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Autore: Doralice    27/02/2021    2 recensioni
Sei finestre sulla vita di Nicolò e Yusuf per raccontare il loro viaggio dall'odio all'amore, attraverso due lingue diverse, due religioni in conflitto, due culture lontane.
“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?”
Quando finalmente Nicolò capirà il significato delle parole di Yusuf, il loro percorso sarà compiuto.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Joe / Yusuf Al-Kaysani, Nicky / Nicolò di Genova
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è dedicata alla mia cara Fusterya. Ti voglio bene, tesoro!

L’idea è nata da questo post che mi ha subito fatto pensare a Yusuf e Nicolò. Non avendo la minima familiarità con l’arabo e non volendo scrivere castronerie, ho chiesto aiuto ad un’amica di un’amica, la quale oltre ad essere madrelingua araba è anche editor e traduttrice, dunque confido che traduzione e traslitterazione riportate siano corrette.



 

Almeno tu nell’universo

 

*    *    

 

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?!” (*)

La prima volta che Nicolò udì questa frase, fu anche la prima volta in cui, con suo sommo sconcerto, risorse dalla morte.

E non fu niente di poetico o mistico come ci si potrebbe aspettare. Insomma, lui era cresciuto in un monastero e di storie miracolose di questo genere ne aveva sentite a bizzeffe. Aveva imparato a leggere e a scrivere sui codici miniati che raccontavano le gesta dei Santi e dei Martiri. Ma quello che le preziose pergamene non raccontano, è che morire è una cosa brutta. È brutta, e anche dolorosa e schifosa e umiliante. E risorgere non leva niente di tutto questo, anzi.

Il primo pensiero di Nicolò fu che avrebbe preferito risvegliarsi nel meritato Paradiso, piuttosto che trovasi ancora una volta nel fango del campo di battaglia, lercio di sangue rappreso e sudore e deiezioni. Ancora una volta la spada in mano, ancora una volta con quel maledetto demonio di fronte e le sue incomprensibili parole nelle orecchie.

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?!”

Nicolò non conosceva la lingua immonda dei diavoli saraceni, ma certamente quella doveva essere una frase di odio e disprezzo. Faticosamente, si mosse per rialzarsi, i piedi che slittavano sul suolo bagnato, la spada della sua famiglia usata a mo di leva. Gli occhi del saraceno, colmi di furia omicida, non lo lasciavano mai. Ma che non osasse pensare di essere il solo detentore di quella furia. E di certo quella di Nicolò era ben più feroce poiché guidata dalla mano del Signore. La stessa mano che ora gli faceva brandire l’arma. Con un urlo bellicoso, Nicolò si avventò sul saraceno.

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?!”

Lo stupore e la rabbia erano palpabili nella voce spezzata del nemico. Inappellabili quanto il suo sangue che imbrattava le lame delle loro spade, brucianti quanto le ferite che si squarciavano nei loro stomaci. Nicolò barcollò all’indietro portandosi appresso la spada, e con essa il saraceno. Morirono insieme – ancora una volta. Senza neppure immaginare che tante altre sarebbero venute.

* * *

 

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?”

Comprendere quella lingua barbara era già difficile normalmente – sempre che qualcosa di normale vi fosse nelle loro vite – ma così era davvero impossibile: il saraceno batteva i denti per il freddo. Come Nicolò aveva imparato già da tempo, la notte nel deserto poteva essere più aspra degli inverni sulle Alpi, e non lasciava scampo agli sprovveduti.

Erano passati anni. Il saraceno gli aveva teso la mano, all’ennesimo risveglio da quella morte che non voleva restare morte. All’ennesimo campo di battaglia su cui avevano lasciato il loro sangue e le loro budella. Nicolò l’aveva presa quella mano, e si era alzato e insieme avevano rinfoderato quelle armi che infinite volte avevano usato l’uno contro l’altro. Non sapevano dove andare né cosa fare, ma quello era il minore dei loro problemi.

In quei primi giorni di vagabondaggio, Nicolò non si era mai sentito così solo. Neppure quando era arrivato al monastero da ragazzino, per la prima volta lontano da sua madre e dai suoi fratelli e sorelle, s’era mai sentito così. Aggrapparsi all’odiato nemico, la sola persona del creato che condividesse la sua maledetta condizione, era stato naturale.

