorno alla radura
dove era atterrata l’astronave, una sorta di gigante simile
ad un ginko,
coperto di enormi liane. A vederla dal basso, inchiodata
com’era sopra una
sorta di culla formata da alcuni rami intrecciati tra loro, poteva
sembrare simile
a una casa sull’albero, se non per un dettaglio: al centro,
su un perno
girevole, era montata una mitragliatrice leggera, dietro alla quale un
giovane
soldato stava fumando una sorta di strano sigaro di colore violaceo.
Un
sorriso si dipinse sul volto di
Farris nel vedere la faccia estremamente soddisfatta del ragazzo. Le
scorte di
tabacco che erano state portate sull’astronave non erano
durate molto, e dopo
anni di astinenza, i fumatori avrebbero quasi letteralmente ucciso per
una
sigaretta. Era stato ovviamente uno di loro, un botanico, a scoprire
una strana
pianta, con le foglie simili a quelle di un carciofo e un odore
penetrante. Ricordando
l'esistenza di un vegetale in qualche modo simile sulla Terra, aveva
fatto un
tentativo, ed aveva appurato che, lasciando essiccare leggermente le
foglie e
arrotolandole, si otteneva qualcosa di più gustoso di un
sigaro. Il capitano
aveva provato a fumarne uno: avevano uno strano retrogusto che
ricordava
lontanamente la cannella, diversissimo da quello del tabacco, ma
tutt'altro che
sgradevole. Nessuno sapeva ancora cosa ci fosse esattamente nelle
foglie, ma
poiché era stato appurato che non erano velenose, per il
momento nessuno se ne
preoccupava.
Era
solo una delle scoperte che avevano
fatto sul pianeta in due mesi: Elysian si era rivelato un mondo
primitivo,
abitato da molti animali pericolosi, ma anche da numerose specie utili
e
affascinanti. Avevano appurato che, se si escludevano creature di
piccole
dimensioni simili ad artropodi, tutte le razze terrestri superiori
sembravano
appartenere ad una stessa classe: una specie di incrocio tra
caratteristiche da
mammifero e da rettile, con peli che crescevano sopra a dure scaglie.
Inoltre,
sembravano avere tutti cinque occhi e otto zampe, predatori e prede. Si
andava
da animali piccoli come topi ad alcuni erbivori delle dimensioni di un
ippopotamo. Facevano eccezione le creature volanti, che, oltre ad avere
sulla
pelle delle scaglie sfrangiate simili a primitive piume, possedevano
solo due
occhi e due zampe. Avrebbero potuto somigliare a primitivi uccelli, se
non
fosse stato per il muso irto di denti e le quattro ali, disposte a
coppie. Per
quanto avevano capito, la carne delle creature di Elysian non era
velenosa, ma
solo poche sembravano avere un sapore accettabile.
Diversa
era la questione per la flora:
la pianta alla base della catena alimentare del pianeta sembrava essere
una
sorta di muschio, che copriva gran parte del terreno come una primitiva
erba;
da lì, le piante andavano a crescere: cespugli spinosi con
rami simili a lunghi
serpenti attorcigliati, enormi arbusti non dissimili dalle felci, fino
ad
alberi di moltissimi tipi, compresi alcuni giganti alti anche ottanta
metri.
C’erano piante con fiori o senza, ed alcuni producevano anche
frutti, di vari
colori. C’era però una caratteristica comune:
tutte le strutture di base, dal
muschio alle foglie di ogni pianta, erano di un uniforme viola pallido.
Molti frutti
erano stati sperimentati sulle cavie, ed erano risultati commestibili,
e alcuni
erano saporiti quanto i migliori frutti terrestri. Insomma, Elysian
prometteva
decisamente bene. Per di più, alcune spedizioni di
esplorazione avevano
raccolto campioni sufficienti a confermare la presenza di minerali
preziosi e
metalli utili.
Mentre
una parte dei coloni si
dedicavano all'esplorazione, altri costruivano, e ormai la Colonia
AA-001 aveva
preso forma. Per il momento si trattava in massima parte di
prefabbricati,
grandi costruzioni in acciaio, plexiglass e vetroresina, ma ogni
famiglia aveva
una propria casa, per quanto piccola. Vi erano vari fabbricati adibiti
a
laboratorio, infermeria, scuola e vari altri servizi essenziali.
Intorno a
tutto, era stata edificata una sorta di palizzata di acciaio e
alluminio per
proteggere gli abitanti dalla fauna del pianeta. Al centro della
neonata
cittadina, su un’asta, sventolava la bandiera azzurra con i
ramoscelli di ulivo
che racchiudevano una rappresentazione del globo terrestre.
Non
c’erano solo i civili: i soldati
avevano un loro capannone che fungeva da caserma, e così
anche gli uomini
dell’equipaggio. Solo un piccolo nucleo era rimasto a bordo
della Columbus, che
occupava interamente lo 'spazioporto' della Colonia, per fare in modo
che gli
impianti essenziali continuassero a funzionare. Farris aveva fatto in
modo di
lasciare a bordo, in massima parte, i pochi membri
dell’equipaggio privi di
famiglia. Non erano molti: anche quelli che erano partiti da soli
avevano quasi
sempre trovato, in oltre sei anni di viaggio, un partner. Considerando
soldati,
marinai, scienziati e coloni, Farris ricordava di aver celebrato almeno
cento
matrimoni.
Lui,
ovviamente, era rimasto: non aveva
una famiglia con se. Sua moglie era morta dieci anni prima, e il suo
unico
figlio, ufficiale della Marina tradizionale degli Stati Uniti, quella
che
navigava ancora sull’acqua, non aveva avuto
l’autorizzazione a seguirlo. Era
stata dura partire sapendo che forse non lo avrebbe visto mai
più, ma il dovere
veniva prima di tutto, per entrambi. Non aveva quindi motivi
particolari per
voler vivere a terra. Per di più, un comandante non
abbandona la sua nave
finché la missione non è finita, e per lui non
sarebbe terminata finché non
fosse arrivata la seconda ondata di coloni, oltre sei anni dopo.
Sapeva
che sarebbero arrivati, lo
sapeva per certo. Otto giorni prima avevano fatto partire, in direzione
della
Terra, una radio-sonda, ed erano in attesa di una risposta, che doveva
arrivare
proprio in quelle ore. Le radio-sonde erano state inventate circa tre
decenni
prima, ed erano state la risposta al problema delle comunicazioni radio
nello
spazio aperto. Poiché, nello spazio, le onde radio si
propagano alla velocità
della luce, le comunicazioni tra una nave dotata di motori iperluce
situata
nello spazio profondo e la Terra sarebbero state praticamente
impossibili:
paradossalmente, la nave avrebbe impiegato molto meno tempo a portare
il
proprio messaggio da sola piuttosto che inviando un messaggio radio.
Le
radio-sonde, pur essendo grandi come
un grosso cestino delle immondizie, erano dotate di motori FTL
potentissimi,
ben superiori a quelli delle astronavi; le ridotte dimensioni e la
mancanza di
equipaggio permettevano loro di viaggiare a velocità che
sarebbero state
insostenibili per un organismo umano. Le più moderne
arrivavano a una velocità
di quasi 30 anni luce per giorno terrestre. Erano dotate di un
computer, sul
quale venivano registrati la rotta e il messaggio, e di un apparato di
comunicazione, che, una volta a destinazione, lo ritrasmetteva su una
determinata frequenza prestabilita. A quel punto la sonda rimaneva sul
posto
per un tempo impostato prima del lancio, da 24 ore fino anche ad una
settimana,
a seconda della quantità di combustibile nucleare che veniva
caricato nei
piccoli motori stabilizzatori; nel frattempo il destinatario, ricevuto
il
messaggio, inviava la risposta verso la sonda; questa la incamerava e,
una
volta scaduta la sua permanenza, tornava alla base e lo ritrasmetteva
alla
radio di bordo dell’astronave che l’aveva lanciata.