Così come gli era adesso naturale condividere con lui il suo pesante mantello di lana nel freddo della notte.

Le loro vesti erano sporche e lacere e cadenti. Di rado avevano occasione di cambiarne un pezzo con qualcosa di nuovo. Da ormai molti anni, il mantello di Nicolò era il solo indumento che nelle lunghe notti d’inverno lo teneva al caldo. Perché negare lo stesso conforto al saraceno? Forse perché non credevano nello stesso Dio? Nessun Dio li aveva fulminati quando le loro mani, invece che brandire ancora le spade e spargere nuovamente il loro sangue, si erano incontrate in pace. Nessun Dio li avrebbe fulminati neppure ora.

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?” gli aveva detto il saraceno di fronte al suo gesto. E magari Nicolò ancora non comprendeva le sue parole, ma riusciva a coglierne il messaggio.

Scocciato, gli borbottò di tacere e strinse meglio il mantello attorno ai loro corpi infreddoliti. Si addormentò pensando alla parabola del buon Samaritano.

* * *

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?”

Nicolò sbuffò e si mise a sedere stancamente, mantenendosi  rispettosa distanza dal saraceno.

Quella maledizione aveva distrutto le loro vite e ribaltato ogni dogma, li aveva esiliati dai loro pari e resi dei fuggiaschi. Nel loro costante nomadismo, terrorizzati dall’essere scoperti e torturati a morte in una infinita agonia, la sola costante oltre alla paura era la fame. Guadagnarsi da vivere in quelle condizioni era impossibile e spesso dovevano arrabattarsi, umiliarsi a mendicare. Persino rubare.

Ognuno per sé, chiaramente. Che il cibo del saraceno, lui, non lo capiva proprio. Che differenza facesse l’agnello suo dal proprio, era un mistero. E perché il maiale non lo poteva mangiare? Le domande di Nicolò non potevano trovare risposta, giacché loro due ancora non si capivano. Anche se qualche parola qua e là, di tanto in tanto, diventava comprensibile.

“Haram.” diceva sempre del maiale, con il volto altrimenti elegante deformato in un’espressione tanto affamata quanto disgustata. E Nicolò aveva presto capito che volesse dire “proibito”.

“Halal.” disse, invece, quel giorno che un locandiere di Tarabulus aveva concesso loro degli avanzi di agnello. Nicolò aveva lasciato a lui la maggior parte del pasto: gli era chiaro che per i musulmani quello fosse un cibo permesso.

“Haram!” esclamò con sconcerto quella volta che Nicolò riuscì ad ottenere una piccola otre di vino. Una vittoria, per lui, che non ne assaporava da tempi immemori. Niente di male, ne avrebbe avuto di più per sé. E di fatti ebbe modo di pentirsene più tardi, mentre il saraceno lo trascinava lontano dal suo stesso vomito.

“Halal.” gli aveva detto una sera, appena fuori dalle mura di Costantinopoli. Nicolò sbirciò nella sua saccoccia: portava con sé dei pani come già ne aveva visti, ma mai assaggiati. Piatti e sottili, eppure morbidi a giudicare come si spezzavano facilmente tra le sue mani. Nicolò aveva già mangiato, perché ognuno di loro si arrangiava per sé, dunque non li assaggiò né il saraceno gliene offrì.

“Halal”. Quella sera era stato Nicolò ad uscire dalla tana improvvisata sotto un ponte di Saragozza. La città era solo da pochi anni nuovamente in mano ai cristiani, ancora molti mori vivevano lì. Nicolò aveva ottenuto il pane azzimo barattando un alamaro della sua veste. Era tornato e aveva pronunciato quella parola, sicuramente in maniera sbagliata, e tuttavia era certo del suo significato. Come era certo della fame del saraceno.

“Halal.” aveva ripetuto Nicolò, porgendogli una pagnotta.

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at…” aveva borbottato lui. Ma questa volta il pane lo aveva preso.

* * *

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?”

In tutta onestà, Nicolò non voleva recargli alcuna offesa. Tante volte aveva visto il saraceno armeggiare con i suoi strumenti e ne era curioso. Dalle sue mani, con un semplice coltellino e un pezzo di legno, uscivano piccole sculture. Animali, per lo più, a volte fiori o alberelli. Edifici stilizzati, come torri merlate o moschee. Qualche volta delle persone. Soldati a cavallo, mercanti sul dorso di cammelli, agricoltori che guidavano l’aratro tirato dai buoi. Donne con cesti posati sul fianco o brocche in bilico sulla testa, con le mani immerse nella pasta o intente a cullare infanti. Bambini che giocavano.