Nel
loro messaggio, rivolto al Centro
Spaziale delle Nazioni Unite, una base costruita sulla Luna,
comprendente
spazioporto, telescopio ottico e a infrarossi e radiotelescopio,
avevano
inviato tutti i dati rilevati in due mesi, aggiungendo che il pianeta
si stava
rivelando perfino migliore del previsto. Tutti si aspettavano, nella
risposta,
l’avviso della partenza della seconda nave, la Fernando
de Magallanes, grande cinque volte la Columbus
e in grado di portare quasi diecimila persone. Era in
costruzione quando loro erano partiti, e ne erano previste altre otto.
Mentre
scendeva dall’albero mediante una scala di alluminio e nylon,
Farris pensò con
gioia che forse sarebbe riuscito, prima di morire, a vedere Elysian
colonizzato. Un nuova Terra.
Fischiettando,
si diresse verso
l’astronave.
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Quando
il capitano arrivò nella sala
radio, trovò il tenente Nakadawa ed i suoi assistenti in
peda alla
concitazione. Gli sembrò di buon auspicio, inizialmente, ma
le loro facce
abbassarono il suo entusiasmo: sembravano confuse e, almeno in parte,
preoccupate.
Quando
l’ufficiale orientale lo vide,
esclamò: «Comandante, stavo per mandarla a
chiamare. La radio-sonda è entrata
nell’orbita di Elysian venti minuti fa».
«Perfetto!
- Farris tornò a sorridere:
tutto stava andando bene – Che cosa dicono dalla cara vecchia
Terra? Quando
partiranno?».
«Beh…
- borbottò titubante il sergente
Rickman, uno degli assistenti – Ecco, signore, il problema
è proprio questo:
dalla Terra non dicono niente».
«Cosa?-
chiese sorpreso il comandante –
Che vuol dire “non dicono niente”?».
«Che
la sonda è vuota, signore- disse
Nakadawa, piuttosto cupo – Non ci sono comunicazioni, non ha
ricevuto nessun
messaggio radio. I banchi di memoria sono immacolati».
«Assurdo…
non è possibile!» sbottò
Farris.
«Eppure
è così, comandante».
L’ufficiale
più alto in grado rimase
per qualche istante silenzioso, poi disse: «Signor Nakadawa,
chiami il
comandante Brent e il capo tecnico Wulf. Voglio che mi raggiungiate
nell’Hangar
3 il prima possibile. C’è qualcosa che non
capisco, ma dobbiamo risolvere
questo problema il prima possibile».
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Venti
minuti dopo, i tre ufficiali
stavano osservando il tedesco Wulf che, mediante un monitor e una sorta
di
joystick, riportava a terra la radio-sonda. Il comandante del reparto
tecnico
della nave borbottava sonoramente: «Deve essere stato un
errore di quelli della
Navigazione. Devono aver inserito le coordinate sbagliate, e la sonda
non deve essere
arrivata nell’orbita della Terra. Ach
so,
ho provato attentamente quella maledetta, e funzionava alla perfezione,
sarei
pronto a giurarlo su una pila di Bibbie!
«Il
guardiamarina Park ha detto che
potrebbe fare altrettanto - rispose Brent – E’
certa di aver messo le
coordinate giuste».
«Può
darsi che sia stata sbagliata la
frequenza» disse Farris, rivolto a Nakadawa.
«Sono
certo di aver messo quella
giusta, comandante» rispose l’addetto radio.
«Beh,
controlleremo in seguito cos’è
che non ha funzionato. Intanto, tenente, lei e il comandante Brent
imposterete
una seconda sonda. Chiamate anche il guardiamarina Park. State
più che attenti,
mi raccomando. Dobbiamo avere una risposta il prima
possibile».
Brent
era sorpreso: la voce del
comandante era dura, molto più secca del solito.
L’ufficiale scandinavo
comprese che non era solo per l’inconveniente: anche lui
sentiva qualcosa, una
sensazione lontana, indistinta, ed estremamente inquietante.