Minuscole sculture che spesso finivano nelle mani stesse di bambini. Senza chiedere nulla in cambio.

Nicolò lo ammirava sia nella sua abilità che nella sua generosità. A lungo era trattenuto, osservando da lontano il paziente lavorio del saraceno. E quel giorno, quando si era allontanato lasciando lì una delle sue piccole opere ancora incompiuta, la curiosità di Nicolò aveva preso il sopravvento.

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?” l’aveva sferzato non appena tornato. E gli strappò dalle mani l’oggetto.

Nicolò gli porse le sue scuse, perché niente altro poteva fare. Era mortificato. Non per sé, ma per l’offesa che temeva di avergli arrecato con un gesto che voleva essere innocente.

“Sono belle.” gli disse con sincerità.

Il saraceno esitò. Qualche progresso lo avevano fatto, ma ancora non si capivano bene. Tuttavia entrambi intuivano gli intenti dell’altro, per lo meno quando facevano uno sforzo e mettevano da parte tutto il resto per ascoltarsi davvero. 

“Alqamar.”

Nicolò lo guardò con curiosità. Aveva già sentito il saraceno pronunciare quella parola, ma non ricordava in quale occasione. Lo vide rigirarsi tra le dita la piccola scultura che s’era ripreso: era una mezzaluna, perfetta benché ancora abbozzata.

“Alqamar.” ripeté porgendogliela.

Nicolò spalancò gli occhi. Con essi, il sorriso e più sotto – più in fondo – il cuore. Prese la mezzaluna e ripeté la parola. Il saraceno annuì, un accenno di sorriso sotto la barba folta.

Forse i tempi erano maturi per fare uno sforzo in più.

* * *

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?”

Per la prima volta in tutti quegli anni, Nicolò lo sentì pronunciare quella frase con il sorriso sulle labbra.

Quello era un giorno diverso. Non perché fosse speciale in alcun modo, anzi, tutto il contrario. Era uno di quei rari giorni in cui la vita sembrava normale. In cui si sentivano uomini qualunque in mezzo a gente qualunque.

C’era una festa nel villaggio macedone dove avevano deciso di trascorrere la notte. Qualcuno si stava sposando e, da che mondo è mondo, quando qualcuno si sposa la festa è per tutti. Nicolò e Yusuf non avevano nulla da offrire, essendo semplici viandanti. Ma l’ospite è sacro e furono trattati come fossero di famiglia. Con le loro lingue stentate, fecero capire loro quanto fossero grati dell’accoglienza, e infine si unirono ai festeggiamenti.

Era un matrimonio tra contadini. Li fecero sedere al tavolo degli sposi e offrirono loro il meglio delle libagioni. E per quanto il credo di Yusuf gli proibisse di bere liquidi fermentati, non poté fare a meno di brindare alla loro felicità.

Nicolò cantò per loro una ballata da soldati – la meno oscena che conosceva. Era allegra e Yusuf iniziò a battere le mani sul ritmo. Presto lo seguirono gli abitanti del villaggio: spuntarono fuori degli strumenti musicali e dalle libagioni si passò ai balli.

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?” rise Yusuf quando Nicolò lo trascinò nel cerchio danzante.

“Sei ubriaco!” Gli rispose senza vergogna, “Non posso perdere questa occasione!”

Ballarono. E per una notte furono solamente uomini.

* * *

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?”

Avevano attraversato terre e mari sconosciuti, visto genti dalle vesti bizzarre, udito canti incomprensibili, assistito a guerre lontane. Avevano condiviso pane e carne, mantelli e falò. Avevano combattuto ancora, a volte per sopravvivere, a volte perché sentivano che fosse la cosa giusta da fare – anche se non c’era alcun Dio a dirglielo tramite un sacerdote. A volte, anche per salvare l’altro, pur sapendo che la Morte non li voleva.

Perché era penoso, perché non avevano nessun altro, perché avevano un disperato bisogno di essere visti per ciò che erano. Mortali a cui era negato il vero ed ultimo compimento della Vita. Vederselo sottratto era ogni volta un dolore indicibile, ma ancora più dolorosa sarebbe stata la possibilità che la Morte cambiasse crudelmente idea e l’altro rimanesse solo per il resto dell’eternità. 

Avevano iniziato ad assistere a tutto con lo stesso spirito di distaccata curiosità dei giovanetti che osservano il fervido lavorare di un formicaio. E al contempo con la stessa perduta meraviglia di bambini che vedono per la prima volta le stelle.

“Orsa maggiore.”

“Fakrou.”

Dibattere sul significato delle stelle era una loro abitudine fin dalle prime lunghe, solitarie notti. Piuttosto che di paura e diffidenza, preferivano colmare il divario tra di loro con parole, per quanto sconosciute.

“Fakrou?”

“Cammella.” disse Yusuf lentamente, scandendo con attenzione le lettere. Non era facile per lui parlare nella lingua di Nicolò.

“Cammella?” ruotò la testa sul cuscino improvvisato e lo guardò con stupore, “Come fai a vedere lì una cammella?”

Yusuf si rigirò a pancia sotto e prese uno stecco. Nicolò già sapeva cosa stava per fare. Tante volte lo aveva visto farlo e sempre restava stupefatto come la prima. La sua capacità di portare alla vita qualcosa, semplicemente tracciando con abilità qualche segno sul terreno, era per lui incredibile. Spesso pensava che sarebbe potuto essere un miniatore senza pari, ma non glielo aveva mai detto: non era certo che lui lo avrebbe preso come un complimento.

Osservò Yusuf disegnare le stelle della costellazione e poi tracciarvi attorno la figura di quella che, senza ombra di dubbio, era proprio una cammella.

“Vedi?” Fece infine un cenno fiero, “Fakrou.”

Nicolò sorrise della sua palese soddisfazione.

“Raccontami.” lo invitò gentilmente.

Per quanto fosse ancora difficile comprendersi, era bello ascoltare la voce melodiosa di Yusuf. Come sempre, accompagnò il suo racconto con dei disegni abbozzati nella sabbia. E Nicolò ascoltò e osservò, rapito. Ascoltò e osservò e come accadeva ormai da tempo – mesi? Anni? Chi poteva dirlo – un sentimento struggente lo attanagliava al petto, quasi a volerlo soffocare. Nicolò guardava il suo antico nemico, ora unico compagno di vita in quel viaggio infinito a cui erano condannati entrambi, e si chiedeva se lo amava.

E se così era, si chiedeva anche che cosa mai fosse questa strana forma d’amore.

Nicolò conosceva tante forme d’amore. Aveva amato la sua famiglia – che Dio li avesse in gloria, probabilmente erano ormai tutti tra le Sue misericordiose braccia. Aveva amato i suoi fratelli al monastero, di quell’amore fervente che si nutre per coloro che condividono il tuo stesso percorso, la tua stessa morale, la tua stessa passione per Dio. E aveva amato Dio.

Quello stesso Dio che li aveva abbandonati, insieme, in quella eternità senza apparente senso. E se lo scopo non era questo, se la meta non era l’amore, che altro poteva essere?

“Non ti piace la mia storia?”

Le parole di Yusuf lo fece tornare a quel momento, a quella realtà – a loro due. Si guardarono sotto quelle stelle dai molti nomi. Ogni nome era vero tanto quanto gli altri e al contempo nessuno lo era. Le stelle stavano a guardare loro come loro guardavano gli uomini: formiche indaffarate nelle loro brevi vite, ignare e per questo benedette.

Nicolò smise di pensare a qualunque Dio e baciò Yusuf.

“Mn 'ayn lk hadhih aljara'at?”

Le infinite sfumature che quella frase era in grado di assumere nella bocca di Yusuf, Nicolò le voleva imparare tutte. Se davvero erano condannati a vivere l’eternità insieme, ne avrebbero fatto tesoro.

“L’audacia mi viene da te.”

Con un sospiro che sembrava pescato dal profondo del suo animo, Yusuf chiuse gli occhi e posò la fronte sulla sua. Mormorò una preghiera e le labbra di Nicolò la accolsero.





 

(*) من أين لكَ هذه الجراءة؟ = Mn 'ayn lk hadhih aljara'at? = Da dove ti viene l’audacia?

   
 
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